La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. L'evoluzione della chirurgia dal XIX al XX secolo
L'evoluzione della chirurgia dal XIX al XX secolo
Oggi la chirurgia si identifica essenzialmente con gli interventi operatori, ma in passato il suo profilo era molto diverso. Nel corso di gran parte del XIX sec., i chirurghi eseguivano soprattutto trattamenti conservativi, quali, per esempio, incisioni, punture, iniezioni e fasciature, oltre a un esiguo numero di operazioni tradizionali, previste nei casi di calcoli della vescica, di cataratta, di ernia e di amputazione degli arti. Tuttavia, già nel XVIII sec. aveva avuto inizio un processo di trasformazione dei concetti patologici, della tecnica, della ricerca, della formazione e delle caratteristiche professionali, che finì per condurre a una nuova definizione della chirurgia. Tale processo era legato all'unificazione della medicina e della chirurgia.
In questo capitolo, invece di presentare lo sviluppo della chirurgia nel XIX e XX sec. solamente come un processo di continua accumulazione di nuove conoscenze, si è ritenuto importante prendere in esame anche le discontinuità che emergono quando si confrontano fasi di crescita e fasi di transizione. Le prime sono caratterizzate soprattutto dall'emergere di nuovi concetti patologici e di nuove tecniche chirurgiche; la loro esistenza, tuttavia, presuppone quella delle fasi di transizione, che si distinguono per il rifiuto dei nuovi metodi o per la loro introduzione nella routine della pratica generale, così come per la consapevolezza dei risultati conseguiti nelle fasi precedenti. Questi periodi di transizione consentono inoltre di analizzare questioni di più ampia portata concernenti gli effetti a lungo termine, sul paziente come tale e sulla società, di quelli che sono considerati interventi locali di grande successo.
In effetti, questa periodizzazione, sebbene derivi da dati empirici, va interpretata come un modello a partire dal quale ricostruire la 'verità' in ogni campo specifico. Essa non tiene conto neppure delle peculiarità nazionali che acquistarono maggior rilievo grazie a interventi statali sempre più numerosi volti all'ordinamento delle istituzioni professionali ed educative e alla regolamentazione della pratica.
La Rivoluzione francese e le riforme realizzate in altre nazioni determinarono il ricongiungimento della chirurgia alla medicina interna. Le ampie possibilità di praticare e l'esigenza di sviluppare un nuovo approccio alla ricerca basata sull'osservazione e, persino, a quella sperimentale, in grado di accordarsi al processo di trasformazione della medicina accademica favorirono l'emergere di una letteratura specifica che a sua volta contribuì ad aprire la strada alla professionalizzazione. Così, nel primo volume del "Journal der Chirurgie und Augenheilkunde" apparso nel 1820 due figure di primo piano della chirurgia tedesca affermarono la necessità di elaborare "una nuova anatomia fisiologica [da adottare al posto della vecchia anatomia, funzionale ma meramente descrittiva ]" e una "vera patologia chirurgica" (Graefe 1820, pp. VIII, XI), vale a dire basata sulle alterazioni delle strutture solide, a lungo studiate soprattutto in Francia, in Italia e in Gran Bretagna. Questo tipo di indagini portò a una crescente richiesta di cadaveri da parte dei chirurghi anatomisti che, in Gran Bretagna, provocò una serie di scandali riguardanti i disseppellitori di cadaveri e infine, nel 1832, l'emanazione dell'Anatomy act volto a regolamentare la pratica dell'autopsia.
Le novità emerse dalle ricerche sugli animali concernenti la coagulazione del sangue, la trombosi, i nuovi metodi di emostasi e lo stato comatoso per asfissia parziale e per inalazione di diossido di carbonio, condotte in Gran Bretagna nel solco della tradizione della chirurgia sperimentale di John Hunter (1728-1793), dimostravano inoltre che la chirurgia scientifica era sul punto di dotarsi di basi fisiopatologiche interamente nuove. Maggiormente degno di nota è forse il fatto che le operazioni entrarono a far parte della terapia di malattie fino ad allora considerate non specificamente curabili o non 'chirurgiche'. Ciò vale per le branche della medicina che oggi si chiamiano ortopedia, oftalmologia, otologia, urologia, ginecologia, gastroenterologia e per alcuni settori della chirurgia vascolare e plastica. Molte delle 'prime operazioni' eseguite in questi campi furono realizzate proprio nei primi decenni del XIX secolo.
I nuovi tipi di operazione
Il comune denominatore di molte di queste operazioni era costituito dall'idea completamente nuova di poter risanare funzioni danneggiate o di riuscire a impedire la perdita di una funzione medianti mezzi meccanici. Ciò riguardava soprattutto la chirurgia plastica e l'approccio operatorio all'ortopedia, ossia le tenotomie, miotomie e osteotomie. In questo contesto, occorre inoltre menzionare la costruzione nel 1798 di un ano artificiale per un paziente colpito da atresia congenita. Nel corso di questi decenni, oltre alla miotomia di Dieffenbach e alla stafilorrafia di Roux, la blefarorrafia di von Graefe e la pupilla artificiale di Guthrie (1823) divennero essenziali per la nuova oftalmologia chirurgica, sebbene il trapianto della cornea fosse stato già effettuato in via sperimentale nel 1810.
A partire dal 1820, si iniziò a praticare l'elettrostimolazione diretta del muscolo cardiaco con un ago sottile allo scopo di rianimare i pazienti o di formulare una diagnosi di morte più certa. Fino agli anni Novanta, l'agopuntura del cuore fu una questione controversa; la tecnica si basava su una serie di esperimenti condotti su animali e sui risultati della sua applicazione agli esseri umani. Un altro campo nuovo molto importante della chirurgia era quello della cura del gozzo, ormai riconosciuto come un ingrossamento della ghiandola tiroidea, che divenne oggetto di diversi trattamenti: la legatura delle arterie tiroidee; l'escissione della ghiandola; l'applicazione di corrente galvanica e la somministrazione di iodio effettuata nel 1820 da Jean-François Coindet.
A partire dal 1834, anno in cui la chirurgia dei tumori ginecologici si era già sviluppata grazie alle ovariotomie effettuate con successo dall'americano Ephraim McDowell nel 1809, apparvero alcuni resoconti di interventi chirurgici di eliminazione della fistola vescico-vaginale riusciti con successo. Per quanto riguarda i campi tradizionali della chirurgia, all'inizio del XIX sec. nuove soluzioni chirurgiche iniziarono a mettere in discussione quelle tradizionali e meno sofisticate, in particolare le tecniche chirurgiche utilizzate per tutti i tipi di ernia addominale e crurale e per l'amputazione del piede. In maniera analoga, all'inizio degli anni Venti, a Parigi e successivamente a Londra fu introdotto un nuovo metodo di trattamento dei calcoli urinari, ossia la frantumazione intravescicolare per mezzo di un 'litotritore'. L'innovazione più importante fu però la sostituzione dell'amputazione con la resezione delle parti ferite o malate, con cui si dimostrava la possibilità di ricorrere a soluzioni chirurgiche più raffinate e in grado di conseguire risultati più soddisfacenti dal punto di vista funzionale. Anche il trattamento tradizionale delle fratture (quello conservativo) iniziò a essere modificato grazie all'introduzione di congegni a contrappeso, di cui furono sviluppate molte varianti fino alla fine del secolo, rispondenti a esigenze di funzionalità.
I progressi della chirurgia
In breve, la varietà degli interventi chirurgici era in via di sviluppo; il loro numero e la loro tipologia si ampliarono. Si iniziarono a operare non solo i feriti di guerra, ma anche le donne e i bambini. Venne definita la procedura della sperimentazione animale prima dell'applicazione sui pazienti e si affermò una nuova percezione ‒ propriamente chirurgica ‒ del corpo, della sua fisiologia e della sua fisiopatologia meccanica. Il modo di affrontare i principali problemi tecnici, ossia le tecniche chirurgiche alternative e le questioni riguardanti le prescrizioni mediante il confronto numerico di casi selezionati (e non), emerso verso la metà del XVIII sec. nei circoli militari, non fu abbandonato ma anzi venne perfezionato nel corso delle guerre napoleoniche.
È indubitabile che, nel periodo tra il 1800 e il 1830, i fondamenti stessi del pensiero chirurgico subirono profondi cambiamenti. Le mostruosità, prima di allora considerate ineluttabili, iniziarono a essere presentate come malformazioni curabili. Tale cambiamento rifletteva l'emergere di una nuova mentalità volta a umanizzare le mostruosità e a renderle accettabili per la società con l'aiuto delle arti curative, vale a dire della chirurgia; si iniziò a pensare di poter porre rimedio anche ai difetti funzionali, fino ad allora sopportati con rassegnazione.
Dietro questo slancio innovativo vi erano non soltanto alcune grandi personalità, molte delle quali nate intorno al 1780 e quindi ancora giovani nel 1820, ma anche numerosi studiosi oggi poco conosciuti. Questi ultimi con le loro idee, i loro atteggiamenti e i loro lavori sperimentali, spesso portati avanti privatamente, fornirono un rilevante contributo alla costruzione delle nuove basi scientifiche della chirurgia, così come all'emergere di un punto di vista ottimistico, e in alcuni casi persino avveniristico, sulle possibilità di questa disciplina. Sebbene tali studiosi si occupassero ancora prevalentemente della superficie del corpo, senza i loro contributi sarebbe stato inimmaginabile lo spettacolare progresso della conoscenza delle cavità del corpo compiuto nell'ultimo quarto del XIX secolo.
Occorre tuttavia chiedersi quali fossero le cause di questo primo periodo di fioritura. Vi è un suggestivo parallelismo tra la dissoluzione dell'Ancien Régime, sistema statico in cui lo status sociale era determinato dalla nascita, e l'affermarsi di una nuova società borghese, in cui lo status sociale era stabilito in base al merito, e conseguentemente l'ascesa sociale dei chirurghi. Questi, in effetti, avevano molto da insegnare, come dimostrava sia il loro lavoro in tempo di guerra e di pace, consistente in numerosi piccoli interventi 'di tipo conservativo', sia la loro nuova concezione della medicina. Anche nel campo delle scienze della vita, le nozioni di generazione, rigenerazione e sviluppo nel tempo divennero essenziali per un approccio ai fenomeni della vita, fondato sulla storia naturale della malattia e della morte. La loro interpretazione in termini di interrelazioni dinamiche invece che di opposizioni statiche richiedeva nuovi approcci empirici fondati sull'osservazione e la sperimentazione, per tentativi ed errori. Da sempre per necessità più inclini dei medici a privilegiare questi metodi, i chirurghi li portarono a un livello epistemico più elevato attraverso esami fisici più approfonditi, come, per esempio, quelli effettuabili utilizzando lo stetoscopio di Laennec (1819) e l'uretrocistoscopio di Ségales (1827), e l'impiego del metodo anatomico clinico combinato con ricerche comparative e statistiche: la medicina nel suo complesso assunse un carattere più chirurgico e, al tempo stesso, la chirurgia divenne più 'medica'. La progressiva industrializzazione delle società richiedeva inoltre la riorganizzazione delle strutture sociali create per venire incontro alle esigenze dei ceti sociali più poveri. Gli ospizi per poveri malati divennero ospedali per malati poveri, fornendo alla categoria dei chirurghi nuovi luoghi d'attività organizzati, soprattutto nelle città, nell'esercito e nella marina militare. Il ruolo svolto dagli ospedali come base istituzionale del processo di cambiamento delle cognizioni mediche e delle gerarchie sociali ebbe una grande rilevanza.
I risultati conseguiti in questi contesti furono riconosciuti a livello internazionale con una serie di premi accademici che determinarono l'aumento del prestigio sociale e quindi del reddito dei chirurghi. Per la prima volta nella storia, in Inghilterra, in Francia e in Germania, alcuni chirurghi furono insigniti di un titolo nobiliare: Astley Cooper e Charles Bell divennero baronetti, Guillaume Dupuytren e Dominique-Jean Larrey baroni e Carl Ferdinand von Graefe, Karl Christian Klein e Philipp F. Walther poterono inserire un 'von' davanti al loro cognome. Ciò facilitò la professionalizzazione e l'istituzionalizzazione accademica della chirurgia con la creazione di cattedre apposite e, verso la metà del secolo, portò all'emergere della professione di 'medico generico' competente in medicina interna, chirurgia e ostetricia, riconosciuta dallo Stato.
Il periodo compreso tra il 1830 e il 1870, come già detto, coincide per molti versi con una fase di transizione. Per quanto concerne, per esempio, il trattamento dei calcoli della vescica urinaria, Anthelme-Balthasar Richerand nella Histoire des progrès récens de la chirurgie scrive che due metodi di litotomia erano stati portati "a un livello vicino alla perfezione" o "a un grado di perfezione difficilmente superabile" (Richerand 1825, pp. 90, 92-93); egli sottolinea anche la necessità di intraprendere una valutazione comparativa e prospettica delle conquiste effettuate. In particolare, Richerand insistette sulla necessità di distinguere i risultati soggettivi da quelli oggettivi per quanto riguardava la questione del trattamento chirurgico delle cataratte, oggetto di una lunga controversia originata dalla tesi avanzata verso la metà del XVIII sec. secondo la quale l'asportazione del cristallino era un intervento migliore rispetto al tradizionale abbassamento della cataratta.
Come spesso accade nelle fasi di transizione, quest'esigenza fu riproposta dall'Académie des Sciences pochi anni dopo, nel 1835, quando la tradizionale asportazione del calcolo dalla vescica urinaria fu improvvisamente posta in discussione dalla litotripsia. Senza lasciarsi condizionare più di tanto dalle voci ricorrenti di manipolazione dei dati comparativi statistici, i membri dell'Académie estesero la discussione a questioni di ben altra portata, come, per esempio, la valutazione mediante la méthode numérique, espressione con la quale in Francia si usava chiamare 'l'osservazione aritmetica' perfezionata in Gran Bretagna nel XVIII secolo. Anche in questo caso, i difensori di tale metodo espressero l'opinione secondo la quale la medicina doveva emulare le scienze sperimentali (Tröhler 2000). Naturalmente, in questo periodo furono introdotte anche alcune innovazioni: si effettuarono nuovi tipi di operazioni nel campo dell'urologia, della ginecologia e della gastroenterologia.
Teoria della malattia
In seguito ai vivaci dibattiti sulla metodologia e sulla teoria medica, la concezione solidistica e localistica della malattia, a lungo difesa dai chirurghi, acquisì una posizione predominante in tutti i campi della medicina con la pubblicazione di Die Cellularpathologie in ihrer Begründung auf physiologische und pathologische Gewebelehre (La patologia cellulare fondata sulla dottrina fisiologica e patologica dei tessuti, 1858) di Rudolf Virchow (1821-1902), opera destinata a divenire nei decenni successivi la pietra angolare delle principali correnti internazionali della teoria medica. Il trattato di Virchow demoliva definitivamente l'umoralismo antichirurgico accettato da secoli. L'applicazione terapeutica della teoria della patologia cellulare era costituita di fatto dalla rimozione chirurgica dei tessuti patologicamente alterati, dai quali si pensava avessero origine le malattie. In pratica, però, questa applicazione della teoria di Virchow fu intralciata dagli stessi ostacoli che impedivano ai chirurghi di sfruttare a fondo l'introduzione dell'anestesia per inalazione di etere nella pratica clinica.
L'anestesia
L'introduzione nel 1846 dell'anestesia per inalazione di etere rappresenta un'importante pietra miliare nella storia della chirurgia moderna. Anche i contemporanei, per ovvie ragioni, la pensavano così; a quel tempo, tuttavia, operare in modo indolore non equivaleva ancora a compiere interventi in condizioni di sicurezza. L'anestesia, infatti, produceva effetti non soltanto benefici, ma anche deleteri e per sé non giustificava dal punto di vista teorico un approccio chirurgico alle afflizioni interne del corpo, quali, per esempio, i tumori e le infiammazioni. In effetti, il numero delle operazioni non registrò un improvviso aumento e quello dei pazienti morti durante gli interventi non diminuì. Il 16 ottobre 1846, il chirurgo bostoniano John C. Warren operò un paziente affetto da un tumore del collo sotto anestesia per inalazione di etere effettuata da William T.G. Morton; il resoconto di questo intervento fu letto il 3 e il 9 novembre dello stesso anno nel corso di un convegno. La rapidità con cui la notizia dell'eliminazione del dolore durante un'operazione chirurgica si diffuse in tutta Europa dà un'idea dell'impatto del primo grande contributo americano alla medicina.
Il 19 gennaio 1847 a Edimburgo, appena quattro settimane dopo l'esecuzione della prima operazione indolore effettuata a Londra, James Y. Simpson usò per la prima volta il cloroformio per alleviare i dolori di una partoriente e, nello stesso anno, il dentista Horace Wells di Hartford, nel Connecticut, pubblicò i risultati delle sue esperienze con l'ossido d'azoto (gas esilarante). Così, in pochi mesi si era venuti a conoscenza di tre anestetici generali, un evento straordinario che nei circoli professionali diede luogo a numerosi dibattiti sugli aspetti medici ed etici del controllo del dolore. L'anestesia incoraggiò ulteriori ricerche effettuate in base ai modelli convalidati dell'autosperimentazione dei medici e degli esperimenti sugli animali e sui pazienti, allo scopo non soltanto di studiare i diversi meccanismi d'azione e le differenti fasi di questo stato di sonno indotto artificialmente, e quindi dell'analgesia, ma anche di stabilire una corretta posologia. I vantaggi e gli svantaggi dell'etere, del cloroformio e di altri gas volatili e la definizione della loro 'giusta' miscela e sequenza furono oggetto di discussione fino allo scoppio della Prima guerra mondiale.
Molti dei contributi alla definizione di tali questioni pubblicati prima della guerra sulle riviste di medicina si presentano come spontanei scambi di esperienze più che come indagini condotte con spirito scientifico rigoroso e analitico, riguardanti prima la narcosi e poi le diverse forme di anestesia locale, di infiltrazione locale (1885), di applicazione spinale (1885), di blocco dei tratti nervosi (1901) e di sempre nuovi anestetici per inalazione. La grande disputa del 1890 sull'opportunità dell'uso dell'etere o del cloroformio, nel corso della quale si fece ricorso a un gran numero di dati statistici e all'autorità di celebri chirurghi a sostegno delle diverse argomentazioni, deve essere considerata un'eccezione. Queste ricerche definirono i criteri accademici per un'accurata descrizione dei casi di successo e insuccesso e favorirono l'introduzione del calcolo dei benefici e dei rischi, servendo così da modello al pensiero utilitaristico moderno. Per molti versi, dunque, l'anestesia contribuì a una migliore definizione delle relazioni esistenti tra il chirurgo come professionista e il chirurgo quale sperimentatore e ricercatore clinico e fisiologico, ma gradualmente modificò anche le relazioni che legavano questa nuova figura di professionista scientifico ai suoi pazienti e alla società.
L'anestesia diede un forte impulso al riconoscimento sociale e alla professionalizzazione dell'ostetricia e della chirurgia scientifica nell'ambito della medicina accademica. La normativa legale ben presto introdotta per scoraggiare gli abusi criminali di questa pratica potenzialmente molto pericolosa fu di grande aiuto: da allora in poi infatti fu consentito solo ai medici di somministrare sostanze anestetiche. L'anestesia scientifica fece uscire di scena le ciarlatanerie come, per esempio, il mesmerismo.
Il fatto che la chirurgia non fosse più costretta a infliggere intollerabili sofferenze modificò in maniera profonda i criteri di reclutamento del personale chirurgico e le donne iniziarono a essere assunte come infermiere e a lavorare negli studi medici. Le riforme sociali dell'epoca elogiavano l'anestesia presentandola come un prodotto dello 'spirito caritatevole del nostro tempo', mentre secondo i giudizi più radicali degli idroterapeuti, degli omeopati e delle femministe si trattava di una pratica 'innaturale' che poteva dar luogo a un inutile furor operativus. Le reazioni dei teologi si divisero tra la sfida predestinazionista, la condanna perfezionista e l'espressione della propria riconoscenza a Dio per questo dono, anche se nel corso del secolo alcuni manifestarono l'opinione secondo la quale l'assenza di dolore provocava una serie di svantaggi funzionali e psicologici: vi era da lungo tempo una stretta associazione tra l'insensibilità e la morte, da un lato, e tra il dolore, la cura e il ristabilimento, dall'altro lato. Ci si chiedeva allora se il dolore non possedesse un valore terapeutico e non fosse auspicabile. Non lo si sentiva forse agire a favore del paziente? Non era forse anche una forma di medicazione morale? Fino agli anni Ottanta dell'Ottocento si seguitò a dibattere intorno alle funzioni fisiche del dolore e vi sono persone che ancora oggi credono nelle sue difficilmente verificabili funzioni spirituali, in particolare per quanto riguarda il parto. I casi documentati di rifiuto dell'anestesia per motivi religiosi possono essere comunque considerati un esempio dell'autonomia dei pazienti.
La lotta contro la febbre da ferita
La mortalità dei pazienti sottoposti a operazioni chirurgiche rimaneva comunque ancora molto alta soprattutto a causa della perdita di sangue e delle infezioni postoperatorie. Questa situazione di stallo fu superata solamente con la messa a punto di metodi affidabili in grado di risolvere il problema della 'febbre da ferita'. Intorno alla metà del XIX sec. apparve una serie di resoconti relativi alle vittorie ottenute nella lotta contro le malattie causate dalle ferite, che sembrava non dover avere mai fine. A Vienna, tra il 1848 e il 1849, Ignaz Philipp Semmelweis (1818-1865), personaggio illustre della lunga tradizione del trattamento della febbre puerperale, dimostrò che in generale era possibile prevenirla strofinandosi le mani con acqua e sapone, usando uno spazzolino per le unghie, ripetendo successivamente l'operazione con acqua clorata prima di passare alla visita ginecologica e all'assistenza al parto. Tuttavia, essendo esclusivamente empirici, i contributi di Semmelweis furono riconosciuti soltanto in parte dalla comunità accademica, i cui membri ritenevano che la conoscenza scientifica si basasse sul razionalismo e/o sull'empirismo sperimentalmente controllato e non sul tanto denigrato semplice empirismo in odore di ciarlataneria.
Parallelamente e in modo indipendente, una scuola di 'chirurgia della pulizia e dell'acqua fredda' si costituì a Londra intorno al più importante chirurgo della città, Spencer Wells, che dal 1860 utilizzava abbondante acqua fredda e asciugamani freschi di bucato nel corso delle operazioni. Come Semmelweis, anche Wells monitorò statisticamente i risultati ottenuti. Semmelweis e Wells non erano consapevoli del potere patogeno dei germi così come lo concepiamo oggi; le loro pratiche derivavano da osservazioni casuali. La spiegazione teorica definita nel XVIII sec. (ma di fatto molto più antica) era che le infezioni fossero causate dai miasmi ‒ emanazioni sprigionate da fonti non umane ‒ e/o dal contagio, vale a dire da emanazioni provenienti da esseri umani malati; tra il paziente e l'ambiente si stabiliva una sorta di relazione dialettica che spiegava l'insorgere delle malattie. Per la chirurgia ciò comportava, tra l'altro, il cosiddetto 'trattamento aperto' delle ferite: la ventilazione e l'aria fresca ne favorivano il naturale processo di risanamento. Affinché questo avesse luogo, tuttavia, era necessario un certo grado di infiammazione, anche se un eccesso della medesima poteva scatenare un pericoloso processo patologico, quello della putrefazione. Si può dire a posteriori che fu l'antisepsi, ossia la distruzione o soppressione degli agenti della putrefazione delle ferite con i disinfettanti, a rivelarsi in questo senso decisiva. Quando però nel 1867 Joseph Lister (1827-1912), professore di chirurgia presso la University of Glasgow, pubblicò su "The Lancet" una prima serie di tre articoli dedicati alla 'chirurgia antisettica', questi ultimi non suscitarono particolare interesse.
L'antisepsi e l'asepsi
Come era già accaduto per Semmelweis, furono i risultati del metodo empirico di Lister, e non una teoria sul suo funzionamento, a rivelarsi decisivi. Il chirurgo li presentò avvalendosi del metodo di controllo storico allora già ben definito. In altre parole, comparò statisticamente il tasso di mortalità dovuto a fratture composte prima e dopo l'introduzione delle fasciature imbevute di acido fenico (fenolo). In realtà, egli aveva scelto a caso l'acido fenico tra le sostanze note per la loro azione deodorante (che doveva esercitarsi contro le emanazioni ambientali, i miasmi). Come suggerisce una moderna analisi della documentazione dei casi, è possibile inoltre che Lister abbia presentato dati statistici 'selezionati' (Hamilton 1982). In ogni caso, il divario tra i dati sulla mortalità impressionò molti professionisti inclini all'empirismo e preoccupati più dei risultati che delle giustificazioni teoriche. Tuttavia, se raffrontati al trattamento aperto delle ferite, i dati di Lister rimanevano discutibili; in effetti, la sua pratica dipendeva da due idee teoriche completamente nuove per quanto riguardava il trattamento delle ferite. Lister, infatti, pensava che i microorganismi viventi, presenti ovunque, fossero gli agenti che causavano la putrefazione e che l'infezione non fosse una fase inevitabile del processo di risanamento delle ferite. Queste idee si contrapponevano nettamente alla teoria tradizionale molto antica dei miasmi e dei contagi, che aveva dalla sua parte la comprovata efficacia delle misure riguardanti la salute pubblica. La nuova concezione di Lister derivava dalle recenti indagini condotte da Louis Pasteur (1822-1895) sulla fermentazione e sulla putrefazione e dalle sue osservazioni sull'alterazione del vino provocata da questi organismi (1868). L'analogia con le infezioni da ferita, tuttavia, rimaneva vaga e priva di dimostrazione sperimentale.
Inoltre, il nuovo 'sistema antisettico' era molto costoso per le amministrazioni degli ospedali, complicato e, come sappiamo dalle lagnanze dei medici e dai diari di alcuni pazienti, oltre a richiedere un grande dispendio di tempo era per entrambi sgradevole quanto il trattamento tradizionale. Esso, infine, faceva ricadere la responsabilità del risultato del trattamento non sulla suscettibilità del paziente nei confronti dell'ambiente ma sul chirurgo stesso, che con le sue mani e i suoi strumenti permetteva ai germi di riuscire a penetrare nel corpo del paziente.
Vi erano dunque buone ragioni per le quali l'antisepsi non si affermò presso il gruppo in via di professionalizzazione. Anche una serie di considerazioni etiche svolse un ruolo importante in questo senso, almeno in Germania. In effetti, l'alto tasso di mortalità dei pazienti che a Glasgow furono sottoposti ad amputazione al tempo di Lister non era un dato diffuso né costante; si trattava di una circostanza relativamente nuova, determinata probabilmente dalla crisi sociale provocata verso la metà del secolo dalla Rivoluzione industriale. Di conseguenza, la sua lenta diminuzione potrebbe essere stata parzialmente causata anche dalla maggiore resistenza alle infezioni determinata da una migliore nutrizione, dalla distribuzione di acqua fresca e dall'adozione di sistemi di fognatura realizzati ‒ almeno nella Glasgow di Lister ‒ nello stesso periodo in cui furono introdotti i metodi antisettici nella pratica chirurgica.
Nell'approccio profilattico di Semmelweis e di Wells, il chirurgo svolgeva una funzione di mediazione tra un ambiente potenzialmente pericoloso e la predisposizione del paziente a questi pericoli. I sistemi antisettici si accordavano alla perfezione alle idee di pulizia morale e medica tanto diffuse nell'Età vittoriana, almeno nelle nazioni protestanti. È accertato che la graduale introduzione a partire dagli anni Settanta dell'Ottocento del rituale asettico consistente nell'indossare il camice lungo ‒ superfluo, secondo Lister che infatti non lo usava ‒, la mascherina e i guanti sterilizzati, non suscitò una vasta opposizione né lunghe discussioni perché in tale rituale l'idea popolare di pulizia coincideva con la nozione di sterilità chirurgica.
Un fattore decisivo per la sua definitiva accettazione fu il lavoro scientifico che pose su nuove basi il vecchio concetto dell'interazione tra il paziente e il suo ambiente. Esso fu in gran parte svolto verso la fine degli anni Settanta da alcuni studiosi tedeschi, tra i quali Robert Koch (1843-1910), che con il suo contributo aprì la strada alla batteriologia. In primo luogo, questi lavori scientifici conferirono alla teoria dei germi e alla specificità delle malattie da ferita la base sperimentale di cui erano prive. A sua volta, la batteriologia permise di individuare i criteri obiettivi mediante i quali valutare l'efficacia delle misure adottate per prevenire o combattere quella che oggi chiameremmo infezione chirurgica nel senso moderno del termine.
Ben presto Pasteur e Koch consigliarono di utilizzare il vapore invece degli antisettici chimici per sterilizzare gli strumenti e il materiale chirurgico. Ogni chirurgo a poco a poco elaborò il proprio sistema controllato di trattamento delle ferite, un metodo che è soggetto a modifiche ancora oggi, nella terapia delle infezioni nosocomiali, ma che risponde tuttora agli stessi criteri di valutazione. In questo periodo, inoltre, i medici iniziarono a indossare guanti sterilizzabili e il camice bianco, che assursero a simbolo della loro pulizia interiore.
La rivoluzione della pratica chirurgica: 1870
Nell'ultimo terzo del XIX sec., la pratica chirurgica subì cambiamenti radicali che assicurarono l'eliminazione dei rischi in alcuni campi tradizionali come, per esempio, quello della terapia di routine delle ferite; essi inoltre trasformarono profondamente il trattamento chirurgico, incluso quello di molte malattie prima di allora considerate 'interne', che da soluzione eroica ex ultima ratione divenne pratica di routine.
Nella prima edizione tedesca del manuale Chirurgische Operationslehre (Dottrina delle operazioni chirurgiche), pubblicata nel 1892, il cattedratico di Berna, di fama internazionale, Emil Theodor Kocher ( 1841-1917) dedicava solamente 200 pagine all'enunciazione di regole per una gamma molto più ampia di procedure. Le nuove operazioni introdotte nella prima metà dell'Ottocento, come, per esempio, l'escissione (invece della perforazione) delle cisti ovariche, a volte di enormi dimensioni, per mezzo della cosiddetta 'ovariotomia' e la resezione del gozzo (che aveva sostituito l'iniezione di liquidi che provocavano la distruzione del tessuto) non erano più oggetto di discussione per l'autore. Nel 1880 Wells aveva eseguito 1000 ovariotomie, con un tasso di mortalità, nelle ultime 100 operazioni, dell'11%. Nel 1889 lo stesso Kocher aveva effettuato 350 resezioni del gozzo con un tasso di mortalità che era costantemente diminuito fino a raggiungere l'1,2%. Tuttavia la vera rivoluzione della pratica chirurgica generale iniziava soltanto ora, come dimostrava la quinta edizione (1907) tedesca del testo di Kocher, più lunga di 1100 pagine, destinata a divenire un classico tradotto in varie lingue. Più di 250 pagine erano ora dedicate alle procedure più vecchie, quali, per esempio, la legatura delle arterie (negli aneurismi sifilitici) e delle vene, l'amputazione e la resezione delle ossa. In questa edizione del manuale figurava inoltre una sezione di 100 pagine consacrata alle cure pre- e postoperatorie e quasi metà del testo era dedicata alla chirurgia esofagea e a quella gastrica ‒ inaugurate da Theodor Billroth nel 1872 e nel 1881 ‒, alla sutura del cuore e dei vasi sanguigni e alla chirurgia del sistema nervoso, del cervello e del midollo spinale. I chirurghi avevano, per usare una loro espressione, 'conquistato' tutte le cavità e gli organi del corpo, mantenendo il controllo del 'terreno' di cui si erano impossessati con una routine soggetta a continui perfezionamenti. Nel 1909, nel discorso che tenne in occasione del conferimento del premio Nobel, Kocher annunciò di aver eseguito fino a quel momento 4000 resezioni del gozzo, con un tasso di mortalità dello 0,7% nelle ultime 1000 operazioni.
Il cancro costituiva un importante tema di discussione. Gli studi su questa malattia erano in costante aumento. Lo scopo principale era quello dell'eradicazione totale, anche se gli interventi spesso si risolvevano nella mutilazione del paziente. La chirurgia delle infezioni, sia acute (le appendiciti e le colecistiti) sia croniche (tubercolosi extrapolmonare, osteomielite) seguitava a essere oggetto di indagine. Spesso sia i tumori sia le infezioni causavano ostruzione o stenosi, soprattutto a livello degli apparati digerente, respiratorio e urogenitale, che poteva essere curata ‒ anche se soltanto temporaneamente ‒ con l'incisione o l'eradicazione che facevano del chirurgo il 'salvatore' del paziente. Tra gli esempi più banali, ricorderemo la tracheotomia nei casi di turbercolosi o di cancro della laringe e la rimozione dell'ostruzione intestinale causata dal cancro o dalla stenosi. Con procedure relativamente prive di rischi, la chirurgia operatoria entrò nella sua 'età dell'oro' al volgere del secolo, quando divenne indiscutibilmente la branca della medicina somatica più attiva dal punto di vista terapeutico.
La professionalizzazione e l'istituzionalizzazione della chirurgia
Il processo di radicale trasformazione e di espansione della chirurgia, attuatosi nello spazio di una generazione, portò a partire dal 1861 alla creazione in Germania di riviste specializzate, mentre il "British journal of surgery" iniziò le pubblicazioni soltanto nel 1913. Grazie ai mezzi di trasporto molto più veloci, viaggiare era sempre più facile. In molti paesi furono fondate società chirurgiche, la prima delle quali si costituì in Germania (1872), dove la pratica clinica, l'insegnamento e la ricerca erano riuniti nei dipartimenti di chirurgia di 27 facoltà di medicina, la cui organizzazione gerarchica funzionale era di esempio per altri paesi.
Le analisi diagnostiche con i raggi X e le procedure terapeutiche antisettiche potevano essere eseguite in tutta sicurezza soltanto in edifici speciali, ossia in cliniche dotate delle necessarie infrastrutture tecniche e costruite in base ai nuovi e verificabili standard d'igiene. Nelle cliniche chirurgiche, riservate ai pazienti meno abbienti, i degenti più facoltosi potevano usufruire di speciali strutture che garantivano loro l'intimità e il comfort a cui erano abituati. Florence Nightingale (1823-1910), che per cinquant'anni aveva lavorato come infermiera aprendo la strada alla professionalizzazione di questa attività, diede in tal modo un grande contributo alla creazione di un'altra condizione indispensabile al successo della medicina ospedaliera moderna e, in particolare della chirurgia, che richiedeva un numero sempre maggiore di cure pre- e postoperatorie. L'antisepsi e soprattutto l'asepsi presupponevano il rispetto di regole rigorose e svolsero un ruolo decisivo nella trasformazione della chirurgia in un lavoro di squadra.
In generale, prima del 1900 le operazioni chirurgiche venivano eseguite piuttosto rapidamente, caratteristica questa dell'era preanestetica e preantisettica quando, prima di tutto, doveva essere facilitato il lavoro del chirurgo. Ora l'anestesia e l'asepsi consentivano di far ricorso in modo più sistematico a tecniche di sutura elaborate e raffinate. Furono costruiti molti nuovi strumenti, personalizzati e prestigiosi. Fino a quel momento la chirurgia si basava sull'intuizione, la perseveranza e le straordinarie capacità tecniche dei singoli maestri, una situazione che naturalmente, e a ragione, rafforzava la posizione dei grandi chirurghi nei confronti dei loro pazienti e dei loro colleghi (che non operavano). In un'epoca caratterizzata dall'emergere di tendenze autoritarie in campo filosofico e religioso, da una rigorosa gerarchia nella vita pubblica e nella vita familiare, i grandi chirurghi, come, del resto, tutte le autorità, non potevano non essere considerati con soggezione e rispetto, al punto tale da divenire oggetto di un vero e proprio culto, esattamente come gli eroi di guerra.
Nel 1892 Ernst Georg Ferdinand Küster (1839-1930), uno di questi maestri, concluse la sua conferenza sullo stato dell'arte della chirurgia urologica affermando: "È impossibile non essere colti dall'impressione che gran parte del lavoro sia già stato svolto e che i nostri successori dovranno limitarsi a un lavoro di spigolatura" (Küster 1901, p. 438). Un'affermazione simile aveva segnato settant'anni prima il raggiungimento del culmine di un periodo di crescita e, nel contempo, l'inizio di una fase di transizione; asserzioni di questo genere indicano che la chirurgia nel senso localistico-solidistico del termine aveva raggiunto l'apice del suo sviluppo.
Questioni irrisolte e nuove sfide
In effetti, al volgere del secolo, anche tra i chirurghi, nelle amministrazioni degli ospedali, nei governi e tra i pazienti si diffuse un atteggiamento ottimistico nei confronti del futuro della chirurgia. Tuttavia, quando si faceva ricorso a procedure più difficili per intervenire sul cervello, sui polmoni e sul cuore, anche le imprese più significative rimanevano fortunose o isolate per la mancanza sempre più sentita di concetti teorici e/o risorse materiali. Ci si chiedeva come interpretare una reazione di rigetto dopo un trapianto di reni perfettamente riuscito e come procurarsi il materiale necessario all'osteosintesi o alla sostituzione di una giuntura, il cui grado di tolleranza fosse più alto di quello del ferro o dell'avorio. In ogni caso, con la diffusione dei controlli diagnostici e postoperatori dovuta all'introduzione, nel 1896, dei raggi X, alcune procedure idiosincratiche (per es., nel trattamento delle fratture) divennero rapidamente obsolete.
Un'altra caratteristica nuova era la pubblicazione dei risultati raccolti sul lungo periodo che, nel caso del cancro e della tubercolosi ossea, spesso apparivano sconfortanti a causa delle ricadute. L'insuccesso a lungo termine di tali interventi evidenziava un grave problema che questo tipo di chirurgia doveva affrontare e che per molti versi rendeva l''età dell'oro' un periodo di transizione. Esso era in generale ricondotto alla scarsa accuratezza e alla tardività delle diagnosi. Inoltre, non veniva eseguito un secondo esame, così come non era ancora possibile effettuare biopsie preoperatorie dello stomaco o della vescica urinaria; anche per quanto riguardava gli altri organi, a volte parti di tumori che contenevano elementi caratteristici non erano accessibili agli strumenti esistenti. Così, la diagnosi preoperatoria doveva basarsi sugli accertamenti clinici. Nel biennio 1887-1888, il trattamento errato della tumefazione laringea (carcinoma) dell'imperatore Federico III di Germania, messo a punto da molti illustri clinici e persino dal celebre Virchow, fu una tragica dimostrazione di queste difficoltà. Tuttavia l'uso di tecniche sempre nuove rendeva facile 'giustificare' risultati che non si accordavano con le aspettative teoriche.
Tali problemi acquisirono una grande importanza soprattutto perché, all'inizio del XX sec., la chirurgia operatoria era stata seriamente messa in discussione da nuove alternative terapeutiche in alcuni dei campi di recente conquistati, per esempio dai raggi X e dalla radioattività nella terapia del cancro e dall'elioterapia alpina nel trattamento della tubercolosi extrapolmonare. Questa situazione determinò una serie di problemi medici di natura metodologica e ne evidenziò altri che fino a quel momento erano stati considerati estranei alle competenze specifiche dei moderni chirurghi.
In effetti, al volgere del secolo il grado di 'medicalizzazione' della società era molto basso. Ampi settori della popolazione non disponevano ancora di un'assicurazione medica e in molti paesi l'assistenza seguitava a costituire un pesante onere finanziario. In un'epoca in cui i trattamenti dietetici o conservativi di lunga durata erano accessibili soltanto alle persone facoltose, la chirurgia rappresentava spesso una misura di tipo sociale, soprattutto per quanto riguardava le malattie croniche e le questioni relative alla scelta del metodo di cura da adottare, che potevano essere percepite come un dilemma etico dai medici tradizionali, i quali avevano un atteggiamento paternalistico nei confronti dei propri pazienti (Tröhler 1991b, 1992).
Inoltre, le personalità mediche più importanti del tempo misero in guardia dal pericolo che la chirurgia, essendo divenuta per molti versi un'attività di routine tecnicamente priva di rischi, tornasse a essere la pratica meramente artigianale del periodo precedente il XIX sec., quando i chirurghi svolgevano il ruolo di spaccapietre e di conciaossa, se i loro concetti teorici e la loro applicazione e valutazione clinica non fossero stati continuamente riveduti e analizzati. Kocher capì che il credo della sua generazione, vale a dire il fatto che "la terapia operatoria al culmine dei suoi rapidissimi progressi fosse interamente basata sull'eliminazione diretta della causa della malattia attraverso i suoi mezzi meccanici senza considerare più di tanto gli altri fattori" (Tröhler 1984, p. 177) ora era divenuto un limite. Egli era ben consapevole di ciò che affermava, dal momento che con le asportazioni totali della tiroide effettuate fino al 1883 aveva toccato con mano i limiti fisiologici della pratica di localizzare ed estirpare le malattie. Le indagini su questa ghiandola, e in verità la ricerca endocrina iniziata subito dopo, divennero un importante punto di riferimento per la nuova concezione scientifica della chirurgia emersa nel XX sec., a cui fu attribuito il nome di chirurgia fisiologica (Tröhler 1991a). In questo periodo, grazie alla loro attività in tale campo d'indagine, due chirurghi ottennero il premio Nobel per la medicina o la fisiologia (un riconoscimento raro tra i membri di questa categoria professionale): Kocher nel 1909 per il suo lavoro sulla tiroide e il franco-americano Alexis Carrel nel 1912 per i suoi studi sulla sutura dei vasi sanguigni e sul trapianto. George W. Crile (1864- 1943), che in questi anni aprì la strada allo studio sperimentale dello shock, fece il punto della situazione nel corso di un incontro svoltosi a Londra nel 1910: "Sembrerebbe che l'era del grande triumvirato dell'anestesia, dell'asepsi e dell'anatomia patologica sia ormai prossima al suo zenit […]. Ci troviamo forse alle soglie dell'era della fisiologia, dell'interpretazione cioè delle leggi della vita stessa?" (English 1980, pp. 167-168).
Fino alla metà del XX sec. il progresso della chirurgia è stato caratterizzato da due tendenze. In primo luogo, grazie allo sviluppo delle tecniche chirurgiche (tra cui le nuove operazioni radicali effettuate in oncologia gastrointestinale, ginecologia e psicochirurgia) si ottenne una graduale modifica delle procedure standardizzate, orientandosi verso un maggiore benessere del paziente piuttosto che del chirurgo, anche se ciò significava aumentare la durata degli interventi.
La chirurgia fisiologica
Le cosiddette procedure 'dolci', già introdotte da Kocher in Europa e da William S. Halsted negli Stati Uniti, furono a poco a poco adottate da alcuni dei loro colleghi più giovani, come Johann Freiherr von Mikulicz-Radecki, Erwin Payr, Crile (che fu il principale esponente americano della chirurgia fisiologica) e il francese René Leriche che, a loro volta, le insegnarono ad altri. Ciò vale per tecniche specifiche e per alcuni metodi parachirurgici, come, per esempio, l'esame pre- e intraoperatorio dei fattori fisiologici che regolano la circolazione del sangue (soprattutto nel cervello), al fine di prevenire lo shock chirurgico, una frequente complicazione degli interventi più estesi; l'attenzione per la posizione del paziente nel corso dell'operazione; l'adozione di tavoli operatori riscaldati; l'uso di soluzioni saline isotoniche portate a una temperatura uguale a quella corporea per l'infusione e la detersione; l'introduzione di tecniche differenziate di anestesia e di emostasi. Tali misure aiutarono a prevenire e ad attenuare i pericolosi effetti collaterali della chirurgia. Nel periodo tra le due guerre mondiali furono introdotti altri due metodi, l'alimentazione con fleboclisi e la decompressione gastrointestinale per aspirazione continua, che determinarono profonde trasformazioni nella chirurgia addominale. In secondo luogo, il progresso della chirurgia fu orientato in senso fisiologico perché i risultati di questa pratica ormai non dovevano più essere soddisfacenti soltanto dal punto di vista anatomico, ma anche da quello funzionale. Ciò significava che i chirurghi dovevano interessarsi alla patofisiologia al di là delle tradizionali concezioni cellulari e meccaniche. Un risultato esemplare di questo atteggiamento fu il sistema di trattamento delle fratture orientato in senso anatomico e funzionale messo a punto da Fritz de Quervain (1868-1940), successore di Kocher. Questo punto di vista fu esposto succintamente da Franz Rost nel libro intitolato Die Pathophysiologie des Chirurgen (La patofisiologia del chirurgo), che ebbe tre edizioni tra il 1920 e il 1925 e fu tradotto in inglese. Da allora le diagnosi cliniche iniziarono a essere integrate e, in alcuni casi, sostituite da spiegazioni delle alterazioni fisiopatologiche, ottenute mediante accertamenti delle funzioni cardiache, polmonari, renali o endocrine, effettuati con test di laboratorio che richiedevano conoscenze biologiche, farmacologiche e statistiche, così come una serie di tecniche. Questo implicava la possibilità di basarsi su criteri più precisi per la prescrizione delle operazioni e i controlli intra- e postoperatori, e ‒ nella misura in cui era coinvolta la radiologia ‒ indicava le linee guida per le operazioni. Tuttavia, a eccezione delle indagini svolte da alcune figure di primo piano, lo scopo principale delle ricerche chirurgiche era ancora costituito dal perfezionamento della tecnica.
Tra i primi esempi dell'interazione tra fisiopatologia e chirurgia, vanno ricordati il trattamento dello shock chirurgico e la ricerca endocrina. La cura dello shock consisteva nel somministrare cardiotonici e in alcuni casi, a partire dalla fine degli anni Ottanta dell'Ottocento, nell'infusione endovenosa di soluzioni saline o a base di glucosio, anche se i membri di un comitato di ricerca anglo-americano creato durante la Prima guerra mondiale avevano dimostrato che a questo scopo era preferibile l'uso di soluzioni macromolecolari (gomma d'acacia). Nel 1944 alcuni ricercatori svedesi raccomandarono a tale proposito l'impego del destrano, ma tuttora la soluzione ideale non è stata individuata. Nonostante la scoperta dei gruppi sanguigni da parte di Karl Landsteiner (1868-1943) e di altri ricercatori viennesi nei primi anni del XX sec., il ruolo delle trasfusioni fu irrilevante fino alla vigilia della Seconda guerra mondiale: queste erano ancora effettuate direttamente dal donatore al ricevente, una procedura considerata pericolosa e molto dispendiosa in termini di tempo. Nel corso della Guerra civile spagnola (1938), fu dimostrato che era possibile trasfondere indirettamente il sangue, conservandolo per diversi giorni.
Una delle prime banche del sangue fu creata nel 1935 presso la Mayo Clinic di Rochester, negli Stati Uniti, un centro di ricerca endocrinologica. Fondato nel 1889, l'istituto costituiva un esempio di come clinici e teorici potessero lavorare a più stretto contatto di quanto non fosse possibile nelle strutture a compartimenti stagni dell'Europa centrale. Grazie al lavoro svolto in questo centro, nei venticinque anni successivi il trattamento chirurgico del gozzo divenne più sicuro insieme alla rimozione dei tumori adrenocorticali. Inoltre, un ricercatore che lavorava presso la Mayo Clinic, Edward C. Kendall (1886-1972), isolò nel 1914 la tiroxina e nel 1936 il cortisone, che ha trovato un largo impiego terapeutico in molti campi della medicina e della chirurgia.
La chirurgia degli organi endocrini entrò a far parte del trattamento di altre malattie, come, per esempio, il cancro della mammella e della prostata, o la calcolosi renale causata dall'iperparatiroidismo, illustrando così un concetto di malattia più metabolico che localistico.
Questo approccio interdisciplinare si diffuse in Europa centrale soltanto gradualmente, in parte a causa della crisi economica degli anni Venti e dell'isolamento ideologico della Germania dopo l'ascesa al potere del Nazismo e l'emigrazione forzata degli ebrei; inoltre, i medici tedeschi non leggevano le riviste scientifiche straniere.
L'anestesia
In questo periodo, tuttavia, furono compiuti passi decisivi nel campo delle tecniche parachirurgiche. Tra il 1923 e il 1935, furono introdotti quattro nuovi gas narcotici, seguiti da altri due nel 1956 e nel 1974; la loro somministrazione avveniva per intubazione endotracheale, metodo ancora oggi considerato più sicuro per quanto riguarda la ventilazione polmonare. Benché fosse conosciuta in Francia e in Gran Bretagna e fosse stata ampiamente discussa in una monografia tedesca apparsa nel 1911, in Europa centrale questa tecnica venne usata solo raramente fino al 1945. Una piccola modifica, vale a dire l'uso della cannula tracheale proposto da Friedrich Adolf Trendelenburg già nel XIX sec., si rivelò cruciale: essa dava all'anestesista la possibilità di ventilare il paziente, permettendo al chirurgo di avere a disposizione tutto il tempo necessario, soprattutto per gli interventi sugli organi del torace.
La scoperta di una serie di composti narcotici solubili, avvenuta in Germania e negli Stati Uniti intorno al 1930, portò a un'ulteriore differenziazione dell'anestesia che iniziò a poter essere effettuata per via endovenosa e intramuscolare. Questo tipo di trattamento induceva nel paziente uno stato di totale incoscienza anche nei casi di operazioni molto brevi mediante un metodo di facile applicazione; trovò largo impiego anche nell'introduzione di anestesie di lunga durata senza provocare stress nel paziente. Queste sostanze barbituriche vennero largamente usate fino all'affermazione, negli anni Sessanta, della chetammina e del diazepam (quest'ultimo utilizzato anche come tranquillante in campo psichiatrico e nella medicina psicosomatica). Di conseguenza, in questo periodo si assiste alla professionalizzazione dell'anestesiologia grazie alla diffusione di riviste, la costituzione di associazioni e l'organizzazione di congressi. La formazione e la pratica furono regolate in base alle tradizioni dei diversi paesi. Henry K. Beecher (1904-1976), il professore a cui fu assegnata la prima cattedra della disciplina (creata nel 1941 alla Harvard University), scrisse un manuale dal titolo The physiology of anesthesia (1938). Le basi dello sviluppo dell'anestesiologia come branca specialistica sono illustrate in Chemistry of anesthesia e Physics for the anaesthetist, entrambe pubblicate nel 1946 negli Stati Uniti, o Pediatric anesthesia e The pharmacology of anesthetic drugs, anch'esse date alla stampe in questo paese rispettivamente nel 1948 e nel 1952. Tra gli sviluppi ulteriori ricorderemo l'introduzione (ancora una volta negli Stati Uniti) di tecniche estremamente complesse quali l'ipotermia artificiale, vale a dire l'abbassamento controllato della pressione sanguigna per diminuire la fuoriuscita di sangue, e la circolazione extracorporea attraverso l'uso della macchina cuore-polmoni. Lo spettrografo di massa, sviluppato tra il 1950 e il 1952 nel Minnesota, segnò l'inizio di una nuova fase del monitoraggio delle narcosi.
La pratica chirurgica
Durante la Prima guerra mondiale, si discusse soprattutto del metodo corretto di trattamento delle ferite. Ben presto ci si rese conto che né le tecniche asettiche usate nella vita civile né le esperienze condotte nel corso delle ultime guerre erano di grande utilità nelle trincee del fronte occidentale. Contemporaneamente, il trattamento delle fratture composte e la chirurgia plastica registrarono un grande perfezionamento tecnico. La disponibilità dei sulfamidici negli anni Trenta e, più tardi, degli antibiotici, trasformò ancora più profondamente il vecchio trattamento locale in uno di tipo generale, anche perché la rimozione chirurgica si era rivelata inefficace nei casi in cui l'infezione si era già radicata. Così, il metodo di cura chirurgico delle ferite, che per secoli era consistito solamente nell'eliminazione del pus, cedette il passo a un tipo di trattamento più generale.
Verso la metà del XX sec., le procedure parachirurgiche e di chirurgia generale descritte avevano esteso le possibilità di intervento chirurgico per quanto riguardava sia l'età dei pazienti sia i diversi tipi di malattia. Ciò valeva anche per casi fino ad allora considerati inoperabili per il grave rischio di infezioni, (per es., alcuni interventi sui polmoni, sempre a contatto con i microorganismi presenti nell'aria). In tal modo, si ampliò sia lo spettro delle malattie trattabili chirurgicamente sia quello dei metodi chirurgici e la disciplina si differenziò in diverse branche.
In seguito alle maggiori possibilità di intervento e di sicurezza, tuttavia, la tentazione di operare si fece in alcuni casi irresistibile. L'appendicectomia per le cosiddette appendiciti 'croniche' era di moda negli anni Venti e Trenta, così come le operazioni volte a fissare un organo addominale che, mediante l'esame ai raggi X risultava mal collocato (in una posizione cioè considerata anatomicamente scorretta) al fine di trattare malattie funzionali croniche. Analogamente, la tonsillectomia divenne un intervento di routine per i bambini che soffrivano di mal di gola. La gastrectomia totale e la pneumonectomia radicale con l'escissione dei linfonodi mediastinici erano raccomandate nei primi anni Cinquanta per tutti i tipi di cancro dello stomaco e del polmone, così come la mastectomia per il cancro della mammella un decennio più tardi. La possibilità di approcci terapeutici diversi richiedeva la valutazione comparativa dei risultati con appropriati metodi statistici.
Come molte altre professioni e attività, la chirurgia, dopo la Seconda guerra mondiale, è stata guidata sempre più dalla tecnologia, sia per quanto riguarda le diagnosi sia per ciò che concerne il trattamento; questo ha comportato un notevole aumento dei costi e la necessità di valutare i benefici delle spese effettuate.
La diagnostica
Il campo della diagnostica visiva si è ampliato grazie alla sonografia (ultrasuoni), sviluppata clinicamente in Svezia e negli Stati Uniti a partire dal 1955 e divenuta più precisa con l'introduzione, in Gran Bretagna nel 1972, della tomografia computerizzata e, un decennio più tardi, della risonanza magnetica nucleare, entrambe utili soprattutto in campo neurochirurgico. Tra i metodi diagnostici più recenti va segnalata la tomografia a emissione di positroni. La medicina nucleare che, mediante l'impiego di isotopi radioattivi con un breve periodo di dimezzamento, determina quantitativamente gli ormoni e i loro metaboliti in laboratorio, nonché la localizzazione clinica dei tumori e delle metastasi per mezzo della scintigrafia, è divenuta sempre più importante per la valutazione funzionale degli organi endocrini, dei polmoni e dei reni. Diverse procedure di cateterismo hanno reso possibile la misurazione della funzionalità cardiaca ed epatica e si sono rivelate utili anche in campo terapeutico per la dilatazione meccanica o la somministrazione locale di farmaci. La neurofisiologia clinica, infine, ha elaborato molti approcci diagnostici alla valutazione della funzione del cervello e dei nervi e anche degli organi sensoriali.
Le tecniche chirurgiche
La pratica operatoria ha subito un grande cambiamento soprattutto a causa dell'utilizzazione di strumenti e materiali nuovi. Come nel XIX sec., tecniche di sutura inedite hanno aperto nuovi spazi di intervento, dopo aver attraversato una nuova fase sperimentale a partire dagli anni Cinquanta. La sutura mediante punti metallici, sviluppata in Unione Sovietica, ha svolto un ruolo tutt'altro che irrilevante nel rendere possibile la resezione profonda del retto attraverso l'addome, una procedura chirurgica che consente di estirpare il cancro senza ledere la funzionalità dello sfintere anale, vale a dire la continenza fecale.
Grazie all'introduzione degli anticoagulanti, anche la sutura vascolare è seguita da meno complicazioni. Le nuove possibilità nel campo dell'anastomosi vascolare hanno, a loro volta, incoraggiato l'elaborazione di metodi diagnostici più precisi per quanto riguarda le malattie congenite e acquisite del cuore e lo sviluppo delle operazioni a cuore aperto e dei trapianti. Le tecniche microchirurgiche hanno svolto un ruolo di primo piano in questo processo di specializzazione: esse infatti, da un lato, hanno permesso di distruggere e asportare con maggiore precisione i tessuti (per es., mediante l'elettro- o la criocoagulazione oppure l'impiego del laser) e, dall'altro, hanno reso possibile la correzione delle malformazioni, le ricostruzioni, gli impianti e i trapianti, operazioni tipiche di questo periodo caratterizzato dall'emergere della 'chirurgia sostitutiva'.
Queste procedure sostitutive sono state applicate sempre più frequentemente a partire dagli anni Sessanta, soprattutto nel campo della chirurgia plastica, oftalmica, cardiotoracica e dei trapianti, del sistema nervoso, e negli interventi sull'apparato urogenitale e sull'orecchio, portando alla formazione di branche superspecializzate a cui oggi sono dedicate società, riviste e cattedre universitarie. La chirurgia estetica è stata dotata di solide basi ed è molto popolare, per quanto criticata negli ambienti accademici.
Nel settore tradizionale della chirurgia oncologica, le procedure ultraradicali sono state perlopiù abbandonate e solo in alcuni casi gli interventi radicali costituiscono l'unico trattamento possibile. In quest'area gli interventi chirurgici sono integrati ‒ e non posti in discussione ‒ dalla radio- e/o chemioterapia (tanto che si parla di 'radiochirurgia' e di 'chemiochirurgia'), dalle cure ormonali, dal sostegno psicologico e sociale e dalla riabilitazione, circostanza che riflette l'approccio interdisciplinare alla malattia emerso verso la fine del XX secolo. In altri ambiti, come, per esempio, quello dell'ulcera gastrointestinale o dei disordini endocrini, in cui i disturbi possono essere ragionevolmente considerati da un punto di vista non solo meramente locale, ma anche metabolico, a partire dagli anni Sessanta la chirurgia tradizionale è stata sempre più frequentemente sostituita o integrata da altre forme di trattamento.
Negli anni Sessanta è stata sviluppata una nuova generazione di endoscopi in fibra di vetro flessibile usati non soltanto nella diagnostica ‒ dove hanno facilitato l'esecuzione delle biopsie ‒ ma ben presto anche in campo terapeutico. Gli interventi tradizionali sull'addome, come, per esempio, quello per i calcoli dei dotti biliari, le appedicectomie e le erniotomie, sono stati ben presto eseguiti con il laparoscopio; la colecistectomia e l'isterectomia laparoscopiche si sono rapidamente diffuse in tutto il mondo e anche le ulcere gastrointestinali perforate possono essere trattate con questa tecnica. In tal modo, la chirurgia addominale, tanto importante nel processo di trasformazione da arte a disciplina scientifica subito dalla chirurgia nel XIX sec., è sul punto di dare inizio alla nuova era della chirurgia videomediata.
Grazie ai sofisticati strumenti oggi a diaposizione, la durata delle degenze è diminuita passando da una media di tre settimane nel 1910 a meno di dieci giorni nel 1990, e tenderà a diminuire ulteriormente con l'incremento della chirurgia ambulatoriale. Secondo alcune stime, il numero di operazioni per posti letto aumenterà in modo considerevole, coinvolgendo molti professionisti. Il numero dei chirurghi per posti letto si è sestuplicato e quello degli infermieri ha registrato un aumento ancora più rilevante. Inoltre, questi dati non tengono conto degli anestesisti e del personale che opera nei reparti di terapia intensiva.
Terapia intensiva
Il processo di differenziazione dell'anestesiologia è stato perfezionato al fine di fornire una procedura specifica per i singoli pazienti nei principali tipi di intervento; è divenuto così possibile correggere le malformazioni cardiache dei neonati ricorrendo alla circolazione extracorporea, e sostituire totalmente l'anca di pazienti diabetici che hanno compiuto novant'anni. In questi due tipi di interventi, il rischio di trombosi ed embolia è nettamente diminuito a partire dai primi anni Settanta grazie alla prescrizione profilattica di piccole dosi di anticoagulanti, come, per esempio, l'eparina.
La possibilità di controllare, ristabilire e conservare le funzioni cardiache, respiratorie e renali, nonché l'equilibrio dei liquidi e degli elettroliti con l'impiego di complesse tecnologie e dell'alimentazione con fleboclisi ha esteso i confini della medicina nel suo insieme. L'anestesiologia, particolarmente interessata da questo processo, a poco a poco si è evoluta nella medicina di rianimazione e intensiva, campi che naturalmente si sovrappongono alla chirurgia operatoria. In questo modo le unità di terapia intensiva, a partire dagli anni Sessanta sempre più spesso installate negli ospedali, sono frequentemente dirette da squadre interdisciplinari.
La valutazione chirurgica
Il successo delle operazioni prescritte e progettate in maniera razionale era abitualmente indicato in termini di tasso di complicazioni (peri)operatorie e/o di mortalità; si pensava che i cambiamenti tecnici avrebbero determinato una riduzione di entrambi. A partire dal XIX sec., questi dati furono talvolta integrati da resoconti relativi allo stato del paziente nel periodo postospedaliero ottenuti su richiesta scritta dal paziente stesso, dal suo medico di famiglia o da un parente. Nel XX sec., con il diffondersi dei mezzi di comunicazione più rapidi, queste informazioni furono ottenute attraverso il riesame. Tale metodo era considerato abbastanza efficace anche se i risultati della sua applicazione non erano del tutto attendibili.
Benché si sia sempre rivelata di grande importanza per l'autoregolazione della chirurgia, così come per vincere la diffidenza degli altri medici e dei pazienti, questa valutazione unilaterale non consentiva di determinare il valore di una particolare procedura rispetto a un'altra. Lo svizzero de Quervain pubblicò la prima analisi retrospettiva e prospettica dei risultati a lungo termine, comparando i tassi di sopravvivenza di pazienti sottoposti a terapie operatorie e conservative del cancro della mammella negli stessi ospedali, con l'aiuto di un esperto di statistica. La metodologia della comparazione randomizzata prospettica fu reintrodotta in Inghilterra dopo centocinquant'anni di abbandono nel 1957 quando Hedley J.B. Atkins e i suoi collaboratori vi fecero ricorso per comparare l'efficacia dell'ipofisectomia e dell'adrenalectomia in una serie di casi di cancro avanzato della mammella. Secondo questo nuovo criterio, non tutti i 'perfezionamenti' tecnici si erano rivelati veramente tali. La comparazione di due procedure chirurgiche solleva, tuttavia, specifici problemi metodologici ed etici dal momento che il (doppio) approccio strumentale ovviamente non è adottabile e che i chirurghi tendono ad avere le loro personali preferenze tecniche. Il gruppo di lavoro per i trial in chirurgia, creato all'interno della Deutsche Chirurgische Gesellschaft nel 1980, è stato a questo riguardo molto importante.
La valutazione terapeutica è solo uno dei tanti esempi che illustrano fino a che punto gli standard metodologici dell'originalità e dell'eticità delle relazioni scientifiche siano aumentati a partire dagli anni Cinquanta. Essi richiedono la considerazione e l'integrazione di uno spettro di informazioni ‒ ottenute grazie a diverse discipline cliniche e teoriche praticate nel proprio paese e all'estero ‒ molto più ampio di quello dei precedenti periodi in cui ci si basava su rapporti statistici unilaterali. A prescindere dall'importanza attribuita alla valutazione come forma di controllo della qualità, questo processo ha sollevato più ampie questioni concernenti l'efficacia della chirurgia e le conseguenze involontariamente prodotte in alcuni pazienti. Oggi è divenuto evidente (ed era ora, secondo alcuni) che la chirurgia non può essere considerata (anche dal punto di vista storico) una disciplina isolata e autonoma.
Per molti versi l'inizio del XX sec. ha segnato una svolta: i grandi chirurghi nati intorno al 1840, che avevano conosciuto la vecchia e sporca chirurgia (quella che aveva portato al diffondersi dei casi di cancrena ospedaliera) e che avevano contribuito alla sua conversione all'asepsi o comunque l'avevano accettata, erano sul punto di ritirarsi dalla vita attiva. I principî che regolavano la lotta ai germi erano, tuttavia, scontati per la generazione dei loro successori che consideravano le operazioni ordinarie con uno sguardo critico, alla luce delle nuove alternative terapeutiche. Nel corso di questa fase di gloria e di transizione, una nuova generazione di chirurghi si dimostrò pronta ad affrontare nuovi problemi con metodi nuovi. Se l'ultimo quarto del XIX sec. era stato caratterizzato dalla resezione quale metodo di cura di tumori, focolai infiammatori, ferite e anomalie, basato sull'anatomia (patologica), nel periodo seguente di transizione fu attribuita una grande importanza anche alla fisiopatologia e alla farmacologia chirurgiche e ‒ a distanza di un secolo ‒ furono di nuovo sviluppate procedure, perlopiù meccaniche, destinate alla correzione di funzioni deteriorate o a porre rimedio all'incombente perdita di funzioni. I progressi e le sfide della chirurgia operatoria riproposero e misero nuovamente in evidenza la necessità di intraprendere ricerche interdisciplinari di laboratorio e cliniche. La Prima guerra mondiale in parte ostacolò e in parte incoraggiò questo programma: il dovere di contribuire allo sforzo bellico spinse, forse in misura maggiore di prima, molti scienziati medici a trovare applicazioni pratiche per le loro ricerche. L'influenza esercitata dai metodi parachirurgici sulla chirurgia divenne più profonda, e le conoscenze chirurgiche e parachirurgiche seguitarono a progredire in combinazione tra loro a un ritmo sempre più veloce a partire dagli anni Cinquanta, in particolare per quanto riguarda la tecnologia. Negli anni Novanta, questo processo ha portato ancora una volta in molti campi a una netta presa di distanza dalla chirurgia del XIX secolo.
Nel corso del periodo che va fino alla Prima guerra mondiale, la nozione di operabilità è stata legata soprattutto all'esperienza, all'intuizione, all'ingegnosità e allo spettro delle competenze tecniche dei chirurghi. Benché ciò sia ancora vero per le emergenze, nel campo della chirurgia elettiva, dove la precisione diagnostica, le tecniche operatorie, il trattamento preoperatorio e le terapie postoperatorie e intensive sono giunti a influenzare la prescrizione e il trattamento, la situazione attuale è molto diversa. A seconda dell'intervento pianificato, si tiene conto di specifici parametri clinici, fisici e di laboratorio al fine di valutare i rischi che a volte dipendono anche dalla preparazione psicosociale. Se il concetto di 'operabilità' nei periodi di crescita del primo e dell'ultimo terzo del XIX sec. era determinato soprattutto da quello di 'curabilità' e, all'inizio del XX sec., dalle nozioni di rispetto e riparazione della funzione, la seconda metà di quest'ultimo secolo è stata caratterizzata da tre tipi di sostituzioni. Questo periodo, infatti, si distingue, in primo luogo, per la possibilità, ormai dotata di solide basi, di procedere alla sostituzione degli organi con l'impiego di nuove tecnologie; secondariamente, per la sostituzione della chirurgia con altre forme di trattamento e, in terzo luogo, per l'applicazione di tecniche radicalmente nuove. A questi fenomeni di sostituzione sono legate le diagnosi tecniche preoperatorie e le valutazioni postoperatorie effettuate attraverso esami controllati miranti alla salvaguardia della qualità della vita dei pazienti.
Occorre considerare, infine, il cambiamento subito dalle patologie 'chirurgiche' nel corso del secolo scorso. Verso il 1910, le erniotomie e le appendicectomie, che costituivano in media il 15% di tutte le operazioni, erano gli interventi più frequenti. Insieme ad altri interventi chirurgici gastrointestinali, esse rappresentavano il 40% circa degli interventi effettuati nella clinica universitaria di Berna, in Svizzera, dove lavorava Kocher, centro che copriva la quasi totalità degli interventi chirurgici, a eccezione di quelli concernenti gli occhi, le orecchie, il naso e la gola. Queste percentuali erano rimaste sostanzialmente immutate verso la metà degli anni Cinquanta, giustificando l'esistenza dei 'chirurghi generici' che possedevano un ampio spettro di conoscenze: essi, infatti, erano in grado di intervenire sugli ematomi subdurali, sui tumori dei polmoni, sulle malattie degli organi endocrini, dei visceri addominali e dei vasi, sul sistema osseo e sull'apparato urinario e facevano fronte ai casi di pronto intervento.
All'inizio degli anni Novanta del XX sec. le erniotomie e gli interventi chirurgici gastrointestinali costituivano solo il 10% degli interventi effettuati nello stesso centro chirurgico universitario, mentre quelli sul sistema nervoso, molto rari all'inizio del secolo, oggi hanno portato alla formazione di una branca autonoma, la neurochirurgia. Ciò vale anche per la chirurgia urogenitale, cardiaca, toracica e ortopedica. Il rapido declino della tubercolosi e di altre infezioni croniche nell'era degli antibiotici iniziata dopo la Seconda guerra mondiale è un altro esempio del cambiamento del campo d'azione della patologia chirurgica: nel mondo occidentale solo in rari casi si fa ricorso alla resezione delle ossa e delle giunture e all'amputazione per curare le malattie infettive. Tuttavia, l'approccio operatorio alle ossa e alle giunture sviluppato un secolo fa si è rivelato di grande utilità nel campo degli impianti delle giunture artificiali per il trattamento delle fratture e delle artrosi, ancora considerati estremamente rischiosi negli anni Cinquanta e che oggi figurano tra gli interventi più frequenti a causa dell'aumento dell'età, della mobilità e della tendenza a praticare attività sportive da parte della popolazione.
Il primo pacemaker, costruito da Rune Elmquist, è stato impiantato in Svezia da Åke Senning nel 1959. Negli anni Novanta, lo spettro delle strutture artificiali si è ampliato fino a includere il cristallino dell'occhio, gli ossicini dell'orecchio medio, l'impianto della coclea, le protesi vascolari, le valvole cardiache e la pompa pneumatica per il pene; i trapianti di organi e di tessuti sono ormai di routine. In breve, molte operazioni oggi abitualmente eseguite non erano ancora state ideate nel 1900 e quelle allora più frequenti sono ‒ con un piccolo numero di eccezioni ‒ raramente effettuate ai nostri giorni.
Nel corso del XX sec., la figura del grande chirurgo, con accanto un'infermiera e un giovane assistente, molto comune nel 1900 e persino nel 1950, è stata sostituita da un'équipe chirurgica e, più recentemente, da gruppi interdisciplinari di professionisti, a volte coadiuvati da comitati etici. Le distinzioni classiche tra i settori tradizionali (accademici) che imponevano un particolare status medico e sociale ai chirurghi si sono progressivamente offuscate. La chirurgia è entrata ancora una volta in una fase di transizione.