La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Lo sviluppo della biochimica
Lo sviluppo della biochimica
Scienza interdisciplinare nata dall'interazione tra la biologia e la chimica, la biochimica si è sviluppata nel corso dell'Ottocento come la naturale evoluzione della chimica organica, finalizzata allo studio analitico e strutturale dei composti organici. Il suo statuto epistemologico è rimasto però alquanto incerto per quasi un secolo, a causa del perdurare delle idee vitalistiche che impedivano a monte l'affermazione di una concezione esclusivamente chimica dell'insieme dei processi vitali.
Sebbene il termine 'biochimica' risalga alla prima metà del XIX sec., essendo attestato nella lingua francese prima del 1838 e in quella tedesca nel 1858 (o forse già in precedenza), esso non si è imposto come l'unico per designare una disciplina ben definita. Nel corso dell'Ottocento, infatti, era affiancato da numerose altre espressioni, quali chimica fisiologica, chimica animale, chimica vegetale, chimica biologica, ma anche chimica medica, chimica anatomica, chimica patologica, zoochimica, microchimica e chimica microscopica. Tra queste, la locuzione 'chimica biologica' è rimasta a lungo in uso nel corso del XX secolo. La pluralità terminologica è indice di una certa instabilità epistemologica della disciplina. L'invenzione del termine 'biochimica', alcuni decenni dopo quella del termine 'biologia', rimanda tuttavia a una visione in qualche misura unitaria.
Notevoli difficoltà hanno ostacolato lo sviluppo della biochimica. È stato necessario più di un secolo di lavoro perché, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, si cominciasse a comprendere la struttura delle molecole principali della vita, gli acidi nucleici e le proteine, e quindi fossero descritti a grandi linee i meccanismi intrinseci della materia vivente. Ancora oggi la descrizione è tutt'altro che completa, come si evince dagli studi nell'ambito delle sequenze genomiche. Nel XIX sec. la chimica fisiologica e la chimica biologica erano ritenute le scienze dei processi vitali, ossia delle trasformazioni metaboliche che hanno luogo all'interno degli organismi; il loro principale oggetto di studio era rappresentato dalla respirazione e dalla nutrizione. Il modello della fermentazione era il più utilizzato e il più discusso, in quanto facilmente accessibile alla sperimentazione. Fu proprio a partire dallo studio della fermentazione che, grazie al lavoro di Louis Pasteur (1822-1895), nacque la microbiologia. La questione dei meccanismi ereditari rimaneva invece in larga misura inaccessibile alla chimica biologica, sebbene un fisiologo come Claude Bernard (1813-1878) si rendesse conto assai chiaramente della necessaria presenza di un piano prestabilito per le trasformazioni metaboliche.
Nell'Ottocento, la biochimica si è dunque essenzialmente costituita intorno a una questione specifica: il metabolismo intermedio; un modello sperimentale: la fermentazione; e determinati oggetti, ossia gli enzimi e le proteine, la cui singolare natura chimica è rimasta a lungo incerta. Nel 1833 Anselme Payen (1795-1871) e Jean-François Persoz (1805-1868) denominarono 'diastasi' un enzima di conversione dell'amido in zucchero, ottenuto dalla preparazione di un estratto di orzo germogliato. Nel 1838 il chimico svedese Jöns Jacob Berzelius (1779-1848), in una lettera indirizzata a Gerardus Johannes Mulder, propose il termine 'proteina' per designare le sostanze come l'albumina, sintetizzate dalle piante e utilizzate dagli animali. Le diastasi sono state poi assimilate alla classe delle proteine, un'assimilazione facilitata dal fatto che fin dall'inizio del secolo la fermentazione era stata associata all'azione di sostanze di quel tipo. Le attività diastasiche, o di degradazione, rimasero confinate alla fisiologia vegetale solo per breve tempo. Ben presto la fisiologia animale e umana e la microbiologia si rivelarono ricche di processi analoghi.
Le importanti ricerche riguardanti la fisiologia animale condotte da Bernard, quelle di microbiologia di Pasteur e gli studi dei chimici fisiologici tedeschi della seconda metà del XIX sec., sono il risultato dell'introduzione dei metodi chimici nei diversi campi della chimica biologica, per quanto fossero solamente metodi di identificazione tramite reattivi o tecniche di analisi elementare. Rimaneva aperto il problema di stabilire la composizione delle sostanze a partire dalle loro trasformazioni metaboliche, problema che riguardava anche il ruolo che ‒ nella chimica fisiologica ‒ dovevano rispettivamente assumere la sperimentazione fisiologica e la chimica. Le scoperte di Bernard riguardanti la nutrizione (l'azione del succo pancreatico mediante la 'pancreatina', la funzione glicogenica del fegato, la degradazione del glicogeno da parte di una diastasi) derivarono principalmente dall'applicazione di metodi fisiologici. Il biochimico Marcel Florkin (1900-1979) ha tuttavia riconosciuto nell'esperimento del 'fegato lavato', che ha portato alla scoperta del glicogeno, la procedura 'degli organi isolati e perfusi', caratteristica della biochimica successiva. La scoperta di Bernard sollevava però una questione che sarebbe rimasta per lungo tempo insoluta: la sintesi o 'creazione vitale' del glicogeno. Il metabolismo, con i suoi processi di degradazione e di sintesi, poneva dunque diversi problemi, la cui soluzione era più o meno difficoltosa.
Per l'intero corso del XIX sec., il crescente affermarsi della tendenza alla riduzione totale dei fenomeni vitali ai processi chimico-fisici si è opposto alla credenza vitalistica secondo la quale una 'forza vitale', generalmente associata a tutte le attività dell'organismo, era responsabile della sintesi dei prodotti della vita. Persino uno stesso studioso aveva opinioni contrastanti. Bernard aveva più volte dichiarato che lo scopo della scienza era la riduzione dei fenomeni vitali alle loro determinanti chimico-fisiche, ma trovò un ostacolo a questa sua convinzione nell'enigma della 'creazione vitale' delle sostanze organiche (come la cellula vivente e gli 'elementi anatomici o istologici'), a suo parere al di fuori del dominio della chimica. Al contrario, l'opera di Marcelin Berthelot (1827-1907), La chimie organique fondée sur la synthèse (1860), era il manifesto di una concezione interamente chimica dei fenomeni vitali, poiché l'autore intendeva "bandire la vita dalla chimica organica". Alcuni medici tedeschi, come Hermann von Helmholtz (1821-1894), erano fautori di un riduzionismo fisicalista, nell'ambito di un dibattito che accompagnò lo sviluppo della chimica fisiologica, disciplina particolarmente ben rappresentata nella Germania della seconda metà del secolo. I termini 'enzima' ed 'enzimologia' furono coniati rispettivamente da Wilhelm Friedrich Kühne, nel 1878, e da Adolf Mayer, nel 1882.
Il passaggio terminologico da chimica organica a biochimica non è stato affatto il segno di un'unificazione delle diverse branche della scienza, ma ha piuttosto segnato l'avvio di un settore di ricerca al cui interno si sono fronteggiate diverse filosofie. La natura della fermentazione è stata così oggetto di una lunghissima diatriba proseguita sino alla fine del XIX secolo. Il problema era quello di determinare le condizioni e la natura delle fermentazioni, in particolare della fermentazione alcolica, che presentava i maggiori ostacoli dal punto di vista pratico; era infatti la sola per la quale non si fosse ancora riusciti a dimostrare l'esistenza di un enzima. La controversia più vivace fu quella tra Pasteur e i suoi colleghi Berthelot e Justus von Liebig (1803-1873). Pasteur sosteneva l'ipotesi che la fermentazione fosse un processo di nutrizione (utilizzazione-degradazione) inseparabile dalla vita cellulare. I chimici organici Berthelot e Liebig erano invece di parere diverso e insistevano sulla natura chimica del processo. Il confronto coinvolse diverse teorie: (a) quella puramente chimica di Berthelot, per il quale la fermentazione era una degradazione comparabile all'azione di un acido; (b) quella catalitica di Berzelius, che nel 1836 aveva coniato il termine 'catalisi'; (c) quella di Liebig della propagazione del movimento di decomposizione a partire da proteine anch'esse in decomposizione; (d) quella dell'azione dei fermenti solubili o diastasi; (e) infine, la teoria di Pasteur, che riteneva la fermentazione un elemento imprescindibile dell'attività metabolica del microorganismo nella sua interezza. È sorprendente che per il chimico Pasteur (colui che alla biochimica ha dato un contributo fondamentale attraverso la nozione della 'vita senza aria' o fermentazione anaerobica, autore nel 1848 di una scoperta fondamentale per la chimica riguardante la dissimmetria molecolare dei prodotti organici naturali) anche la parte degradativa del metabolismo, per esempio la fermentazione alcolica nel corso della quale lo zucchero viene trasformato in alcol, rimanesse necessariamente legata all'integrità del fermento vivente. Retrospettivamente, è interessante notare come ciascuna delle diverse teorie contenesse una parte di verità: la fermentazione è un'attività chimica metabolica catalizzata da enzimi che sono proteine; è inoltre un'attività fisiologica che può essere riprodotta in vitro. Nessuno dei protagonisti della controversia riuscì però ad arrivare a tale visione d'insieme.
In quanto concezione totalmente chimica dei fenomeni vitali, la biochimica ha trovato una sua unità sul finire del XIX secolo. Ciò è stato reso possibile dalla dimostrazione che l'attività fermentativa ‒ come appena accennato ‒ può avere luogo in vitro e che la degradazione e la sintesi non sono altro che le due facce opposte di uno stesso fenomeno chimico-fisico. Nel 1896-1897 gli esperimenti di fermentazione acellulare condotti dai fratelli Hans ed Eduard Buchner hanno posto fine a controversie che avevano gradualmente perduto la loro vitalità: gli stessi discepoli di Pasteur, come Pierre-Émile Duclaux, non erano necessariamente dello stesso avviso del maestro in merito alla chimica biologica. Grazie agli esperimenti di fermentazione acellulare, l'ultima delle fermentazioni ancora in attesa di una spiegazione enzimatica venne ricondotta all'azione di una 'zimasi', termine che era già stato utilizzato da Pierre-Jacques-Antoine Béchamp nel 1864 per designare un fermento di inversione dello zucchero. È opportuno accennare al contesto in cui i fratelli Buchner eseguirono i loro esperimenti. Hans Buchner (1850-1902) era medico e microbiologo, si occupava di immunità e riteneva che le proteine che ne erano responsabili (le antitossine) non fossero proteine di secrezione ma intracellulari. A partire dal 1893, insieme a Eduard (1860-1917), che era un chimico, iniziò a condurre alcuni esperimenti di triturazione di cellule di lievito. Il loro scopo iniziale non era dunque quello di risolvere l'annoso problema della natura della fermentazione alcolica, ma di offrire il loro contributo a una teoria biochimica molecolare dei fattori immunitari, delle tossine e delle antitossine batteriche. Erano entrambi allievi di Karl Wilhelm von Nägeli (1817-1891), autore di una Théorie de la fermentation, contribution à la physiologie moléculaire (1879), che si proponeva di spiegare la fermentazione per mezzo della teoria meccanica del calore e dei moti di oscillazione degli atomi costituitivi delle sostanze ad attività catalitica; una concezione che può essere considerata una lontana antesignana delle attuali nozioni sulla dinamica interna delle proteine.
La nascente immunologia e la biochimica in via di consolidamento si trovavano ad affrontare problemi analoghi. Gli esperimenti di triturazione del lievito erano stati effettuati in preparazione di sperimentazioni da condurre su batteri patogeni; si trattava di una procedura largamente utilizzata come metodo di estrazione. Nel caso specifico, l'esperimento che dimostrò la capacità di una soluzione proteica acellulare di lievito di provocare la fermentazione alcolica era il risultato di una procedura tecnica consistente nell'aggiungere glucosio concentrato per evitare la decomposizione delle proteine in soluzione.
La soluzione così trattata fermentava producendo alcol. L'esperimento del 1896 non aveva dunque alcun rapporto diretto con lo studio della fermentazione: non era che una conseguenza secondaria, involontaria e di natura tecnica di ricerche che avevano scopi del tutto diversi. Il suo esatto significato fu molto discusso, principalmente per la difficoltà che presentava la reazione chimica di degradazione dello zucchero in alcol, apparentemente non riconducibile ad alcun enzima conosciuto. Tuttavia, e malgrado qualche controversia, l'idea che la fermentazione alcolica andasse attribuita all'azione di una 'zimasi' ha finito per imporsi. Duclaux giudicò l'esperimento dei Buchner un evento di notevole importanza nella storia della scienza. Esso supportò le critiche rivolte alle teorie protoplasmatiche e neovitalistiche, secondo le quali le reazioni biochimiche potevano avvenire unicamente nel protoplasma delle cellule viventi e, per via della loro complessità, non potevano essere effettuate da singole molecole enzimatiche. In opposizione alle teorie protoplasmatiche, la sostituzione della cellula con una provetta era dunque confermata e acquisita come modello sperimentale biochimico.
Lo studio della fermentazione acellulare è stato completato dalla scoperta nel 1898 della reversibilità d'azione della maltasi a opera di Arthur Croft Hill (1863-1947). La maltasi rappresenta il primo caso conosciuto di reversibilità delle reazioni enzimatiche, in grado di avere luogo, a seconda delle concentrazioni delle sostanze su cui agiscono, sia per degradazione sia per sintesi. Tale scoperta ha segnato l'introduzione nella biochimica di nuove nozioni della chimica fisica, tra le quali il concetto di 'reazione di equilibrio'. Nel 1901 la 'teoria enzimatica del metabolismo' ha così potuto essere enunciata da Franz Hofmeister (1850-1922), segnando la data di unificazione della biochimica. Secondo Hofmeister, tutte le reazioni del metabolismo, sia di degradazione sia di sintesi, erano dovute all'attività di un enzima dotato di un certo grado di specificità. La prospettiva biochimica, in particolare il punto di vista molecolare introdotto dai chimici e proposto dalla 'fisiologia molecolare' di Nägeli, si è allora imposta nella scienza.
Le controversie che avevano infiammato il XIX sec. erano definitivamente chiuse. Nello stesso periodo, il chimico Paul Ehrlich (1854-1915) propose sia una teoria molecolare dei fenomeni immunitari, basata sull'idea di un complesso chimico indissociabile (non reversibile) formato da tossina e antitossina, sia l'ipotesi, enunciata nel 1897, delle 'catene laterali' presenti sulla superficie della cellula, suscettibili di essere fabbricate in eccesso e liberate nel sangue sotto forma di antitossine.
I chimici, muniti dello strumento assai potente della dissimmetria molecolare e di altri strumenti d'analisi, cominciarono così a penetrare più a fondo nella struttura molecolare delle sostanze organiche. Inoltre, la chimica biologica intraprese, sul finire dell'Ottocento, una svolta strutturale. Tra il 1894 e il 1898 il chimico organico Hermann Emil Fischer (1852-1919) svolse importanti ricerche sulla struttura stereochimica degli zuccheri, a partire dalla teoria del carbonio asimmetrico di Jacobus Henricus van't Hoff e di Joseph Le Bel. Questi studi permisero a Fischer di spiegare meglio sia i fenomeni di specificità stereochimica dell'azione enzimatica sia la concezione molecolare dei processi fermentativi. A tale proposito, Pasteur aveva attribuito una grande importanza alla selettività del lievito in rapporto all'asimmetria dello zucchero, osservando che non tutti gli zuccheri erano ugualmente in grado di fermentare. La chimica degli zuccheri dell'epoca avrebbe difficilmente potuto svilupparsi su basi diverse da ipotesi strutturali fondate essenzialmente su dati indiretti provenienti dalla chimica delle sostituzioni o dalla enzimologia.
L'importante lavoro di Fischer sugli zuccheri, la loro stereochimica e i loro diversi isomeri, rappresenta una tappa decisiva. La sua descrizione degli zuccheri era interamente fondata sul principio dell'asimmetria, che gli consentiva per esempio di dedurre la costituzione dei sedici aldoesosi possibili. Fischer intraprese allora lo studio delle reazioni del lievito a questi diversi esosi; da ciò dedusse che gli agenti chimici responsabili dell'azione fermentativa della cellula di lievito possedevano una configurazione analoga a quella degli zuccheri sui quali potevano agire. La comparazione condotta da Fischer permise di identificare con precisione i fattori stereochimici che determinano la selettività della fermentazione. Egli inoltre sintetizzò alcuni derivati metilati degli zuccheri, dei quali studiò la reazione agli enzimi. Ne è derivato il concetto di specificità stereochimica della reazione. Secondo Fischer, che coniò una metafora divenuta celebre, l'enzima e il glucoside, per reagire, dovevano adattarsi l'uno all'altro come una chiave a una serratura. La dimostrazione della specificità stereochimica della fermentazione era inoltre in accordo con la nuova nozione di fermentazione acellulare proposta da Eduard Buchner.
La specificità stereochimica del substrato dell'enzima si estendeva alla stereochimica dell'enzima stesso; gli enzimi erano molto probabilmente proteine o loro derivati. Fischer giunse alla conclusione che le proteine stesse erano composti dotati di dissimmetria molecolare. Nel medesimo periodo furono osservati altri casi di specificità legata alla stereochimica del substrato, per esempio nel corso delle ricerche condotte dal chimico Gabriel Bertrand, presso l'Institut Pasteur di Parigi, sulla specificità d'azione della laccasi, un enzima isolato dal lattice dell'albero della lacca. Il concetto di specificità molecolare illustrato dai lavori di Fischer trovava inoltre, come abbiamo visto, una corrispondenza con gli studi immunologici di Ehrlich e sarebbe ben presto stato applicato nella cinetica enzimatica. All'inizio del XX sec., nei lavori di Victor Henri, la comprensione dei meccanismi d'azione degli enzimi si è infatti arricchita ed è stata resa più precisa grazie alla nozione di un complesso reversibile enzima-substrato che, proposta nel 1903, ha sancito la nascita della cinetica enzimatica, seguita nel 1913 dall'equazione sviluppata da Leonor Michaelis e Maud Menten sulla base delle teorie di Henri.
La struttura delle proteine
Oltre a quella dei lipidi, Fischer aveva esaminato anche la struttura delle proteine. La particolare complessità dello studio delle proteine era dovuta all'elevato peso molecolare, alla difficoltà di determinarne con certezza l'analisi elementare e al fatto che queste molecole, in particolare gli enzimi, erano difficili da cristallizzare con un sufficiente grado di purezza. È dunque stata una proteina più facilmente cristallizzabile, l'emoglobina, a rappresentare per la biochimica ‒ lungo tutta la sua storia, dagli anni Sessanta dell'Ottocento in poi ‒ una molecola di importanza primaria.
Denominata 'ematoglobulina' o 'emoglobina' da Felix Hoppe-Seyler nel 1864, la sostanza che colora il sangue è stata poi riconosciuta responsabile del trasporto dell'ossigeno al suo interno. La successiva cristallizzazione di altri enzimi ‒ l'ureasi da parte di James Sumner nel 1926, la pepsina nel 1930 e la tripsina nel 1932 a opera di John H. Northrop ‒ non ha intaccato in alcun modo la posizione privilegiata dell'emoglobina. Nel corso degli anni Sessanta del Novecento la comprensione della sua struttura e la spiegazione molecolare delle sue proprietà funzionali, che esprimono leggi particolari, hanno rappresentato eventi fondamentali per la storia della biochimica, grazie soprattutto agli sviluppi dovuti a Max Perutz e a John C. Kendrew. Quest'ultimo ha chiarito la struttura di una proteina affine all'emoglobina, la mioglobina. Il lungo intervallo temporale sottolinea le particolari difficoltà affrontate dalla chimica strutturale delle molecole biologiche.
Isolate e denominate dalla chimica organica del XIX sec., le proteine sembravano allora racchiudere l'essenza della vita. La loro stessa qualificazione le designava come le sostanze fondamentali dell'organizzazione della materia vivente; per via della loro labilità, della loro instabilità, del loro carattere apparentemente informe o straordinariamente deformabile, esse sembravano sintetizzare il mistero della vita, della sua lenta e inarrestabile metamorfosi. In esse erano ravvisabili i segni di un'organizzazione vitale alla quale la chimica non poteva ancora condurre. Alla fine dell'Ottocento numerosi studiosi di chimica fisiologica ritenevano che le proteine, per le loro specifiche proprietà, fossero le sole molecole della vita, da allora in avanti considerata il risultato non più dell'interazione tra diverse specie di molecole, secondo una concezione decentralizzata, ma delle proprietà singolari di un tipo singolare di molecole. In questa concezione 'neovitalistica' il concetto di 'proteina vivente' sembrava essenziale. L'idea di un'importanza particolare delle proteine per i processi vitali è sopravvissuta, in diverse forme, molto a lungo. La loro grande variabilità interna e le loro proprietà catalitiche le hanno fatte anche ritenere spesso le molecole dell'eredità (almeno fino alla definizione del ruolo del DNA), ipotizzando che la replicazione del materiale genetico fosse assimilabile a un'attività catalitica.
Il concetto di proteina vivente sembrava tuttavia poco esplicativo. Inoltre, i fenomeni di specificità dell'azione enzimatica precedentemente evidenziati apparivano suscettibili di una spiegazione di tipo strutturale. Nell'ambito di questa linea di ricerca, i chimici non potevano affrontare con successo il problema della struttura delle proteine avvalendosi soltanto del metodo analitico. Esso era infatti relativamente impotente di fronte a molecole tanto complesse, senza il supporto del metodo sintetico e dello studio dei diversi legami possibili tra gli amminoacidi che costituiscono le proteine. L'ipotesi di partenza di Fischer e di Hofmeister era in effetti che le proteine fossero polimeri di amminoacidi. Nel 1902 i due studiosi proposero, indipendentemente l'uno dall'altro, l'idea che il legame di polimerizzazione riunisse il gruppo amminico e il gruppo acido degli amminoacidi (legame −CH2−NH−CO−, detto legame ammidico o peptidico). Fischer riuscì nello stesso anno a sintetizzare un polipeptide formato da due amminoacidi identici, due glicine. Egli inoltre offrì un contributo notevole all'identificazione di nuovi amminoacidi, alla conoscenza della loro struttura, della loro sintesi, dei loro polimeri artificiali, nonché dei prodotti della degradazione delle proteine. Il risultato principale fu la dimostrazione che le proteine erano costituite esclusivamente da amminoacidi, pur potendo possedere anche gruppi prostetici di metalli, come il gruppo eme, o ematina, che trasporta il ferro, differenziati dalla parte propriamente proteica, la globulina o globina. Questo dualismo fu scoperto nel 1863 nell'emoglobina da George G. Stokes grazie a metodi spettroscopici e ripreso da Hoppe-Seyler l'anno seguente. L'idea successiva, secondo cui la variabilità delle proteine era riconducibile alla lunghezza e alla diversità delle sequenze di amminoacidi, è un ulteriore contributo fondamentale di Fischer, il quale ipotizzò che nelle proteine dovessero essere presenti anche legami chimici diversi da quello peptidico, ipotesi che in seguito è stata ampiamente confermata.
All'inizio del XX sec. il contributo della chimica organica alla comprensione della struttura delle proteine appariva dunque retrospettivamente decisivo. Tuttavia una disciplina chimica più recente, la chimica fisica, stava per entrare in scena con un'altra concezione della struttura e dell'attività delle proteine, considerate aggregati colloidali, attivi grazie alle loro proprietà di superficie. La chimica colloidale era fondata sull'ipotesi di un particolare meccanismo fisico di aggregazione delle molecole, che produceva fenomeni di contatto apparentemente non governati dalle leggi stechiometriche della chimica. La vita poteva dunque apparire come la proprietà di un particolare stato di organizzazione della materia, lo stato colloidale. Secondo Jacques Loeb (1859-1924), la vita era legata alla persistenza di determinate soluzioni colloidali e gli agenti che facevano passare i colloidi allo stato di gel le ponevano fine. Il funzionamento cellulare appariva legato alla natura di soluzione colloidale del protoplasma.
La nozione di uno stato colloidale della materia ha due origini sperimentali: il fenomeno della dialisi studiato da Thomas Graham (1805-1869), che ha mostrato come in alcune soluzioni esistano particelle non dializzabili e debolmente diffusibili, e il fenomeno ottico osservato da John Tyndall (1820-1893), che ha dimostrato l'eterogeneità di fase delle soluzioni colloidali. Graham propose di chiamare 'colloidi' quelle sostanze dotate di scarsa diffusibilità che, una volta idratate, assumevano una consistenza gelatinosa e anziché cristallizzarsi producevano precipitati amorfi. Tali sostanze erano opposte ai cristalloidi, che formavano vere e proprie soluzioni. Egli definì inoltre lo stato colloidale come uno stato dinamico della materia dotato di energia, che poteva essere considerato la fonte primaria della vitalità. Tuttavia su quella che Marcel Florkin ha chiamato 'l'età buia della biocolloidologia' non si può dare un giudizio affrettato. Certamente l'identificazione dei fenomeni vitali con un particolare stato fisico non era che un'altra forma assunta dalla concezione centralista, se non addirittura sostanzialista, della vita, nel senso in cui il filosofo Gaston Bachelard (1884-1962) parlava di ostacolo epistemologico sostanzialista. Occorre anche sottolineare che la distinzione dei due modi di organizzazione della materia, colloidale e cristalloide, attendeva in realtà una nuova analisi delle forze inter- e intramolecolari, che ne avrebbe eliminato la necessità sul piano teorico. Sarebbe tuttavia difficile sopravvalutare il ruolo giocato in biologia dai fenomeni di contatto, di superficie, nonché da quelli di permeabilità. L'evoluzione dei differenti domini della fisica giustifica infine l'interesse particolare destato da determinati fenomeni, e ciò implica un giudizio retrospettivo sulla biochimica colloidale non del tutto negativo.
Altri fenomeni, oltre quelli di contatto, erano in procinto di essere scoperti grazie ai considerevoli passi avanti compiuti dalla chimica in seguito alla fondazione della meccanica quantistica. Largamente sviluppata dal chimico Linus C. Pauling (1901-1994), l'applicazione della meccanica quantistica ‒ nella versione ondulatoria di Erwin Schrödinger (1887-1961) ‒ al problema dei diversi tipi di legame chimico ha rappresentato un momento decisivo. Ne sono derivate la nascita della stereochimica dei diversi tipi di legame (il legame covalente ma anche, e soprattutto, il legame idrogeno, su cui Pauling ha molto insistito, nonché altri tipi di interazione tra atomi o forze molecolari), la conoscenza delle distanze tra gli atomi e degli angoli di legame e la costruzione in chimica organica strutturale dei modelli molecolari per le strutture di ordine più elevato (come la famosa α-elica di Pauling), che avrebbero contribuito all'interpretazione dei diagrammi di diffrazione ai raggi X. Nel contempo, la nascita nel XX sec. di una disciplina di interfaccia, la chimica fisica biologica (o, nella terminologia americana, la chimica biofisica), ha svolto un ruolo particolare, insieme discreto e importantissimo, per la determinazione dei rapporti struttura/funzione delle molecole biologiche, degli amminoacidi, delle proteine e degli acidi nucleici. Sono intervenute a questo punto la chimica fisica (quella delle reazioni di equilibrio, legata alla termodinamica e alla meccanica statistica, in misura maggiore rispetto a quella delle soluzioni); l'applicazione dei diversi metodi fisici, spettroscopici e cristallografici (diffrazione dei raggi X, diffrazione degli elettroni); la messa a punto di altre tecniche, come l'elettroforesi di Arne Tiselius, la cromatografia di Archer J.P. Martin e Richard L.M. Synge nel 1941, e l'ultracentrifugazione di Theodor Svedberg nel 1937. La biochimica raggiungeva quindi le dimensioni molecolari, ma negli anni Trenta i metodi provenienti dalla meccanica quantistica davano accesso solamente a strutture semplici, come il benzene e i suoi derivati e qualche amminoacido. Al contrario, i metodi della chimica fisica (metodi elettrometrici e idrodinamici) riuscivano a stabilire le funzioni superficiali proprie di molecole complesse quali le proteine e il loro comportamento in soluzione. In questo ambito la chimica fisica americana si è distinta particolarmente, prima e dopo la Seconda guerra mondiale, grazie a scienziati quali Edwin J. Cohn, John T. Edsall e Jeffries Wyman, che hanno determinato le costanti dielettriche degli amminoacidi e la loro solubilità, studiando gli spettri Raman e applicando la teoria di Peter J.W. Debye ed Erich Hückel alle attrazioni interioniche. Le proteine rappresentavano un campo d'applicazione privilegiato per questi metodi. È stato grazie a ragionamenti di natura termodinamica che Wyman nel 1951 ha potuto avanzare l'ipotesi che l'ossigenazione dell'emoglobina (allo studio della quale aveva consacrato la propria vita scientifica) si accompagnasse a un'alterazione della sua conformazione, anticipando in tal modo anche la nozione di allosteria che sarebbe stata introdotta nella biochimica e nell'enzimologia da Jacques Monod e da François Jacob dopo il 1961.
Solamente cinquant'anni dopo i fondamentali lavori di Fischer, la scoperta della cristallografia ai raggi X da parte di Max von Laue e la sua interpretazione a opera di William Lawrence Bragg nel 1912, l'applicazione di questa tecnica alle proteine ha cominciato a produrre risultati importanti, come la determinazione della struttura dell'emoglobina, con una risoluzione di 2 Å, da parte di Kendrew (1960). Questo studio ha svelato l'inattesa complessità strutturale delle proteine e la loro mancanza di un'ordinata regolarità d'insieme (anche se, come Pauling aveva dimostrato nel 1951 con la struttura della α-elica, le proteine contengono elementi strutturalmente molto ordinati). L'irregolarità interna delle loro sequenze amminoacidiche è stata rivelata invece dalle ricerche sull'insulina condotte da Frederick Sanger negli anni 1951-1953. Non era stata però tanto la complessità strutturale (ancora sconosciuta) delle proteine quanto la loro variabilità a farne le perfette candidate al ruolo di veicoli di trasmissione dell'eredità. Nel 1953 il DNA ha preso il loro posto, grazie all'interazione tra i dati cristallografici, le osservazioni biochimiche e la costruzione di molecole stereochimiche che ha permesso a James D. Watson e a Francis H.C. Crick di costruire il modello della doppia elica, rendendo immediatamente intellegibile il ruolo di trasmettitore dell'eredità del DNA.
Nel 1938 Perutz aveva cominciato a dedicarsi al problema, ritenuto irrisolvibile, della determinazione della struttura cristallografica delle proteine con il metodo dei raggi X. Soltanto nel 1970 riuscì a determinare la struttura dell'emoglobina con una risoluzione di 2,8 Å, e ciò per entrambi gli stati, quello completamente ossigenato e quello completamente deossigenato. La doppia struttura cristallografica confermava, se ce ne fosse stato bisogno, il modello generale della transizione allosterica (variazione dello stato strutturale di una proteina in rapporto alla fissazione o meno di piccole molecole su diversi siti) che era stato proposto da Monod, Wyman e Jean-Pierre Changeux, nel 1965, a partire da una serie di dati sui meccanismi dell'attività enzimatica e della funzione emoglobinica. In quel periodo Wyman collaborava a Roma con i biochimici Alessandro Rossi Fanelli ed Eraldo Antonini, noti per le loro ricerche su questa proteina. Processo cooperativo (che si autofacilita nel corso del suo svolgimento), la fissazione dell'ossigeno sulle quattro subunità della molecola presupponeva l'esistenza di una loro interazione. I possibili meccanismi di tali interazioni tra siti (o interazioni 'allosteriche') sono stati oggetto di discussione, in particolare nel caso dell'emoglobina. La teoria più accreditata si basa sulla combinazione di un cambiamento della posizione relativa delle subunità, con conservazione della simmetria d'insieme e di modificazioni conformazionali più piccole di ciascuna subunità legata all'ossigeno fissato. La teoria allosterica rappresenta una grande conquista della chimica fisica biologica, perché ha evidenziato in maniera particolarmente elegante le basi molecolari di importanti funzioni fisiologiche.
La questione biochimica della sede e dei meccanismi della respirazione è stata dibattuta per l'intero corso del XIX sec. e per buona parte del Novecento. Ci si domandava se la 'combustione lenta' della respirazione avesse luogo in diverse parti dell'organismo o nei polmoni. Le due ipotesi erano state formulate già nel Settecento da Antoine-Laurent Lavoisier, che si era infine espresso a favore della sede polmonare. Per Joseph-Louis Lagrange era il sangue a portare l'ossigeno nelle regioni più remote dell'organismo, dove avevano luogo le ossidazioni respiratorie. Liebig, nel 1842, aveva ipotizzato che fosse l'emoglobina a trasportare i gas respiratori. A maggior ragione si poneva il problema della localizzazione della respirazione conosciuta come ossidazione degli 'alimenti respiratori'. Fu Eduard Friedrich Wilhelm Pflüger a proporre, nel 1875, una teoria della 'respirazione intracellulare' che situava all'interno delle stesse cellule i meccanismi di ossidazione biologica, considerati processi intramolecolari di ossidazione delle catene laterali della 'proteina vivente'. L'aver posto i meccanismi della respirazione a livello intracellulare rappresentava un progresso notevole, che avrebbe permesso di spostare i problemi biochimici a un livello ancora più dettagliato di quello della cellula, ossia alla compartimentazione e alle sottostrutture cellulari ‒ e soprattutto alle membrane che ne rappresentano il luogo di contatto e di scambio ‒ nonché a un livello propriamente molecolare; tale passaggio è esemplificato nell'affermazione del 1901 di Hofmeister secondo cui a tutte le reazioni chimiche vitali doveva corrispondere un catalizzatore enzimatico specifico. Oltre alla scoperta dell'anaerobiosi da parte di Pasteur, anche i risultati ottenuti da Sergej Nikolaevič Vinogradskij nel 1887 sui batteri autotrofi, che traevano la propria energia dall'ossidazione dello zolfo, riguardavano la questione della respirazione.
Ormai fondata su basi più solide rispetto a quelle dibattute nell'Ottocento, la biochimica del XX sec. si è impegnata a risolvere i problemi posti dalla 'bioenergetica', cioè la descrizione del modo in cui gli organismi traggono dall'ambiente l'energia chimica che utilizzano per costruire e far funzionare le loro parti costitutive. Questo tipo di energia può essere ottenuta a partire dalla luce solare per mezzo della fotosintesi, oppure dagli elementi organici presenti nell'ambiente. La biochimica del Novecento ha risolto questi problemi affiancando le ipotesi sulla struttura spaziale delle reazioni metaboliche interne alla cellula all'identificazione dei composti presenti nei tessuti e all'elaborazione di modelli di catene metaboliche. La storia della biochimica metabolica e della bioenergetica ha visto vivaci controversie e grandi scoperte, che hanno caratterizzato la difficile elaborazione di un complesso quadro d'insieme e il congiungimento dei diversi elementi che costituiscono il puzzle del metabolismo.
Negli anni Venti del Novecento il processo della fotosintesi, ossia la produzione di zucchero a partire dall'anidride carbonica, è stato oggetto di studi che hanno confermato le acute intuizioni di René Wurmser, contrapposte a quelle di Otto Heinrich Warburg. All'inizio del XX sec., la fotosintesi era divenuta un'area di ricerca comune alla fisica delle radiazioni e alla chimica; l'azione della luce sulla materia, la cosiddetta fotochimica, era quindi oggetto di ricerche d'avanguardia. La luce, sostenevano Henri e Wurmser nel 1913, induce nelle molecole uno stato tale da farle reagire tra loro. Il problema posto dalla fotosintesi era quello di stabilire come l'apporto di energia radiante portasse alla sintesi dello zucchero, un composto complesso, a partire da CO2. La questione poteva essere affrontata in diversi modi. Tra il 1895 e il 1923, Frederick Frost Blackman effettuò una serie di ricerche fisiologiche in cui faceva variare i fattori fisici e chimici della fotosintesi, concludendo che il processo fotosintetico delle cellule verdi comportava diverse tappe: la diffusione della luce, la reazione fotochimica e la reazione oscura o chimica. La differenza tra la fase fotochimica e quella oscura era attestata dai diversi coefficienti di temperatura. Il chimico Richard Martin Willstätter, tra il 1905 e il 1918, aveva adottato un altro approccio, ispirandosi a Theodor Wilhelm Engelmann, il quale nel 1888 aveva ipotizzato che lo stroma cellulare incolore rappresentasse la parte attiva nell'assimilazione e che la clorofilla avesse esclusivamente una funzione sensibilizzatrice. Willstätter era giunto alla conclusione che il fattore protoplasmatico fosse costituito da un enzima e che la fotosintesi fosse il risultato dell'associazione di una reazione fotochimica a una reazione enzimatica oscura. La reazione fotochimica avrebbe implicato innanzitutto una scomposizione lenta della clorofilla, che avrebbe prodotto bicarbonato, dal quale sarebbe poi derivato un composto di tipo perossido, che infine sarebbe stato enzimaticamente scisso in formaldeide e clorofilla rigenerata. La formaldeide, già ritenuta da Adolf von Baeyer (1835-1917) un prodotto intermedio della fotosintesi, avrebbe costituito il punto di partenza per la sintesi dello zucchero. Quella della formaldeide era un'ipotesi tipica dei chimici organici, i quali cercavano la catena di reazioni più semplice e probabile che potesse produrre un determinato risultato. Il biochimico Warburg aveva seguito un'altra via, tentando di applicare alla fotosintesi la legge dell'equivalenza fotochimica formulata da Albert Einstein nel 1912, secondo la quale il numero di molecole che reagisce alla luce è equivalente al numero dei quanti assorbiti. Nel 1920 Warburg, servendosi di metodi manometrici molto elaborati, concluse che le radiazioni portavano a un prodotto intermedio suscettibile di reagire con l'anidride carbonica. Tra il 1920 e il 1924, Wurmser affrontò il problema dal punto di vista biofisico, mediante l'identificazione delle radiazioni attive e, quindi, delle sostanze reattive. Per Wurmser, la fotosintesi consisteva nella separazione fisica delle reazioni fotochimiche e di quelle oscure di ossidoriduzione e nel loro accoppiamento energetico. La reazione fotochimica non poteva riguardare la clorofilla, che era protetta dal suo ambiente cellulare colloidale. In seguito alla reazione fotochimica sensibilizzata dalla clorofilla sarebbe stata ceduta energia per la riduzione dell'anidride carbonica e la sintesi dello zucchero. Studiando contemporaneamente la velocità di reazione e l'assorbimento energetico, Wurmser dimostrò che il rendimento era maggiore nella regione dello spettro luminoso in cui l'assorbimento era più debole (il verde). Ne dedusse così che la reazione fotochimica sensibilizzata dalla clorofilla produceva una sostanza ricca di energia, che era utilizzata per le reazioni oscure. Wurmser confutò quindi lo schema di Willstätter e quello di Warburg, secondo cui le molecole di anidride carbonica assorbite dalla superficie dei cloroplasti erano ridotte una a una dalla clorofilla attivata dalla luce e trasformate in esosi con liberazione di ossigeno. Nel 1924 Wurmser, analizzando il rendimento energetico della fotosintesi, scoprì che la reazione fotochimica primaria era una fotolisi dell'acqua. La reazione inversa di ossidazione avrebbe avuto luogo nello stroma cellulare e sarebbe stata accoppiata alla riduzione di anidride carbonica, con conseguente liberazione di ossigeno. Il contributo di Wurmser consiste nella dimostrazione della reazione primaria di fotolisi dell'acqua, un'ipotesi già proposta da altri ricercatori e in seguito confermata dai lavori di Robert Hill e di Cornelis Bernardus van Niel.
La formazione fotosintetica degli esosi nel corso della fase oscura della fotosintesi è stata chiarita dai lavori di Melvin Calvin, grazie all'associazione di tecniche radioisotopiche e cromatografiche, all'inizio degli anni Cinquanta. Dopo aver decolorato in tempi brevi alghe verdi in presenza di 14CO2, Calvin ne ha identificato i prodotti mediante cromatografia, dimostrando che il ribulosio-1,5-difosfato, una molecola la cui fosforilazione deriva in parte dall'ATP, è l'accettore immediato della CO2 nella fotosintesi, conducendo alla formazione di due molecole di 3-fosfoglicerato trasformato in glucosio 6-fosfato. Per ciascuna molecola di CO2 ridotta viene rigenerata una molecola di ribulosio 1,5-difosfato, permettendo di spiegare la formazione degli zuccheri a sei atomi di carbonio, gli esosi della fotosintesi. Questo ciclo di reazioni scoperto da Calvin è ora chiamato con il suo nome. Oggi i meccanismi della fotosintesi sono conosciuti a livello molecolare e la struttura del centro di reazione di fotosintesi è stata caratterizzata grazie alla cristallografia ai raggi X.
Warburg, uno dei ricercatori che hanno lasciato un segno nella storia delle teorie sulla respirazione intracellulare, si era opposto all'idea che una catalisi enzimatica fosse sufficiente a spiegare i fenomeni respiratori. Nel 1912 difese il ruolo della struttura intracellulare fine delle membrane quali siti delle reazioni produttrici di energia, catalizzate da un 'fermento respiratorio' trasportatore di ossigeno e contenente ferro, laddove il ferro era a sua volta ritenuto il trasportatore dell'ossigeno e il catalizzatore dell'ossidazione. Warburg aveva compreso, con acuto intuito, il ruolo delle membrane che contenevano gli enzimi. Tuttavia, lo studio dei meccanismi respiratori ha in seguito invalidato l'idea di un ruolo attivo dell'ossigeno, cui è stata riconosciuta unicamente una funzione di accettore di elettroni al termine della 'catena respiratoria'. Questa catena è attualmente vista come un insieme di reazioni fisicamente separate, successive e accoppiate di fosforilazione, trasferimento di elettroni e liberazione di protoni il cui accettore finale è l'ossigeno.
Importanti contributi sono stati apportati a questo campo di ricerca dalla fisiologia muscolare. Tra il 1920 e il 1922, Otto Meyerhof dimostrò che l'acido lattico prodotto dal lavoro muscolare derivava dal glicogeno e che era in gran parte riconvertito in glicogeno in un processo ciclico (imponendo ulteriormente la nozione di ciclo metabolico). Nel 1927, Cyrus H. Fiske e Yellapragada SubbaRow, negli Stati Uniti, evidenziarono nei muscoli l'esistenza dei composti fosforati, ottenendo anche i primi dati che li avrebbero in seguito portati alla scoperta dell'ATP negli estratti muscolari, contemporaneamente al tedesco Karl Lohmann.
Negli anni Trenta, Warburg e Meyerhof fornirono ulteriori argomenti a favore dell'ipotesi della formazione dell'ATP, osservata nei muscoli a partire dall'ADP, nel corso della degradazione anaerobica del glucosio in acido lattico, mediante reazioni enzimatiche accoppiate. Negli stessi anni, in Unione Sovietica, Vladimir Aleksandrovič Engelhardt aveva ipotizzato che la respirazione aerobica fosse accoppiata alla fosforilazione dell'ADP in ATP.
Nel 1937 la scoperta del ciclo degli acidi tricarbossilici da parte di Hans Adolf Krebs offrì un contributo notevole alla comprensione dei meccanismi di base della respirazione aerobica, del funzionamento generale del metabolismo e della sua strutturazione a cicli. Benché l'idea di una tale struttura fosse già presente prima delle sue scoperte, è stato senza dubbio Krebs il primo a metterla in evidenza. Nel 1932 egli aveva scoperto il ciclo dell'ornitina, che spiegava la sintesi dell'urea; fu, questa, la prima scoperta di un processo biochimico avvenuta mediante l'identificazione delle reazioni biochimiche nel sistema biologico appropriato, e non attraverso un'inferenza analogica effettuata in base al comportamento chimico dei prodotti che si supponeva intervenissero in quel processo. Nel 1935 Albert Szent-Györgyi, lavorando su omogenati di muscolo, era riuscito a mostrare come gli acidi dicarbossilici stimolassero il consumo di ossigeno da parte dei tessuti. Nel 1936 Krebs aveva studiato il metabolismo ossidativo dei diversi acidi di- e tricarbossilici lavorando su omogenati di muscolo di piccioni, che presentano un metabolismo assai rapido. Il ciclo degli acidi tricarbossilici (oggi noto come 'ciclo di Krebs', ma da lui battezzato ciclo dell'acido citrico) rappresenta un risultato fondamentale, grazie al quale è stato possibile comprendere più a fondo il legame tra glicolisi e respirazione.
Le ricerche di Krebs sono state oggetto di un'approfondita analisi da parte dello storico della scienza Frederic L. Holmes; egli ha inoltre utilizzato i metodi di intelligenza artificiale elaborati da Herbert A. Simon per comparare il percorso sperimentale di Krebs, ricostruito storicamente, e quello ottenuto impostando un programma di apprendimento artificiale a partire dagli stessi dati. Una volta nota la struttura del ciclo di Krebs, Herman Moritz Kalckar in Danimarca e Vladimir Aleksandrovič Belitser in Unione Sovietica hanno dimostrato che nell'ossidazione dei prodotti intermedi del ciclo, in omogenati di differenti tessuti freschi (fegato, reni, muscoli), il fosfato inorganico del mezzo veniva incorporato dall'ATP; questa fosforilazione non aveva luogo in condizioni di anaerobiosi. L'ATP derivava dunque proprio dall'ADP, nel corso delle ossidazioni aerobiche: era nato il concetto di 'fosforilazione ossidativa'. Si tratta di un processo che nello schema generale della respirazione segue il ciclo di Krebs e si realizza grazie a enzimi trasportatori di elettroni. Nel 1939 Engelhardt in collaborazione con la moglie Militsa Nikolaevna Ljubimova ha mostrato che la miosina, la proteina fibrosa responsabile della contrazione muscolare, si comporta come un enzima idrolitico dell'ATP, producendo così l'energia necessaria per la contrazione. Nel 1941 Fritz Albert Lipmann ha suggerito che l'ATP formatosi a partire dall'ADP funziona come trasportatore dell'energia chimica, sempre in maniera ciclica. Nel 1948 Eugene P. Kennedy e Albert L. Lehninger hanno dimostrato, mediante la centrifugazione differenziale di omogenati di fegato, che la fosforilazione ossidativa avveniva esclusivamente e universalmente nei mitocondri. I citocromi sono stati scoperti nel 1925 da David Keilin, mediante l'utilizzazione di metodi spettroscopici semplici, all'interno dei muscoli di alcuni insetti. Keilin ha successivamente messo in evidenza che questi pigmenti respiratori hanno la funzione di trasportare elettroni per la fosforilazione ossidativa.
La biochimica, nei suoi sviluppi classici, si è dunque caratterizzata come esplorazione delle funzioni metaboliche e dei meccanismi di sintesi e degradazione dei composti organici complessi. Tale scienza si è necessariamente sovrapposta allo studio delle strutture molecolari, proprio della biologia molecolare, che Warren Weaver definì nel 1938 come l'applicazione delle tecniche più moderne alla comprensione dei processi biologici più fini. Sempre negli anni Trenta si consolidò il riavvicinamento tra la biochimica e la genetica, descritto, per esempio, da John B.S. Haldane, che avrebbe costituito una nuova occasione d'incontro con la biologia molecolare. Dai lavori di Monod, Jacob e André-Michel Lwoff sul funzionamento del metabolismo batterico derivano concetti chiave della biologia molecolare, come quelli di repressore, di operone e di allosteria. La biochimica ha dunque ceduto il posto a un'ulteriore 'scienza nuova'? Lungi dal cederle interamente il posto, essa si è piuttosto fusa con la biologia molecolare.
Una delle branche della fisiologia che ha beneficiato dell'approccio biochimico nel XX sec. è l'endocrinologia. Alla fine dell'Ottocento, la disciplina era dominata dalle teorie di Bernard sulle regolazioni fisiologiche e sull'ambiente interno, benché egli avesse accentuato il ruolo del sistema nervoso simpatico. Nell'ambito dell'utilizzazione degli estratti ghiandolari, l'opoterapia, Charles-Edouard Brown-Séquard è ricordato per aver sostenuto il potere di ringiovanimento degli estratti testicolari. Le ricerche sulle ghiandole surrenali, sulla tiroide e sull'ipofisi si sono intensificate, sollecitate dall'interesse delle case farmaceutiche. Nel 1895 George Oliver ed Edward Albert Sharpey-Schäfer hanno descritto l'effetto degli estratti surrenalici sulla pressione arteriosa. Nel 1900 Jokichi Takamine ha estratto l'adrenalina, la cui formula chimica è stata determinata l'anno successivo da Thomas B. Aldrich. Nel 1902 William M. Bayliss ed Ernest H. Starling hanno scoperto l'azione esercitata sul pancreas da una sostanza trovata nell'intestino: si trattava di un ormone gastrico, la secretina. Il vero atto di nascita dell'endocrinologia è però rappresentato dall'introduzione del termine 'ormone' da parte di Starling nel 1905, che lo definisce un messaggero chimico. Altri risultati importanti in campo ormonale sono stati l'isolamento e la cristallizzazione della tiroxina da parte di Edward C. Kendall nel 1919, e due anni dopo l'isolamento dell'insulina nel pancreas a opera di Frederick G. Banting e Charles H. Best, nonché di Nicolas Paulescu.
Le funzioni ipotalamo-ipofisarie, le cui interazioni sono state oggetto di controversie a partire dal primo decennio del XX sec., sono state studiate in particolare dal neurochirurgo statunitense Harvey W. Cushing. In questo contesto è maturata la nozione di interazione tra sistema nervoso e sistema endocrino ed è stato coniato da Rémy Gustave Collin il termine 'neuroendocrinologia', successivamente ripreso da Gustave Roussy.
Secondo la concezione di Bernard dell'ambiente interno, le variazioni esterne erano compensate negli organismi superiori da meccanismi interni che mantenevano costanti determinate proprietà (come la temperatura corporea grazie all'omotermia). Una generalizzazione di questo concetto è stata proposta nel 1926 da Walter B. Cannon con la nozione di omeostasi, che designava le condizioni e le azioni specifiche in grado di garantire la stabilità degli organismi. Negli anni successivi, la nozione di coppie di ormoni che agivano in senso opposto, mediante attivazione o inibizione, avrebbe concretizzato la concezione di Cannon, già fondata, tra le altre cose, sull'esempio del mantenimento di un valore costante del pH del sangue, le cui equazioni di equilibrio acido-base erano state scoperte da Lawrence J. Henderson nel 1908. Molto tempo dopo, nella seconda metà del Novecento, la neuroendocrinologia, nata in seguito allo studio dell'azione dell'ipotalamo, struttura nervosa, sulla neuroipofisi, struttura ghiandolare, ha successivamente definito il ruolo delle regolazioni fisiologiche mediate da sostanze con effetto opposto. Questa disciplina, sotto l'aspetto biochimico, ha beneficiato soprattutto delle ricerche condotte da Roger Guillemin e da Andrew V. Schally sull'identificazione dei fattori ipotalamici di rilascio degli ormoni ipofisari.
Per agire sui loro siti-bersaglio cellulari, i fattori biochimici liberati nell'ambiente interno, sanguigno o intracellulare, avevano bisogno di recettori. La nozione di recettore fu proposta per la prima volta dal fisiologo John N. Langley, che all'inizio del XX sec. aveva studiato l'azione effettrice sulla contrazione muscolare. Il suo collaboratore Thomas R. Elliott analizzò più in particolare l'azione simpaticomimetica dell'adrenalina su diversi tessuti innervati dal sistema nervoso simpatico; egli giunse così alla conclusione che l'adrenalina aveva bisogno, per esercitare i suoi effetti, dell'intermediazione di una struttura propria della cellula-bersaglio, muscolare o effettrice. Per la prima volta era stato esposto in modo chiaro il concetto di neurotrasmissione chimica. Dedicandosi alle sue ricerche farmacologiche sulla contrazione muscolare, Langley evidenziò che la nicotina causava la contrazione di alcuni muscoli e che questo effetto, inibito dal curaro, non era affatto alterato dalla denervazione. La nicotina e il curaro dovevano dunque agire su sostanze recettrici (una terminologia introdotta nel 1908) all'interno del tessuto muscolare: la farmacologia ha quindi notevolmente contribuito alla definizione della nozione di recettore.
Quello della neurotrasmissione è stato senza dubbio uno degli ultimi campi a essere affrontato con approccio biochimico. L'identificazione dell'acetilcolina come trasmettitore neuroumorale da parte di Otto Loewi a partire dal 1921 rappresenta un risultato fondamentale nella neurotrasmissione chimica. Loewi ha dimostrato che il sistema parasimpatico secerne una sostanza inibitrice liberata nel tessuto cardiaco (e presente nel fluido di perfusione del cuore della rana), l'acetilcolina, con la funzione di neurotrasmettitore. Questo aspetto dell'acetilcolina è stato particolarmente studiato da Henry H. Dale, che divenne il difensore della neurotrasmissione chimica, in particolare in risposta alle critiche del neurofisiologo John C. Eccles, allievo di Charles S. Sherrington. Successivamente Eccles fece propria la stessa ipotesi chimica, sotto l'influenza del filosofo Karl Popper, che gli aveva consigliato di tentare di invalidare le sue ipotesi sulla trasmissione elettrica. La presenza di acetilcolina nel sistema nervoso centrale e la sua sintesi da parte del tessuto cerebrale sono state dimostrate a partire dal 1934, per quanto ciò non implicasse una sua funzione neurotrasmettitrice all'interno del cervello. Generalmente si riteneva che il sistema nervoso centrale fosse governato dai più rapidi processi elettrici; grazie all'elettrofisiologia, Eccles riuscì a dimostrare che i fenomeni di eccitazione e di inibizione sinaptica erano identici ‒ un'osservazione incompatibile con la teoria elettrica, che ha eliminato l'ultimo ostacolo per la nascita della neurochimica. Negli anni Sessanta altri neurotrasmettitori, le monoammine (serotonina e noradrenalina), sono stati localizzati e mappati mediante immunofluorescenza in diverse regioni cerebrali. Nel decennio successivo l'immunoistochimica ha infine permesso di dimostrare che alcuni neuroni liberano diversi trasmettitori, neurotrasmettitori classici o neuropeptidi.
Verso la metà del XX sec. l'azione dell'acetilcolina nel cervello è stata approfondita dal biochimico David Nachmansohn. Pur attribuendole una funzione non sinaptica ma intracellulare, egli ha avanzato l'ipotesi che le proteine, enzimi o recettori, potessero subire un'alterazione di conformazione che ne avrebbe spiegato l'attività, in particolare di controllo della permeabilità della membrana. Isolato nel 1970 nell'organo elettrico della torpedine da Changeux, il recettore di membrana dell'acetilcolina era insieme una proteina allosterica e il primo recettore di un neurotrasmettitore a essere identificato. Si sono anche sviluppate altre branche specializzate della biochimica, come l'immunochimica, alla quale la scoperta del sistema HLA (human leucocyte antigens) degli antigeni leucocitari umani, da parte di Jean Dausset negli anni Sessanta, ha aperto nuovi orizzonti, mostrando il substrato molecolare dell'individualità di ciascun essere umano.
La biochimica costituisce il linguaggio fondamentale utilizzato da tutte le scienze biologiche e mediche odierne; inoltre, la storia delle scienze mostra che spesso le discipline, anziché scomparire, conquistano nuovi campi d'applicazione. La biochimica è penetrata nel mondo delle bioscienze nella sua totalità, sia come insieme di tecniche, analitiche o sintetiche ‒ la sintesi dei geni ottenuta da Har Gobind Khorana nel 1970 rappresenta un momento fondamentale della storia delle biotecnologie ‒ sia come approccio necessario a una ricerca sempre più interdisciplinare. Rimane naturalmente una serie di problemi irrisolti, come quello della predizione della struttura spaziale delle proteine a partire dalla sequenza amminoacidica, o quello del loro ripiegamento.