La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Lo sviluppo della biologia molecolare
Lo sviluppo della biologia molecolare
La nascita della biologia molecolare nella seconda metà del Novecento è stato l'evento più rilevante nell'ambito delle scienze della vita, cambiandone radicalmente lo status alla fine del secolo. Quelle attività che potevano essere considerate alla stregua della filatelia ed erano poste in ombra dal prestigio delle altre discipline, sono divenute alla fine del XX sec. le più importanti sia a livello teorico sia pratico. Mentre negli anni Quaranta i filosofi guardavano alle teorie della fisica quantistica e della gravitazione come fonte di ispirazione, oggi riflettono sui risultati ottenuti dai biologi. Va inoltre sottolineato l'impatto notevole che le biotecnologie mediche e agroalimentari avranno sulla salute e sullo sviluppo economico futuro.
Per quanto sia semplice riconoscere questi brillanti successi, è molto difficile dare una definizione appropriata della biologia molecolare. Non può essere considerata una disciplina scientifica nuova. Ci sono diversi segni distintivi inequivocabili che individuano una disciplina: l'esistenza di cattedre nelle università, di riviste, di società scientifiche, ecc. Questi 'marcatori' per la biologia molecolare esistono, ma il loro numero è limitato se paragonato alla sua influenza: la biologia molecolare ha permeato le discipline biologiche, senza essere essa stessa una disciplina.
La nascita della biologia molecolare può essere descritta a diversi livelli. Sul piano scientifico e concettuale, essa è stata la scoperta dei meccanismi fondamentali che operano in tutte le cellule e ne controllano la riproduzione: la caratterizzazione chimica dei geni e la decifrazione del codice genetico, ossia della relazione esistente tra i geni e gli agenti cellulari attivi, le proteine. Da questo punto di vista, la biologia molecolare può essere considerata il risultato della convergenza di due discipline che si sono rapidamente sviluppate a partire dai primi anni del XX sec.: la biochimica e la genetica.
I biochimici avevano dimostrato l'importanza delle proteine nelle attività cellulari e dato inizio al loro isolamento e alla loro purificazione. I genetisti avevano evidenziato il ruolo centrale dei geni, non solo nella riproduzione ma anche come centro organizzativo per tutte le attività cellulari. Di conseguenza, caratterizzare la relazione tra i geni e le proteine era ovviamente divenuto uno degli obiettivi della ricerca. Come si vedrà, altre discipline, tra cui la chimica strutturale, la batteriologia e la virologia parteciparono attivamente allo sviluppo della biologia molecolare.
La biologia molecolare ha rappresentato anche un importante avanzamento epistemologico nelle scienze della vita, localizzando la spiegazione dei fenomeni biologici nelle proprietà delle macromolecole presenti negli organismi. È stata quindi il successo dell'approccio riduzionistico ai fenomeni della vita, del quale tuttavia non va dimenticata l'origine nella rivoluzione scientifica del XVI sec.: da quel momento, nello studio degli organismi, si è passati progressivamente dalla morfologia e dalla fisiologia alle cellule, fino ai costituenti cellulari, considerati all'origine dei fenomeni biologici. La biochimica e la genetica già condividevano il medesimo programma riduzionistico.
All'inizio, la maggior parte dei biologi molecolari, molti dei quali avevano una formazione da fisici, cercava spiegazioni semplici per i fenomeni biologici più elementari, convinta che queste fossero vicine. Alcuni erano alla ricerca di nuove leggi fisiche, specifiche per gli organismi; altri pensavano invece che i recenti risultati della fisica quantistica fossero la soluzione dell''enigma della vita'. Essi condividevano la speranza che sarebbe stato possibile generare una nuova conoscenza fondamentale degli organismi, senza tuttavia conoscere nel dettaglio la tremenda complessità del mondo vivente.
I risultati riduzionistici della biologia molecolare e l'importante ruolo avuto da molti fisici nel suo sviluppo non sono gli unici segnali della sua dipendenza dalla fisica. Come vedremo, le nuove tecnologie sviluppate dai fisici furono essenziali per la caratterizzazione delle macromolecole; i concetti informazionali derivati dalla teoria dell'informazione permearono la biologia molecolare. Inoltre, uno dei fisici più influenti, Erwin Schrödinger (1887-1961), che aveva contribuito alla rivoluzione quantistica, nel 1944 scrisse un libro intitolato What is life? che attirò l'attenzione di molti fisici verso la biologia. Esso conteneva anche espressioni che appaiono come chiare anticipazioni dei futuri risultati della biologia molecolare: l'esistenza di un codice all'interno dei cromosomi e la descrizione del materiale genetico come un cristallo aperiodico.
Il contributo di What is life? allo sviluppo della biologia molecolare è stato oggetto di numerose discussioni tra gli storici della scienza, che implicavano domande importanti: il ruolo dei fisici nella trasformazione della biologia e il posto che i precursori possono avere nei successivi sviluppi scientifici. Gran parte degli storici ha minimizzato l'impatto di questo libro, sostenendo che si è guadagnato la sua importanza solo negli anni Sessanta, alla fine di un lungo processo di revisione storica caratteristico del modo in cui gli scienziati creano la propria memoria storica. Collocare Schrödinger all'origine della biologia molecolare fu per i biologi molecolari una buona strategia per dare prestigio al loro approccio ai fenomeni della vita.
Negare che What is life? sia all'origine della biologia molecolare e che Schrödinger ne sia il fondatore non significa negarne l'influenza sui successivi sviluppi della biologia. La lettura di questo libro è molto istruttiva per capire la concezione della biologia da parte dei fisici degli anni Quaranta, e il volume faceva anche parte della cultura scientifica in cui la biologia molecolare si sarebbe progressivamente sviluppata negli anni successivi; le idee di Schrödinger ‒ e di altri ‒ costituirono la matrice dalla quale presero forma i risultati della biologia molecolare.
Tuttavia, la biologia molecolare non era la fisica applicata alla biologia: quella era la biofisica, una disciplina tenuta in grande considerazione alla fine degli anni Quaranta, ma che progressivamente perse importanza. Inoltre, alcuni degli attori principali nello sviluppo della biologia molecolare non erano riduzionisti, nel senso che ritenevano possibile l'esistenza di leggi specifiche per il mondo vivente. Tuttavia, la biologia molecolare rappresentò anche il trasferimento di alcuni principî epistemologici della fisica allo studio degli organismi, tra i quali l'ipotesi secondo cui le maggiori possibilità di ottenere una conoscenza fondamentale si hanno progettando il modello sperimentale più semplice possibile. Per questo Max Delbrück (1906-1981) scelse il batteriofago, un virus batterico, per studiare la caratteristica fondamentale della vita, la riproduzione. Un altro postulato epistemologico era l'attenzione alla riproducibilità degli esperimenti e alla significatività statistica dei risultati.
Soprattutto, la biologia molecolare si identificava in una piccola comunità di ricercatori che condividevano oggetti epistemici come il batteriofago ed erano molto coscienti del loro ruolo attivo nell'aggiornamento della biologia. La biologia molecolare era ciò che facevano i biologi molecolari. Diventa quindi possibile seguire il suo sviluppo attraverso il modo in cui il nome stesso è stato adottato da questa comunità e utilizzato per designare laboratori o nuove riviste scientifiche. Questo non significa che la biologia molecolare fosse un'arbitraria costruzione sociale. Non bisogna dimenticare infatti che il potere di questo piccolo gruppo di biologi di dare il nome a un nuovo campo di ricerca derivava dal riconoscimento, da parte degli altri studiosi di biologia, dei progressi decisivi che erano stati fatti nella descrizione dei meccanismi fondamentali della vita.
La nascita della biologia molecolare ha costituito una rivoluzione scientifica: il suo sviluppo può essere visto come l'alba di un nuovo paradigma, se tale espressione non ha perso di significato a causa del frequente uso che se ne è fatto e delle molte discussioni che hanno suscitato le idee del filosofo della scienza Thomas S. Kuhn (1922-1996). Forse, sarebbe meglio affermare che la biologia molecolare non costituisce né una disciplina, né un paradigma, quanto una nuova visione degli esseri viventi.
Gli storici della scienza hanno proposto due ricostruzioni differenti dell'ascesa della biologia molecolare, producendo un'abbondante mole di letteratura. Nella prima, le radici della biologia molecolare vengono cercate nello sviluppo di nuove tecnologie fisiche adatte allo studio di strutture troppo complesse per i chimici organici, ma al di là delle possibilità dei microscopi ottici usati dai citologi: la nascita della biologia molecolare era la caratterizzazione del mondo dei colloidi, progressivamente convertito, per mezzo degli sforzi dei biochimici, in un mondo di macromolecole. Nel 1938, Warren Weaver (1894-1978), direttore della divisione di scienze naturali della Rockefeller Foundation, fu il primo a usare l'espressione 'biologia molecolare' per designare questo nuovo ramo della biologia che usava le tecniche fisiche ‒ diffrazione a raggi X, ultracentrifugazione, elettroforesi ‒ per studiare le macromolecole presenti negli organismi. In questa prospettiva, la nascita della biologia molecolare è contemporanea allo sviluppo della sintesi moderna tra genetica e darwinismo; la biologia molecolare e la sintesi moderna erano entrambe alla ricerca di regole e principî universali che spiegassero le caratteristiche degli organismi.
Altri storici sostengono che tale definizione, nella sua ampiezza, comprenda anche la biochimica e la biofisica, e dunque non rispetti la specificità della biologia molecolare. Essi preferiscono usare l'espressione 'biologia molecolare' per designare la scoperta dei meccanismi fondamentali che operano negli organismi, la caratterizzazione della struttura chimica del gene e dei meccanismi mediante i quali i geni controllano la sintesi proteica: queste scoperte coprono non più di venticinque anni (1940-1965). Ridotta a un così breve lasso di tempo, l'ascesa della biologia molecolare coincide con lo sviluppo di una visione informazionale della vita. È alla fine di questo periodo che l'espressione 'biologia molecolare' diventa d'uso comune. Useremo questa seconda definizione, e grazie a questa limitata prospettiva è possibile descriverne lo sviluppo come una rapida successione di scoperte. Tuttavia, tale restrizione oscura il fatto che la biologia molecolare era il punto d'arrivo di un movimento che attraverso i secoli ha portato i biologi oltre gli organismi, gli organi, le cellule, localizzando infine il segreto della vita nelle caratteristiche delle loro macromolecole.
Adottare tali limiti temporali per lo sviluppo della biologia molecolare distingue chiaramente la rivoluzione della biologia molecolare dalla nuova sintesi evoluzionista degli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Entrambe puntavano alla scoperta dei principî generali che operano nel mondo vivente, ma questi venivano cercati in diverse direzioni ed erano di natura differente. I biologi molecolari accettarono i principî del neodarwinismo, ma erano ‒ e ancora sono ‒ più attenti ai vincoli chimici e macromolecolari che guidano lo sviluppo e l'evoluzione degli organismi di quanto lo fossero invece i genetisti di popolazione.
Inoltre, gli storici della biologia non sono concordi neppure sull'esatto contenuto di una storia della biologia molecolare. Alcuni pensano che lo studio della fotosintesi, un campo di ricerca molto vivace sin dall'inizio del Novecento nel quale si usavano tecniche sofisticate importate dalla fisica, appartenga alla storia della biologia molecolare. Tuttavia, ci sono buone ragioni per escludere questo campo di ricerca: la forma prevalente di riduzionismo era un riduzionismo fisicalista, la diretta riduzione degli eventi della fotosintesi alle leggi della fisica ‒ fisica applicata alla biologia come nella biofisica. Inoltre, l'interpretazione macromolecolare di ciò che accade in questo processo è, per ragioni tecniche, iniziata solo negli anni Settanta. Adottare la definizione ristretta di biologia molecolare è un'ulteriore buona ragione per non considerare questi studi in una ricostruzione storica, poiché hanno avuto inizio molto prima dello sviluppo della biologia molecolare.
Infine, non va dimenticato che non c'è stata 'una' storia, ma molte differenti storie della biologia molecolare, secondo i paesi e le istituzioni. Tutte queste diverse tradizioni locali hanno contribuito alle sue caratteristiche.
Due diverse linee di ricerca sono confluite tra il 1940 e il 1953 verso la scoperta della natura chimica del materiale genetico. La prima era parte dello sforzo sistematico dei chimici organici e fisiologici per caratterizzare i diversi composti presenti negli organismi. Nel 1869, Friedrich Miescher scoprì nel nucleo delle cellule di materiale purulento una sostanza che chiamò nucleina, dimostrando in seguito che era formata da proteine e da un acido.
La caratterizzazione chimica degli acidi nucleici è stato un processo lungo e difficile, risolto solo alla fine degli anni Quaranta del XX secolo. Le due diverse forme di acidi nucleici, DNA e RNA, erano state descritte anche in precedenza, ma le prime osservazioni avevano erroneamente suggerito che non fossero presenti negli stessi organismi, in quanto l'RNA sembrava limitato al lievito e alle piante. La localizzazione del DNA nel nucleo fu progressivamente dimostrata mediante l'uso di colorazioni specifiche per questa molecola. Gli ostacoli più difficili da superare furono la determinazione dell'esatto legame tra i tre componenti della molecola ‒ le basi, gli zuccheri e i fosfati ‒ e la stima del suo peso molecolare. Questi studi minuziosi furono effettuati da chimici e biochimici, più interessati alle molecole in sé stesse che alle loro possibili funzioni all'interno della cellula.
La seconda linea di ricerca era legata allo sviluppo di una scienza dell'eredità alla fine dell'Ottocento e alla sua rapida espansione nei primi decenni del XX sec. in seguito alla riscoperta delle leggi di Mendel. L'importanza del nucleo per la vita e la riproduzione cellulare era stata dimostrata dai citologi molto prima del 1910, anno in cui Thomas H. Morgan (1866-1945) fornì prove convincenti della disposizione lineare dei geni lungo i cromosomi. Negli anni Trenta, i dettagliati studi citochimici avviati dallo svedese Torbjörn Caspersson (1910-1997) dimostrarono che i cromosomi erano formati dagli acidi nucleici. In netto contrasto con la tradizione di ricerca chimica, i meccanismi dell'azione del gene erano per i genetisti molto più importanti della natura chimica del gene stesso. L'azione 'catalitica' dei geni suggeriva una similitudine con gli enzimi, la cui natura proteica era stata progressivamente dimostrata nei primi decenni del XX secolo. Tale assimilazione dei geni agli enzimi e alle proteine, proposta già nel 1916 da Leonard T. Troland (1889-1932), non era incoerente con ciò che si sapeva sulla composizione chimica dei geni e delle proteine. Le ipotesi prevalenti tra il 1916 e gli anni Cinquanta sono state battezzate da alcuni storici come 'il paradigma proteico' del gene. Esse implicavano una concezione enzimatica della vita: la capacità catalitica degli enzimi e delle proteine spiegava 'il potere dei geni' e costituiva la soluzione dell''enigma della vita'.
Le difficoltà di caratterizzare in maniera precisa la costituzione macromolecolare dei cromosomi, combinata con l'idea dominante che i geni fossero simili agli enzimi, ebbe delle implicazioni: la questione della natura chimica dei geni non fu affrontata direttamente fino agli esperimenti compiuti da Oswald T. Avery, Colin M. MacLeod e Maclyn McCarty nel 1944. Il DNA presente nei cromosomi era considerato una sorta di impalcatura su cui erano situati i geni, formati da proteine, nonché una possibile fonte di energia per la loro riproduzione. Avery e i suoi collaboratori dimostrarono in maniera del tutto convincente che il fattore trasformante dello pneumococco ‒ che poteva essere estratto da batteri morti e, una volta aggiunto a una colonia, era in grado di conferire alla capsula polisaccaridica nuove caratteristiche ereditabili ‒ era il DNA. Essi utilizzarono le più avanzate tecniche disponibili, sviluppate al Rockefeller Institute di New York, che includevano l'analisi della composizione chimica, lo spettro di assorbimento dei raggi ultravioletti e l'uso di enzimi per la degradazione specifica di DNA, RNA e proteine. L'articolo da loro pubblicato, risultato di un paziente lavoro durato dieci anni, conteneva una descrizione precisa del protocollo necessario per l'isolamento del DNA in forma nativa mediante estrazione con fenolo e precipitazione con etanolo, che sarà usato dai ricercatori nei quattro decenni successivi. Venivano descritte in maniera dettagliata le condizioni necessarie per la trasformazione batterica (pneumococcica), fenomeno considerato difficilmente riproducibile. Il DNA isolato conteneva solo una piccola parte di proteine contaminanti e tramite l'ultracentrifugazione e l'elettroforesi si dimostrò un composto con un alto peso molecolare.
Molto è stato già scritto sull'impatto limitato di questa scoperta: l'età e la posizione di Avery quando pubblicò l'articolo (stava per lasciare il Rockefeller Institute per la pensione); le peculiari caratteristiche del fenomeno della trasformazione dello pneumococco e la difficoltà di riprodurlo ed estenderlo; l'ancora incerta conoscenza dell'esatta struttura del DNA. Tutto ciò contribuì a limitare la diffusione dei dati di Avery e dei suoi collaboratori fra la comunità scientifica. I suoi precedenti lavori erano stati apprezzati, ma consistevano in un'attenta descrizione del batterio al fine di combatterlo. In questi studi, lo pneumococco non era considerato un modello, come invece nell'articolo del 1944, per studiare fenomeni biologici generali come la natura del materiale genetico. Per questo, i ricercatori che conoscevano Avery furono disorientati dall'articolo del 1944, il cui obiettivo era molto diverso da quelli dei suoi studi precedenti. Inoltre, i genetisti non si aspettavano che le risposte sulla natura del materiale genetico potessero scaturire da un batterio, nel quale non era ancora stata dimostrata l'esistenza dei geni. Infine, occorreva dimostrare quale relazione sussistesse tra la molecola di DNA e le modificazioni della capsula polisaccaridica del batterio durante la trasformazione.
Per quanto le scoperte di Avery non ebbero un impatto immediato, non furono del tutto ininfluenti. Il suo lavoro motivò molti biologi a considerare gli acidi nucleici non solamente come strutture di sostentamento passive o depositi di energia, assegnando loro un ruolo più attivo. Il francese André Boivin (1895-1945) iniziò gli studi per misurare in modo preciso la quantità di DNA presente nei diversi tipi di cellule. I chimici approntarono nuove tecniche per una caratterizzazione più accurata della composizione chimica del DNA. In particolare, Erwin Chargaff (1905-2002) riuscì a dimostrare nel 1950 che l'ipotesi del tetranucleotide, proposta dal chimico Phoebus A. Levene (1869-1940) ‒ cioè che il DNA fosse una monotona ripetizione dei quattro diversi tipi di nucleotidi presenti nella molecola ‒ non era in accordo con le accurate misure delle quantità dei differenti nucleotidi nella molecola di DNA. Queste ricerche generarono un crescente interesse per gli acidi nucleici che sarebbe durato nei decenni successivi.
Nel 1952, Alfred Hershey (1908-1997) e Martha Chase (1927-2003) effettuarono un altro esperimento che suffragò l'idea che il DNA fosse il portatore dell'eredità. Il sistema sperimentale usato e il suo contesto erano molto diversi da quelli di Avery. Hershey e Chase facevano parte del 'gruppo del fago', fondato dal fisico Delbrück e dal microbiologo Salvador E. Luria (1912-1991) per studiare la replicazione del batteriofago, un fenomeno considerato un modello per lo studio del potere riproduttivo degli organismi. Il gruppo del fago attrasse molta attenzione, in particolare da parte dei fisici, grazie al carisma di Delbrück e alla pubblicità che Schrödinger nel suo libro aveva fatto ai suoi studi.
Il famoso esperimento Hershey-Chase del 1952 è stato solo uno dei molti che ambivano a caratterizzare i diversi componenti del batteriofago e il loro ruolo nell'interazione con il batterio e il processo riproduttivo. Per distinguere il contributo degli acidi nucleici e delle proteine, entrambi i composti vennero marcati con isotopi radioattivi, una nuova tecnologia sviluppatasi rapidamente dopo la Seconda guerra mondiale come prodotto del Manhattan Project per la bomba atomica. Tutti i dati indicarono che il batteriofago era costituito da un rivestimento di proteine a protezione del materiale genetico, formato da DNA: la gran parte del rivestimento proteico poteva essere separato con una violenta agitazione pochi minuti dopo l'inizio dell'infezione, senza alcuna conseguenza per la replicazione del batteriofago. Al contrario, durante lo stesso trattamento, la maggior parte del DNA (oltre l'80 %) rimaneva strettamente associato al batterio. L'impatto di questo esperimento fu grande, perché beneficiava della buona reputazione del gruppo del fago e dell'attivo sforzo pubblicitario di Delbrück. Venne presentato nello stesso convegno in cui fu presentata la struttura a doppia elica del DNA, e i due risultati si corroborarono a vicenda. Tuttavia, da un punto di vista strettamente scientifico, questo esperimento era molto meno convincente dei risultati ottenuti da Avery. La quantità di proteine contaminanti, quelle che non erano state eliminate dal trattamento e che sarebbero potute essere responsabili della capacità riproduttiva del batteriofago, era molto più alta rispetto alla preparazione di Avery.
L'esperimento di Hershey e Chase era però molto diverso da quello di Avery. Avery non sapeva a priori quale sarebbe stato il risultato del suo esperimento ‒ la natura chimica del fattore trasformante ‒ e il risultato ottenuto ‒ DNA ‒ era piuttosto sorprendente. Quando progettarono l'esperimento, Hershey e Chase avevano già molte ragioni per pensare che il DNA, impacchettato nel suo rivestimento proteico e protetto dall'ambiente esterno, fosse il materiale genetico del batteriofago. L'esperimento, tramite l'uso di acidi nucleici e proteine radiomarcati, era un argomento in più a favore dell'ipotesi che fosse il DNA e non le proteine (i due maggiori costituenti del batteriofago) a comportarsi durante il ciclo riproduttivo in modo compatibile con un ruolo genetico. Questo esperimento era a favore dell'ipotesi che il DNA fosse il materiale genetico.
La caratterizzazione del DNA come materiale genetico non forniva alcun indizio riguardo il suo coinvolgimento nella riproduzione: era necessaria una precisa conoscenza della struttura di questa molecola. Essa ebbe luogo al Cavendish Laboratory del Medical Research Council di Cambridge, nel quale Max Perutz (1914-2002) e John C. Kendrew (1917-1997) stavano tentando parallelamente di caratterizzare la struttura di due proteine, la mioglobina e l'emoglobina. James D. Watson, un giovane postdottorato che aveva studiato biologia molecolare con Luria lavorando sul fago e faceva parte al Cavendish di un progetto per determinare la struttura delle proteine e dei virus, era convinto dell'importanza del DNA per l'eredità. Assistendo a un seminario di Maurice Wilkins, comprese che era tecnicamente possibile determinarne la struttura. Wilkins, un chimico-fisico che lavorava a Londra insieme a Rosalind Franklin (1920-1958), stava proseguendo nello studio del DNA per mezzo della diffrazione a raggi X. Francis H.C. Crick, perfettamente conscio di quanto fosse difficile la ricostruzione della struttura delle proteine con la diffrazione a raggi X, e dubbioso riguardo il possibile successo, era alla prese con l'ultima stesura del manoscritto della tesi di dottorato quando Watson divenne il suo vicino di laboratorio. I due unirono gli sforzi per svelare la struttura del DNA. Gli ostacoli da superare erano numerosi: parte del loro tempo era occupata dai progetti precedenti; non potevano ottenere dati di diffrazione a raggi X sulle fibre del DNA, e dunque potevano sviluppare i modelli solo su dati già pubblicati, o da quelli che Wilkins e Franklin accettarono di mostrare loro; dovevano inoltre competere non solo con il gruppo londinese, ma anche con l'eminente chimico strutturale americano Linus C. Pauling (1901-1994), che aveva deciso di dedicarsi al DNA dopo la sua brillante caratterizzazione delle strutture secondarie delle proteine, α-eliche e foglietti β. Nonostante queste difficoltà, misero insieme l'esperienza di Crick nell'interpretazione dei dati dei raggi X, la convinzione di Watson che la struttura dovesse fornire un meccanismo per la capacità autoreplicativa del materiale genetico, l'aiuto di diversi chimici-fisici specializzati negli acidi nucleici e gli eccellenti dati ottenuti con i raggi X su cui potevano sviluppare i loro modelli. Dopo una serie di tentativi ed errori, Watson riuscì a produrre il modello a doppia elica. La complementarità delle basi ‒ l'adenina sempre di fronte alla timina e la citosina alla guanina ‒ necessaria per la regolarità della struttura, era conforme alla regola di equivalenza scoperta da Chargaff nel corso dei suoi accurati studi sulla composizione in basi del DNA, ma che era rimasta fino a quel momento senza spiegazione. Watson e Crick erano convinti che determinare la struttura del DNA fosse un passo importante per svelare il 'segreto della vita': i chimici strutturali, come Franklin che aveva ottenuto i dati decisivi per l'elaborazione del modello, non erano della stessa opinione e non avvertivano la stessa urgenza.
Il modello suggeriva un possibile meccanismo per la replicazione del DNA, che fu discusso da Watson e Crick nel loro secondo articolo pubblicato su "Nature". Veniva sollevato comunque un problema topologico la cui soluzione fu però trovata solo due decenni più tardi: come separare le due eliche della molecola senza creare nodi?
Una maggiore precisione dei dati ottenuti con i raggi X e la dimostrazione, quattro anni più tardi, che la replicazione del DNA era semiconservativa, mediante l'elegante esperimento di Matthew Meselson e Franklin Stahl che utilizzarono l'ultracentrifugazione, gli isotopi pesanti e i gradienti di densità, corroborarono il modello: una catena della doppia elica, nata in seguito alla replicazione, proviene dalla molecola originaria. Contemporaneamente, Arthur Kornberg caratterizzò un enzima ‒ la DNA polimerasi ‒ capace di replicare la molecola del DNA nel modo previsto dal modello. La comunità dei biologi si convinse progressivamente della validità del modello a doppia elica del DNA, sebbene negli anni successivi furono proposte diverse strutture alternative. Nonostante l'elegante struttura e le intuizioni fornite a proposito dei meccanismi di replicazione genica, la scoperta della struttura del DNA fu considerata, all'interno del Cavendish Laboratory, meno importante dell'altra meta del laboratorio: la determinazione della struttura delle proteine. La tecnica ‒ la diffrazione a raggi X sulle fibre di DNA ‒ usata da Wilkins, Franklin e i loro collaboratori era meno sofisticata dell'approccio di Perutz e Kendrew: la doppia elica era solamente un modello compatibile con i dati, non il risultato di una precisa determinazione strutturale.
Il modello a doppia elica del DNA è divenuto un emblema della nuova biologia solo più tardi, né dopo l'attribuzione del Nobel nel 1962 a Watson, Crick e Wilkins, né dopo la pubblicazione nel 1968 della personale versione di Watson della corsa alla doppia elica, ma solamente con lo sviluppo del progetto di sequenziamento del genoma umano, alla fine degli anni Ottanta. Watson e Crick ebbero accesso ai migliori dati di Franklin ottenuti ai raggi X consultando un documento mandato per una valutazione al loro diretto superiore. Franklin non realizzò mai che questa era la ragione per cui il modello di Watson e Crick era compatibile con i suoi dati! Il fatto che i due biologi avessero elaborato il loro modello a partire dai dati ottenuti da altri, a cui ebbero accesso solo in modo poco trasparente, fu anche considerato emblematico di una nuova forma di lavoro e di spirito introdotto nella biologia dai giovani e ambiziosi biologi molecolari.
Normalmente si pensa che il modello a doppia elica del DNA abbia immediatamente aperto la strada all'ipotesi del codice genetico, cioè di una precisa relazione tra la successione dei nucleotidi nella molecola del DNA e quella degli amminoacidi nelle proteine. Quest'idea è rinforzata dalla frase scritta da Watson e Crick nel secondo articolo: "la sequenza precisa delle basi è il codice che porta l'informazione genetica". Questa proposizione non va interpretata con le nostre attuali conoscenze: essa sta solo a dimostrare che i concetti informazionali ‒ codice, messaggio, ecc. ‒ avevano progressivamente permeato il pensiero biologico subito dopo la Seconda guerra mondiale, in parallelo con lo sviluppo della teoria dell'informazione e della cibernetica, e la costruzione dei primi computer elettronici. Watson e Crick ammettono che furono sorpresi quando, poche settimane dopo la pubblicazione del loro articolo su "Nature", arrivò una lettera del fisico George Gamow (1904-1968) che proponeva una precisa corrispondenza stereochimica tra le cavità presenti nella molecola del DNA e gli amminoacidi che formano le proteine.
Il codice proposto da Gamow si dimostrò errato, dal momento che la lista degli amminoacidi che aveva selezionato si dimostrò sbagliata. Tuttavia, Crick riconobbe il valore della linea di ricerca aperta da Gamow e, insieme a molti altri biologi molecolari, tentò negli anni seguenti di decifrare, senza successo, il codice genetico, basandosi direttamente sulla conoscenza del DNA e delle proteine. Il codice è stato finalmente decifrato a partire dal 1961, dopo il paziente sforzo da parte dei biochimici per ricostituire in vitro sistemi di sintesi proteica. Sono stati quindi necessari otto anni per stabilire la relazione che Watson e Crick avevano ipotizzato nel loro articolo del 1953.
Il maggiore ostacolo, negli anni Cinquanta, era l'assenza di nozioni precise sul ruolo dei geni nella sintesi proteica, o sulle relazioni tra le tre classi di macromolecole informazionali, DNA, RNA e proteine. Come abbiamo visto, i geni erano considerati dei catalizzatori, e il modo in cui essi controllavano la struttura delle proteine non era ovvio. La relazione 'un gene-un enzima' proposta da George W. Beadle ed Edward L. Tatum nel 1940, anticipata all'inizio del secolo da Archibald E. Garrod ma ora solidamente dimostrata da questi due autori, non va inquadrata con la prospettiva delle nostre conoscenze attuali. Essa indicava che i geni erano molto simili agli enzimi, portando molti genetisti, tra cui Beadle, a pensare che i geni fossero realmente degli enzimi: non si trattava dunque di un'anticipazione del codice genetico. La concezione attuale dei geni che determinano in maniera precisa la sequenza amminoacidica fu considerata seriamente solo dopo gli studi di Frederick Sanger sull'insulina, e la dimostrazione fornita nel 1957 da Vernon M. Ingram e Crick che una mutazione genetica poteva portare alla sostituzione di un particolare amminoacido in una precisa posizione della catena proteica. Entrambi i risultati mostrarono che il controllo della struttura delle proteine da parte dei geni era molto più stretto e preciso di quanto fosse stato immaginato all'inizio.
Anche il ruolo dell'RNA nel processo di sintesi proteica e le sue relazione con il DNA non erano evidenti. I dati citochimici e biochimici ottenuti da Jean Brachet a Bruxelles fornivano la prova della relazione tra la quantità di RNA presente in una cellula e il tasso di sintesi proteica. Inoltre, combinando studi di microscopia elettronica e di ultracentrifugazione, fu dimostrato che la sintesi delle proteine si verifica nel citoplasma, dove gli RNA sono più abbondanti. Più precisamente, l'RNA venne trovato su piccole particelle del citoplasma, chiamate microsomi (in seguito ribosomi). Questa indagine a livello molecolare fu opera dei biologi cellulari, tra cui Albert Claude, George E. Palade e Christian de Duve. Il fatto che l'RNA fosse una copia diretta del DNA non fu subito evidente, e si considerò possibile la relazione inversa: l'RNA come precursore biosintetico del DNA. La composizione del DNA era altamente variabile da un organismo all'altro, laddove la composizione degli RNA principali, quelli presenti nei microsomi, era costante: quest'osservazione rese problematica l'esistenza di una semplice relazione tra DNA e RNA; allo stesso modo, oscurò la relazione tra l'RNA e le proteine.
Soltanto alla fine degli anni Cinquanta sono state chiarite le relazioni tra DNA, RNA e proteine. Nel 1957, Crick avanzò l'ipotesi secondo la quale la sequenza degli amminoacidi nelle proteine è determinata da quella dei nucleotidi nella molecola del DNA. Propose inoltre il cosiddetto dogma centrale della biologia molecolare, per il quale l'informazione genetica fluisce dal DNA all'RNA e alle proteine, ma non può andare in direzione inversa. Il codice genetico fu decifrato nel 1962 da Marshall Nirenberg, Johann Matthaei, Severo Ochoa e Har Gobind Khorana, usando gli oligonucleotidi sintetici e i sistemi in vitro. Simultaneamente, mediante i coloranti all'acridina che causano delezioni e inserzioni di singole coppie di basi nel DNA, Crick e Sydney Brenner dimostrarono che il codice genetico è formato da triplette, ognuna delle quali codifica un solo amminoacido. Il lavoro di François Jacob e Jacques Monod sulla sintesi degli enzimi adattativi suggerì l'esistenza di un intermediario a vita breve tra il DNA e le proteine, chiamato RNA messaggero (mRNA), come fu dimostrato da Jacob, Brenner, Watson e François Gros. Sol Spiegelman mise in evidenza che la sua composizione in basi e la sequenza sono identiche a quella del DNA, ma diverse da quelle dell'RNA microsomiale.
I concetti informazionali introdotti in biologia in quegli anni sono tuttora usati nella biologia odierna. All'inizio, si pensava che la biologia molecolare fosse il risultato del diretto trasferimento di concetti dalla teoria dell'informazione ‒ elaborata negli anni Quaranta ‒ alla biologia. Attenti studi storici mostrano però che le trasposizioni dirette, tentate da diversi scienziati alla fine degli anni Quaranta o successivamente negli anni Sessanta dopo la scoperta del codice genetico, furono tutte fallimentari. Le nozioni usate nella teoria dell'informazione permearono progressivamente la biologia, ma in modo metaforico. Ciò non significa che i concetti informazionali non ebbero influenza sullo sviluppo della biologia: non solo offrirono ai biologi molecolari un linguaggio attraente per presentare i propri risultati, ma contribuirono a formare un humus intellettuale nel quale gli esperimenti, e in particolare la dimostrazione di una corrispondenza tra la sequenza nucleotidica del DNA e quella degli amminoacidi nelle proteine, potevano essere interpretati facilmente.
In seguito alla conferma delle ipotesi proposte da Crick ‒ l'ipotesi della sequenza e il dogma centrale ‒ la biologia molecolare è entrata in quella che Gunther Stent ha chiamato la sua fase dogmatica. In particolare, la regola del flusso di informazioni dal DNA all'RNA e alle proteine era considerata senza eccezioni. Quando Crick propose il termine 'dogma', non intendeva che la direzione del flusso fosse una verità incontestabile. Tuttavia, negli anni immediatamente successivi, la gran parte dei biologi molecolari fu convinta di questo.
Negli anni Sessanta, Howard M. Temin (1934-1994) avanzò l'ipotesi che alcuni virus capaci di provocare tumori usassero l'RNA come materiale genetico: suggeriva che essi fossero in grado di trasformare le cellule dopo l'inserzione nella cellula di un DNA copiato dall'RNA virale. Le sue idee incontrarono molte resistenze, in particolare perché stava tentando di 'invertire il dogma', e la sua ipotesi è stata accettata solamente parecchi anni dopo.
L'ultima scoperta della 'età classica' della biologia molecolare è stata la caratterizzazione dei meccanismi molecolari che controllano l'espressione genica, a opera di ricercatori francesi, tra cui Monod, Jacob e André-Michel Lwoff. Il meccanismo proposto, noto come 'modello dell'operone', fu sviluppato mediante una combinazione di tecniche genetiche e biochimiche. Il modello nacque quando vennero a contatto la sintesi degli enzimi adattativi ‒ enzimi prodotti dopo l'aggiunta di induttori, composti strutturalmente correlati ai loro substrati ‒ e i meccanismi che controllano la moltiplicazione di una specifica classe di batteriofagi, chiamati fagi temperati. L'esistenza degli enzimi adattativi era stata suggerita già dai primi microbiologi e, all'inizio del XX sec., erano stati descritti con precisione da Henning Karström. Marjory Stephenson (1885-1948) e più tardi Monod, che ha dedicato a questo tipo di enzimi più di due decenni di paziente studio, considerarono il fenomeno come un valido modello delle variazioni nella sintesi proteica durante il differenziamento cellulare e lo sviluppo.
Il fago temperato, che se associato al genoma dei batteri poteva rimanere inattivo oppure lisarli, costituiva un enigma. Infatti, ci fu una violenta polemica prima del 1949, quando Lwoff scoprì come indurre la replicazione del fago nei batteri in cui era rimasto inattivo fino a quel momento, aprendo quindi la strada allo studio sperimentale di questo fenomeno, che sarà brillantemente esplorato negli anni seguenti da Elie Wollman e Jacob. In entrambi i casi, l'espressione dei geni è controllata negativamente da proteine chiamate repressori, che si legano a monte dei geni che regolano e ne impediscono la trascrizione nell'RNA. I geni coregolati sono raggruppati nel genoma e trascritti in un'unica singola molecola: essi formano un operone. Il modello distingue quindi due diversi tipi di geni nel genoma: geni strutturali ‒ che codificano le normali proteine, gli enzimi, i recettori ‒ e geni regolatori, la cui unica funzione è quella di controllare l'espressione dei geni strutturali. La caratterizzazione di questi meccanismi molecolari portò alla soluzione di un paradosso che aveva ossessionato i genetisti sin dagli anni Trenta, ossia com'è possibile che diverse cellule di un organismo contengano gli stessi geni, ma abbiano strutture e funzioni differenti e producano proteine diverse.
L'apparente generalità dei meccanismi regolatori appena scoperti fece crescere la speranza che i biologi molecolari disponessero di modelli per spiegare le varie fasi del differenziamento e dello sviluppo embrionale. Negli anni Sessanta non furono più utilizzati il batterio Escherichia coli e i suoi virus, sui quali erano stati ottenuti molti importanti risultati, e la ricerca si concentrò sullo studio di organismi superiori, in particolare la drosofila, il nematode Caenorhabditis elegans e il topo. Alcuni studiosi usarono lo stesso approccio che era stato così fruttuoso negli anni Quaranta: scegliere un piccolo virus di un organismo superiore come il modo più semplice per penetrare la complessità di questi organismi. Brenner utilizzò il nematode perché la sua piccola dimensione ne avrebbe permesso una descrizione completa. Altri, come Jacob, scelsero il topo perché era il modello più vicino all'uomo. Nessuno di questi sistemi si rivelò migliore degli altri: ognuno produsse la propria messe di risultati nei decenni successivi.
Il modello dell'operone rappresenta quindi il primo passo verso la convergenza di embriologia e genetica e l'avvento della genetica dello sviluppo. Quest'ultima si è affermata agli inizi degli anni Ottanta, con l'isolamento e la caratterizzazione dei primi geni che controllano lo sviluppo, i geni omeotici contenenti una sequenza comune, l'omeobox, e la dimostrazione che essi si sono conservati durante l'evoluzione. Tuttavia, le radici della nuova disciplina sono chiaramente nel modello dell'operone: non solo perché motivò molti biologi allo studio dei meccanismi molecolari dello sviluppo, ma anche perché il concetto di gene dello sviluppo trovò un solido fondamento nell'esistenza dei geni regolatori e di un programma genetico per lo sviluppo.
Già nel 1961, Jacob e Monod ipotizzarono che ci fosse un complesso di geni regolatori in ogni genoma, che controlla l'espressione degli altri geni e costituisce il programma genetico dell'organismo. La nozione di programma genetico, proposta contemporaneamente da Ernst Mayr, divenne presto di moda: il paragone tra una parte del genoma e il programma di un computer era seducente. Alcuni biologi molecolari, tra cui Brenner, presero questa analogia molto sul serio e passarono mesi a imparare la programmazione dei computer, alla ricerca di indizi per comprendere la logica della vita. Presto arrivarono anche le critiche alla nozione di programma genetico; la logica dello sviluppo si stava rivelando piuttosto 'illogica'. L'espressione è tuttavia ancora in uso, metaforicamente, per designare l'insieme dei geni coinvolti negli stadi dello sviluppo.
Lo studio sulla regolazione genica trovò un complemento nell'attenta analisi delle proteine in grado di cambiare la propria conformazione in seguito all'interazione con piccole molecole e nell'elaborazione da parte di Monod, Jeffries Wyman e Jean-Pierre Changeux della teoria allosterica, nel 1965. Il repressore è una proteina allosterica, al pari di molti enzimi, recettori di membrana e diverse altre proteine. L'esistenza delle proteine allosteriche non è il "secondo segreto della vita", come affermò Monod, né la teoria allosterica rappresenta un modello in grado di spiegare tutte le trasformazioni delle proteine. Tuttavia, l'abilità di queste molecole di alterare la propria conformazione è chiaramente un tratto essenziale della spiegazione delle loro funzioni: è particolarmente vero per le proteine coinvolte nei canali e nelle reti dei segnali intracellulari che adattano la velocità di divisione cellulare alle necessità dell'organismo.
Il decennio intercorso tra la decifrazione del codice genetico e la capacità di manipolare i geni rappresentò per la biologia molecolare un periodo di successi alternati a fallimenti. I genetisti molecolari furono considerati gli artefici di una rivoluzione scientifica in biologia: i suoi leader invasero le altre discipline introducendone i concetti e le spiegazioni riduzionistiche dei fatti biologici. Furono create organizzazioni sovranazionali, come la European Molecular Biology Organization (EMBO) nel 1964. Alcuni biologi molecolari in quegli anni erano fermamente convinti che i complessi fenomeni fisiologici si potessero ridurre direttamente alla struttura delle macromolecole. Nei paesi dove c'era stata una forte resistenza alla biologia molecolare, il suo sviluppo portò all'indebolimento o alla scomparsa dalle università delle discipline biologiche 'tradizionali', come la tassonomia o la zoologia.
Paradossalmente, questa istituzionalizzazione della 'nuova biologia' non fu accompagnata da una rapida accumulazione di dati, a causa delle limitazioni tecnologiche imposte ai biologi molecolari: isolare un gene o una specifica proteina in un batterio richiedeva molto lavoro e una gran quantità di tempo. Negli organismi superiori, data la dimensione del genoma e la complessità delle loro strutture, gli stessi obiettivi erano fuori dalla portata dei biologi molecolari. Di fronte a tali difficoltà, alcuni di questi leader sembravano pessimisti, convinti che isolare e modificare i geni nei mammiferi e nell'uomo sarebbe rimasto un traguardo irraggiungibile.
Il rapido sviluppo della tecnologia di manipolare i geni alla metà degli anni Settanta fu quindi così sorprendente e imprevedibile che non può essere considerato una conseguenza naturale delle scoperte fondamentali dei decenni precedenti. Esso può essere descritto come una serie di scoperte concettualmente distanti tra loro ‒ come la caratterizzazione degli enzimi di restrizione sintetizzati dai microorganismi e capaci di tagliare le sequenze del DNA in siti specifici ‒ e di miglioramenti delle tecnologie preesistenti, quali l'elettroforesi su gel ad alta risoluzione che consente la separazione di frammenti di DNA; la tappa finale è stata la possibilità di manipolare i geni.
Alla fine degli anni Settanta i biologi molecolari avevano sviluppato tutte le tecnologie oggi in uso: il clonaggio, per isolare i geni o le copie di mRNA (o di DNA complementare); le diverse forme di transgenesi da piante e animali a batteri, e viceversa; e le tecniche di sequenziamento e di mutagenesi sito-specifiche, che hanno aperto la strada alla determinazione della struttura fine dei geni e alla loro modificazione mirata. Nel 1983 Kary Mullis mise a punto la reazione a catena della polimerasi (PCR, polymerase chain reaction), una tecnica importante che permette di moltiplicare minuscole quantità di DNA.
Queste nuove tecnologie hanno rappresentato l'alba di una nuova era di sviluppo per la biologia, caratterizzata da un'accumulazione di dati rapida e senza precedenti; il programma di sequenziamento del genoma umano lanciato nel 1986 faceva parte di questa nuova epoca.
Gli studi sull'organizzazione macromolecolare degli organismi ha prodotto molte scoperte sorprendenti: i geni sono organizzati in esoni e introni, tra i quali solo i primi portano l'informazione genetica; la trascrizione è preceduta dallo splicing dell'RNA, copiato direttamente dal genoma in mRNA funzionale; il codice genetico si è rivelato non completamente universale, poiché alcuni organismi come i ciliati usano i codoni di stop per incorporare un particolare amminoacido nelle proteine; la sequenza nucleotidica delle molecole di RNA può essere modificata dopo la trascrizione e lo splicing da un processo chiamato 'editing', che conferisce all'RNA capacità di codificazione non direttamente inscritte nel genoma; parti del genoma si possono riorganizzare in alcune cellule, per esempio nel sistema immunitario che usa questo processo per generare la diversità dei suoi recettori e degli anticorpi.
Al momento della scoperta, ognuno di questi risultati fu considerato un riuscito attacco al dogma centrale della biologia molecolare. Nonostante il loro carattere iconoclasta e l'aggiunta di nuovi livelli di complessità, essi non riuscirono a intaccare in modo reale il nucleo della biologia molecolare: l'esistenza dell'informazione genetica nel DNA, la sua traduzione nelle proteine mediante il codice genetico e la trascrizione del DNA nell'RNA come livello principale di controllo dell'espressione genica.
Tuttavia, i dati che si andavano accumulando furono responsabili di un enorme cambiamento nella concezione dell'azione dei geni, e più profondamente in quella informazionale della vita, passato inosservato perché non dovuto a un singolo spettacolare esperimento, ma all'accumulazione dei risultati. È divenuto chiaro che le complesse strutture e funzioni esistenti nell'organismo non sono opera di un limitato numero di geni, ma derivano piuttosto dall'azione combinata di centinaia e migliaia di prodotti genici, nessuno dei quali è direttamente responsabile di queste strutture e funzioni. Inoltre, nello stesso organismo o in diversi organismi lungo il percorso evolutivo, ogni prodotto genico può prendere parte allo sviluppo in differenti momenti e stadi. Gli obiettivi dei biologi si sono quindi spostati dalla diretta caratterizzazione dei geni, che sembrava condurre all'immediata comprensione delle complesse strutture e funzioni dell'organismo, alla ricerca del modo in cui i componenti molecolari codificati nel genoma si assemblano e cooperano per generare strutture e funzioni. Questo processo di assemblaggio sembra più importante dei mattoni utilizzati: l'informazione genetica è coinvolta direttamente nella costruzione dei mattoni, ma soltanto indirettamente nell'assemblaggio.
Il forte riduzionismo di alcuni dei primi biologi molecolari ‒ la correlazione diretta delle complesse strutture e funzioni degli organismi con uno o con un piccolo numero di prodotti genici ‒ è stato minato anche dall'importante sviluppo della biologia cellulare negli anni Settanta. Questa 'rivincita', seguita a un periodo in cui le cellule erano state considerate solamente come contenitori delle macromolecole, trae le sue origini da due ordini di eventi. Il primo è stato lo sviluppo di nuove tecnologie ‒ come l'immunocitochimica ‒ che rivelano al microscopio ottico direttamente l'intricata architettura e il complesso traffico cellulare. Il secondo è stato il progressivo riconoscimento dell'esistenza di una gerarchia di strutture all'interno degli organismi, e che offrire una spiegazione di quanto avviene a livello molecolare non esclude una descrizione precisa degli altri livelli gerarchici e delle altre regole funzionali specifiche per ogni livello.
Infine, un resoconto storico della biologia molecolare non deve omettere il progresso costante e regolare nella determinazione delle strutture macromolecolari. Nel 1965, alla fine dell'età dell'oro delle scoperte della biologia molecolare, la lista delle proteine di struttura nota era molto breve: erano solo due, la mioglobina e l'emoglobina, con una risoluzione molto bassa. Attualmente sono state caratterizzate strutture della complessità dei ribosomi, e la prossima frontiera sarà la determinazione della struttura dei complessi macromolecolari troppo instabili per essere cristallizzati, come quelli coinvolti nell'inizio della trascrizione, dell'allungamento, nello splicing dell'RNA o nel trasporto fuori del nucleo. Ancora una volta, l'incremento senza precedenti della conoscenza è rimasto in gran parte confinato all'interno del circolo degli specialisti, in quanto è il risultato di un progresso costante, in cui ogni struttura dava il suo minimo contributo al disegno generale. Questo aspetto strutturale dei recenti sviluppi della biologia è probabilmente il più importante al livello fondamentale, perché incorpora più che mai gli organismi nel mondo chimico, nonché al livello pratico, in quanto apre numerose nuove strade alle industrie biotecnologiche e farmaceutiche.
La biologia molecolare ha tentato di fornire la risposta al quesito 'Che cos'è la vita?' e la spiegazione all'enigma della vita. Negli anni Sessanta e Settanta, gran parte dei suoi leader aveva condiviso l'illusione di esserci riuscita, cancellando la questione dall'agenda dei biologi; un'eredità della biologia molecolare era la 'morte della vita'. Ma era soltanto un'illusione. La risposta data dai biologi molecolari ‒ l'esistenza di un codice genetico e dell'informazione genetica ‒ non è più considerata soddisfacente e la domanda è riemersa recentemente. L'informazione genetica è importante per riprodurre i mattoni costitutivi degli organismi di generazione in generazione, ma non dice nulla sul modo in cui vengono assemblati questi mattoni: l'enigma della vita è in questo processo di assemblaggio che le tecnologie postgenomiche stanno ricostruendo. Sfortunatamente, finora questo processo di assemblaggio sembra illogico, apparendo più il prodotto di un bricoleur che di un ingegnere.
Inoltre, in seguito alla scoperta delle capacità enzimatiche dell'RNA all'inizio degli anni Ottanta, molti biologi pensano che l'attuale mondo vivente, in cui il trasporto dell'informazione è affidato al DNA e le proteine sono gli agenti attivi, sia stato preceduto da uno o più mondi viventi in cui un'unica molecola ‒ l'RNA? ‒ era capace tanto di autoreplicarsi quanto di catalizzare le reazioni metaboliche. Il codice genetico e l'informazione genetica nella forma in cui ci sono noti, sono successive creazioni della vita, il prodotto dell'evoluzione.
In tal modo, la parentesi della biologia molecolare è ora chiusa; il nome stesso sta scomparendo dai discorsi dei biologi. I suoi risultati e strumenti principali rimangono onnipresenti nella ricerca biologica, ma è svanita la speranza che i suoi semplici modelli siano la soluzione all'enigma della vita.
L'età della biologia molecolare è finita; è una buona notizia per gli storici, che sono ora in grado di apprezzare meglio cos'è stata: una breve parentesi nella lunga storia della biologia, durante la quale gli studiosi hanno potuto illudersi di aver definitivamente capito il senso dell'enorme complessità e diversità del mondo vivente. Il futuro della biologia, tra l'accumulazione dei dati molecolari e i tentativi di modellizzazione, rimane da scrivere.