La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Ospedali e universita dal 1870 al 1970
Ospedali e università dal 1870 al 1970
Oggi quasi tutti gli abitanti dei paesi sviluppati ritengono l'ospedale il luogo più appropriato in cui andare quando si necessita di cure. Un individuo gravemente malato e bisognoso di cure mediche intensive oppure di un intervento chirurgico, o una donna in procinto di mettere al mondo un bambino, di solito si recano in ospedale. In alcune regioni del mondo il periodo medio di degenza (il numero di giorni che una persona passa in ospedale ogni volta che è ricoverata) si sta riducendo e molti interventi che un tempo richiedevano diversi giorni di ricovero oggi possono essere effettuati a livello ambulatoriale, tuttavia la maggior parte degli individui si ricovera ancora in ospedale per le patologie più serie.
Probabilmente la gente decide di abbandonare le comodità della propria casa per entrare in ospedale perché è convinta di ricevere il miglior trattamento medico possibile, che naturalmente è il prodotto dell'ambiente culturale in cui vive. Da più di un secolo, quelli che riteniamo i trattamenti migliori sono legati all'idea di scienza, alla convinzione che la scienza possieda, se non il segreto, almeno gli elementi fondamentali per migliorare la salute e prolungare la vita. Molte delle verità che consideriamo scientifiche nascono dal lavoro svolto nelle università; ai nostri giorni, quasi tutti i principali ospedali sono a esse collegati. Spesso ne portano il nome ‒ Johns Hopkins University, University College di Londra ‒ o sono strettamente associati a specifici atenei, come il Massachusetts General Hospital di Boston e la Harvard University sull'altra sponda del fiume Cambridge, nel Massachusetts. In alcuni casi, l'ospedale è stato creato dall'università stessa; in altri, il rapporto tra l'uno e l'altra si è instaurato quando entrambe erano ormai istituzioni consolidate.
Ci si può chiedere per quale motivo le università e gli ospedali dovrebbero interagire tra loro. Questa relazione, che oggi ci sembra così evidente e vantaggiosa per entrambi i tipi di istituzione, ha dovuto in realtà essere inventata prima di diventare una consuetudine. La medicina universitaria europea ha una lunga storia, che si è sviluppata in Italia (Bologna e Padova), in Francia (Parigi e Montpellier) e in Inghilterra (Oxford); tuttavia, per lungo tempo lo studio della disciplina è stato incentrato soprattutto sui testi, relegando la pratica clinica in un ruolo marginale. Coloro che studiavano medicina all'università lo facevano senza 'sporcarsi le mani' con la cura quotidiana dei malati, mentre coloro che se ne occupavano probabilmente avevano passato ben poco tempo all'università (se mai l'avevano frequentata). Questa separazione si basava su quelli che erano ritenuti validi motivi teorici e pratici. Le conoscenze accademiche erano inadeguate per affrontare la realtà quotidiana della malattia; per potersi occupare in modo efficace dei membri di una comunità era necessario conoscere il loro ambiente, la loro famiglia, il tipo di patologie che solitamente si riscontravano in un certo villaggio o in una particolare città, e queste erano proprio le conoscenze locali specifiche che le università erano poco preparate, e poco inclini, a dispensare.
Negli Stati Uniti, la separazione tra ospedali e università fu mantenuta fino al XIX sec. inoltrato. Anche se all'interno (e all'esterno) degli istituti universitari esistevano scuole di medicina, gli ospedali erano abbastanza indipendenti da esse. Sorprendentemente, il cambiamento che avrebbe portato al rapporto che oggi ci è tanto familiare non si verificò in una delle istituzioni più famose situate nel centro economico e culturale del paese. La prima università americana ad avere un proprio ospedale non si trovava in alcuna delle fiorenti metropoli della costa orientale, ma nella relativamente piccola comunità di Ann Harbor, in quello che allora era lo Stato occidentale del Michigan; fondata nel 1850, la University of Michigan Medical School si era presto conquistata una notevole fama.
Come accadeva nella maggior parte delle scuole di medicina, di solito gli studenti accedevano alla facoltà quando avevano già acquisito una buona esperienza clinica; se volevano vedere i pazienti nel corso dei loro studi chiedevano il permesso (a volte concesso, a volte no) di visitare uno degli ospedali privati della zona. Il permesso spesso aveva alcune limitazioni; agli studenti veniva detto se avrebbero potuto visitare i pazienti, e quali, o addirittura se avrebbero dovuto usare la porta principale o passare da quella sul retro o da un'entrata laterale. Questo era dunque negli Stati Uniti il tipo di rapporto tra ospedali e università.
Alla fine degli anni Sessanta dell'Ottocento, fu proposto al consiglio di amministrazione della University of Michigan di aprire un ospedale. Il consiglio, come era prevedibile, accolse il suggerimento con qualche perplessità; osservò che le università avevano lo scopo di produrre conoscenza e d'insegnare, mentre le scuole professionali dovevano addestrare le persone alla pratica di una professione. Il consiglio paragonò quella medica a due altre professioni che godevano opinabilmente di maggior prestigio; sostenne che la facoltà di Ingegneria non vedeva alcuna necessità di possedere e gestire una propria ferrovia, così come la facoltà di Giurisprudenza non avanzava l'esigenza di possedere e gestire un tribunale. Chiedeva allora perché la facoltà di Medicina avrebbe dovuto possedere e gestire un ospedale. La risposta fu che gli studenti avevano bisogno di imparare in una situazione clinica reale, e venne sottolineata la difficoltà di accedere agli ospedali esistenti. Forse qualcuno parlò anche dei vantaggi che il contatto con i pazienti avrebbe comportato per la ricerca, anche se ancora per qualche tempo quello non sarebbe stato uno dei motivi a giustificazione del rapporto tra le due istituzioni. Le voci in favore del cambiamento prevalsero, e nel 1869 la University of Michigan trasformò la casa di un professore nel primo ospedale americano di un'università, che fu presto seguito da un edificio della University of Pennsylvania costruito appositamente per accogliere l'ospedale, e in breve tempo da molti altri.
A Londra i fatti si svolsero un po' diversamente. Sebbene i medici e, più spesso, i chirurghi si facessero accompagnare in corsia dagli studenti, fu soltanto nel XIX sec. che le scuole di medicina cominciarono a essere collegate a ospedali già esistenti e in alcuni casi addirittura a nascere da essi. Lo University College di Londra aprì il proprio ospedale nel 1834, il King's College nel 1839. Poco dopo la metà del secolo, a Londra c'erano già dodici ospedali a cui erano connesse scuole di medicina, e la maggior parte dei letti si trovava in ospedali universitari. Tuttavia, almeno all'inizio il rapporto tra ospedale e università non fu molto stretto. Nel corso dell'Ottocento, gli amministratori degli ospedali del distretto di Londra cominciarono a intravedere i vantaggi che tale rapporto avrebbe comportato per gli studenti ai fini di esercitare la propria missione principale, cioè quella di curare i pazienti, e nel 1876 il London Hospital cominciò a stanziare fondi per una scuola di medicina al suo interno. La questione dei fondi rimase sempre delicata. All'inizio del Novecento, si stabilì chiaramente che il denaro raccolto doveva essere utilizzato solo per curare i pazienti e non per istruire i medici.
I rapporti tra università e ospedali rappresentavano, come abbiamo accennato in precedenza, un vantaggio per entrambe le istituzioni. Da una parte le università potevano controllare il luogo in cui avveniva il tirocinio clinico; dall'altra, l'ospedale non doveva più essere il posto dove i poveri andavano a morire, ma diventava il luogo in cui si recavano le classi medie per ricevere il miglior trattamento medico, godendo, nello stesso tempo, del prestigio conferitogli dal nome di una famosa università. Non era soltanto una questione di nome: infatti anche il corpo docente di quell'università si sarebbe recato regolarmente a visitare i pazienti in ospedale. Quante cure sarebbero state poi prodigate dai professori e quante dai tirocinanti è un problema che sarebbe sorto subito dopo la nascita di quel rapporto, e che continua tuttora a essere importante per chi si occupa di politiche pubbliche. Le questioni finanziarie non erano irrilevanti, soprattutto in Inghilterra. Come ha osservato Abraham Flexner in Medical education in Europe, pubblicato nel 1912, i laboratori comportavano molte spese e pochi guadagni, quindi gli ospedali furono ben lieti di delegare il controllo delle scuole di medicina.
L'istruzione clinica era tutta un'altra cosa, perché ogni studente, oltre a pagare le tasse era un potenziale collega al quale rivolgersi in futuro; di conseguenza l'integrazione relativa all'addestramento clinico si sviluppò molto più lentamente. Negli Stati Uniti esiste ancora questa separazione, le facoltà di Medicina si occupano della preparazione degli studenti per i primi quattro anni, mentre gli internati dipendono dai vari reparti clinici che hanno un rapporto meno diretto con l'università.
Nei paesi europei, all'inizio del XX sec., il rapporto tra ospedali e università prese forme diverse. In Prussia, le due istituzioni erano strettamente collegate e dipendevano entrambe dallo Stato, mentre nel resto della Germania i rapporti tra università e ospedali erano notevolmente diversificati. In generale, il settore amministrativo e quello medico operavano separatamente ma in stretta collaborazione tra loro, con grandi vantaggi per entrambi. In Francia, anche se superficialmente il rapporto poteva sembrare molto simile, esisteva in realtà una differenza sostanziale che rendeva difficile introdurre cambiamenti; l'amministrazione regnava sovrana e indipendentemente dai medici che lavoravano nell'ospedale. Di conseguenza, sia la ricerca sia l'istruzione ne soffrivano.
Quando si cominciò a comprendere l'importanza dei risultati della ricerca scientifica per la cura dei pazienti, le relazioni tra ospedali e università furono condizionate soprattutto dalle scoperte scientifiche delle seconde. Ciò può essere visto in diversi modi. Forse il primo collegamento chiaro emerse durante la rivoluzione microbiologica, quando si scoprì che erano particolari microorganismi la causa di determinate malattie. A fare questa scoperta furono soprattutto i ricercatori delle università; tuttavia, le nuove conoscenze permisero ai medici non solo di diagnosticare specifiche malattie, ma anche di adottare misure basate sui nuovi concetti di asepsi e antisepsi, che consentivano di curare meglio i pazienti negli ospedali. I concetti essenziali furono divulgati molto prima della rivoluzione microbiologica. L'importanza di lavarsi le mani era stata enfatizzata da Ignaz Philipp Semmelweis (1818-1865) nella Vienna della metà del XIX sec.: egli non aveva gli strumenti per individuare la causa specifica dell'epidemia di febbre puerperale che stava dilagando nell'ospedale, ma riuscì a controllare l'incidenza delle infezioni con lavande a base di cloro. Più tardi, allo stesso modo il chirurgo di Glasgow Joseph Lister (1827-1912) riuscì a ridurre l'incidenza delle infezioni postoperatorie. La nuova scienza della microbiologia permise ai ricercatori di individuare gli specifici microorganismi che causavano queste e molte altre malattie. Di conseguenza, nella struttura degli ospedali si iniziò a prevedere la presenza di laboratori dove poter condurre indagini microbiologiche. Questi luoghi erano importanti non solo perché le ricerche influivano sulla cura dei pazienti, ma anche perché permettevano ai medici di apprendere la nuova scienza, di acquisire particolari competenze e di insegnarle agli studenti. Inoltre erano luoghi che potevano essere utilizzati per la ricerca clinica.
L'invenzione da parte di Wilhelm Conrad Röntgen (1845-1923) nel 1895 in Germania dell'apparecchiatura per i raggi X, per la quale nel 1901 gli fu conferito il premio Nobel per la fisica, fornì lo spunto per un altro tipo di collaborazione tra università e ospedali. Quando si scoprì che la nuova macchina era facile da costruire purché si conoscesse un po' di fisica, gli ospedali cominciarono a chiedere l'aiuto dei professori di fisica delle università ‒ più in Inghilterra che negli Stati Uniti ‒ e il rapporto divenne simbiotico come quello che si era creato con la microbiologia. La scoperta degli usi medici delle radiazioni servì soltanto a mettere ulteriormente in evidenza la necessità che persone specificamente addestrate lavorassero negli ospedali.
Forse la più importante applicazione della ricerca scientifica condotta nelle università alla pratica ospedaliera fu legata alla scoperta dell'insulina, avvenuta negli anni Venti del Novecento all'università di Toronto. Per i loro studi, Frederick G. Banting e John James R. Macleod ricevettero nel 1923 il premio Nobel per la medicina o la fisiologia. Benché fosse partita da un'università, la scoperta produsse immediatamente importanti cambiamenti negli ospedali, poiché le migliaia di persone affette da diabete che in precedenza erano consumate dagli effetti metabolici della malattia ora potevano riguadagnare peso e vivere una vita relativamente normale (loro stesse e i medici curanti, tuttavia, si accorsero ben presto che la terapia insulinica, pur salvando la vita, comportava un'altra serie di problemi).
All'inizio del XX sec., molti ricercatori universitari si aggregarono in istituzioni scientifiche come l'American Society for Clinical Investigation (ASCI), che si riunì per la prima volta nel 1909. Queste istituzioni incoraggiarono la ricerca clinica fondando sia società alle quali gli studiosi potevano presentare i loro lavori, sia riviste su cui questi stessi potevano essere pubblicati e, più tardi, raccogliendo i fondi necessari alla ricerca clinica.
I coordinatori e i membri di tali gruppi, quasi senza eccezione, erano medici universitari. Questi medici non potevano svolgere le loro ricerche senza accedere ai reparti clinici degli ospedali; vedevano pazienti a pagamento, usavano i laboratori dell'ospedale per portare avanti i loro studi e coinvolgevano i tirocinanti nelle ricerche. Il rapporto tra ospedale e università fu quindi rafforzato dai fondi che affluivano alla ricerca clinica in conseguenza del fatto che essa era condotta in ambiente ospedaliero.
Inizialmente dubbiose sulla necessità di avere un ospedale, le università finirono per autodefinirsi in rapporto a essi. Già agli albori del Novecento, il "Journal of the American medical association" proclamava che l'ospedale, con le sue corsie, i suoi ambulatori, le sue sale operatorie, il suo obitorio e i suoi laboratori era, in buona misura, una scuola di medicina. Così gli ospedali furono ampliati per rispondere alle esigenze delle loro università sorelle. Nel 1907, William H. Welch (1850-1934), un insigne professore di patologia della nuova Johns Hopkins School of Medicine, dichiarò che "il bene più prezioso di una scuola di medicina è un buon ospedale generale ben equipaggiato", il cui scopo principale era quello di essere al servizio dell'istruzione medica pur rimanendo al servizio dei pazienti.
Il tipo di collaborazione tra le due istituzioni è ben sintetizzato nell'introduzione a quello che sarebbe divenuto il testo canonico della riforma dell'istruzione medica del XX sec. (e in un certo senso anche del XXI), il rapporto del 1910 di Flexner alla Carnegie Foundation for the Advancement of Teaching intitolato Medical education in the United States and Canada. Dopo aver premesso che la collaborazione tra ospedale e università poteva anche essere 'strutturata in modo molto informale', l'autore dell'introduzione, Henry Pritchett, osservava che un ospedale sotto il completo controllo dell'università era indispensabile per una scuola di medicina quanto lo erano il laboratorio di chimica o di patologia.
La scelta del laboratorio scientifico come termine di paragone è significativa e costituisce un'ulteriore conferma del fatto che il modello scientifico era stato fondamentale per cementare lo stretto collegamento tra università e ospedali.
Paradossalmente, una delle conseguenze dello sviluppo degli ospedali fu proprio l'allentamento dei loro rapporti diretti con le università. A partire dai primi anni del Novecento, gli ospedali cominciarono a essere visti come luoghi di cura primari per le malattie gravi di tutta la popolazione, non soltanto dei poveri; ciò comportò un notevole aumento del loro numero. Dal censimento del 1873 risultava che negli Stati Uniti esistevano 120 ospedali ca., esclusi quelli per la cura dei malati di mente; all'epoca del successivo censimento, nei primi anni Venti del Novecento, il loro numero era già salito a più di 6000.
Molti di quegli ospedali (probabilmente la maggior parte) erano minuscoli, parecchi non erano altro che piccole pensioni trasformate in ospedali, con pochi letti e personale limitato. Dato il loro accrescersi, e la diversa natura che stavano assumendo, non era possibile che tutti avessero un contatto diretto con le università. Nonostante ciò, gli atenei continuarono a esercitare una forte influenza sul loro modo di curare i pazienti, in parte anche perché gli ospedali universitari costituivano un modello di eccellenza. Inoltre, poiché gli studenti svolgevano buona parte del loro tirocinio negli ospedali universitari, quando successivamente andavano a curare i pazienti nelle strutture locali ben più piccole, portavano con sé tutto quello che avevano imparato.
In altri paesi, si riscontravano diversità; in Inghilterra, per esempio, la distinzione principale fu quella tra i grandi ospedali e i molto più numerosi ospedali locali. Una certa integrazione a livello nazionale si riuscì a ottenere con il National Health Service Act, la legge che, nel 1946, introdusse il servizio sanitario nazionale e istituzionalizzò in ogni regione il rapporto tra scuole di medicina e strutture per la pratica ospedaliera.
Gli ospedali dovevano operare su basi scientifiche e, poiché la scienza dipende essenzialmente dall'attività di ricerca, all'inizio del secolo molti giunsero alla conclusione che tutti dovessero essere impegnati in qualche tipo di ricerca. Tradizionalmente, gli ospedali erano i luoghi in cui venivano osservate le malattie, mentre i laboratori erano la sede in cui si effettuavano gli esperimenti: per abolire questa dicotomia era necessario rivedere il funzionamento degli ospedali. Un modo per farlo era quello di riunire il personale sanitario in gruppi che studiassero la maniera migliore per applicare le nuove terapie.
Questo tipo di studi ‒ ossia i test clinici ‒ sono serviti a legare tra loro ospedali e università sotto molti aspetti importanti. Hanno infatti permesso di affrontare questioni teoriche, come il concetto stesso di test clinico, l'idea che il trattamento dovesse essere in qualche modo sistematizzato e che il lavoro di tutto il personale sanitario dovesse essere coordinato. Così facendo, i riformatori della medicina, come osserva Harry M. Marks in The progress of experiment: science and therapeutic reform in the United States, 1900-1990 (1997), divenivano una comunità politica; spinti dalla loro fede nella scienza e da un pizzico di interesse, favoriscono il passaggio dal rapporto di fiducia con un singolo medico all'utilizzo dei miracolosi test clinici randomizzati a doppio cieco nei quali al gruppo di controllo viene somministrato un placebo.
Altre questioni sono di tipo strutturale: il fatto stesso che gli ospedali riuniscano molti pazienti facilita la ricerca. L'istituzione dei centri di ricerca negli ospedali ha favorito la ricerca clinica in generale; l'analisi di un gran numero di dati ha suggerito una nuova serie di modi per applicare i concetti statistici a quei dati, per correggere le variazioni, e così via. Infine, la necessità di manipolare grandi quantità di dati ha determinato lo sviluppo di nuovi sistemi di gestione delle informazioni. Tutte queste innovazioni hanno creato l'esigenza di interazioni fra il personale delle università e quello degli ospedali.
Dopo la Seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti la ricerca e lo sviluppo degli ospedali furono favoriti da diverse iniziative federali; per esempio, ci fu una grande espansione dei National Insitutes of Health, che negli anni Cinquanta sostennero notevolmente la libera ricerca. I loro fondi servirono a finanziare e a estendere la ricerca biomedica in molti campi, oltre a offrire opportunità di formazione ai medici e agli scienziati. A livello federale furono stanziate risorse per la costruzione e la ristrutturazione di ospedali, soprattutto con la legge Hill-Burton. La GI Bill of Rights includeva anche l'istruzione medica, favorendo la formazione specialistica di molti soldati e medici generici che avevano prestato servizio durante la guerra. I nuovi Veterans Administration Hospitals fungevano non soltanto da luoghi di cura ma anche da scuole di formazione, che intrattenevano rapporti attentamente calibrati sia con gli ospedali accademici sia con le università.
Sempre negli Stati Uniti, un altro importante cambiamento fu prodotto dall'approvazione di Medicare e Medicaid nel 1965. Medicare è un programma federale che offre cure mediche soprattutto agli anziani e ai disabili, mentre Medicaid è amministrato dagli Stati e si occupa della cura degli indigenti. Benché entrambi avessero, e continuino ad avere, problemi, essi hanno influito notevolmente sull'utilizzo dei pazienti per l'insegnamento e la ricerca, e quindi sui rapporti tra università e ospedali. In precedenza, le persone fornite di mezzi limitati erano ricoverate con l'implicito (o esplicito) accordo che sarebbero state curate 'gratuitamente' a patto che si prestassero a essere oggetto di insegnamento e soggetto di ricerca. Quando lo Stato cominciò a pagare le loro cure, il senso di obbligo diminuì da entrambe le parti; il sistema federale cominciò poi a introdurre norme a livello nazionale che enfatizzavano l'etica della ricerca e imponevano limiti alla possibilità dei tirocinanti di farsi pagare per le loro prestazioni; in sintesi, rientravano in quel movimento più generale che tendeva a permettere ai pazienti di esercitare sempre più la loro autonomia. Nel 1965, anche in Francia fu approvata una legge che incoraggiava l'affiliazione degli ospedali alle facoltà di Medicina, oltre a promuovere la ricerca scientifica negli ospedali.
Oggi alcuni ospedali sembrano sempre più interessati a soddisfare le necessità di quelli che vedono più come 'clienti' che come 'pazienti'. Le persone che si recano in queste istituzioni, comunque vengano chiamate, chiedono gli stessi servizi che sono abituate a trovare nei centri commerciali: parcheggi, negozi e un ambiente accogliente. Gli ospedali stanno cercando di accontentarle, a volte dando addirittura all'istituzione l'aspetto di un centro commerciale oppure inserendola all'interno di un centro commerciale. Le università hanno seguito questa tendenza, cercando di fare del loro nome un 'marchio' conosciuto non solo nella zona dove operano ma in tutto il paese. Il trasferimento della medicina nei centri commerciali è stato accompagnato dall'attribuzione di una maggiore importanza alle ricerche esterne.
Verso la fine del secolo scorso il rapporto tra ospedali e università è divenuto più teso; ciò è imputabile in parte a motivi politici, in parte semplicemente al fatto che ormai esistono i mezzi tecnici per controllare quanto è stato speso e che cosa è stato prodotto. Questa capacità tecnica è arrivata nello stesso momento in cui in molti paesi i costi della sanità sono esplosi, costringendo i finanziatori a limitare le spese; un sistema possibile era quello di ridurre il numero delle prestazioni per cui erano disposti a pagare. Molti degli enti che erogano fondi per la cura dei pazienti non ritengono sia loro compito finanziare anche la ricerca clinica. Inoltre il rapporto tra università e ospedali è diventato più difficile a causa del predominio di una ricerca scientifica strutturata su un modello biomedico che opera su porzioni di organismi e, di conseguenza, non richiede più l'accesso ai pazienti. Questa ricerca ha dato risultati eccezionali; ci si chiede tuttavia se si stia prestando la giusta attenzione alla ricerca clinica.
La simbiosi tra ospedali e università è considerevolmente mutata nell'arco dell'ultimo secolo. La missione delle università non è molto cambiata, rimane sempre quella di istruire e di produrre nuove conoscenze, ma la loro interazione con gli ospedali ha messo in luce una serie di problemi. Occorre porsi la domanda se la missione degli ospedali debba essere quella di accogliere i membri più bisognosi della comunità locale oppure i pazienti interessanti ai fini dell'insegnamento o importanti per il programma di ricerca dei professori. Occorre inoltre chiedersi chi dovrebbe coprire i costi di tale attività e se il denaro della sanità pubblica sia tenuto a sostenere anche il lavoro delle università.
Non sono certo interrogativi nuovi, tuttavia le risposte a queste domande continueranno a essere oggetto di trattative e saranno diverse a seconda dei luoghi e dei momenti.