La seconda sofistica e la narrativa
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La convenzionalità retorica di gran parte della produzione in prosa di età imperiale è riscattata dalle opere di Luciano, forse l’autore più caustico e brillante della letteratura greca. Non mancano, peraltro, anche altri elementi che sembrano preludere alla modernità: dalle nevrosi di Elio Aristide alla nascita del genere romanzesco.
Già nell’antichità, con il nome di “seconda sofistica” (coniato nel III secolo da Flavio Filostrato nelle Vite dei sofisti) si indica un fenomeno culturale che è attivo per tutta l’età imperiale, animato da retori che, come vere e proprie star, girano in tournée per le principali città dell’impero, riempiendo i teatri di folle ansiose di ascoltare le loro declamazioni. I nuovi sofisti non si limitano a performance dal vivo, ma mettono per iscritto molte delle proprie orazioni e compongono anche opere autonome; questa letteratura, per secoli considerata un esempio di bello stile, si rivela importante per la comprensione di aspetti culturali, sociali e ideologici dell’età imperiale, che proprio i retori di successo contribuiscono a diffondere
L’antesignano degli esponenti della seconda sofistica è senz’altro Dione di Prusa, soprannominato Cristostomo (“bocca d’oro”) per la sua grande eloquenza. Dopo gli studi si reca a Roma, ottenendo un notevole successo come conferenziere; caduto in disgrazia al tempo di Domiziano, conduce per alcuni anni la vita dell’esule, accostandosi alla filosofia cinica. Riabilitato sotto Nerva, ottiene la cittadinanza romana e acquista la stima dell’imperatore Traiano. Di lui si conserva un corpus di un’ottantina di opere (in alcuni casi però l’attribuzione è scorretta), in genere in forma di dialogo o discorso. Particolarmente rilevanti sono l’orazione 52, comparazione tra le tragedie dedicate a Filottete da ciascuno dei tre grandi tragici (noi abbiamo solo quella di Sofocle), e l’orazione 7, l’Euboico, in cui narra di un proprio naufragio sulle coste dell’Eubea: lì trova l’ospitalità da un cacciatore che gli fa conoscere le gioie della vita semplice, in uno scenario idilliaco che però non nasconde un quadro di sostanziale spopolamento delle zone rurali della Grecia.
Un corpus di una cinquantina di orazioni ci è tramandato anche ad opera di un altro importante sofista, Elio Aristide. Risultano particolarmente importanti l’Encomio a Roma, dove vengono celebrati la pax romana e il ruolo della cultura greca all’interno dell’impero, e soprattutto i sei Discorsi sacri, in cui l’autore redige una cronaca appassionata, visionaria e non priva di fanatismo dei due anni trascorsi presso il tempio di Asclepio a Pergamo, nei quali, praticando l’incubazione (ovvero dormendo all’interno del santuario, in attesa di apparizioni oniriche inviate dal dio, che non mancava di fornire prescrizioni mediche e rituali ben precise), riesce a guarire da una grave forma di nevrosi che l’ha colpito.
Temi forse meno impegnati caratterizzano invece la produzione di Claudio Eliano di Preneste, noto fin dall’antichità per la particolare dolcezza dell’elocuzione. Di lui rimane l’ampio trattato Sulla natura degli animali, dove, a partire da basi quasi esclusivamente letterarie, sono raccolti esempi della presenza di virtù, vizi, sentimenti anche presso gli animali (non disgiunti, peraltro, da un’attenzione a caratteristiche sorprendenti e meravigliose): una sorta di “zoologia etica”, dunque, che peraltro risulta molto ben costruita e godibile. Piacevolezza e poikilia compositiva caratterizzano anche la Storia varia in 14 libri (tramandati in forma di compendio), dove compaiono storielle e aneddoti relativi a varie figure della mitologia e della storia antica.
La tradizione antica, infine, attribuisce a un Filostrato di Lemno tutto un corpus di opere che la critica moderna preferisce suddividere, non senza elementi di congetturalità, tra i vari membri omonimi di una medesima famiglia. Il più importante è senz’altro Filostrato II o Maggiore, vissuto fra il 160 e il 249. Entrato a far parte dell’entourage dell’imperatrice Giulia Domna, è incaricato dell’educazione dei principi Caracalla e Geta e gli viene commissionata la redazione della Vita di Apollonio di Tiana (un celebre taumaturgo di ispirazione pitagorica vissuto nel I secolo), significativo documento delle tendenze mistiche in atto in età severiana. Sullo stesso piano si colloca anche il suggestivo dialogo Eroico, in cui un vignaiolo trace racconta al suo interlocutore, un mercante fenicio, tutta una serie di storie riguardanti apparizioni (spesso amichevoli, ma talora anche più inquietanti) degli eroi omerici, che continuano a vivere anche dopo la morte.
Molto imitate in epoca successiva (anche all’interno della stessa famiglia dei Filostrati) sono poi le Immagini, raffinate e dettagliate descrizioni (ekphraseis) di 64 quadri, perlopiù di argomento mitologico, conservati in una pinacoteca napoletana.
La figura senz’altro più importante della seconda sofistica è Luciano, nato a Samosata in Siria. Di famiglia sira, e originariamente messo a bottega presso uno scalpellino, Luciano decide di intraprendere la strada delle lettere, apprendendo magnificamente il greco nelle scuole sofistiche dell’Asia Minore e svolgendo con successo la carriera di retore. Viaggia molto, dalla Gallia all’Egitto, dall’Asia Minore all’Italia, ma trascorre gran parte della propria vita ad Atene, dove muore. Nella seconda fase della propria vita, come egli stesso racconta, sceglie di abbracciare la filosofia, dedicandosi in particolare al genere letterario del dialogo.
La sua cifra rimane comunque costante: Luciano, a partire da una competenza letteraria vastissima e da un’acuta intelligenza, mette sempre in discussione, in maniera caustica e brillante, tutte le convenzioni, i vezzi e i sedimenti della cultura del suo tempo. Come afferma egli stesso, vuole coniugare la commedia con il dialogo filosofico, finendo per creare un filone letterario innovativo. Nei suoi scritti, allegramente demolitori, finisce forse per essere, come è stato scritto, “l’autore più divertente della letteratura greca”.
Di lui è tramandato un corpus di circa 80 opere, una quindicina delle quali sono considerate spurie. Quelle autentiche riguardano una serie di generi e tematiche estremamente disparati. Alcuni sono tipici della produzione sofistica, come l’Elogio della mosca, caso esemplare di umoristico encomio paradossale. Molto famosi sono anche i Dialoghi, particolarmente accattivanti per la vivacità e la limpidezza dello stile. Nei Dialoghi degli dèi e nei Dialoghi marini vengono presentate scenette che ritraggono figure mitologiche in momenti di intimità, con tutte le loro gelosie, amori e pettegolezzi: si tratta di un elegante divertissement letterario che porta a compimento la trasformazione “borghese” delle divinità già presente, ad esempio, in alcune scene di Apollonio Rodio. I Dialoghi delle cortigiane presentano scene di vita quotidiana delle etère, a partire dagli schemi della commedia nuova (e difatti gli elementi scabrosi sono pressoché assenti), mentre i Dialoghi dei morti hanno un maggiore spessore etico e filosofico, come dimostra la presenza del filosofo cinico Menippo di Gadara, uno dei modelli di Luciano.
In altre opere del corpus vengono messe alla berlina le tendenze irrazionali sempre più presenti nella società dell’epoca. Si possono ricordare il Philopseudes (“amante della menzogna”), dove l’umorismo lucianeo fa letteralmente a pezzi superstizioni e racconti sul soprannaturale che dovevano avere un’ampia circolazione, simile a quella delle odierne “leggende metropolitane” (tra i tanti, anche il prototipo della storia dell’“apprendista stregone”); la Morte di Peregrino, sulla fine teatrale di un discutibile “santone” che nel corso della vita aveva professato il cristianesimo e il cinismo; l’Alessandro, incentrato su un altro mago e ciarlatano, Alessandro di Abunotico.
Luciano esprime giudizi anche sul mondo della cultura. Condanna il vacuo collezionismo librario nel trattatello Contro un bibliofilo ignorante, e si scaglia contro la storiografia adulatoria dei suoi tempi nel Come si deve scrivere la storia. La ricerca ossessiva di glosse e termini rari e gli eccessi dell’atticismo sono condannati nel Giudizio delle vocali e nel Lessifane, caratterizzati da invenzioni umoristiche che possono ricordare Aristofane.
Anche l’atteggiamento verso la dominazione romana, peraltro, è decisamente più freddo rispetto ad altri sofisti suoi contemporanei: ne è testimonianza il Nigrino, dove viene preso di mira il vacuo edonismo della vita romana. È significativo, inoltre, che Luciano abbia sentito il bisogno di giustificare nell’Apologia la sua accettazione di un incarico pubblico.
Nel corpus lucianeo, infine, sono presenti due opere che sembrano rivelare interesse per un genere letterario in gran voga all’epoca, quello del romanzo. Se l’attribuzione di Lucio o L’asino (la storia è quella che ricompare nelle Metamorfosi di Apuleio) è dubbia, sicuramente autentica è invece l’estrosa e irresistibile Storia vera (il titolo è chiaramente ironico), relazione di un viaggio mirabolante che condurrà il protagonista sulla luna e nel ventre di una balena, secondo quelli che diverranno veri e propri topoi della letteratura fantastica, dall’Ariosto a Collodi.
L’ultimo grande periodo della sofistica data al IV secolo, in un impero in profonda mutazione: in Oriente c’è una nuova grande capitale, Costantinopoli, e il cristianesimo si va rapidamente imponendo come religione di stato. I sofisti sono attivi soprattutto nei grandi centri di istruzione, come Atene, Antiochia e la stessa Costantinopoli, svolgendo spesso la funzione di maestri di oratoria. Nonostante molti professino un sempre più nostalgico paganesimo, sono rispettati dalle autorità ed annoverano anche molti cristiani tra i loro allievi, svolgendo sovente una funzione di ponte culturale tra il mondo classico e la nuova civiltà cristiana.
È il caso, per esempio, di Imerio di Prusa, che se da un lato è in stretti rapporti con l’imperatore Giuliano, che lo chiama a insegnare a Costantinopoli, dall’altro ha tra i suoi discepoli il futuro padre della Chiesa Gregorio di Nazianzo. Di lui sopravvivono una trentina di manierate orazioni, spesso dal carattere apertamente scolastico, impreziosite da frequenti citazioni dei lirici arcaici.
Di maggior rilevanza è però la figura di Libanio di Antiochia, che dal 358 ha una cattedra di retorica nella sua città natale. Gode di notevole fama e tra i suoi allievi annovera anche due grandi autori cristiani come Giovanni Crisostomo e Basilio di Cesarea. Di lui rimane una grande varietà di opere, tra le quali declamazioni scolastiche, una sterminata raccolta epistolare di circa 1600 lettere e 64 orazioni. Tra queste spiccano la prima, che costituisce un’autobiografia, i commossi discorsi funebri dedicati all’imperatore Giuliano e infine l’orazione In difesa dei templi, contro gli attacchi mossi dai cristiani ai luoghi di culto pagani (e che sarebbero culminati, pochi anni dopo la sua morte, con la distruzione del Serapeo di Alessandria). C’è da dire, però, che questo grande corpus di opere solo di rado presenta spunti originali. Libanio, per giunta, è un seguace fin troppo osservante dell’atticismo (in particolare si ispira a Demostene ed Elio Aristide) e il suo stile si rivela sovente ingessato e poco perspicuo.
Più influenzato dalla speculazione filosofica si rivela invece Temistio, che insegna con successo la retorica a Costantinopoli e, nonostante il suo paganesimo e la simpatia per Giuliano, viene sempre rispettato dagli imperatori cristiani. Nelle sue orazioni superstiti emerge la fiducia nei valori della filantropia e della paideia, l’educazione.
Lo stesso imperatore Giuliano è un autore le cui opere rivelano un fascino e un vigore del tutto peculiari. Imparentato con l’imperatore Costantino, Giuliano, nato nel 331, rimane ben presto orfano e trascorre un’infanzia precaria, tra relegazioni ed esili imposti dai suoi parenti. Pur educato nel cristianesimo, conosce ed abbraccia il neoplatonismo, e quando nel 361 si ritrova, quasi per caso, imperatore, dà il via a un tentativo di restaurazione del paganesimo che due anni dopo viene però infranto dalla sua morte. Di lui rimangono varie orazioni, tra cui due (Alla Madre degli dèi e Al Sole) dal forte afflato religioso. Scrive anche la satira menippea Il simposio o i Cesari, dove immagina che Romolo inviti a banchetto gli imperatori romani divinizzati. Il migliore risulterà Marco Aurelio, mentre il biasimo maggiore colpirà Costantino, reo di aver abbracciato il cristianesimo. Nel Misopogon (“odiatore della barba”), invece, risponde ironicamente agli antiocheni che nel 362 lo avevano criticato per la barba che portava secondo l’uso filosofico. Sopravvive anche un corpus epistolare (rimaneggiato in età bizantina) di grande interesse, che offre squarci vividi e personali su un’epoca di fermento e transizione.
A metà tra paganesimo e cristianesimo è invece la figura di Sinesio di Cirene, che ad Alessandria frequenta le lezioni della filosofa Ipazia, con la quale intrattiene una corrispondenza, in buona parte sopravvissuta, nel corso degli anni successivi. Sinesio scrive anche opere a carattere giocoso (come il celebre Encomio della calvizie), ma si distingue soprattutto per il suo impegno in prima persona a favore della sua terra, la Cirenaica, angustiata dalla cattiva amministrazione e dai barbari. Inviato in ambasceria a Costantinopoli nel 399, descrive gli intrighi della corte imperiale nell’opera allegorica intitolata Racconti egizi o sulla provvidenza, dove l’elemento barbarico viene condannato senza appello, così come avviene nell’orazione Sul regno, connessa alla medesima circostanza. Tra le altre opere spiccano l’epistolario, uno dei meno manierati dell’epoca, e i nove Inni in dorico letterario (forse un omaggio alla tradizione di Cirene, antica colonia dorica), dove vengono caratteristicamente fusi elementi neoplatonici e cristiani, in esatta corrispondenza con la personalità dell’autore, che nel 411, pur non essendo nemmeno battezzato e trovandosi anzi ad avere moglie e figli, si convince ad accettare, per responsabilità civica, la carica di vescovo di Tolemaide.
Le opere letterarie greche che vengono classificate tra i romanzi, curiosamente, fanno parte di una categoria tanto ben definita e “intuitiva” per i moderni, quanto misconosciuta e nebulosa nell’antichità. Di fronte a testi in prosa che narrano di storie d’amore e avventure, per noi risulta spontanea l’associazione con il genere romanzesco; molto meno facile risultava invece la classificazione per gli antichi. L’imperatore Giuliano, ad esempio, parla di plasmata (“invenzioni”), e il patriarca bizantino Fozio, nel IX secolo, utilizzava invece il termine dramata (da intendersi probabilmente nel senso di “intrecci narrativi”). È significativo, peraltro, che Giuliano condanni questo tipo di letture e anche Fozio vi si accosti con un certo imbarazzo: si tratta di letteratura eminentemente di evasione, vista come una sorta di divertissement leggero che però non merita un’attenzione eccessiva.
I moderni si trovano in difficoltà nell’individuare le origini del genere romanzesco, che le scoperte papiracee fanno risalire almeno al I secolo a.C.; si è pensato all’influsso della tragedia, della storiografia ellenistica, di tradizioni orientali, di racconti misterici, persino dell’epos, ma la questione rimane ancora aperta.
Il primo romanzo greco conservato per intero è costituito dalle Avventure di Cherea e Calliroe di Caritone di Afrodisia (datato al più tardi al I secolo), dove compaiono già i principali elementi classici del genere: due giovani di Siracusa che si amano e riescono a sposarsi nonostante la contrarietà delle famiglie; la morte presunta della fanciulla; il rapimento da parte dei pirati; il tentativo dei due protagonisti di ricongiungersi in un turbine di peripezie dove la reciproca fedeltà verrà messa più volte alla prova, ma mai infranta. Probabilmente al II secolo risalgono le Storie efesie di Anzia e Abrocome di Senofonte Efesio, a quanto pare giunte in forma di epitome, che rispettano anch’esse le convenzioni con le avventure dei due sposi separati dal destino e l’immancabile happy end; l’opera sembra peraltro richiamare più volte nella trama spunti risalenti alle tragedie di Euripide.
Ritrovamenti papiracei attestano una datazione non successiva al II secolo anche per le Avventure di Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio, probabilmente originario di Alessandria. Si tratta indubbiamente di una delle opere più riuscite del genere, ricca, soprattutto nella parte iniziale, di elementi originali. La storia si apre con un racconto-cornice incentrato sull’ekphrasis di un dipinto raffigurante il rapimento di Europa. È proprio di fronte a questo dipinto che Achille Tazio, che parla in prima persona, incontra casualmente il suo protagonista maschile, Clitofonte, che gli racconterà le proprie peripezie. Particolarmente attenta è anche la descrizione dei primi incontri tra i due giovanissimi protagonisti e della nascita del loro amore. Anche nel seguito della narrazione le consuete e complicate peripezie sono variate da excursus e digressioni che mirano all’intrattenimento del lettore. Una trama più semplice, compensata però da atmosfere e tematiche di grande fascino, è quella della Storia pastorale di Dafni e Cloe di Longo Sofista, databile tra II e III secolo. In questo caso i due protagonisti sono due trovatelli dell’isola di Lesbo, allevati da pastori del luogo (alla fine si scoprirà che sono entrambi di buona famiglia), che in un idilliaco ambiente pastorale ripreso dalla tradizione bucolica scoprono a poco a poco l’amore, con un’ingenuità toccante, appena mitigata da qualche tocco di innocente malizia. Grande fu il successo di questo romanzo anche in età moderna, nell’Arcadia e presso i romantici: Goethe ne amava la solarità e raccomandava di rileggerlo almeno una volta l’anno.
L’ultimo dei romanzi conservati è intitolato Storie etiopiche di Teagene e Cariclea, scritto da Eliodoro di Emesa, che una discussa tradizione (forse originata dal tono moraleggiante e morigerato del testo) identifica con un vescovo di Tricca. A quest’opera, che ottiene un grande successo, tanto che ne traggono spunti Torquato Tasso e il libretto dell’Aida, è spesso imputata una certa lentezza, compensata peraltro da alcuni spunti originali, come un inizio in medias res.
Tra i numerosi romanzi perduti, vanno citate almeno le Meraviglie oltre Tule di Antonio Diogene, di cui restano alcuni frammenti e un ampio riassunto del patriarca bizantino Fozio, nelle quali una complessa struttura a “scatole cinesi” si combina con un forte interesse per la magia e la mistica pitagorica. La trama, incentrata su viaggi in paesi lontani e meravigliosi, probabilmente costituiva il bersaglio della Storia vera di Luciano.
Di gusto decisamente più popolare, ma di immenso successo (viene tradotto in latino, armeno, siriaco, arabo…), è poi il Romanzo di Alessandro, attribuito dai manoscritti allo storico Callistene (si parla pertanto di Pseudo-Callistene). Si tratta di un racconto delle imprese del Macedone pesantemente alterato da elementi fantastici, la cui versione più antica è probabilmente redatta ad Alessandria tra la fine del III e l’inizio del IV secolo a partire da raccolte epistolari più o meno fittizie, elementi storici desunti verosimilmente da Clitarco e varie leggende locali.
Si è visto come molti degli esponenti della seconda sofistica siano autori di epistolari, apprezzati e conservati nei secoli successivi; la composizione di lettere è del resto un’attività praticata nelle scuole di retorica, e dunque non stupisce che esistano anche raccolte di epistole fittizie, in genere di argomento erotico, che possono essere accostate tanto al romanzo quanto a spunti presenti soprattutto nella commedia nuova. L’esponente principale del genere è Alcifrone, autore di quattro libri di eleganti Lettere di pescatori, di contadini, di parassiti, di etere, ambientate (non senza una punta di nostalgia) nell’Atene del IV secolo a.C. Il genere è coltivato nel tempo anche da Eliano e Filostrato Maggiore, fino ad arrivare ad Aristeneto, le cui Lettere erotiche, giustamente paragonate a brevi novelle d’amore, sono caratterizzate da una varietà stilistica e contenutistica che, pur elegantemente, talora arriva a toccare anche spunti audaci.
Aristeneto
Criside a Mirrina
Lettere erotiche
Carissima, conosciamo i nostri rispettivi desideri. Tu vuoi mio marito; io amo pazzamente il tuo schiavo. Che fare allora? Qual è il mezzo migliore per permettere a ciascuna di noi di soddisfare il suo amore? Ti confesso che mi sono rivolta ad Afrodite: l’ho pregata di darmi un’idea, ed ecco il suggerimento che la dea in tutta segretezza mi ha ispirato. Ti raccomando di metterlo in pratica a puntino, Mirrina.
Fa’ finta di essere arrabbiata con il tuo schiavo, il padrone del mio cuore. Caccialo di casa e picchialo; ma, per gli dèi, non calcare la mano, e mentre lo frusti tieni conto della mia passione. Lo schiavo – Euctito: che bel ragazzo! – si rifugerà senza dubbio da me, che sono l’amica del cuore della sua padrona. E io manderò subito da te mio marito, perché interceda a favore dello schiavo presso la padrona: lo pregherò tanto che riuscirò a toglierlo di torno. In questo modo ciascuna di noi sarà sola con il suo amato e con l’aiuto di Eros non mancherà di sfruttare l’occasione propizia: potremo agire con tutta calma e con agio. Mi raccomando: rimani a letto il più a lungo possibile, sfoga tutti i tuoi desideri! Così prolungherai anche per me il piacere d’amore.
Sta’ bene, e smetti di piangere la morte prematura di tuo marito: sei fortunata, puoi prenderti come amico il mio, al suo posto.
Alcifrone, Filostrato, Aristeneto, Lettere d’amore, a cura di F. Conca e G. Zanetto, Milano, BUR, 2005