La sessualita in Grecia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Ripercorrere la storia dei rapporti uomo/donna e della sessualità nell’Antichità non è solo un’erudita incursione in un mondo scomparso. È anche uno strumento che aiuta a capire molti aspetti del rapporto tra sessi in questo nostro mondo e le ragioni delle discriminazioni di cui le donne sono state vittime sino a un passato così vicino da lasciare tracce nelle nostre leggi sino a pochi anni or sono, e ancor oggi in alcune sacche della mentalità.
In Grecia, per la prima volta in Occidente, vengono elaborate le più antiche costruzioni di un’identità femminile diversa da quella maschile, sedimentate e poi divenute il fondamento e la giustificazione delle discriminazioni di genere.
Per limitarsi a pochi ma significativi esempi, si pensi che solo nel 1969 è stato abrogato l’art. 559 del codice penale, che puniva l’adulterio come reato solo se commesso dalla moglie (il marito infatti, in forza del successivo art. 560, veniva punito solo se teneva una concubina nella casa coniugale o notoriamente altrove); che solo nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia, la potestà sui figli, sino a quell’anno “patria”, è diventata genitoriale, e, dunque, pertinente anche alla madre; che solo da quell’anno la moglie non è più obbligata a seguire il marito ovunque questi decida di fissare la propria residenza e non assume più il cognome del marito, ma lo aggiunge al proprio. Sono norme, queste e tante altre, che sono sopravvissute sino alla soglia del III millennio grazie alla forza plurimillenaria della loro storia. Per questo ripensare alla storia antica aiuta a capire il presente.
Che le donne siano profondamente “diverse”, e che lo siano per natura, è cosa sulla quale i Greci non hanno alcun dubbio. Sono diverse, essi pensano, per molte ragioni. In primo luogo biologicamente, perché fatte di materia diversa e perché il loro corpo dà alla luce i figli. Circostanza, questa, che come vedremo, è stata motivo di non poco turbamento per i Greci. Sono diverse, inoltre, perché hanno un’indole e delle disposizioni naturali che danno loro attitudini differenti da quelle maschili. Hanno anche, in aggiunta, una mente non omogenea a quella maschile, con la conseguenza (come vedremo meglio più avanti), che la loro sessualità è eccessiva e naturalmente incontenibile.
A dare una veste logica alla teoria della diversità femminile sono stati ovviamente i filosofi. Ma, prima di loro, a raccontarla sono stati i poeti, a cominciare da Esiodo, poeta-contadino vissuto in Beozia nel VII secolo a.C., che ci narra il mito della nascita di Pandora, la prima donna.
Pandora, racconta Esiodo, viene mandata da Zeus sulla terra – dove sino a quel momento gli uomini vivevano felici – per punirli del furto commesso da Prometeo, che aveva sottratto il fuoco agli dèi per donarlo agli esseri umani, consentendo loro di intraprendere la strada del progresso e accorciare la distanza che li separava dagli immortali. La punizione è terribile: Prometeo viene legato a una colonna, ove ogni giorno un avvoltoio mangia il suo fegato, che ogni notte ricresce. Ma, per quanto atroce, il castigo non è sufficiente; Zeus decide di punire, oltre a Prometeo, anche tutti i mortali, e a questo fine crea Pandora (Opere e giorni, 42-104 e Teogonia, 561-617).
Come indica il suo stesso nome (da pan, “tutto” e doron, “dono”), Pandora riceve un dono da ciascuno degli dèi; secondo quanto ci viene raccontato nella Teogonia, da Efesto ha un aspetto “simile” a quello di una casta vergine; da Afrodite la capacità di sedurre, “desiderio struggente” e “affanni che fiaccano le membra”; Ermes le regala “mente sfrontata”, “indole ambigua”, “menzogne” e “discorsi ingannatori”.
Non ci sorprenda, quindi, il fatto che, quando Pandora giunge sulla terra, gli uomini cominciano a conoscere l’infelicità. Secondo il racconto di Esiodo contenuto nelle Opere e i giorni, Pandora, mandata da Zeus, giunge nella casa di Epimeteo, il fratello di Prometeo. A differenza di questi (che prevedeva e capiva prima, come indica il suo stesso nome), Epimeteo vede dopo e capisce in ritardo. E nonostante il fratello lo avesse messo in guardia, sposa Pandora, con conseguenze disastrose non solo per lui, ma per l’intera umanità. Nella casa di Epimeteo c’è, infatti, un vaso ermeticamente chiuso, che non deve essere aperto per nessuna ragione. Curiosa come tutte le donne, Pandora lo scoperchia, e dal vaso fuoriescono tutte le calamità del mondo. Quando, spaventata, richiude il vaso, i mali sono già volati via, disperdendosi fra i mortali e sul fondo rimane solo Elpis, la speranza. Dopo l’arrivo di Pandora, all’umanità non resta che questa. Ma l’aspetto più interessante del mito di Pandora è la descrizione del modo in cui viene costruita: a differenza di Eva, Pandora non nasce dal corpo maschile, ma è creata da Efesto, artigianalmente, con acqua e terra. La parola “diversità” non è, però, sufficiente per descrivere l’identità femminile; Pandora è l’“alterità”. Non a caso, nel raccontare la sua storia, Esiodo dice che da lei “discende il genere (genos), le tribù (phylai) delle donne”: il genos delle donne è un genere a parte, “altro” da quello maschile, al punto che, in Esiodo, le donne discendono solo da Pandora. Si riproducono autonomamente, insomma, senza il contributo maschile. Come fossero, poi, le “tribù” delle donne è cosa che Esiodo non dice.
Ma a dare un’idea di come se le rappresentavano i Greci interviene un altro poeta: Semonide di Amorgo che descrive i vari tipi di donna (presumibilmente le esponenti – quantomeno per lui – delle diverse “tribù”). Alcune donne, spiega Semonide, quelle fatte di terra, sono minorate, non sanno distinguere il bene dal male, pensano solo a mangiare. Altre, quelle originatesi dall’acqua, come il mare hanno due nature: un giorno sono e rendono felici, il giorno dopo sono inavvicinabili, aggressive come cagne che difendono i cuccioli.
Per non parlare delle donne che derivano da animali, di cui posseggono le caratteristiche: quella che viene dalla scrofa ingrassa rotolandosi nel letame; quella che deriva dalla volpe è infida, sa e controlla tutto, ma si adatta agli eventi; quella che deriva dalla cagna si aggira incessantemente per la casa uggiolando; quella che viene dall’asina è paziente e lavoratrice, non protesta sotto i colpi del bastone, ma è pronta a far l’amore con chiunque. La donna-gatta è sgraziata, ladra e ninfomane. La cavalla, raffinata, curata, sempre ben pettinata, è un vero guaio per chi la sposa, a meno che non sia un re.
La scimmia – ridicola, goffa, senza collo e senza natiche – pensa solo a fare del male. Sorprende quasi che al termine dell’elenco ci sia una donna dalle caratteristiche positive: è quella che deriva dall’ape, fedele al marito e madre devota, è beato chi la sposa. Ma i versi finali del poema fanno pensare che non esista: chi sta con una donna – conclude, infatti, Semonide – non ha un giorno di pace, a significare, presumibilmente, che la donna ape sia scomparsa.
Sin qui, i poeti si dimostrano fortemente preoccupati – si direbbe – dall’indole e dal carattere delle donne. Ma i problemi che il sesso femminile pone non si limitano a questo. Il più grave, quello che maggiormente turba i Greci, è il fatto – lo abbiamo detto – che siano proprio le donne a dare alla luce i figli. Una diversità pressoché intollerabile, al punto da indurre generazioni di pensatori a cercare di negare, o quantomeno sminuire, la peraltro incontestabile evidenza: il figlio, dicono alcuni – Ippone e più in generale gli stoici – è generato solo dal padre. Altri sono meno drastici: Anassagora, Parmenide, Empedocle, Democrito, Epicuro e Ippocrate, ad esempio, ritengono che la madre contribuisca alla generazione. Ma in cosa consiste, esattamente, questo contributo?
In un celebre passaggio dell’Orestea, la trilogia messa in scena nel 458 a.C. per celebrare la fine della cultura della vendetta e la nascita del diritto, Eschilo abbraccia un’ipotesi, certamente non solo sua, che lo riduce a ben poca cosa. La storia è quasi troppo nota per doverla ricordare. La guerra di Troia è finita. Agamennone torna ad Argo, dove viene ucciso dalla moglie Clitennestra. Secondo le regole dell’etica eroica, Oreste, figlio di Clitennestra, per vendicare la morte del padre uccide la madre. Le Erinni, le dee che difendono il legame di sangue, iniziano a tormentarlo, esigono che Clitennestra sia vendicata. Per porre fine alla persecuzione la dea Atena istituisce il primo tribunale della storia ateniese, l’Areopago, che dovrà giudicarlo. Il mondo della vendetta è finito. Ma la prima sentenza del nuovo mondo del diritto assolve Oreste sulla base di un principio destinato a sancire per secoli l’inferiorità e la subordinazione delle donne: “Non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio: ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...”.
Così dice Apollo, in difesa di Oreste. Nel momento del giudizio, alla contrapposizione vendetta-diritto si sostituisce quella principio paterno-principio materno. E quello paterno prevale: Oreste viene assolto.
Meno estrema dell’idea di Eschilo, ma sempre all’interno dell’ottica della prevalenza maschile, ecco infine, la teoria di Aristotele (Generazione degli animali, 728 a, 17 ss.). Le donne, egli spiega, hanno anch’esse un ruolo nel processo riproduttivo. Accanto allo sperma, alla formazione dell’embrione concorre il sangue mestruale: ma con un ruolo diverso. Lo sperma è sangue, come quello mestruale, ma più elaborato. Il sangue altro non è che il cibo che non viene espulso dall’organismo, trasformato dal calore: ma la donna, essendo meno calda dell’uomo, non può compiere l’ultima trasformazione, che dà luogo allo sperma. Nella riproduzione, quindi, è il seme maschile che “cuoce” il residuo femminile, trasformandolo in un nuovo essere (Generazione degli animali, 728 a, 17 ss.). In altre parole il seme ha un ruolo attivo, il sangue femminile un ruolo passivo. Anche se indispensabile, dunque, il contributo femminile è quello della materia, per sua natura passiva, con cui la donna si identifica; l’apporto maschile invece è quello dello spirito, attivo e creatore.
Ed ecco infine l’ultima, ma non meno fondamentale diversità tra i sessi: quella mentale. Le donne hanno per i Greci mente diversa e intelligenza inferiore a quella maschile. Esse, infatti, non possiedono il logos, la ragione alta e luminosa, appannaggio e prerogativa degli uomini. La sola ragione che possono possedere è la metis, un’intelligenza “bassa”, che a differenza del logos non è astratta, non classifica, non costruisce categorie. La metis è concreta e si rivolge al caso singolo, al problema specifico. È frutto dell’esperienza e della riflessione, di conoscenze acquisite con la pratica. E non raggiunge mai gli obiettivi in modo lineare: sostanzialmente, consiste nella capacità di usare trucchi, stratagemmi, di inventare insidie agendo per vie traverse, raggiungendo lo scopo per strade tortuose. Nulla di sorprendente dunque che la possiedano anche le donne.
A questo punto è necessario aprire una parentesi: le donne non hanno il logos, ma gli uomini possiedono anche la metis. Come mai? Di nuovo, ce lo racconta un mito. Prima di sposare Era, Zeus aveva avuto un’altra moglie: Metis, appunto, del cui matrimonio con il padre degli dèi, peraltro, conosciamo solo la singolare e inquietante conclusione. Infatti Esiodo racconta (Teogonia) che un giorno Zeus, avendo saputo che Metis era incinta, ricorda una profezia secondo la quale ella gli avrebbe dato un figlio che lo avrebbe spodestato e per risolvere il problema la mangia; per questo gli uomini possiedono anche la metis. Circostanza che, come dimostrano le imprese di Ulisse, il polymetis, li rende praticamente invincibili. E ciò detto torniamo alla mente femminile. Come scrive Aristotele, il grande teorizzatore in materia, le donne sono incapaci di controllare la loro parte concupiscibile. Di qui la necessità di sottoporre a rigoroso controllo la loro sessualità, come del resto – ancora una volta – insegna il mito, in particolare quello di Tiresia, l’indovino tebano che nel corso della sua vita è stato sia uomo sia donna. Secondo la versione tramandataci da Apollodoro e Igino, un giorno Zeus e sua moglie Era, mentre discutono se durante l’atto sessuale provino più piacere gli uomini o le donne, lo interpellano: solo lui, evidentemente, è in grado di rispondere con cognizione di causa. E Tiresia replica che, dividendo in dieci parti il piacere che l’accoppiamento provoca, l’uomo ne prova una parte, la donna nove.
Le ragioni che impongono un controllo rigoroso della sessualità femminile non mancano, insomma, e a dare un fondamento logico alla necessità che esso sia affidato ai maschi della famiglia stanno, ancora una volta, le considerazioni aristoteliche. Le donne infatti, scrive lo Stagirita, non sono del tutto prive della capacità di deliberare, ma la possiedono “senza autorità” (Politica, I, 13, 1260 a).
Di conseguenza, l’uomo ha sulla donna “l’autorità dell’uomo di Stato”. Ma mentre l’autorità dell’uomo di Stato comporta un’alternanza di comando fra i cittadini, nel rapporto uomo-donna non c’è alternanza: “nella relazione del maschio verso la femmina l’uno è per natura superiore, l’altra è comandata, ed è necessario che fra tutti gli uomini sia proprio in questo modo”.
Controllare nei minimi dettagli la vita sessuale delle donne, dunque, è assolutamente indispensabile: il diritto ateniese risponde a questo imperativo stabilendo che nel corso della loro vita – ovviamente, a meno che non siano delle prostitute – le donne devono avere rapporti sessuali solo con il marito. Qualunque atto sessuale al di fuori del matrimonio (e del concubinato, che in Grecia gode di una certa tutela) è un reato chiamato moicheia, che può essere punito su iniziativa di qualunque cittadino e può arrivare alla condanna a morte, non solo se la donna è sposata ma anche se è nubile o vedova. Superfluo dire che, ovviamente, agli uomini è concessa la massima libertà sessuale.
Come si legge nell’orazione pseudodemostenica Contro Neera, l’uomo ateniese può avere tre donne: una moglie (damar), al fine di avere da lei figli legittimi; una concubina (pallake), “per la cura quotidiana del corpo” (in altre parole, per avere rapporti sessuali stabili), e una hetaira (letteralmente, compagna) vale a dire una prostituta di alto bordo e di una certa educazione, che lo accompagna nelle occasioni sociali alle quali mogli e concubine non sono ammesse. Infine – ma certamente non da ultimo – va ricordato che il diritto ateniese, in presenza di figli maschi, esclude le figlie dall’asse ereditario paterno; tutto quello che spetta loro è una dote (proix) al momento del matrimonio.
Per completare il quadro, bisogna ricordare che, se un padre muore senza lasciare figli maschi, la figlia (in questo caso detta epikleros, letteralmente “colei che sta sul kleros”, vale a dire il patrimonio familiare), pur non potendo ereditare, è tuttavia il tramite attraverso il quale il patrimonio viene trasmesso ai suoi figli: per evitare che questo finisca in mani estranee, dunque, è costretta a sposare il parente più stretto in linea maschile (abitualmente lo zio paterno).
Ma le conseguenze della teorizzazione della identità sessuale sulla condizione delle donne non si limitano alle regole giuridiche. Non meno importanti sono gli effetti sulla vita sentimentale e sessuale. Di nuovo, a dare le informazioni più interessanti è Aristotele, là dove, sia nei trattati di etica sia nella Politica, parla della philia, parola abitualmente tradotta con “amore”, che peraltro indica una relazione emotiva che si manifesta in rapporti molto diversi tra loro, che vanno dall’amicizia, all’amore materno, al legame tra marito e moglie. A proposito di quest’ultimo tipo di amore, Aristotele svolge alcune considerazioni che, come d’altronde tutto il suo pensiero, hanno avuto anch’esse effetti plurisecolari sul pensiero occidentale. Gli esseri umani, egli osserva, sono portati per natura ad accoppiarsi e non lo fanno solo per riprodursi, come gli animali, ma anche per assicurarsi una buona vita, organizzando il lavoro e dividendo i beni. L’amore coniugale è un sentimento ragionevole e pacato, che può basarsi sulla considerazione della virtù dell’altro coniuge: tanto gli uomini quanto le donne, infatti, posseggono virtù, anche se diverse tra loro. A rinsaldare il legame tra marito e moglie contribuiscono infine i figli: non a caso i matrimoni senza figli sono più facili a dissolversi. Tra marito e moglie esiste dunque (o quantomeno può esistere, ed è bene che esista) un rapporto d’amore, che per Aristotele – pur essendo, come esplicitamente dice, sia utile sia piacevole – lega comunque due persone i cui rapporti sono inevitabilmente segnati dalla diversità sessuale.
Ma accanto alla philia, esiste un altro amore, eros, quello suscitato dalle frecce del dio alato che porta quel nome, vale a dire la passione, l’amore dei sensi.
Come e quando viene vissuto quell’amore? Alla luce di quanto abbiamo visto, possiamo ben dire che, di regola, non viene vissuto nel matrimonio; piuttosto, nelle relazioni adulterine, con i conseguenti rischi, cui abbiamo già accennato.
Ma gli uomini hanno una relazione in più all’interno della quale sperimentare questo tipo di amore: quella con un pais, vale a dire un ragazzo, donde il nome della relazione, detta pederastica (da pais, appunto). Una relazione – è necessario chiarirlo – che sarebbe sbagliato definire “omosessuale”, come un tempo si usava fare. I Greci, infatti, non conoscono né questa parola né questo concetto. Non possono conoscerli perché hanno un’idea della virilità diversa dalla nostra, che non si manifesta solo nel rapporto con le donne, ma si identifica con l’assunzione, nel rapporto, del ruolo attivo, sia con una donna che con un uomo. A condizione peraltro, in questo caso, che il partner passivo sia un pais, vale a dire un essere che diventerà un uomo, ma – data l’età – non è ancora pienamente tale. La coppia formata da due individui di sesso maschile, insomma, è socialmente e culturalmente accettata se è anagraficamente “asimmetrica”, vale a dire se vi è una differenza di età tra l’“amante” adulto, detto erastes, e l’adolescente “amato”, detto eromenos.
Dalla asimmetria anagrafica, infatti, discende una differenza di esperienza che consente all’adulto di assumere nei confronti del ragazzo un ruolo formativo, nel momento in cui questi, da cittadino in potenza, si appresta a diventare un cittadino effettivo, capace di esercitare i suoi diritti civili e politici. L’amante, insomma, svolge un compito civico, contribuendo alla formazione di un nuovo membro della polis. Per questo, a queste condizioni, per i Greci un rapporto fra due persone dello stesso sesso (sempre che siano due uomini, beninteso: per le donne, come vedremo, la cosa è molto diversa) è socialmente accettato e vissuto apertamente, come rivelano le tracce che di questi amori si trovano nelle composizioni dei lirici arcaici, scritte di regola per un ragazzo, uno di quei ragazzi che in Grecia sono onorati come dèi.
Si racconta infatti che, quando chiesero al poeta Anacreonte perché componesse poesie per i giovanetti, e non per gli dèi, egli rispose “perché sono loro i miei dèi”.
Molto diverso invece, come abbiamo già accennato, il discorso sui rapporti d’amore tra due donne. A darne un’idea, niente di meglio di un passo del Simposio di Platone, nel quale Aristofane espone la sua teoria sull’origine dei sessi: gli esseri umani, un tempo non erano come siamo noi: avevano la forma di una sfera e si muovevano rotolando su quattro mani e quattro piedi.
Ciascuno di essi aveva due volti, ai lati opposti della sfera, e, sempre ai lati della sfera, due organi sessuali. Alcuni di questi esseri avevano due organi sessuali maschili, altri avevano due organi sessuali femminili, altri ancora (gli ermafroditi) un organo maschile e uno femminile.
Senonché, un giorno, essendo divenuti troppo arroganti, vennero puniti da Zeus, che tagliò ciascuno di loro a metà.
A partire da quel momento ciascuna metà cominciò a cercare la metà perduta: chi in origine era interamente uomo cominciò a cercare un altro uomo; chi era stato interamente donna cominciò a cercare un’altra donna; chi era stato ermafrodito cominciò a cercare persone dell’altro sesso. Fine della storia e commento di Aristofane: gli uomini che cercano altri uomini sono i migliori tra gli individui di sesso maschile, essi esprimono al meglio la virilità e quando diventano adulti sono i più adatti a essere buoni politici; contraggono matrimonio per convenienza sociale, ma sarebbero felici di vivere tra di loro, senza donne. Quelli che provengono dall’ermafrodito sono grandi amatori di donne e tra loro si trovano per lo più gli adulteri. Le donne che cercano altre donne sono le “tribadi”: un termine offensivo e terribilmente infamante.