La sfida dello spazio
L’attività spaziale italiana dalla seconda metà del 20° sec. può suddividersi in una fase pionieristica (fino agli inizi degli anni Settanta), in cui convergono interessi soprattutto di tipo scientifico, e in un periodo successivo durante il quale comincia a emergere un approccio di tipo industriale che in seguito si svilupperà in modo più maturo, sostenuto da una politica in grado di coordinare il rapporto tra scienza, istituzioni, attività militari e industrie economiche. La mancanza iniziale di una strategia politica globale e le scarse risorse finanziarie nel periodo della ricostruzione non riuscirono comunque a impedire all’Italia di diventare il primo Paese a lanciare in orbita un satellite artificiale, dopo Unione Sovietica, Stati Uniti e Canada.
Esemplari in tal senso possono essere considerati i due programmi nazionali San Marco e SIRIO (Satellite Italiano per la Ricerca Industriale Operativa). Il primo, nato e sviluppatosi all’Università di Roma, prevedeva la progettazione, la costruzione e il lancio di satelliti artificiali terrestri per ricerche scientifiche e tecniche; il satellite geostazionario SIRIO, invece, progettato per esperimenti di telecomunicazioni, vide la partecipazione di varie industrie italiane operanti nel settore aerospaziale. I due programmi aprirono la strada alla definizione del primo piano spaziale nazionale a lungo termine, che portò alla fondazione dell’Agenzia spaziale italiana.
Un ruolo chiave nell’avvio e nella promozione delle attività spaziali italiane fu rivestito dall’ingegnere Luigi Broglio (1911-2001), ufficiale dell’aeronautica e professore universitario, e dal fisico Edoardo Amaldi (1908-1989), ai quali si deve la creazione di una rete di saldi rapporti politico-scientifici nazionali e internazionali, e un’efficace intermediazione tra gli ambienti istituzionali, universitari e militari. Entrambi concordi nel salvaguardare l’autonomia della scienza in un settore dove gli interessi militari erano largamente preminenti, diedero impulso alla creazione di un’organizzazione spaziale europea indipendente che raccogliesse un ampio spettro di collaborazione scientifica.
La rinascita della ricerca scientifica
Al termine della Seconda guerra mondiale, i fisici italiani che operavano nel campo delle particelle nucleari furono alle prese con la difficoltà di dover competere con i colleghi delle altre nazioni che disponevano di una strumentazione tecnica molto più avanzata, ossia di ciclotroni e reattori. Si cercò allora di impiegare le forze e la poca disponibilità economica nel settore dei raggi cosmici, nel quale già da diversi anni la fisica italiana si era contraddistinta per aver ottenuto risultati soddisfacenti, alla luce di nuove tecniche messe a punto nel dopoguerra, in particolare quella delle emulsioni nucleari.
In Italia i raggi cosmici erano studiati soprattutto nei laboratori di alta montagna, dove le ricerche si potevano condurre con più efficacia piuttosto che a quote basse: il laboratorio della Testa grigia, costruito da Gilberto Bernardini con la collaborazione di Ettore Pancini e Claudio Longo nei pressi di Cervinia, a 3500 m s.l.m., e quello della Marmolada, a circa 2000 m s.l.m. nelle Dolomiti, fortemente voluto da Antonio Rostagni. I risultati ottenuti erano però scarsamente soddisfacenti: un problema rilevante era la scoperta di particelle con proprietà singolari e non classificabili sulla base di quelle note, per questo dette particelle strane; per risolverlo, bisognava esplorare gli strati superiori dell’atmosfera e l’innovativa tecnica delle emulsioni nucleari si prestava a tale compimento.
La radiazione cosmica risulta costituita dal flusso costante di particelle elementari che investe la Terra in ogni punto e da ogni direzione, provenendo dallo spazio extraterrestre; all’epoca indicava anche tutto il sistema di particelle secondarie prodotte nell’interazione fra le particelle e l’atmosfera. Con una lastra fotografica dotata di uno speciale tipo di emulsione e di una pellicola di gelatina molto spessa, i percorsi delle particelle risultano assai più brevi rispetto a quelli nell’aria: quando la traiettoria di un nucleo, per es. una particella alfa, risulta parallela all’emulsione, essa produce una striscia di ionizzazione (traccia) rivelabile come un’immagine. Serie di lastre esposte per un certo periodo di tempo ad altitudini convenienti evidenziano tracce dal cui studio (spessore e lunghezza) si può risalire al tipo e all’energia delle particelle che le hanno colpite. La messa a punto di tale tecnica per lo studio dei raggi cosmici si deve soprattutto a Giuseppe Occhialini e a Cecil Frank Powell, che a Bristol, insieme a Cesare Mansueto Giulio Lattes e Ugo Camerini, spinsero i produttori ad aumentare la sensibilità dell’emulsione e a ridurre la dimensione dei grani (lastre più spesse e più sensibili sono capaci di rilevare tracce più lunghe e più sottili della traiettoria delle particelle), così che entro il 1948 le emulsioni furono in grado di mostrare i percorsi degli elettroni e di permettere la determinazione delle masse delle particelle.
L’utilizzo delle emulsioni nucleari diede avvio a una serie di spedizioni, frutto di collaborazioni internazionali, messe in atto per affrontare in modo cooperativo il problema delle particelle strane, con l’idea che si sarebbero potute indagare più a fondo con un lavoro di incremento dei dati acquisiti e di una loro analisi statistica. Le prime due spedizioni ebbero luogo in Sardegna (aeroporto di Cagliari-Elmas), a distanza di un anno l’una dall’altra (nei periodi giugno-luglio del 1952 e del 1953), mediante palloni sonda che trasportavano a grande altezza (fino a 30 km) le lastre da esporre alla radiazione cosmica. La terza spedizione (che prese il nome di G-stack) si alzò nell’ottobre del 1954 dall’aeroporto di Novi Ligure fino a 27 km e a tale altezza le lastre fotografiche coperte di emulsione nucleare intercettarono i mesoni pesanti prodotti dall’interazione dei raggi cosmici con gli strati alti dell’atmosfera, permettendo quindi di capirne la natura.
Lo spirito di collaborazione scientifica internazionale che rese possibile giungere a tali risultati fu consolidato dallo svolgimento su scala mondiale (parteciparono 67 Paesi) di un programma di osservazioni e ricerche geofisiche che si svolse tra il luglio del 1957 e il dicembre del 1958, programma che aveva tra gli obiettivi lo studio della struttura degli strati superiori dell’atmosfera terrestre durante il periodo di più intensa attività solare previsto per quei due anni: l’Anno geofisico internazionale (AGI). Al fine di coordinare la ricerca a livello locale e di gestire i finanziamenti, furono istituite diverse commissioni nazionali, tra le quali la Commissione nazionale italiana per l’anno geofisico internazionale (CNIAGI). Gran parte dell’imponente organizzazione posta in essere per l’AGI rimase poi operante nel quadro di un programma di cooperazione geofisica internazionale, avviato a partire dal 1° gennaio 1959. Il campo d’interesse specifico dei gruppi di ricerca italiani era l’analisi della componente ionizzante dei raggi cosmici, dal cui studio si potevano trarre indicazioni sulla natura delle particelle elementari: a tale scopo Amaldi costruì, dall’ottobre 1953, una stazione di osservazione sul tetto dell’Istituto di fisica dell’Università di Roma.
La partecipazione italiana ai lavori dell’AGI implicò la collaborazione di oltre 90 stazioni e osservatori dipendenti da 29 enti e istituzioni scientifiche; i dati delle osservazioni e i risultati delle ricerche fatte in Italia affluivano all’Archivio nazionale dell’AGI istituito presso il Consiglio nazionale delle ricerche (CNR). Tra i risultati conseguiti, particolarmente importanti furono quelli derivanti dai dati rilevati con missili d’alta quota, utilizzati per estendere all’alta atmosfera le osservazioni geofisiche di varia natura che, almeno nelle osservazioni dirette, erano prima limitate alle quote più basse raggiungibili con palloni. L’attività missilistica non riguardò tuttavia solo il settore scientifico e tecnologico, ma, negli anni del dopoguerra, assunse grande importanza anche nell’ambito del mantenimento dei rapporti di equilibrio militare tra Stati Uniti e URSS.
Il lancio dello Sputnik da parte dell’Unione Sovietica nell’ottobre del 1957, proprio durante l’AGI, per ricerche scientifiche, oltre a segnare la nascita dell’era spaziale, rappresentò una sfida per gli Stati Uniti e fissò l’inizio di una corsa al raggiungimento di sempre maggiori successi, da una parte e dall’altra, con il terreno di confronto costituito dalla conquista dello spazio. Il carico di nuovi significati politici, economici e militari gravato sulle attività spaziali, fino allora circoscritte al raggiungimento di risultati soltanto di carattere scientifico, modificò il ruolo dei Paesi europei, e dell’Italia in particolare, nel settore che fino a quel momento era stato secondario.
La realizzazione da parte dei russi di un missile in grado di mettere in orbita un satellite, quindi potenzialmente pericoloso per l’incolumità del territorio statunitense, fece accelerare il processo di costituzione di un adeguato programma spaziale americano, che sfociò nella costituzione della NASA (National Aeronautics and Space Administration) nell’ottobre del 1957. Parallelamente, gli Stati Uniti attivarono una rete di maggiore cooperazione per il potenziamento delle ricerche nel campo spaziale, coinvolgendo gli Stati membri della NATO: il primo accordo italiano con la NASA fu raggiunto nel 1959 e prevedeva il lancio di razzi sonda per studiare la dinamica dell’atmosfera terrestre superiore. Il settore missilistico italiano si avvaleva delle conoscenze acquisite sin dai primi decenni del 20° sec. sulla propulsione e sui motori, che portarono allo sviluppo di missili a combustibile liquido e solido; maturate nell’ambito dell’aeronautica militare ed esportate nei laboratori universitari, nelle scuole di ingegneria e negli ambienti di ricerca e tecnologia, tali conoscenze risulteranno fondamentali per la nascita dell’industria aerospaziale italiana.
Lo sviluppo dell’attività missilistica
I primi esperimenti in questo settore, alla fine degli anni Quaranta, erano volti alla produzione di testate nucleari per missili terra-aria e terra-terra. Importante risultò, in tal senso, il lavoro svolto da Aurelio Robotti (1913-1994), tenente del Genio aeronautico, professore e fondatore della Te.Co., nell’ambito della quale condusse numerosi esperimenti con razzi a propellenti liquidi (acido nitrico e anilina), ideati e costruiti, fino all’avvio di un programma di lancio di una serie di missili AR, dalle iniziali del suo nome. A Robotti si deve il lancio del primo razzo italiano a propellenti liquidi (AR3), avvenuto con successo il 9 maggio del 1952 a Pian della Mussa, nell’alta Val di Lanzo; negli anni a seguire Robotti arrivò fino alla costruzione del razzo AR15.
La collaborazione tecnica e scientifica tra gli ambienti universitari e militari risaliva agli anni Venti e, dopo la guerra, fu ripresa e rinsaldata. Nel 1952 Broglio fondò, all’interno della Scuola di ingegneria aerospaziale, il Centro di ricerche aerospaziali (CRA), presso l’aeroporto dell’Urbe di Roma, dove installò una galleria del vento per lo studio della dinamica del volo supersonico. La base di lancio di Furbara, vicino a Roma, dove si erano svolte le prime prove missilistiche, fu ritenuta non adeguatamente equipaggiata per la conduzione di esperimenti per lo sviluppo di razzi di elevata altezza e di lunga gittata. L’area scelta in sostituzione fu individuata in Sardegna, nella località Salto di Quirra, a Ovest della base aerea di Perdas de Fogu, e inaugurata nell’ottobre del 1956 con un lancio di missili telecomandati. La prima utilizzazione scientifica del nuovo poligono, a partire dal 9 luglio 1960, riguardò il lancio di sei razzi sonda bistadio (C-41) del peso di 75 kg per ricerche nell’alta atmosfera, la cui costruzione fu affidata dall’Aeronautica militare alla SISPRE (Società Italiana per lo Studio della Propulsione a REazione).
L’esito soddisfacente del programma portò ad attività successive all’interno di un programma più ampio che faceva capo alla neocostituita Commissione per la ricerca spaziale (CRS) del CNR, con l’obiettivo di studiare l’atmosfera oltre i 100 km (i razzi C-41 raggiunsero un’altezza di 30 km), anche a scopi meteorologici. Presieduta da Broglio, la CRS ebbe il compito di rappresentare istituzionalmente l’Italia a livello europeo nelle riunioni che portarono alla nascita, nel 1962, di ESRO (European Space Research Organisation), per promuovere e organizzare le attività nel campo della ricerca scientifica spaziale, ed ELDO (European Launcher Development Organisation), per le connesse attività tecniche di lancio di veicoli spaziali.
L’idea di una collaborazione internazionale che promuovesse la politica scientifica italiana era stata fortemente caldeggiata sia da Broglio sia da Amaldi, con quest’ultimo importante interprete del lavoro di preparazione verso la costituzione di un’organizzazione spaziale europea. La possibilità di studiare la dinamica atmosferica da un’altezza di 70 km fino a una di 400 km, molto poco conosciuta e importante perché a tali quote orbitano i satelliti, fu alla base dell’inizio della collaborazione Italia-Stati Uniti nel settore spaziale, coordinata da Broglio, cui seguì una serie di esperimenti con importanti risultati resi possibili dai notevoli miglioramenti ottenuti nel campo della tecnica di lancio e dei sistemi di propulsione.
Un tipo di lancio innovativo riguardò i razzi Nike-Cajun, caricati con polvere di sodio e litio rilasciata a 90 km di quota, la cui osservazione da varie stazioni di terra permetteva la misurazione delle correnti atmosferiche di alta quota; il primo lancio fu effettuato il 12 gennaio 1961 e altri due dello stesso tipo seguirono il 19 e 20 aprile successivi, con il raggiungimento di un’altezza massima di 270 km. Le ricadute positive del successo di tali lanci si concretizzarono nella decisione di modernizzare le infrastrutture tecniche della base di Salto di Quirra, al fine di ottimizzare le procedure di acquisizione dei dati sperimentali migliorandone la precisione e l’accuratezza. Al contempo, la base fu estesa geograficamente fino al mare e fu coinvolta in un gran numero di ricerche spaziali, in diversi settori, tra cui la meteorologia, con nuove tecniche di misurazione sperimentale.
Dalla fine del 1962, l’ESRO decise di effettuare una prima serie di otto lanci nell’ambito di un programma scientifico per lo studio dell’alta atmosfera e della ionosfera. Questi lanci, che rappresentavano tra l’altro il primo esperimento del neonato ente europeo, furono effettuati con razzi francesi Centaure e britannici Skylark. La qualità del personale e delle attrezzature spinse l’organizzazione europea a utilizzare il poligono fino al 1972, in base a un accordo firmato nel 1967 a Parigi da Pierre Auger, capo dell’ESRO.
Alla fine degli anni Sessanta, in piena guerra fredda, l’Italia avviò dal poligono di Salto di Quirra un programma nucleare sperimentale che faceva seguito a movimenti di strategia geopolitica iniziati anni prima con l’acquisizione dei missili balistici americani Polaris da lanciare dall’incrociatore italiano Garibaldi. Il programma, avviato dalla marina militare con la collaborazione delle altre forze armate, riguardò la progettazione e la costruzione del missile Alfa, una versione italiana del Polaris con una gittata di 1600 km e la possibilità di trasportare una testata nucleare di 1000 kg. Si trattava di un missile bistadio autoguidato lungo 6,5 m e con un diametro di 1,37 m, che vedeva coinvolte diverse industrie italiane per la messa a punto delle caratteristiche tecniche e la gestione del lancio. Il progetto fu validato da alcuni test di volo effettuati con successo nella prima metà degli anni Settanta ed ebbe termine nel 1975, quando l’Italia aderì al Trattato di non proliferazione nucleare. L’investimento di un tale programma di ricerca si rivelò utile per successive applicazioni anche nel campo civile, per es. per la fornitura, negli anni Ottanta, dei razzi ausiliari (boosters) atti a potenziare i vettori spaziali europei Ariane per la messa in orbita dei satelliti artificiali.
L’esperienza acquisita nella progettazione e nel lancio di missili dalla base di Salto di Quirra si rivelò fondamentale per il delinearsi del progetto San Marco, al cui sviluppo contribuì in modo essenziale nei primi mesi del 1961 l’abilità di Broglio nel sostenere i rapporti con le istituzioni politiche dell’epoca, in particolare con il presidente del Consiglio Amintore Fanfani, al quale prospettò la costruzione e la messa in orbita di un satellite italiano con il supporto degli Stati Uniti, incassandone il consenso, insieme a quello del ministro della Difesa Giulio Andreotti che, nel febbraio del 1963, approvò la prima legge per l’attuazione del progetto.
Il progetto San Marco
Con il suo programma spaziale, Broglio si proponeva di studiare la fascia atmosferica terrestre attorno all’equatore, che non era stata presa in considerazione dalle attività svolte dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. L’idea era quella di lanciare piccoli satelliti scientifici per effettuare ricerche di aeronomia utilizzando uno strumento installato all’interno chiamato bilancia di Broglio, un dispositivo molto sensibile che aveva il compito di valutare la densità atmosferica misurando con precisione le forze di piccola intensità che agiscono sulla superficie del veicolo in orbita, ossia la resistenza incontrata, proporzionale alla densità. All’equatore si ha inoltre il vantaggio che molte grandezze fisiche d’interesse, per es. relative al campo magnetico o all’atmosfera terrestri, assumono il valore massimo e un satellite che percorra un’orbita equatoriale ha l’opportunità unica di misurarle negli stessi punti a brevi intervalli di tempo, ossia ogni volta che completa un giro. La bilancia di Broglio risolveva un problema che riguardava strumenti analoghi impiegati da russi e americani, i quali non erano in grado di misurare con precisione le variazioni a breve periodo che si verificano nell’atmosfera, per es. a causa dell’escursione solare o dell’attività geomagnetica, ma soltanto i valori medi della densità atmosferica.
Ottenuti l’interesse e l’appoggio del presidente del CNR, Giovanni Polvani, insieme a quest’ultimo Broglio, sulla scorta di un’idea maturata nella primavera del 1961 dopo alcune conversazioni con dirigenti della NASA al congresso del COSPAR (COmmittee on SPAce Research) tenutosi a Firenze nell’aprile dello stesso anno, presentò al governo italiano, che l’approvò nell’ottobre del 1961 (con uno stanziamento di 4,5 miliardi di lire in base alla successiva l. del 9 febbraio 1963 nr. 123), un progetto di ricerca spaziale da svilupparsi nel giro di tre anni che prevedeva il lancio di un satellite e la realizzazione di una base di lancio galleggiante al largo delle coste del Kenya. Dapprima si era pensato di realizzare la base di lancio del progetto in Sardegna, ma tale eventualità fu subito esclusa per motivi di sicurezza. Alternativamente, in modo innovativo e coraggioso, dopo il rifiuto del governo della Somalia ad accogliere la proposta italiana, si valutò la possibilità di effettuare il lancio da un poligono mobile galleggiante e il luogo scelto furono le acque antistanti la città di Malindi, nella baia di Formosa, in Kenya, 320 km a Sud dell’equatore.
Vari gruppi di fisici di ricerca spaziale proposero alcuni esperimenti scientifici, da effettuarsi a bordo del satellite da lanciare, per diversi scopi: studiare alcune componenti particolari della radiazione cosmica, le fasce di Van Allen, la radiazione gamma solare, il campo magnetico terrestre. Tuttavia, nel gennaio del 1962, in fase di selezione di tali proposte, la NASA scelse soltanto l’esperimento indicato da Broglio e dal suo gruppo del CRA.
I dettagli dell’intesa con la NASA furono messi a punto in un memorandum firmato nel maggio del 1962 e approvato dal governo italiano nel settembre successivo, che prevedeva lo sviluppo di tre fasi: progettazione e costruzione del prototipo del satellite, realizzazione del poligono di lancio equatoriale ed esecuzione di una serie di lanci suborbitali di razzi sonda dalla base NASA di Wallops Island (Virginia); messa in orbita dalla medesima base per mezzo del missile vettore statunitense Scout di un prototipo del satellite, il San Marco 1 (o San Marco A), realizzato interamente dal CRA; infine, messa in orbita di un satellite per ricerca scientifica dalla base equatoriale italiana, sempre mediante un vettore Scout. L’Italia doveva quindi fornire il poligono di lancio equipaggiato con le attrezzature necessarie, il personale e il satellite scientifico; la NASA, dal canto suo, doveva mettere a disposizione i razzi, i servizi di formazione per il personale italiano e la rete di monitoraggio.
Il poligono di lancio equatoriale nella baia di Formosa fu realizzato riadattando la piattaforma petrolifera Scarabeo utilizzata dall’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) per le trivellazioni nei fondali marini; ridenominata Santa Rita, fu completata nel giro di tre mesi, tra il dicembre 1963 e il febbraio 1964. La prima fase del progetto si concluse nella primavera del 1964 con una serie di tre lanci suborbitali di missili Nike-Apache che servì a validare la piattaforma e gli strumenti del poligono (in particolare la bilancia di Broglio che, per la sua estrema sensibilità, doveva essere calibrata soltanto in assenza di gravità). La fase successiva certificò un traguardo storico per l’Italia che diventò, come detto, il primo Paese, dopo Unione Sovietica, Stati Uniti e Canada, a mettere in orbita un satellite, con il lancio, il 15 dicembre 1964 da Wallops Island del San Marco 1, collocato su un’orbita ellittica (205 km al perigeo, 820 km all’apogeo). I dati scientifici raccolti dimostrarono la necessità di considerare fenomeni di natura dinamica nei modelli dell’atmosfera.
Per rendere tecnologicamente operativo il poligono per il successivo obiettivo, che concludeva la terza e ultima fase del progetto, alla piattaforma Santa Rita ne fu aggiunta una nuova (una chiatta rettangolare di acciaio), denominata San Marco, a una distanza di 600 m, utilizzata per attività di controllo e come sede per il personale. Le due piattaforme galleggianti erano dotate di gambe retrattili estensibili verso il basso per il posizionamento sul fondo dell’oceano: la base di lancio era quindi riposizionabile in mare aperto e questa fu una scelta decisiva per il successo della messa in orbita del satellite San Marco 2, lanciato il 26 aprile 1967 (perigeo, 218,46 km; apogeo, 748,91 km) e in volo per 171 giorni nello spazio per un totale di 2680 orbite completate. Dopo una serie di esperimenti effettuati sulla densità dell’aria e sulla ionosfera, il rientro avvenne il 14 ottobre 1967.
A questa fase di massimo sviluppo del progetto San Marco seguì un periodo di due decenni durante i quali, a un fisiologico declino iniziale aggravato dal taglio dei fondi causato dalla crisi economica dell’inizio degli anni Settanta e dalla ridotta attività spaziale statunitense relativamente alla base nel Kenya per l’inizio del progetto dello Space shuttle, si affiancò un periodo di intensa attività del poligono, dalla fine del 1970 al 1975, caratterizzato dalla messa in orbita di satelliti statunitensi, britannici e italiani e lanci di missili italiani a scopo scientifico, a cui seguirono una lunga fase di stallo e una parziale riapertura delle attività.
Il 12 dicembre 1970 fu lanciato dal CRA su mandato NASA il primo satellite dedicato all’astronomia X, SAS-1 (Small Astronomy Satellite), poi ribattezzato Uhuru, che utilizzava come rivelatori contatori proporzionali e al cui progetto lavorarono i due fisici italiani Riccardo Giacconi (n. 1931, premio Nobel per la fisica nel 2002) e Bruno Rossi (1905-1993). Scopo della missione era produrre un catalogo di sorgenti X esplorando sistematicamente il cielo: malgrado l’interruzione anticipata per un guasto tecnico (sei settimane di volo invece dei sei mesi previsti), Uhuru identificò centinaia di sorgenti, anche al di fuori della nostra galassia, tra cui Cygnus X-1, che Giacconi ipotizzò essere un buco nero, come poi è stato confermato. Il terzo satellite italiano, San Marco 3, fu posto in orbita il 24 aprile 1971, con a bordo una versione avanzata della bilancia di Broglio integrata con due sperimentazioni progettate dalla NASA, e permise di ottenere misure molto accurate della temperatura cinetica dell’atmosfera tra 200 e 400 km di altezza; restò in orbita per 219 giorni, con perigeo e apogeo iniziali di 213,4 e 717,7 km.
Gli altri satelliti messi in orbita dal poligono San Marco furono lo statunitense SSS-1 (Small Scientific Satellite), il 15 novembre 1971, per lo studio dei campi elettrici e magnetici al di fuori dell’atmosfera terrestre; lo statunitense SAS-2, esattamente un anno dopo, per tracciare la prima mappa della radiazione gamma galattica ed extragalattica; il San Marco 4, il 18 febbraio 1974, con orbita simile a quella del San Marco 3, per l’acquisizione di ulteriori dati relativi all’atmosfera superiore e per correlare le misurazioni sulla dinamica della bassa termosfera con quelle ottenute dal satellite Atmospheric Explorer-C della NASA, lanciato nel dicembre precedente; il satellite scientifico inglese UK-5 (chiamato anche Ariel 5), messo in orbita il 15 ottobre 1974 e dedicato allo studio dei raggi X; infine il satellite SAS-3 sviluppato da GSFC (Goddard Space Flight Center) lanciato l’8 maggio 1975, dedicato ancora a ulteriori ricerche sulle fonti di raggi X.
I problemi di bilancio, le difficoltà sorte nei rapporti con le organizzazioni spaziali europee e il concomitante finanziamento del progetto SIRIO – alla cui realizzazione con esito positivo contribuì in parte il trasferimento delle competenze acquisite nel progetto San Marco – furono tra le cause che rallentarono fortemente l’avanzamento del programma spaziale negli anni successivi. Soltanto nel 1980 l’interesse nato attorno all’eclisse totale di Sole del 16 febbraio fu il motivo di una parziale riapertura del progetto, con il lancio di sette razzi sonda per la misurazione della corona solare (che si evidenzia quando il disco del Sole viene occultato dalla Luna): un razzo Super Arcas il 15 febbraio, due Nike-Black-Brant, due Astrobee-D e due Super Arcas nei due giorni seguenti.
Il quinto e ultimo satellite della serie San Marco (San Marco D/L Spacecraft) fu lanciato il 25 marzo 1988 da un razzo Scout e messo in un’orbita ellittica con perigeo di 263 km e apogeo di 615 km, per lo studio della relazione tra l’attività solare e i fenomeni che si verificano al confine tra termosfera e ionosfera. Determinante per la realizzazione di tale satellite fu l’approvazione del Piano spaziale nazionale (PSN), al cui varo diede un impulso determinante il successo del satellite per telecomunicazioni SIRIO. Il satellite, che rientrò in atmosfera il 6 dicembre 1988 dopo 255 giorni di volo, chiuse anche l’attività di lancio del poligono San Marco.
Dopo quest’ultimo lancio, le piattaforme del poligono, ribattezzato Centro spaziale Luigi Broglio in onore del suo fondatore, sono rimaste inutilizzate e sottoposte alla sola manutenzione ordinaria. Attualmente, il centro si occupa esclusivamente delle operazioni di controllo dei satelliti e di ricezione dati per conto di diverse agenzie spaziali. La presenza del Centro nel territorio keniota è regolata da accordi intergovernativi, l’ultimo dei quali, di durata ventennale, è stato siglato nel giugno 2012 e prevede la realizzazione di una serie di progetti comuni e il supporto alla nascita di un’agenzia spaziale keniota.
SIRIO e le telecomunicazioni
Il primo satellite per telecomunicazioni, Telstar 1, fu messo in orbita il 10 luglio 1962 dalla NASA per conto dell’American telephone and telegraph company. Il lancio inaugurò di fatto l’era delle telecomunicazioni satellitari, e la trasmissione delle prime immagini televisive rilanciate in mondovisione dal satellite fu una spinta importante per la definizione, pure in Europa, di programmi di sviluppo tecnologico-industriale del settore, mirati anche all’ottenimento di un soddisfacente ritorno economico.
In Italia, la situazione era legata alle vicende relative alla revisione del programma ELDO, nell’ambito del quale una proposta italiana avanzata da Francesco Carassa (1922-2006), professore di elettronica al Politecnico di Milano, per l’utilizzazione di un satellite di prova al fine di sperimentare canali radio satellitari nella gamma SHF (Super High Frequency), in particolare per studiare l’effetto dei fenomeni atmosferici sulla propagazione dei segnali, dapprima approvata, fu poi annullata a causa di difficoltà tecniche ed economiche. Nacque così l’idea di realizzare un programma nazionale per le telecomunicazioni sulla scorta delle esperienze maturate nell’ambito europeo (a partire dalla partecipazione al consorzio Intelsat creato nell’agosto del 1964 e formato da altri Paesi europei sotto il controllo tecnico scientifico degli Stati Uniti), che aprì la strada a un nuovo importante settore di ricerca applicata e nove anni dopo, nel 1977, approdò al lancio di SIRIO, completamente realizzato dall’industria italiana per conto del CNR.
SIRIO aveva una forma cilindrica, con un diametro di 143 cm e un peso di 229 kg. Era ricoperto all’esterno da 8000 celle solari che garantivano l’acquisizione dell’energia necessaria per il suo funzionamento. Ruotava su sé stesso 90 volte al minuto per stabilizzarsi, mentre l’antenna alla sommità ruotava in senso opposto alla stessa velocità del satellite per mantenere l’orientamento fisso verso la Terra.
Un importante obiettivo di SIRIO, perseguito da Carassa, era esplorare la possibilità di utilizzare a fini commerciali bande di frequenza molto più alte di quelle in uso al tempo nei sistemi di telecomunicazione, ossia nell’intervallo 12-18 GHz (banda Ku). I satelliti di prima generazione (Intelsat) usavano la stessa gamma di frequenze utilizzata nei grandi ponti radio terrestri negli anni Cinquanta e Sessanta, intorno a 4-6 GHz, e precisamente intorno a 4 GHz per il percorso discendente e intorno a 6 GHz per quello ascendente. Queste frequenze offrono il vantaggio di una propagazione che è all’incirca la stessa che si avrebbe nel vuoto e di captare un minimo rumore dalle antenne di terra, ma, oltre a una rapida saturazione, pongono però grossi problemi di interferenze, che spinsero all’uso di frequenze più elevate, superiori a 10 GHz, in grado di garantire anche una più alta direttività ottenibile dalle antenne. Lo svantaggio è invece rappresentato dal fatto che la propagazione a tali più alte frequenze è influenzata negativamente dalle precipitazioni e, in particolare, dalla pioggia: le gocce d’acqua, infatti, assorbono e diffondono l’energia elettromagnetica, provocando, come effetto principale, un’attenuazione di segnali, che cresce rapidamente con la frequenza.
La strada verso la sperimentazione della propagazione ad alte frequenze attraverso SIRIO fu irta di difficoltà, dovute in larga parte alla frammentazione delle competenze relative al settore, condizione aggravata dall’instabilità politica e dalle incertezze sociali del periodo, ma anche dalla mancanza di continuità delle risorse economiche e di una legge specifica per sostenere il progetto. Soltanto il 9 marzo del 1971 fu approvata la l. nr. 97 per il finanziamento delle attività spaziali nazionali, che stanziò 18,7 miliardi di lire per il progetto SIRIO e 5,7 per il San Marco; tre anni dopo, la l. del 2 agosto 1974 nr. 388 assegnò a SIRIO ulteriori 18 miliardi di lire e parte dei fondi assegnati ad altre attività. Complessivamente, negli anni Settanta il progetto SIRIO ottenne 42 dei 64 miliardi messi a disposizione dalle leggi sulle attività spaziali.
La messa in orbita geostazionaria di SIRIO, avvenuta con successo il 26 agosto 1977 da Cape Canaveral, seguì un periodo di accelerazione verso il lancio, nel contesto di un confronto a livello europeo per la supremazia nel campo (che garantiva la partecipazione al progetto di altri Paesi europei, degli Stati Uniti e del Canada), dove la controparte era rappresentata dal satellite di prova europeo OTS (Orbiting Test Satellite), che perseguiva obiettivi scientifici simili e il cui utilizzo era stato negato all’Italia, lanciato nove mesi dopo SIRIO, successivamente a un tentativo fallito nel settembre del 1977.
L’attività di SIRIO, inizialmente programmata fino al settembre del 1979, si protrasse per più anni grazie alla disponibilità di propellente e al degrado contenuto delle celle solari. Un contributo fondamentale fu dato da Telespazio SpA, costituita il 18 ottobre 1961 per iniziativa di Italcable e con la partecipazione della RAI, la cui attività sperimentale, importante anche per il futuro sviluppo delle telecomunicazioni via satellite in Italia, fu condotta a partire dal 1963 dalla stazione del Fucino, in Abruzzo. Diversi esperimenti, progettati da ricercatori italiani e stranieri, furono eseguiti per esaminare nuove frequenze di trasmissione al fine di fornire elementi utili per la realizzazione di nuovi satelliti per telecomunicazioni, mentre altri furono effettuati per collaudare tecniche di ottimizzazione dei ricevitori televisivi, per es. da parte della RAI.
Un’esperienza di collaborazione con la Cina tra il 1983 e il 1985 per la trasmissione di quotidiani italiani e la ricezione di quotidiani cinesi e per la sincronizzazione di orologi atomici concluse di fatto l’attività operativa di SIRIO (il satellite fu donato alla Cina, collocato in un’orbita sull’Oceano Pacifico). Un secondo satellite, SIRIO 2, lanciato nel settembre 1982 dalla base europea della Guyana francese, fallì il raggiungimento dell’orbita per un guasto alla turbopompa del terzo stadio del razzo europeo Ariane e finì nell’Oceano Atlantico.
La riuscita del progetto ebbe ricadute positive sia sulla futura industria spaziale italiana, con l’avvio negli anni Ottanta di ulteriori satelliti per telecomunicazione, sia per la riorganizzazione delle strutture di ricerca spaziale. L’esperienza accumulata consentì all’Italia di assumere un ruolo importante nell’ambito della collaborazione con l’ESA (European Space Agency), fondata nel 1975 dopo lo scioglimento delle due precedenti organizzazioni spaziali europee ESRO ed ELDO. Un progetto congiunto rilevante fu la messa a punto del satellite Olympus per le trasmissioni televisive, avviato nel 1982 e messo in orbita nel luglio 1989 con Selenia spazio, responsabile della gestione del carico utile, e Aeritalia della sistemistica. Seguirono la partecipazione a ERS-1 (European Remote-Sensing satellite), un satellite per il monitoraggio della Terra con rilevamenti radar, al programma Meteosat e al programma Giotto, sonda spaziale lanciata nel 1985 per effettuare osservazioni ravvicinate della cometa di Halley.
La necessità di una politica spaziale più costante e coerente fu alla base della definizione del primo Piano spaziale nazionale il 25 ottobre del 1979 per il periodo 1979-83 da parte del Comitato internazionale per la programmazione economica (CIPE), con lo stanziamento complessivo di 200 miliardi di lire, 98 dei quali per i primi tre anni. Tra le attività finanziate rientrava anche la partecipazione italiana al programma Spacelab dell’ESA/NASA, sviluppato dal 1974 al 1983 per la costruzione di un modulo pressurizzato abitabile per la conduzione di esperimenti scientifici da effettuare a bordo dello Space shuttle, una premessa della partecipazione italiana alle attività svolte sulla Stazione spaziale Alpha, poi ridenominata Stazione spaziale internazionale (ISS, International Space Station).
Lo Spacelab rappresentava un’opportunità importante per l’Europa, e per l’Italia in particolare (che forniva il contributo maggiore al progetto dopo la Germania), di acquisizione dell’esperienza necessaria per la gestione del volo spaziale umano, fino allora di stretta competenza di Stati Uniti e Unione Sovietica. Il modulo, allungabile e di forma cilindrica, era lungo 6,94 m e aveva un diametro di 4,35 m; la struttura interna era intercambiabile, pensata per adattarsi agli esperimenti scientifici delle diverse missioni. L’Italia partecipò, con Aeritalia, alla costruzione della struttura del modulo pressurizzato in pannelli di alluminio e, insieme con Microtecnica, alla fornitura degli impianti per il controllo termico dell’abitacolo. Un accordo con la NASA prevedeva l’inclusione a bordo della prima missione dello Spacelab anche di astronauti europei: Franco Malerba, inizialmente inserito nella lista dei possibili cosmonauti dopo aver superato appositi test alla fine del 1977, nei mesi successivi fu escluso, dovendo rimandare la possibilità di volare nello spazio al 1992.
Il Piano spaziale nazionale prevedeva l’avvio di cinque programmi in altrettanti settori: telecomunicazioni, con i satelliti Italsat F1 e F2; propulsione, con la costruzione del lanciatore IRIS (Italian Research Interim Stage) per la messa in orbita di un carico fino a 900 kg; studi per sistemi avanzati, con lo sviluppo dell’innovativa tecnologia dei ‘sistemi tetherizzati’, cioè a filo, da un’idea di Giuseppe (detto Bepi) Colombo (1920-1984), professore dell’Università di Padova, per ricerche sulla ionosfera a diverse altezze; telerilevamento, con l’osservazione della Terra mediante radar ad apertura sintetica (SAR, Synthetic Aperture Radar) e la realizzazione del satellite LAGEOS 2; ricerca di base, con l’osservazione di nuove sorgenti X mediante il satellite SAX (Satellite per Astronomia a raggi X). Dopo una prima verifica nel 1982, il Piano fu rifinanziato fino al 1986, quando fu revisionato in vista della costituzione di un organismo unico in grado di superare le sovrapposizioni causate dai vari enti pubblici che si occupavano dell’attività spaziale. La l. del 30 maggio 1988 nr. 186, dopo quasi tre anni di iter parlamentare, istituì l’Agenzia spaziale italiana (ASI), il cui primo compito fu la preparazione di un programma di sviluppo pluriennale che ponesse le basi per la crescita del settore nell’ambito internazionale.
Gli anni a seguire sarebbero stati caratterizzati dall’attuazione di numerosi progetti, da successi, ma anche da difficoltà di tipo politico, economico e istituzionale (l’ASI ha subito cinque commissari o amministratori straordinari nei primi vent’anni di vita), nell’ambito di un contesto nazionale e internazionale in continuo fermento, e comunque da una trasformazione dell’industria spaziale italiana, in grado di convertire in tecnologie affidabili i risultati della ricerca scientifica.
L’ASI e la programmazione dell’attività spaziale
La nascita dell’ASI comportò la riunificazione, a livello istituzionale, delle strategie di politica spaziale italiana, che permise di ottimizzare, razionalizzandolo, il sistema dei programmi svolti, svincolandoli dal rigido percorso attuativo che si delineava distintamente sotto l’egida del CNR e del ministero della Ricerca scientifica a seconda della loro connotazione nazionale o internazionale. I diversi progetti in cantiere, avviati dal Piano spaziale nazionale, che caratterizzeranno gli anni a seguire, si avvalsero del consolidamento dell’industria spaziale italiana conseguente alla fusione, avvenuta nel dicembre 1990, dei gruppi Aeritalia e Selenia in Selenia spazio, ridenominata dopo un mese Alenia spazio (oggi Thales Alenia space), che dotava il Paese di un potenziale di alto livello nell’ambito della sistemistica e della produzione tecnologica, ben inquadrato nel sistema industriale spaziale europeo, sempre più caratterizzato da forti legami di interdipendenza e complementarietà. Il piano di rilancio e potenziamento del programma San Marco non andò invece a buon fine, a causa della revoca dei 90 miliardi stanziati dal CIPE nel 1990 per l’ammodernamento della base di Malindi, che indusse Broglio alle dimissioni dal Consiglio di amministrazione dell’ASI nel luglio 1993, in segno di protesta contro tali politiche spaziali.
Un satellite al guinzaglio
L’intuizione di Colombo di utilizzare un sistema costituito da un satellite collegato attraverso un cavo alla stiva dello shuttle affonda le radici negli aspetti tecnologici colti in un’idea di Mario Grossi, ricercatore allo Smithsonian astrophysical observatory di Cambridge, di impiegare lunghe antenne filiformi nello spazio per stabilire una comunicazione a frequenze ultrabasse con i sommergibili in immersione, che non ebbe fortuna. Il Tethered satellite system (TSS) di Colombo era un dispositivo essenzialmente costituito da un satellite collegato al veicolo spaziale primario con un filo metallico del diametro di alcuni millimetri e lungo svariati chilometri. Tra le possibili applicazioni da effettuarsi con lo shuttle, per es. la raccolta di informazioni sull’alta atmosfera, sull’alta magnetosfera, sulla ionosfera, sul potenziale gravitazionale ecc., nonché il possibile utilizzo per la futura costruzione di grandi stazioni spaziali, quella inserita nel Piano spaziale nazionale era volta a generare energia elettrica sfruttando i campi magnetici della ionosfera. L’intento era quello di creare una differenza di potenziale fra le estremità del cavo sparando elettroni verso il polo Nord della Terra attraverso le linee del campo magnetico terrestre e sfruttandone il movimento di ritorno lungo il cavo verso il satellite, che genera un circuito elettrico, realizzando così una sorta di dinamo nello spazio. Un filo lungo 20 km avrebbe creato una differenza di potenziale di 5000 volt e un’intensità massima di corrente di 500 milliampere.
Nel marzo del 1984 il CNR firmò un accordo con la NASA per la realizzazione del sistema, con il satellite costruito da Aeritalia (una sfera del diametro di 1,6 m e peso di 520 kg) e il sistema di rilascio del satellite con il filo fornito dalla NASA. L’accordo fissava il primo volo nel dicembre 1987 e prevedeva anche la presenza a bordo di un astronauta italiano. Purtroppo, la tragedia della navetta Challenger, distrutta in fase di lancio nel 1986, ebbe conseguenze drastiche sul piano, che venne rinviato. Soltanto il 31 luglio 1992, dopo la ripresa degli accordi con la NASA, il satellite TSS-1, con a bordo Franco Malerba, selezionato dalla NASA per la missione STS-46, poté essere lanciato da Cape Canaveral con lo shuttle Atlantis. Colombo, scomparso prematuramente nel 1984, non poté assistere alla realizzazione della sua idea. Lo srotolamento del cavo si bloccò a 256 m dallo shuttle e tutti i tentativi per farlo procedere oltre furono inutili, ma il sistema funzionò anche con quella breve estensione del cavo, generando una tensione elettrica di 40 volt e una corrente di 2,3 milliampere. La causa dell’intoppo fu l’esistenza di un bullone sporgente aggiunto da una società americana per rafforzare la struttura e sfuggito alle verifiche. Fu comunque portato a termine il primo volo sperimentale di un sistema a filo che avrebbe potuto garantire la produzione di energia elettrica per la stazione spaziale; l’affidabilità dell’esperimento convinse la NASA a riproporlo di nuovo.
Il 12 febbraio 1996 lo shuttle Columbia portò il TSS-1R al suo secondo viaggio nell’ambito della missione STS-75, con a bordo anche i due astronauti italiani Umberto Guidoni e Maurizio Cheli. Anche questa volta qualcosa non andò per il verso giusto, perché quando il filo si era quasi srotolato del tutto, a 19,6 km dallo shuttle, il cavo si spezzò a causa di una fusione procurata da fenomeni elettromagnetici e il satellite andò perduto. Tutto aveva comunque funzionato perfettamente, generando energia secondo le previsioni (tensione elettrica di 3500 V e corrente di 480 milliampere).
Italsat
Nato come terzo programma del PSN, rappresentava la continuazione su base nazionale del programma SIRIO, con un’estensione operativa alle frequenze di trasmissione da 20 a 30 GHz (banda Ka) e successivamente da 40 a 50 GHz, nell’ambito di un esperimento tecnologicamente innovativo affiancato al progetto, con l’obiettivo di gestire fino a 12.000 canali telefonici simultaneamente. È stato il primo programma gestito direttamente dall’ASI e comprendeva due satelliti sperimentali per telecomunicazioni, lanciati rispettivamente nel 1991 e 1996 dalla base di Kourou, nella Guinea francese. Articolato in tre fasi – configurazione del sistema, elaborazione del sistema e delle tecnologie di configurazione, messa a punto della tecnologia –, coinvolgeva il CNR, il ministero delle Poste e Telecomunicazioni e il ministero dell’Università e della Ricerca scientifica. Telespazio aveva la supervisione delle commesse industriali, delle quali si occupava per la maggior parte Selenia spazio, poi Alenia spazio.
Un’altra particolarità innovativa rispetto a SIRIO era il collaudo di un nuovo sistema avanzato consistente soprattutto nella commutazione dei segnali a bordo invece che da terra (una vera e propria centrale telefonica in orbita, anche con l’impiego di stazioni mobili), come era avvenuto fino allora. Il primo satellite, Italsat F1, realizzato per il 60% dall’industria italiana, fu messo in orbita nel gennaio 1991 e ha terminato la sua operatività nel 2001. Un secondo esemplare, Italsat F2, partì con un vettore Ariane 4 nell’agosto 1996. Con entrambi l’ESA, attraverso Telespazio, poteva collaudare il sistema di comunicazioni mobili EMS (European Mobile System), destinato alle comunicazioni tra basi fisse e veicoli in movimento, da applicare in futuri satelliti. Il programma Italsat ha consentito di sperimentare e anticipare le principali applicazioni satellitari alla banda larga e ai servizi per utenti mobili, come telecomunicazioni e navigazione. Nel corso della sua operatività, è stato anche utilizzato per lo sviluppo di progetti pilota di teleeducazione e telemedicina.
Osservazione della Terra
Dopo il lancio dello statunitense LAGEOS 1 (LAser GEOdynamics Satellite) da parte della NASA nel maggio 1976 per osservazioni geodetiche, seguì, a completamento, la realizzazione, in collaborazione tra NASA e ASI, dell’identico LAGEOS 2, posto in orbita nell’ottobre 1992 dalla stiva dello shuttle Columbia a un’altezza orbitale di 5900 km e a un’inclinazione di 52° dal minivettore IRIS, un lanciatore dotato anche di sistemi di guida.
Realizzato da Alenia spazio, LAGEOS 2 è un satellite passivo costituito da una sfera di alluminio e ottone di 60 cm di diametro, con una massa di 405 kg, ricoperta da 426 prismi riflettenti del diametro di 3,8 mm che fanno rimbalzare verso terra raggi laser utilizzati per il controllo dei movimenti della crosta terrestre. Misurando il tempo impiegato dal raggio per tornare sulla terra è possibile determinare con precisione millimetrica il movimento tra le varie placche che compongono la superficie terrestre; altre misurazioni riguardano le osservazioni dell’asse terrestre e la lunghezza del giorno. I dati forniti in modo integrato dai due LAGEOS, tuttora operativi, hanno consentito di raddoppiare la precisione dei rilevamenti rispetto alle misurazioni ottenute soltanto dal primo satellite, permettendo così di determinarne l’orbita con un’accuratezza dell’ordine del centimetro. È stato così possibile ottenere un’ulteriore conferma sperimentale della validità della teoria della relatività generale di Albert Einstein che, a causa della curvatura e delle deformazioni dello spazio-tempo dovute alla massa e ai movimenti dei corpi in gioco, prevede che l’orbita di un satellite attorno alla Terra subisca uno spostamento continuo.
Un’evoluzione della missione LAGEOS 2 è rappresentata da LARES (LAser RElativity Satellite), un satellite realizzato dalla CGS (Compagnia Generale per lo Spazio) con la collaborazione dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), anch’esso costituito da retroriflettori per la determinazione della posizione da terra con elevata precisione e la verifica di alcuni aspetti della relatività generale, lanciato nel febbraio 2012 come carico principale da VEGA (Vettore Europeo di Generazione Avanzata), il nuovo razzo europeo di cui l’ASI è il principale promotore.
Il primo programma spaziale italiano per l’osservazione globale della Terra con qualsiasi condizione meteorologica e illuminazione per esigenze sia civili sia militari è COSMO SkyMed, finanziato dall’ASI e dal ministero della Difesa coinvolgendo piccole e medie imprese. È costituito da una costellazione di quattro satelliti dotati di sensori SAR ad alta risoluzione per lo studio e il controllo dell’ambiente e da infrastrutture terrestri per la loro gestione. I primi due lanci sono avvenuti nel 2007, gli altri nel 2008 e nel 2010.
Lampi di raggi gamma
Il primo satellite italiano (con partecipazione olandese) dedicato all’astronomia X è stato SAX, lanciato nell’aprile 1996 da Cape Canaveral in orbita equatoriale a 600 km di altezza e ribattezzato subito dopo il lancio con il nome BeppoSAX, a ricordo del fisico Giuseppe (detto Beppo) Occhialini (1907-1993), tra i pionieri dello studio dei raggi cosmici. Copriva tutta la banda dei raggi X, da 0,1 a 300 keV, con alta sensibilità fino alle più alte energie e portava a bordo sia ottiche per raggi X (fino a 10 keV) sia rivelatori a vista diretta (fino a 300 keV), nonché un rivelatore di lampi di raggi gamma di origine celeste operante nella banda 40÷700 keV e un telescopio per raggi X tra 2 e 30 keV a largo campo che copriva quasi la metà del cielo. BeppoSAX garantiva quindi una copertura molto ampia dello spettro e dava la possibilità di osservare con efficacia sorgenti X che variavano la loro luminosità su tempi lunghi e brevi, un fatto questo che permetteva di ricavare preziose informazioni sulle dimensioni e sui meccanismi energetici delle sorgenti.
Grazie alla sua capacità di passare rapidamente dall’osservazione gamma a quella X, il satellite ha consentito di scoprire l’origine extragalattica dei lampi di raggi gamma (GRB, Gamma-Ray Burst), le esplosioni più potenti dell’Universo. BeppoSAX è rimasto operativo per sette anni (a fronte dei due, estendibili a quattro, previsti), e nell’aprile 2003 è precipitato nell’atmosfera sopra l’Oceano Pacifico.
Un altro satellite italiano dedicato alla rilevazione dei lampi gamma è AGILE (Astrorivelatore Gamma a Immagini LEggero), lanciato nell’aprile 2007. Frutto della collaborazione tra ASI, INFN e INAF (Istituto Nazionale di AstroFisica), fa uso per l’acquisizione delle immagini della tecnologia al silicio e in cinque anni di attività ha ottenuto la prima mappa completa dell’emissione gamma celeste. I dati raccolti sono prima trasferiti alla stazione di terra ASI di Malindi, in Kenya, poi trasmessi ai centri di calcolo. Nel 2010 ha scoperto intense emissioni nella Nebulosa del Granchio che hanno dato importanti informazioni sui meccanismi di generazione. Altre missioni dedicate all’astrofisica delle alte energie sono INTEGRAL (INTErnational Gamma-Ray Astrophysics Laboratory), satellite ESA con strumentazione italiana a bordo lanciato nell’ottobre 2002, Swift, satellite NASA lanciato nel novembre 2004 il cui contributo italiano è costituito sia da parte della strumentazione sia dall’utilizzo della base ASI di Malindi, e GLAST (Gamma-ray Large Area Space Telescope), poi ridenominato Fermi, telescopio spaziale lanciato nel giugno 2008 con la fornitura italiana del Large area telescope (LAT).
Esplorazione spaziale
Il contributo italiano alle missioni di esplorazione del Sistema solare e dell’Universo ha trovato il suo punto di eccellenza nell’investigazione di Saturno e della sua luna più grande Titano attraverso la sonda Cassini-Huygens, lanciata nell’ottobre del 1997 e giunta sul pianeta nel luglio 2004. L’ASI, come partner della missione, in base a un accordo di collaborazione con la NASA, ha sviluppato per la sonda l’antenna ad alto guadagno per le telecomunicazioni con la Terra, lo spettrometro VIMS (Visual and Infrared Mapping Spectrometer) e il radar. L’ASI ha inoltre sviluppato, per il lander Huygens atterrato su Titano (una luna particolarmente interessante perché ricorda l’ambiente primordiale della Terra) nel dicembre 2004, la strumentazione che ha permesso di effettuare precise misurazioni delle proprietà fisiche dell’atmosfera e della superficie e di acquisire dettagliate immagini in una varietà di condizioni atmosferiche e di spettro elettromagnetico. In particolare, il radar ha consentito di dedurre l’esistenza di un oceano liquido sulla luna, sotto una crosta ghiacciata di 50 km e che potrebbe raggiungere i 250 km di profondità.
Obiettivo della maggior parte delle missioni nel 21° sec. è Marte. L’Italia partecipa con il contributo fornito a Mars express, sonda ESA lanciata nel giugno 2003 e giunta sul pianeta nel dicembre successivo. Due dei sei strumenti a bordo sono italiani: il Planetary Fourier spectrometer (PFS) e il Mars advanced radar for subsurface and ionosphere sounding (MARSIS). Inoltre, a bordo della sonda NASA Mars reconnaissance orbiter (MRO), lanciata nell’agosto 2005, è operativo il radar ad apertura sintetica SHARAD (SHAilow RADar), in grado di identificare depositi d’acqua o strati di ghiaccio sotto la superficie del pianeta.
Per quanto riguarda l’esplorazione di Venere, sono italiani due dei sette strumenti a bordo della sonda ESA Venus express, lanciata nel novembre 2005 per lo studio del sistema meteorologico del pianeta e per effettuare la mappatura della sua superficie. Si tratta del VIRTIS (Visible and InfraRed Thermal Imaging Spectrometer) e del PFS, un’evoluzione dello strumento a bordo del Mars express.
All’interno del Sistema solare, la sonda Rosetta dell’ESA, lanciata nel marzo 2004, ha il compito di studiare l’origine delle comete. La missione prevede nel novembre 2014 un incontro ravvicinato con la cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko quando questa si troverà vicino al Sole; sul suo nucleo atterrerà il lander Philae (novembre 2014) per studiarne la composizione chimica e le proprietà fisiche degli strati superficiali. Contributi italiani riguardano sia l’orbiter – con gli strumenti VIRTIS, GIADA (Grain Impact Analyser and Dust Accumulator) e WAC (Wide Angle Camera), per produrre una mappa accurata della composizione superficiale della cometa – sia il lander – con il Sampler drill and distribution (SD2), un sistema di perforazione, acquisizione e distribuzione dei campioni di suolo cometario.
L’osservazione dell’Universo si avvale del contributo italiano alla realizzazione degli specchi del telescopio spaziale XMM-Newton dell’ESA, lanciato nel dicembre 1999 per la rilevazione dei raggi X emessi dai corpi celesti e, in particolare, per lo studio dei buchi neri supermassivi, degli agglomerati di galassie e della materia oscura. L’Italia è inoltre responsabile di uno degli strumenti di Planck (LFI, Low Frequency Instrument) e partecipa a quelli di Herschel, due telescopi spaziali lanciati entrambi dall’ESA nel maggio 2009 rispettivamente per l’analisi accurata delle fluttuazioni della radiazione cosmica di fondo e per osservazioni nel submillimetrico e nel lontano infrarosso.
Stazione spaziale internazionale
La partecipazione italiana al programma di cooperazione scientifica internazionale riguardante la piattaforma orbitante intorno alla Terra, utilizzata come base operativa e laboratorio di ricerca, prevede la fornitura di moduli logistici in cambio di diritti di utilizzo della stazione (in base a un accordo stipulato tra ASI e NASA), la realizzazione in ambito ESA del laboratorio Columbus (agganciato all’ISS nel febbraio 2008) e la costruzione in Italia di elementi chiave della stazione. Tra questi, il Nodo 2 (Harmony), un elemento d’interconnessione tra i diversi laboratori della Stazione, è stato il carico principale della missione STS-120, con a bordo l’astronauta italiano Paolo Nespoli, il cui lancio ha avuto luogo nell’ottobre 2007, mentre la Cupola, ossia il modulo spaziale per l’osservazione e il controllo dell’esterno, e il Nodo 3 (Tranquillity) sono stati posti in orbita nel febbraio 2008 con la missione STS-130. In buona parte italiano è anche l’Automatic transfer vehicle (ATV), un modulo in grado di agganciarsi automaticamente all’ISS, lanciato nel 2008.
Altri elementi sviluppati in Italia sono i moduli pressurizzati per il trasporto a bordo della Stazione di equipaggiamento, rifornimenti e attrezzature sperimentali mediante lo shuttle (MPLM, Multi Purpose Logistic Module): uno di questi, Leonardo, è stato trasformato in modulo permanente (PMM, Permanent Multipurpose Module) e, portato in orbita con la missione STS-133, dal marzo 2011 aumenta il volume abitabile della Stazione di 70 m3, utilizzati per ospitare esperimenti scientifici e materiali di supporto per gli astronauti. Con la missione del maggio successivo, STS-134, la penultima con lo Space shuttle, Roberto Vittori (nel suo terzo viaggio, dopo quelli del 2002 e del 2005) ha raggiunto Nespoli sulla Stazione, componendo per la prima volta una coppia di italiani a bordo.
Un accordo quadro tra NASA e ASI firmato nel marzo 2013 prevede il rinnovo per i prossimi anni della collaborazione tra le due agenzie relativamente allo sviluppo delle attività da svolgere sulla Stazione spaziale, con ulteriori astronauti italiani da mandare in orbita e la sperimentazione di nuovi campi applicativi, in segno di continuità con quanto avvenuto mezzo secolo prima sotto l’auspicio di Broglio e Amaldi, agli albori dell’avventura spaziale italiana.
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