Europa, la sfida di Atene
La crisi finanziaria della Grecia è l’esempio più drammatico dei limiti di funzionamento dell’Eurozona.
Sebbene Atene rappresenti l’1,8% del PIL dell’area euro, la sua crisi finanziaria non ha trovato soluzioni a 6 anni dalla sua esplosione, per il populismo della politica ellenica e l’ostinata linea di austerità imposta dai creditori.
L’avvio dell’Unione economica e monetaria (UEM), nota anche come Eurozona, fu deciso con il Trattato di Maastricht del 1992. Un basilare compromesso fu siglato tra la Germania e la Francia riguardo alla gestione della nuova moneta comune. La Germania accettò di rinunciare alla propria moneta nazionale ma impose che la moneta comune venisse gestita da una Banca centrale europea (BCE) disegnata sul modello della Deutsche Bundesbank, ovvero da una banca indipendente dalla politica ed esclusivamente preoccupata di tenere sotto controllo l’inflazione. A sua volta la Francia impose che le decisioni di politica economica, fiscale e di bilancio rimanessero nelle mani dei governi nazionali, anche se questi ultimi avrebbero dovuto coordinarsi con le istituzioni intergovernative del Consiglio dei ministri economici e finanziari e del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo. Quindi, su impulso della Germania, venne introdotto tra il 1997 e il 1998 un Patto di stabilità e crescita (PSC) che fissava precisi parametri macroeconomici entro cui avrebbe dovuto svolgersi il coordinamento volontario delle politiche economiche nazionali. Il debito pubblico di ogni Stato membro e il suo deficit di bilancio non avrebbero dovuto superare rispettivamente il 60% e il 3% del PIL, pena l’apertura di una procedura di infrazione che poteva concludersi con il pagamento di una multa significativa. Questo sistema di governance è stato quindi confermato da trattati successivi per essere poi costituzionalizzato dal Trattato di Lisbona del 2009. Quando la crisi finanziaria è esplosa in Grecia, questa era la struttura di governance istituzionalizzata per gestirla.
Ora, è bene sottolineare il fatto che l’Eurozona si basa su un modello di convergenza economica dei suoi stati membri, oltre che su un modello politico di fiducia reciproca tra questi ultimi.
Relativamente alla Grecia, questa doppia assunzione si è rivelata fallace: non solamente la stabilità dei tassi di interesse nel primo decennio di vita dell’euro non aveva condotto a una convergenza dell’economia greca con le economie più solide dell’area, ma la stessa fiducia nei confronti della Grecia era stata seriamente scossa dall’accertamento dei trucchi contabili introdotti dai vari governi di quel paese per rimanere dentro i parametri del PSC. Nel primo decennio del nuovo secolo, la Grecia aveva continuato la politica tradizionale di distribuzione clientelare delle risorse pubbliche, evitando le scelte di policy che avrebbero dovuto condurre a una razionalizzazione – se non a una riforma – del suo sistema sia statale sia economico. A fronte delle insufficienze della Grecia, l’Eurozona ha sistematicamente imposto a quest’ultima severe misure di austerità come condizione per ottenere un aiuto finanziario. Tali condizioni di austerità hanno avuto l’effetto di piegare ulteriormente il paese, mentre l’aiuto finanziario ricevuto (per quanto riguarda il primo pacchetto) è andato principalmente a rimborsare l’enorme esposizione del sistema bancario, costituito in particolare da banche francesi e tedesche. Dal 2010 al 2015 si sono succeduti ben 3 pacchetti di aiuti finanziari nei confronti della Grecia, senza che il paese riuscisse a ripartire economicamente (a parte una lieve ripresa dello 0,7% registrata nel terzo trimestre del 2014).
A sua volta, la crisi greca è il risultato di 2 debolezze: il persistente populismo della politica greca e l’ostinata riproposizione dell’austerità da parte dell’Eurozona. Il populismo della politica greca ha raggiunto il suo apice con il successo elettorale del partito di SYRIZA nel gennaio 2015 e quindi con l’esito del referendum del luglio successivo.
Comprensibilmente i cittadini greci hanno votato in entrambi i casi contro l’austerità, meno comprensibilmente i politici greci hanno fatto credere a quei cittadini che la responsabilità esclusiva della crisi del paese fosse dovuta alle banche e ai governi ‘stranieri’. Si tratta di vedere se il nuovo governo di Alexis Tsipras, formato dopo le elezioni di settembre 2015 che hanno visto la conferma di SYRIZA come primo partito del paese, sarà alla fine in grado di introdurre le indispensabili, e a lungo rinviate, riforme interne. Ma anche le politiche di austerità dell’Eurozona sono state parte del problema: incapace di prendere decisioni ‘europee’ attraverso diciannove governi nazionali, l’Eurozona si è affidata alla regolazione intrusiva delle politiche nazionali per armonizzarle. Ha finito così per essere governata da tecnocrazie (nella BCE o nella Commissione) piuttosto che da istituzioni europee legittimate dagli elettori europei. Appare dunque poco plausibile trovare una soluzione alla crisi greca senza un cambiamento sia del paradigma politico di quel paese sia del paradigma istituzionale dell’Eurozona emerso dal compromesso di Maastricht.
Cronaca di una crisi
- 2009
L’agenzia di rating Moody’s declassa il debito pubblico greco.
Il governo del primo ministro George Papandreou (PASOK) riconosce che i conti del bilancio pubblico sono stati truccati.
- 2010
I membri dell’Eurozona propongono il primo programma straordinario per il salvataggio della Grecia di 110 miliardi di euro in cambio di stringenti misure di austerità interna.
- 2011
Attraverso l’European financial stability facility vengono trasferiti alla Grecia 109 miliardi di euro. In cambio di ulteriori misure di austerità, l’Eurozona si dichiara disposta a tagliare del 50% il debito greco. Il primo ministro Papandreou propone di organizzare un referendum sul nuovo pacchetto di salvataggio, proposta poi ritirata per la reazione negativa dei principali leader dell’Eurozona.
- 2012
Il Parlamento greco approva le misure di austerità necessarie per ottenere un secondo pacchetto di aiuti europei di 130 miliardi di euro. La Grecia trova un accordo con i creditori privati per dimezzare il debito. Le elezioni di maggio non producono una nuova maggioranza. Nuove elezioni vengono convocate in giugno. Si forma un governo di coalizione, guidato dal leader conservatore di Nuova democrazia Antonis Samaras – favorevole alle misure di austerità imposte dai creditori – e a cui partecipano anche i socialisti del PASOK. A ottobre il Parlamento approva un piano di austerità di 13,5 miliardi di euro incentrato su tagli della spesa sociale (pensioni) e incrementi delle tasse.
- 2013
La disoccupazione cresce al 26,8%, quella giovanile al 60%. Nel dicembre il Parlamento approva una legge di bilancio che prevede una ripresa economica dopo 6 anni.
- 2014
La disoccupazione cresce al 28%. L’Eurozona si impegna a un nuovo prestito di 8 miliardi di euro. La vendita dei titoli pubblici greci sui mercati finanziari produce poco più di 3 miliardi di euro. Nelle elezioni per il Parlamento europeo di maggio, il partito anti-austerità di SYRIZA diventa prima forza politica del paese con 26,6% di voti. In dicembre, il fallimento del Parlamento nell’elezione di un nuovo presidente della Repubblica porta a una crisi politica e alla convocazione di nuove elezioni per il Parlamento nazionale.
- 2015
A gennaio si tengono le elezioni che vedono il successo del partito di SYRIZA e del suo leader Alexis Tsipras. SYRIZA forma un governo di coalizione con il partito nazionalista di estrema destra dei Greci indipendenti (ANEL). A febbraio il nuovo governo greco negozia un’estensione di 4 mesi del piano di salvataggio europeo in cambio dell’impegno a continuare nella politica di austerità. Nel giugno-luglio, la Banca centrale europea interrompe il piano di finanziamento di emergenza alle banche greche, che sono quindi costrette a chiudere gli sportelli e a introdurre il controllo sui depositi. A fronte delle condizioni dell’Eurozona per fornire un nuovo aiuto finanziario al paese, il governo greco convoca un referendum che si conclude con un voto schiacciante contro quelle condizioni. Condizioni ancora più severe verranno però accettate nell’agosto successivo dal governo greco per ottenere un terzo pacchetto di aiuti finanziari di 86 miliardi di euro con cui evitare l’uscita del paese dall’Eurozona (come ipotizzato dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble). Il governo greco si dimette subito dopo e nuove elezioni nazionali vengono quindi convocate per settembre. SYRIZA si conferma primo partito ma, come a gennaio, non conquista la maggioranza assoluta dei seggi: viene riproposta la coalizione con ANEL.
L’accordo con i creditori divide SYRIZA
Un addio al Ministero delle Finanze annunciato con un post sul suo blog, e una frase – «porterò addosso con orgoglio il disgusto dei creditori» – che racchiude in poche parole il suo turbolento rapporto con gli interlocutori di Bruxelles. Subito dopo il voto referendario con cui, il 5 luglio, i cittadini greci hanno respinto le proposte dei creditori, Yanis Varoufakis ha formalizzato le sue dimissioni, spiegando di ritenere «un suo dovere» aiutare Tsipras.
L’accordo raggiunto sul filo di lana a Bruxelles ha garantito ad Atene nuovi aiuti per complessivi 86 miliardi di euro in 3 anni, allontanando l’ipotesi Grexit; a livello politico, tuttavia, il premier Tsipras è stato costretto a un compromesso lontano dalle promesse che erano state alla base del trionfo elettorale di SYRIZA a gennaio. E il partito si è diviso. I problemi per Tsipras sono andati oltre le esternazioni di Varoufakis, che ha proposto addirittura un parallelismo tra l’accordo e il trattato di Versailles del 1919, alla fine della Prima guerra mondiale: contro l’intesa raggiunta a Bruxelles si è infatti schierata più della metà del comitato centrale di SYRIZA, 109 membri su 201, e il 15 luglio, nel voto parlamentare successivo all’accordo, le defezioni all’interno del partito – tra astensioni, assenze e voti contrari – sono state in tutto 39 su una compagine di 149 deputati.
È stata la Piattaforma di sinistra – ala radicale di SYRIZA – a defilarsi, guidata dal ministro della Ricostruzione produttiva, dell’ambiente e dell’energia Panagiotis Lafazanis, ovviamente non confermato nel suo incarico al momento del successivo rimpasto di governo del 17 luglio. Ed è stato Lafazanis ad affermare che con il memorandum la democrazia greca era finita, perché sostituita dalla «dittatura dell’euro»; mentre Varoufakis rendeva noto che, prima della vittoria elettorale, aveva persino ricevuto il beneplacito dello stesso Tsipras per elaborare un ‘piano B’ – tenuto segreto – da mettere in pratica in caso di uscita di Atene dall’euro. Tra le voci più critiche contro l’accordo, anche quella della presidente del Parlamento Zoe Konstantopoulou, che in forza della sua posizione istituzionale ha potuto ritardare le procedure parlamentari dell’iter di approvazione del programma di salvataggio. Ad agosto, dopo il voto finale sull’intesa e la richiesta da parte di Tsipras di un nuovo mandato attraverso elezioni, si è consumata la scissione: è nato, sotto la guida di Lafazanis, Laïkí enótita (Unità popolare), ‘fronte politico’ rigorosamente anti-austerity e antimemorandum.
Tra gli obiettivi dichiarati, la cancellazione di gran parte del debito, la nazionalizzazione delle banche e il ritorno alla sovranità monetaria abbandonando l’euro. Troppo pronunciate le divergenze politiche con Varoufakis, che è rimasto fuori: secondo l’ex ministro delle Finanze, la questione dell’uscita dall’euro è trattata da Unità popolare in modo ideologico, mentre la permanenza di Atene nella moneta unica sarebbe preferibile, pur da non perseguire a qualsiasi prezzo. Nel frattempo, 53 membri del Comitato centrale di SYRIZA hanno lasciato il partito, destinati a confluire nel nuovo soggetto politico, e anche Konstantopoulou, formalmente indipendente, ha deciso di collaborare con il fronte. Il voto ha però premiato la linea di Tsipras e la permanenza nell’euro: SYRIZA, forte del 35,5% dei consensi, è tornata al governo; Unità popolare, con il 2,86% dei voti, è invece rimasta sotto la soglia di sbarramento del 3%, non riuscendo a entrare in Parlamento.
Crisi: non solo Grecia
Sostegno in cambio di riforme: è questo il meccanismo alla base degli interventi attraverso cui l’UE è andata in soccorso dei suoi Stati membri in difficoltà.
Quello greco è stato il caso più controverso e dibattuto, ma non è l’unico nell’Eurozona.
Nel 2010, la crisi delle banche costrinse l’Irlanda a chiedere aiuto all’Unione e al Fondo monetario internazionale: il paese ricevette un prestito da 67,5 miliardi di euro; in cambio, fu chiamato ad adottare riforme strutturali, a intervenire sul sistema fiscale e bancario, a elaborare politiche di aggiustamento macroeconomico e a implementare misure di austerità. L’Irlanda è uscita dal piano di salvataggio nel dicembre 2013 e gli indicatori economici certificano una buona crescita – stimata al 3,9% nel 2015 dal FMI – e un calo della disoccupazione al 9,8%, anche se ancora sopra i livelli pre-crisi; il debito pubblico, anche se dato in diminuzione, resta comunque alto al 109,5% del PIL. Rimane comunque difficile stabilire l’effettiva correlazione tra misure previste dal programma e buone performance dell’economia. Nel 2011, dopo che il Parlamento respinse a marzo il piano di austerity presentato dal governo del socialista José Sócrates, fu il Portogallo a necessitare del sostegno di UE e FMI. Nel mese di maggio, l’accordo per il salvataggio portò a un piano da 78 miliardi di euro, mentre a giugno – dopo le dimissioni di Sócrates – il paese tornava alle urne e si costituiva un esecutivo di centrodestra guidato da Pedro Passos Coelho. Seguivano anni di austerity, tagli alla spesa, riforma del mercato del lavoro e privatizzazioni. Anche in terra lusitana non mancavano le proteste, e il malcontento emergeva dai risultati delle elezioni locali del 2013 e delle europee del 2014, dove le forze al governo cedevano il passo al centrosinistra. Il Portogallo è uscito dal programma di salvataggio nel maggio 2014, e anche per Lisbona il FMI prevede una crescita del PIL (+1,6% nel 2015) e una riduzione della disoccupazione; permangono invece dubbi sull’effettiva sostenibilità del debito. Nel dicembre 2012, per salvare le sue banche ormai vicine al collasso, la Spagna ha chiesto l’aiuto di Bruxelles: il programma di assistenza finanziaria è terminato nel dicembre 2013; a Madrid sono stati erogati oltre 41 miliardi di euro. Anche in questo caso, il paese ha dovuto adottare una serie di riforme, e se pure gli indicatori sembrano testimoniare un maggiore dinamismo dell’economia, la crescita dei consensi per forze dichiaratamente anti-austerity come Podemos certifica come il processo riformatore non sia stato indolore. Infine la crisi cipriota, con le grandi banche insolventi e il paese sull’orlo della bancarotta: nel marzo 2013 l’accordo per il salvataggio, sulla base di un piano da 10 miliardi di euro in cambio di riforme economiche, la ristrutturazione del settore bancario e un programma di privatizzazioni. Il Fondo monetario ha messo a disposizione 1 miliardo; l’assistenza finanziaria a Cipro del Meccanismo di stabilità europeo prevede risorse per 9 miliardi, fino al marzo 2016.
Per saperne di più
- S. Fabbrini, Compound democracies. Why the United States and Europe are becoming similar, Oxford 2010 (2ª ed.).
- S. Fabbrini-S. Micossi, Una proposta istituzionale per l’Europa: legittimazione ed efficienza, 2012, su Aspenia Online, http://www.aspeninstitute.it/aspenia-online/system/files/inline/Fabbrini-Micossi_FINAL_1.pdf.
- The new intergovernmentalism. States and supranational actors in the post-Maastricht era, a cura di C.J. Bickerton, D. Hodson, U. Puetter, Oxford 2015.
- S. Fabbrini, Which European Union? Europe after the euro crisis, Cambridge 2015.