La società italiana
Il declino dell’arte di arrangiarsi
Nel corso dei primi anni del 21° sec., la società italiana è stata attraversata da profondi cambiamenti: in parte eredità del passato recente, in parte prodotti da eventi nuovi, in parte riflesso di trasformazioni globali, in parte specifici. Si tratta, in larga misura, di tendenze comuni al contesto internazionale e, in particolare, al resto d’Europa: la globalizzazione, l’immigrazione, l’invecchiamento, l’insicurezza, il disincanto civile. Tuttavia, questi mutamenti sembrano avere indebolito un aspetto sociale tanto condiviso, nella percezione degli italiani, da proporsi – e imporsi – come un marchio (uno stigma?) del carattere nazionale. Ci riferiamo alla capacità adattiva della società, ritenuta in grado di supplire e di reagire ai limiti dello Stato e del sistema pubblico anche, e forse soprattutto, nei periodi di maggiore difficoltà. Questa rappresentazione del carattere nazionale è largamente condivisa non solo negli altri Paesi, ma anche in Italia. È, quindi, un luogo comune, ma talmente diffuso e interiorizzato fra gli italiani da orientare non solo le (auto)immagini e gli atteggiamenti, ma perfino i comportamenti delle persone. Ciò lo fa uscire dai confini dello stereotipo per tradurlo in un tratto culturale e della personalità. Per chiarire meglio questo aspetto è utile fare riferimento ad alcuni sondaggi condotti in Italia negli ultimi quindici anni da LaPolis e Demos per la rivista «Limes» al fine di indagare intorno all’identità nazionale. Insieme a molte informazioni, essi hanno rilevato gli atteggiamenti, i riferimenti e i valori maggiormente in grado, secondo gli intervistati, di distinguere gli italiani dai cittadini degli altri Paesi europei. Una sorta di mappa delle rappresentazioni che ricorrono per descrivere e identificare lo specifico nazionale. Al primo posto di una lista molto ampia (ricavata dalla letteratura, dalla pubblicistica ma anche dai discorsi di vita quotidiana) si incontra l’arte di arrangiarsi, seguita dall’arte tout-court, come patrimonio artistico e storico del Paese e quindi dall’attaccamento alla famiglia, dalla imprenditorialità, dal localismo. In fondo alla graduatoria vi sono, invece, il senso civico e il rispetto per le istituzioni, i valori e le regole della Costituzione. Nulla di nuovo, verrebbe da osservare. Questa rappresentazione è, infatti, coerente con gli stereotipi correnti.
Occorre però aggiungere tre diverse considerazioni. In primo luogo, si tratta di rappresentazioni stabili e consolidate, che resistono nel tempo e si ripresentano, nello stesso ordine di preferenza, da quindici anni. Si tratta, inoltre, come abbiamo già osservato, di stereotipi largamente condivisi dagli stessi italiani e, quindi, profondamente interiorizzati. Anche perché – ultima considerazione – molto probabilmente non sono ritenuti negativi dalla maggioranza della popolazione, ma anzi sono considerati elementi coerenti di un profilo sociale valutato senza timidezza e, addirittura, con un poco di orgoglio.
Possiamo rileggere queste indicazioni in modo diverso, con parole diverse. L’arte di arrangiarsi, infatti, non è solo un vizio o un atteggiamento reattivo di fronte alle emergenze. Può essere concepita – ed è stata concepita – anche come una competenza attiva e propositiva, soprattutto se legata alla creatività e alla voglia di fare, di intraprendere. Le stesse immagini che tratteggiano il carattere nazionale, quindi, rappresentano gli italiani in modo ambivalente: creativi e flessibili al tempo stesso. Sono artisti, imprenditori, commercianti, artigiani, viaggiatori, lavoratori. Dotati di grande capacità di adattamento e di innovazione. Sanno affrontare le difficoltà esterne e i problemi interni, rialzandosi ogni volta. Aiutati da una innata creatività, ma anche dal sostegno fornito dalla famiglia e dalla comunità locale, ossia le istituzioni tradizionali. È grazie a esse, infatti, che gli italiani riescono a sopportare i limiti delle istituzioni pubbliche e in primo luogo dello Stato, verso il quale, d’altronde, nutrono diffidenza.
Questa lettura, peraltro, si era riproposta all’inizio degli anni Novanta, quando, dopo il crollo della prima Repubblica, la fiducia nello Stato e nel sistema politico si era ancor più ridotta, fin quasi a dissolversi. In tale fase, a saldare quella pericolosa frattura contribuì la concertazione con le associazioni di volontariato, il terzo settore e le organizzazioni di interesse: il sindacato, le rappresentanze imprenditoriali. Un importante sostegno alle istituzioni fu inoltre offerto dai sindaci, soprattutto dopo che la legge n. 81 del 25 marzo 1993 ne stabilì l’elezione diretta.
Per fare fronte al dissesto dello Stato e del sistema pubblico, negli anni seguiti alla fine della prima Repubblica si è fatto quindi ricorso alla capacità di reazione delle istituzioni sociali e locali. Mentre la crisi economica e finanziaria di quel periodo è stata affrontata con il concorso determinante dei sistemi produttivi territoriali imperniati sulle piccole imprese e sul lavoro autonomo: i distretti industriali. Da ciò una ulteriore e importante conferma all’idea, teorizzata e promossa apertamente dal Censis di Giuseppe De Rita, che la vera risorsa dell’Italia risieda nella vitalità autopropulsiva della società e dell’economia, intrecciate fra loro secondo un modello molecolare, policentrico e poliarchico. Un’Italia fondata sui sistemi locali, alimentata da un incessante sviluppo dal basso.
Tuttavia, la difficile transizione cominciata in quegli anni – e ancora non conclusa – ha estremizzato anche l’altro aspetto che definisce il teorema (o il pregiudizio) della capacità adattiva della società italiana: il distacco dalla politica e dalle istituzioni pubbliche; la riluttanza verso le regole e i vincoli imposti dallo Stato; un orientamento tattico e opportunista verso il bene pubblico; un senso civico quanto meno carente. Alle soglie del 2000, quindi, riemerge la tradizionale opposizione tra società e Stato, ancor più polarizzata rispetto al passato. Da un lato, la società virtuosa, flessibile, laboriosa, che coltiva e riproduce le sue competenze attraverso gli individui, la famiglia e la comunità locale, capace di innovare e di costruire il futuro senza perdere le radici, ma anzi in continuità con esse. Dall’altro, le istituzioni pubbliche e statali, bersaglio di sfiducia e sospetto in misura più accentuata del passato. In parte perché vengono ritenute – e si sono spesso dimostrate – inefficienti e inaffidabili. In parte per effetto perverso delle stesse virtù sociali. Perché gli italiani stessi appaiono afflitti da particolarismo, attaccamento agli interessi locali, familiari e individuali. Si pongono, nei confronti dello Stato, in modo strumentale, tattico. E delineano con tale atteggiamento un Paese spezzato su base territoriale, fra Nord e Sud e, in generale, diviso nella cultura e negli atteggiamenti tra virtù private e vizi pubblici.
Sullo sfondo di questa rappresentazione – in parte condivisa nell’ambiente scientifico e nel senso comune – si colgono, quindi, i principali elementi del dibattito antico sul rapporto fra gli italiani e lo Stato, che chiama in causa, da un lato, il rendimento delle istituzioni pubbliche, dall’altro, il senso civico degli italiani. Una questione intorno a cui continuano a confrontarsi due diverse – opposte – interpretazioni. La prima tra queste pone l’accento sulle responsabilità dello Stato inefficiente e ostile, l’altra invece su quelle della società familista e amorale oppure della scarsa cultura civica. Insieme, le due prospettive delineano il circolo (vizioso più che virtuoso, in Italia) che collega istituzioni e società.
Negli ultimi anni, però, numerosi segni rivelano la crescente difficoltà della società italiana nell’affrontare i mutamenti interni ed esterni con la stessa plasticità e con la stessa efficacia di prima. Gli elementi ritenuti fino a ieri in grado di favorirne la capacità di risposta e di adattamento tendono a costituire altrettanti vincoli, a divenire limiti invece che risorse. Ci riferiamo, soprattutto, al ruolo della famiglia, del territorio, dei legami comunitari, che risulta profondamente ridefinito. In parte logorato, in parte, al contrario, rafforzato, ma in senso particolaristico ed esclusivo al punto di compromettere l’efficacia adattiva e al tempo stesso propulsiva della società.
Cercheremo di analizzare questa svolta della società italiana attraverso alcuni dei principali cambiamenti sociali che si sono realizzati nel Paese negli ultimi anni, senza tuttavia descriverli nel dettaglio. D’altronde, molti di essi incrociano altri ambiti, come la demografia, l’economia, il lavoro e la politica. Cercheremo, altresì, di chiarire quali effetti abbiano prodotto e stiano ancora producendo sulle relazioni delle persone e della società con le istituzioni, con il territorio, e sulla visione del futuro. In altri termini, l’indagine sarà condotta sulla base di quello che molti osservatori e autori definiscono il carattere nazionale.
L’eterna giovinezza e l’incapacità di innovare
Un primo, importante aspetto del cambiamento sociale riguarda la demografia. La società italiana ha subito, al proposito, alcuni significativi mutamenti, strettamente collegati fra loro. Il primo riguarda l’invecchiamento della popolazione e il parallelo declino delle ‘coorti’ giovanili.
L’Italia è divenuta, in poco più di vent’anni, il Paese più vecchio dell’Europa occidentale: se nel 2005 la percentuale europea delle persone con più di 65 anni era del 17%, in Italia invece raggiungeva il 20%. Ciò ha determinato costi molto pesanti e altrettanto evidenti, sul piano sociale e pubblico, come dimostra bene l’entità del debito dello Stato, davvero smisurata, a causa proprio della pressione esercitata dalla spesa previdenziale e per l’assistenza.
Un aspetto particolarmente rilevante è costituito dal rapido cambiamento che ha caratterizzato la posizione e la condizione giovanile nella nostra società. Un tempo, peraltro recente, i giovani costituivano un importante fattore di ricambio e di innovazione sociale e rappresentavano il mito del futuro. Oggi, invece, sono divenuti al tempo stesso centrali e marginali per le strategie delle famiglie e, in generale, della società. Centrali, perché sovraccaricati di cure e di aspettative da parte degli adulti e bersaglio privilegiato delle scelte di mercato e di consumo. Ma anche marginali, visto che raggiungono la maturità e l’autonomia sempre più tardi e appaiono, come è stato scritto da Massimo Livi Bacci (2008), afflitti da una ‘sindrome del ritardo’ che coinvolge ogni tappa della loro biografia: la conclusione degli studi, l’accesso nella vita attiva, l’uscita dalla famiglia di provenienza.
Per contro, l’aspettativa di vita si è allungata al punto che la ‘coorte’ degli ultranovantenni è tra quelle cresciute maggiormente nell’ultimo decennio. La contrazione delle classi d’età più giovani e la contemporanea crescita delle più vecchie ha prodotto e sta producendo conseguenze sociali rilevanti, accentuando, inoltre, alcune tendenze particolarmente significative in questa fase: un basso grado di innovazione sociale e, insieme, di ricambio delle classi dirigenti; l’aumento del senso di insicurezza personale, che cresce in parallelo con l’età e, dunque, soprattutto fra gli anziani; il protrarsi della dipendenza dei figli dai genitori, sottolineato, fra l’altro, dal loro basso grado di mobilità geografica residenziale. I giovani, infatti, sono abituati a viaggiare e a spostarsi sempre più per motivi di studio e di turismo, mentre dal punto di vista della residenza (e del reddito) restano ancorati alla famiglia e, quindi, alla casa dei genitori. Inoltre, anche quando vanno a vivere da soli – o con la nuova famiglia – in nove casi su dieci si trasferiscono a pochi chilometri di distanza: nello stesso comune o in una località limitrofa a quella in cui risiedono i genitori, talvolta nella stessa via e nello stesso condominio.
In ogni settore della vita pubblica ma anche dell’impresa privata prevalgono i meccanismi della cooptazione, per lo più su base familista. Nelle professioni, nelle attività intellettuali, nel sistema pubblico, nella politica. E ciò scoraggia la selezione in base al merito, la competizione, la concorrenza e tende a immobilizzare la società. L’invecchiamento sociale e la bassa natalità hanno determinato, inoltre, un profondo mutamento nei legami di reciprocità intergenerazionale. I figli sono divenuti sempre più inadeguati ad assumersi il peso dell’assistenza degli anziani, i quali sono sempre di più e sempre più bisognosi di cure e di attenzione. D’altronde, larga parte delle coppie hanno uno o due figli. Non solo, ma le attività di assistenza erano (e restano) prevalentemente a carico delle donne, il cui tempo oggi è sempre di più assorbito da attività esterne alla famiglia, in primo luogo il lavoro. L’impatto di questi cambiamenti è accentuato dal rapido e profondo ridimensionamento della spesa pubblica per i servizi sociali. Si sta delineando, così, il paradosso di una società sempre più vecchia che, al tempo stesso, rifiuta di invecchiare, come suggerisce un’indagine condotta qualche anno fa (Diamanti 2007a). Oltre un terzo degli italiani con più di 15 anni, infatti, si definisce giovane (oppure adolescente), anche se coloro che hanno meno di 30 anni non superano il 20%. Peraltro, solo il 15% si riconosce anziano, nonostante che il 23% del campione abbia più di 65 anni. Quasi nessuno, infine, ammette la vecchiaia, che sembra divenuta una malattia indicibile. Secondo il giudizio degli italiani la vecchiaia comincerebbe, infatti, solo dopo gli 80 anni (età che coincide con l’aspettativa della vita, nel nostro Paese). In altri termini, in Italia si accetta di essere vecchi solo dopo la morte. D’altra parte, non si percepiscono più le fratture con la chiarezza di un tempo, quando i cicli di vita erano separati nettamente da momenti che assumevano il ruolo di riti di passaggio condivisi: l’ingresso nel mondo del lavoro, l’autonomia residenziale, il matrimonio. Tali eventi per lo più coincidevano, perché occorreva avere un lavoro per potersi permettere una famiglia e una casa. Crescere, superare la soglia della giovinezza, costava sacrifici e conflitti e significava liberarsi, guadagnarsi l’autonomia, anzitutto dai più anziani, dai padri e dai nonni. Oggi, però, solo il 12% degli italiani pensa che il passaggio alla vita adulta avvenga quando si va a vivere in una casa diversa da quella dei genitori, mentre secondo il 20% coincide con il matrimonio o con la convivenza stabile. Per diventare adulti contano di più il lavoro fisso (26%) e, soprattutto, la nascita di un figlio (31%), eventi che tuttavia non costituiscono più una prospettiva certa e generalizzata come un tempo e che, dal punto di vista biografico, avvengono sempre più tardi. Sembra quasi che la società si sia predisposta a un destino di precarietà – e quindi di giovinezza – lunga e indefinita, non più circoscritta a una fase specifica della vita. Se l’incertezza è prerogativa della gioventù, insomma, allora il mito faustiano dell’eterna giovinezza tende a realizzarsi ed è inseguito – o almeno mimato – dalle mode e dagli stili di vita.
Da ciò la sensazione, insopprimibile, di un Paese dove si diventa adulti sempre più tardi e non si invecchia mai. Paradossalmente, ma non troppo, in questa società protesa all’eterna giovinezza si assiste alla progressiva eclissi dei giovani veri, anagraficamente, e, insieme, delle donne (Élite e classi dirigenti in Italia, 2007). D’altra parte, l’età media dei dirigenti pubblici dello Stato ma anche degli enti locali supera i 50 anni (indagine Università Bocconi, 2004), mentre all’università l’età media dei professori ordinari ormai sfiora i 60 anni (rapporto del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, CNEL, ott. 2006). Insieme alla gioventù, d’altronde, la società tende anche a rimuovere il futuro.
La sindrome del declino
Senza immaginare il futuro, però, l’arte di arrangiarsi si riduce a una tecnica di sopravvivenza circoscritta all’immediato, il che risulta particolarmente evidente (e problematico) in ambito socioeconomico.
Nel corso del secondo dopoguerra, infatti, gli italiani hanno migliorato costantemente la loro posizione sociale, di generazione in generazione. Ogni generazione adulta ha investito nei giovani come mezzo di autopromozione sociale, certa che i figli avrebbero raggiunto traguardi ulteriori rispetto ai genitori. Ogni fase si è tradotta quindi in un obiettivo, capace di garantire sviluppo sociale e benessere individuale. Negli anni Cinquanta: la ricostruzione. Negli anni Sessanta e Settanta: l’istruzione e la cultura di massa. Negli anni Ottanta e Novanta: i consumi vistosi e il ‘capitalismo popolare’ (la formula è del giornalista Giorgio Lago), espresso da una larga base costituita da piccoli imprenditori e da lavoratori autonomi.
Nell’ultimo decennio, però, questa spinta collettiva sembra essersi smorzata e quasi spenta. Al di là dei dati economici e del mercato del lavoro, possiamo coglierne segnali importanti nella percezione diffusa che si traduce nel senso e nel linguaggio comune. A questo proposito, risulta particolarmente significativo il successo, nel dibattito pubblico ma anche nella vita quotidiana, del termine declino, divenuto una parola chiave usata in ambiti molto diversi – così nel contesto economico e di mercato come in quello politico, nello sviluppo territoriale come nella struttura sociale – anche prima della grande crisi finanziaria che ha investito l’economia e la società globale nel 2008. In tal senso il primo decennio degli anni Duemila è sicuramente l’età del declino, idea che si è ormai insinuata nelle pieghe della vita quotidiana, minando la capacità delle famiglie e delle persone di adattarsi e di reagire ai problemi e ai cambiamenti. Lo conferma, di nuovo, la percezione dei cittadini, in questo caso riguardo alla posizione e ancor più alle aspettative di mobilità sociale, percezione che si potrebbe riassumere in una formula: smobilitazione sociale.
Le autodefinizioni espresse dagli italiani, d’altronde, rivelano una distanza notevole dalle rappresentazioni diffuse, che richiamano una società ‘liquida’ dove i confini e i riferimenti sociali si perdono, secondo l’immagine felice e fortunata di Zygmunt Bauman (2000), e una società ‘cetomedizzata’, secondo il neologismo ostico ma efficace coniato dal sociologo Giuseppe De Rita (2002), dove la classe operaia è un residuo ideologico del passato. Piuttosto che liquida e cetomedizzata, la società appare vischiosa e stagnante; una strada in salita su cui molti temono di scivolare ricadendo indietro (indagine Demos, maggio 2006). Anzitutto, la classe operaia non sembra scomparsa, nella percezione sociale, visto che circa il 40% degli italiani continua a utilizzare questa definizione per catalogare la propria posizione nella stratificazione sociale. Semmai, la associano e talora la sostituiscono con un’altra formula, più suggestiva che descrittiva, ma, proprio per questo, molto diffusa: ceti popolari (Magatti, De Benedittis 2006). Tali si considerano, in gran parte, gli operai, ovviamente, ma anche le casalinghe e i pensionati, così come quote rilevanti (superiori al 40%) di impiegati (esecutivi) e di artigiani. Anche il lavoro non manuale oppure autonomo, dunque, in molti casi tende a essere spinto fuori dalla zona media, verso la periferia della società. Certo, oltre metà delle persone continua a riconoscersi nel ceto medio. Vi confluiscono le professioni libere e quelle intellettuali: i professori e gli impiegati di concetto; fra i lavoratori autonomi: i commercianti più degli artigiani. Nella borghesia e nelle classi più elevate, com’era prevedibile, si collocano invece in pochi: il 6% degli italiani, per lo più dirigenti privati, funzionari pubblici, imprenditori e, in misura limitata, i liberi professionisti. I lavoratori atipici e flessibili si distribuiscono fra ceti popolari e medi, sebbene in effetti siano ancora pochi a definirsi in questo modo, poiché la flessibilità, pur essendo una condizione diffusa che caratterizza ampie fasce di persone, giovani e meno giovani, non è considerata una professione o una categoria specifica. Tuttavia, oltre alla professione, sembrano caratterizzare la posizione di classe e di ceto delle persone anche altri aspetti, legati alle risorse individuali e familiari disponibili; l’aspettativa di mobilità, anzitutto. Fra i ceti popolari la quota di coloro che sostengono di aver migliorato la propria posizione negli ultimi cinque anni è molto esigua, circa il 10%, simile al peso di coloro che immaginano possibile migliorarla, nel prossimo futuro, mentre meno del 30% delle persone che si collocano nei ceti medi coltiva la speranza di poter ancora salire.
Peraltro, la stratificazione sociale mostra una geografia urbana e una distribuzione delle risorse ben definita: i ceti popolari abitano nelle periferie, i ceti medi nei quartieri residenziali, la borghesia nei centri storici. Gran parte degli italiani vive in una casa di proprietà, ma una persona su due, fra i borghesi, e una su quattro, fra i ceti medi, ne possiede almeno due. Nei ceti popolari questa componente si riduce invece al 14% e quella di chi è in affitto sale al 20%, ossia quasi il doppio della media generale. Ciò chiarisce quale sia la principale risorsa a cui si affidano le speranze di mobilità: la famiglia, i circuiti parentali e amicali. Le persone che dichiarano di aver migliorato la loro posizione negli ultimi anni, infatti, si dicono certe di ereditare in futuro proprietà immobiliari e altri patrimoni. Il capitale familiare (non solo immobiliare ed economico, ma anche di relazioni) nella percezione comune sembra quindi più importante di quello culturale, come risorsa di mobilità sociale (Élite e classi dirigenti in Italia, 2007).
La percezione sociale del declino, peraltro, si è ulteriormente e rapidamente deteriorata nel corso del 2008, a causa dell’impatto della crisi che ha investito le borse, la finanza e, in parallelo, anche l’economia (rapporto Demos, 2008). Per questo, invece che di mobilità, preferiamo parlare di ‘smobilitazione’. La scala sociale costruita in base all’autocollocazione degli italiani nell’ultimo periodo rivela, infatti, un sensibile slittamento. Dal 2006 al 2008 le persone che considerano bassa la posizione della propria famiglia sono raddoppiate: dal 7 a oltre il 15%. Nello stesso tempo è aumentata anche la componente di coloro che definiscono medio-bassa la posizione sociale della propria famiglia: dal 20 al 30%. Per cui lo spazio della classe media si è ridotto dal 60 al 48%.
Il declino sociale, al di là delle misure fondate sul reddito e sul mercato del lavoro, si riproduce soprattutto in queste rappresentazioni, che condizionano le aspettative riguardo al futuro dei figli. Infatti, nel 2008 circa 7 persone su 10 risultano pensare che i giovani occuperanno, in prospettiva, una posizione sociale ed economica peggiore rispetto ai loro genitori. Soltanto due anni prima questa convinzione veniva espressa da una quota di persone ampia ma molto più limitata: il 45%. Il senso di declino, inoltre, non si distribuisce in modo omogeneo ma si addensa con particolare intensità in alcuni punti della società. Per es., tra le donne, tra gli operai, tra le persone con un titolo di studio basso, nel Mezzogiorno. Quindi, dal punto di vista della stratificazione, tra coloro che si collocano nei ceti bassi e medio-bassi. Espresso in altri termini, tra le componenti socialmente più deboli.
Si assiste, infine, al declino della fiducia nei riferimenti che hanno caratterizzato e accompagnato lo sviluppo e il benessere nel corso del dopoguerra e, soprattutto, fra gli anni Settanta e Novanta, ossia le organizzazioni che rappresentano i lavoratori dipendenti e gli imprenditori, che hanno visto scendere il consenso sociale nei loro riguardi in modo rapido e profondo. Anche le banche e le borse sono, a loro volta, guardate con grande diffidenza: da 8 persone su 10 le banche; da 9 su 10 le borse. Una reazione scontata al collasso che ha investito il sistema finanziario nel 2008, ma inimmaginabile solo un anno fa. Quasi tutta la popolazione (8 persone su 10), d’altronde, oggi ritiene che lo Stato debba intervenire a sostegno dell’economia ogni qualvolta ve ne sia bisogno (cfr. a tale proposito il rapporto Demos, Gli italiani e lo Stato, 2008). Ciò suggerisce il declino – forse la fine – del mercato come mito, regolatore principale, se non unico, dello sviluppo e della stessa società.
Il difficile rapporto con gli altri
A rammentarci il dinamismo relativo della società italiana è il fenomeno dell’immigrazione, che è cresciuto in misura enorme negli ultimi 15 anni. Intorno alla metà degli anni Novanta, infatti, il tasso di stranieri sulla popolazione era inferiore all’1%, mentre alla fine del primo decennio degli anni 2000 è salito oltre il 6%; cioè, in termini quantitativi: quasi 4 milioni (Caritas-Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico, 2008). L’entità tuttavia è molto più ampia se si considera il peso degli irregolari che, per definizione, non possono essere contabilizzati con certezza. Nelle regioni del Nord e in particolare nelle province caratterizzate da uno sviluppo di piccola impresa – il Nord-Est e la pedemontana lombarda – l’incidenza degli stranieri sale oltre il 10% della popolazione. Naturalmente, il fenomeno è il prodotto di numerose cause che hanno investito i Paesi da cui provengono gli immigrati, come instabilità globale, guerre tribali, conflitti diffusi, crisi economiche e povertà. Tuttavia, i percorsi dell’immigrazione non sono mai casuali.
L’Italia, per decenni luogo di emigrazione e, in seguito, area di passaggio per immigrati diretti verso altri Paesi d’Europa, a partire dalla fine degli anni Novanta è divenuta essa stessa destinazione di una immigrazione ampia e stabile richiesta dal mercato e dalle trasformazioni demografiche e sociali. Nelle zone di piccola impresa, il cui sviluppo è avvenuto in modo più dinamico che altrove, negli ultimi vent’anni i flussi migratori sono stati attratti, principalmente, dalla domanda di manodopera delle aziende manifatturiere, soprattutto per attività faticose e meno qualificate, sempre meno accettate dagli italiani. D’altronde, come abbiamo già detto, la popolazione italiana è caratterizzata da invecchiamento e bassa natalità. I processi demografici costituiscono un ulteriore incentivo all’immigrazione, visto che l’assistenza agli anziani, soprattutto soli oppure residenti in casa con i figli, non può più essere svolta dagli altri familiari. Le badanti, per questo, non rispondono solo alle carenze del welfare, ma costituiscono al tempo stesso una sorta di alternativa e di complemento al modello tradizionale, fondato sulla solidarietà intergenerazionale, sostituendo i figli (meglio, le figlie) nell’assistenza agli anziani, che, in questo modo, restano, però, nella casa propria o dei propri figli. Per questo i migranti, che un tempo attraversavano la penisola senza fermarsi, oggi si orientano direttamente verso l’Italia con l’intenzione di restarvi a lungo. Perché l’Italia di oggi, a differenza di quella di inizio Novecento o degli anni Cinquanta e Sessanta, è un Paese che ha conosciuto lo sviluppo e il benessere, ma anche perché la sua economia e le sue istituzioni sociali – la famiglia, la comunità – ne hanno concreto bisogno.
Nonostante ciò, l’immigrazione non ha lasciato indifferente la popolazione, ma è divenuta fonte di inquietudine e di insofferenza diffusa. Il confronto su base europea mostra come in Italia l’allarme sollevato dagli immigrati risulti il più alto, in assoluto, fra i Paesi della vecchia Europa (indagine europea Demos-LaPolis, 2008). Meno della metà della popolazione, infatti, accetta l’immagine degli immigrati come risorsa dello sviluppo oppure fattore di apertura culturale, mentre una persona su due vede negli stranieri un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico. Naturalmente, l’inquietudine è alimentata dalla novità del fenomeno. L’Italia, d’altronde, è passata dall’emigrazione all’immigrazione nell’arco di una sola generazione, raggiungendo in poco più di un decennio livelli di presenza di stranieri prossimi a quelli di Paesi, come la Germania, la cui storia migratoria ha tempi assai più lunghi. È comprensibile un certo spaesamento, tanto più perché la crescita dell’immigrazione è contestuale ad altri processi di globalizzazione, tra i quali il più importante è la caduta del muro di Berlino (1989), che ha aperto le frontiere dei Paesi dell’Est europeo, divenuti un mercato, ma anche un fattore di pressione demografica.
Tuttavia, è indubbio che l’immigrazione costituisca uno dei principali motivi di allarme fra i cittadini. Un fattore di insicurezza solo in parte fondato sulla realtà dei fatti e che riflette due problemi principali. Il primo riguarda il sistema dei riferimenti sociali e soggettivi. Il cambiamento del paesaggio urbano e sociale, la caduta dei confini economici, politici e cognitivi – in una parola la globalizzazione – hanno certo determinato inquietudine e spaesamento, generando un profondo senso di insicurezza a cui l’immigrazione associata nell’opinione pubblica alla criminalità comune offre una spiegazione immediata e comprensibile (Barbagli 2008). Il secondo fattore è politico ma al tempo stesso mediatico. D’altronde, i due piani si sovrappongono e combaciano in molti punti, poiché la sicurezza e l’immigrazione sono argomenti politicamente sensibili, che contribuiscono a indirizzare oppure a modificare gli orientamenti e le scelte elettorali dei cittadini. Si tratta inoltre di temi mediaticamente attraenti, che sollecitano l’attenzione e la curiosità del pubblico. Da ciò il reciproco richiamo fra politica e media, in particolare negli anni fra il 2004 e il 2008, caratterizzati da un clima di campagna elettorale permanente, giustificato dal fatto che si è votato praticamente tutti gli anni, ma anche dall’instabilità dei rapporti di forza tra le coalizioni e dalle divisioni interne agli schieramenti. I temi relativi alla sicurezza e alla criminalità, in particolare, hanno ottenuto grande visibilità, in quanto sono divenuti prioritari nell’agenda degli attori politici in vista del voto. Così, l’insicurezza è divenuta un argomento per programmi televisivi di prima serata, un titolo di testa dei notiziari. Questa considerazione pare in grado di spiegare il significativo cambiamento del clima d’opinione registrato alla fine del 2008, quando è sembrato che il senso di insicurezza personale e l’allarme prodotto dall’immigrazione si fossero ridotti sensibilmente. Gli immigrati, in particolare, nel 2008 vengono considerati un pericolo per la sicurezza da circa un terzo degli italiani; l’anno precedente da oltre la metà. Il legame fra criminalità comune, sicurezza e immigrazione sembra dunque essersi allentato, ma questo cambiamento d’opinione non riflette le tendenze rilevate nella realtà. L’andamento dei reati, in effetti, ha proseguito la diminuzione già osservata verso la metà del 2007 e non è cambiata, al loro interno, l’incidenza di quelli commessi da stranieri. L’immigrazione, invece, è cresciuta in misura molto rilevante, come segnalano le principali fonti, dal Ministero dell’Interno alla Caritas, e risultano quasi raddoppiati gli sbarchi di clandestini. Dunque, non sono i fatti ad aver cambiato le opinioni. È probabile, semmai, che il clima d’opinione sia cambiato in parallelo al ciclo politico e mediatico. Dopo anni d’instabilità politica, il risultato delle elezioni di aprile 2008 è apparso tanto netto da non lasciare incertezze sulla stabilità del governo. Il che ha allentato la pressione politica sui temi della sicurezza, nel dibattito politico e sui media. Non a caso un’indagine condotta dall’Osservatorio di Pavia sui telegiornali della sera trasmessi dalle reti nazionali rivela come nel periodo tra settembre e dicembre 2007 si sia registrato un incremento di notizie relative ad atti criminali. Nei primi mesi del 2008 l’andamento è ritornato, invece, alla norma osservata nel periodo 2005-06. Infine dopo il mese di maggio, finite le elezioni, è avvenuto un calo più deciso. In altri termini, l’informazione televisiva asseconda e amplifica i temi del dibattito politico, riflettendone i cicli, con impennate in tempi di campagna elettorale e successivi ridimensionamenti quando le elezioni sono passate e offrono un esito, sotto ogni aspetto, indiscutibile.
Fra dinamismo e frammentazione
Nell’ultimo decennio si è assistito all’accentuarsi del particolarismo sociale e del localismo, come mettono in evidenza i conflitti e le tensioni che hanno coinvolto uno spettro di categorie sociali molto ampio. Hanno infatti protestato, di volta in volta, gli imprenditori e il sindacato confederale, i lavoratori del pubblico impiego e dell’università, i comitati locali sorti contro grandi opere pubbliche oppure contro basi militari, così come altri gruppi professionali, meno abituati a forme di lotta pubbliche, quali, per es., i tassisti, i benzinai, i giornalai, i farmacisti. È come se la società tutta fosse in ebollizione, agitata da culture, identità, interessi che esprimono differenze e rivendicazioni scarsamente negoziabili. Risulta sicuramente adeguata, a tale proposito, l’osservazione di Arnaldo Bagnasco quando in particolare annota che «prima di essere una società complessa, quella italiana è una società complicata» (Ceto medio, 2008, p. 64).
È lontana l’epoca della concertazione fra le maggiori organizzazioni di interesse e lo Stato che ha caratterizzato gli anni Novanta. Le grandi organizzazioni, come si è già detto, non sono più grandi come un tempo e, comunque, godono di una quota di consenso sociale molto scarsa. Lo sgretolarsi delle appartenenze professionali, d’altronde, è drammatizzato (e accelerato) dalla perdita di rilevanza delle grandi organizzazioni di rappresentanza economica (rapporto Demos, 2008). In particolare, circa un quarto dei cittadini esprime fiducia nel sindacato; un dato simile a quello che si registra nei confronti di Confindustria. Si tratta di indici fra i più bassi nella graduatoria dei principali riferimenti associativi e istituzionali in Italia. Lo Stato, a sua volta, è largamente delegittimato, nonostante se ne chieda sempre più l’intervento in soccorso del mercato. In generale, pare finita l’epoca in cui si cercavano il confronto, il dialogo, il negoziato. La società, di conseguenza, si è segmentata ed è attraversata da una pluralità di conflitti incrociati. La debolezza delle grandi organizzazioni riflette in parte la crescente frammentazione sociale alla quale si aggiunge la tendenza al localismo. Non si tratta solo della tradizionale frattura territoriale fra Nord e Sud, che si è allargata. Fra i cittadini del Centro e del Nord, infatti, è ampia la quota di quanti guardano con distacco il Mezzogiorno e, viceversa, fra i cittadini del Sud è ampia la quota di persone che si dice lontana dal Nord (indagine Demos-LaPolis per «Limes», dic. 2008). Il fatto è che neppure la frattura territoriale sembra in grado di offrire un riferimento capace di unire il territorio, neanche in modo oppositivo. Accanto alle grandi fratture territoriali, infatti, cresce lo sfaldamento localista, ben certificato dalla rivendicazione di molte città e di alcune province che intendono cambiare cornice territoriale e istituzionale di appartenenza. Basti pensare alle province: erano 95 nel 1980, quando un fronte politico ampio proponeva di abolirle, e oggi, quasi trent’anni dopo, sono diventate 110: 15 di più. E, nonostante la riforma (federalista) del titolo V della Costituzione abbia previsto di ridimensionarle a favore delle aree metropolitane, aumentano le proposte di legge che mirano a istituirne di nuove. Se venissero approvate tutte, il loro numero salirebbe a oltre 130. In parallelo, si assiste a un ulteriore movimento: comuni che intendono abbandonare la provincia di appartenenza, per passare a un’altra, confinante, sfruttando le possibilità offerte dalla riforma costituzionale del 2001. Il fenomeno ha coinvolto soprattutto il Veneto, complice la vicinanza di due regioni a statuto speciale, ma si registra anche in Piemonte, dove alcuni comuni hanno votato per passare in Valle d’Aosta, e la stessa spinta si rileva anche in Italia centrale e nel Sud. Questa frammentazione di province dai confini sempre più circoscritti, che molti comuni intendono scavalcare, non ha un colore politico particolare. Nell’insieme, si delinea un Paese a geografia variabile che evoca una sorta di federalismo, dettato non tanto da vocazione e identità territoriale, ma dal criterio della massima convenienza. E i sindaci, a differenza di quanto accadeva nel decennio precedente, non riescono più a saldare le fratture fra istituzioni e società, fra periferia e Stato centrale, ma concorrono, talora, ad accentuarle.
Confusi e felici
Queste trasformazioni hanno accentuato il senso di solitudine delle persone, rafforzando il processo di particolarizzazione che da tempo attraversa la società. In primo luogo, hanno prodotto un rapido accorciamento della prospettiva biografica, che si traduce nella crescente incapacità, espressa dagli adulti, di immaginare il futuro; non solo quello dei giovani e dei figli, a cui già abbiamo fatto riferimento, ma anche quello personale. Oltre metà degli italiani ritiene, infatti, che sia impossibile intraprendere progetti familiari e personali impegnativi, perché il futuro è troppo incerto e carico di rischi (rapporto Demos, 2008).
D’altra parte, la crisi ha reso le persone più insofferenti e diffidenti nei confronti degli altri. Solo il 20% – o poco più – pensa, infatti, che gran parte della gente sia degna di fiducia. Il resto, quasi 8 persone su 10, dunque, pensa il contrario e tende a stabilire relazioni all’insegna del sospetto (sondaggio Demos, nov. 2008). D’altronde, i problemi economici determinati dalla crisi del 2008 hanno, in qualche misura, deteriorato il clima delle relazioni personali anche in famiglia, come ammettono 4 intervistati su 10.
Non bisogna pensare, tuttavia, che questi atteggiamenti abbiano oscurato del tutto l’orizzonte sociale. La capacità di adattamento degli italiani appare fortemente condizionata, ma ancora permette margini di manovra, almeno a livello psicologico. Quasi 9 persone su 10 si dichiarano infatti molto o abbastanza felici (sondaggio Demos, nov. 2008). Il dato risulta superiore agli ultimi anni e non registra grandi differenze dal punto di vista anagrafico, sociale e territoriale. Si dicono, infatti, felici gli uomini e le donne, i giovani (e soprattutto i giovanissimi) ma anche gli anziani, gli operai, gli imprenditori e i pensionati (unica, comprensibile eccezione: i disoccupati). Si dicono felici gli italiani del Nord, del Centro e ancor più del Sud. Questo sentimento non risente della fede religiosa e politica. L’atteggiamento può apparire contraddittorio con il clima di incertezza economica e di insicurezza sociale, con la sfiducia nelle istituzioni pubbliche, con l’indebolirsi dell’appartenenza alle associazioni e alle organizzazioni di rappresentanza. Tuttavia, il contrasto è più apparente che reale. La felicità personale, infatti, non coincide con quella pubblica, ma, anzi, in una certa misura ne costituisce un antidoto. Nello spazio privato, cioè, si cerca la soddisfazione frustrata a livello pubblico. Per cui, più ancora che in passato, la ricerca di sicurezza e felicità avviene nella cerchia degli affetti e degli amici, ma soprattutto in famiglia, che oggi più che mai, secondo indagini e sondaggi, rappresenta il principale sostegno su cui contare in caso di difficoltà, ma anche per trovare rifugio affettivo ed emotivo.
Un altro meccanismo di soddisfazione cui si ricorre a livello individuale e familiare è il consumo. Negli ultimi vent’anni, si sono diffusi e consolidati stili di vita e di consumo caratterizzati dalla ricerca del gusto e del piacere. La crisi che ha colpito la società negli ultimi anni li ha ridimensionati senza, però, vanificarli. Gran parte degli italiani ha, piuttosto, modificato le strategie di spesa e pratica un modello di consumo selettivo e intermittente. Risparmia sulla spesa quotidiana, ma non rinuncia al cibo e alla bottiglia di qualità e neppure al prodotto e al ristorante raffinato, anche se esce di casa e nel complesso spende molto meno rispetto al passato recente. Gli italiani, dunque, cercano la felicità o almeno un surrogato di essa in un orientamento di iperconsumo (Lipovetsky 2006), sebbene sarebbe forse meglio parlare di ‘iperconsumerismo’, perché consumano di meno ma in modo più consapevole: attenti al prezzo, come alla qualità e alla provenienza, non solo in base a motivi di sicurezza alimentare, ma anche per ragioni etiche (Ceccarini 2008).
Per alleggerire il peso opprimente del futuro, le persone investono, quindi, sul presente immediato, affidando ai consumi la loro domanda di gratificazione personale. Per difendersi dagli altri, trasformano i confini della famiglia e delle reti amicali in vere e proprie barriere invalicabili dove rifugiarsi e reagiscono all’inquietudine suscitata da un mondo divenuto troppo insicuro e troppo grande cercando rassicurazione e soddisfazione nel privato.
Disincanto e antipolitica
Il rapporto con la politica è di conseguenza cambiato. D’altra parte, dopo la fine della prima Repubblica, si è assistito a un profondo mutamento di scenario. La struttura stessa dei partiti appare più personalizzata e centralizzata e, al suo interno, hanno guadagnato sempre maggiore importanza gli eletti e le figure che hanno un ruolo nelle istituzioni. I partiti hanno rinunciato alla presenza organizzata nella società e sul territorio, sostituendo alla partecipazione la comunicazione e il marketing, e contribuendo così a indebolire progressivamente le tradizionali identità e ideologie. Si è così determinato un solco profondo tra società e istituzioni, tra società e politica, che si è tradotto, principalmente, in due tipologie di comportamento (Diamanti 2007b). Il primo riguarda il declino della partecipazione istituzionale. Da un lato, la scarsa adesione ai partiti stessi e alle manifestazioni politiche ufficiali, dall’altro, soprattutto, l’astensione elettorale, cresciuta in tutti i tipi di elezione. Se è vero che in Italia i tassi di partecipazione elettorale restano elevati, visto che alle elezioni legislative del 2008 ha votato l’80,5% degli aventi diritto, ciò significa, però, che 1 elettore su 5 non ha votato e che la media della partecipazione al voto tra il 2000 e il 2008 è dell’83,6%. Le elezioni legislative sono inoltre quelle che di solito registrano i tassi di partecipazione più elevati, mentre in tutti gli altri casi, soprattutto in quello delle europee, l’astensione sale notevolmente, fino a raddoppiare. Le ricerche condotte su questo argomento hanno sottolineato come si tratti di un fenomeno che nasconde motivazioni e logiche differenti: la marginalità sociale, l’indifferenza e, soltanto in misura limitata, la protesta e il rifiuto. Tuttavia, è difficile non considerarlo anche un segno di delusione e di distacco dei cittadini dal rituale della democrazia rappresentativa, un segno questo che induce a interrogarsi sull’effettivo fondamento di una democrazia senza elettori.
La seconda tendenza riguarda la perdita di credibilità e di fiducia di cui sono oggetto la classe politica, i partiti, le organizzazioni e le istituzioni rappresentative. Si tratta di un fenomeno generalizzato che ha assunto proporzioni ampie e in costante crescita negli ultimi anni. È sufficiente, a questo proposito, scorrere i dati rilevati da numerosi sondaggi. I partiti, agli occhi degli elettori, sembrano tutti indifferenti. Secondo 7 elettori italiani su 10 dicono le stesse cose, hanno programmi e seguono logiche simili. Bassa anche la convinzione di influire sulle scelte politiche generali: la quota degli elettori scettici circa la possibilità di contare è prossima alla metà e 8 italiani su 10 ritengono che tutti i politici, o la gran parte di essi, siano interessati solo al potere e a fare soldi. La fiducia nello Stato, nei partiti, nello stesso Parlamento è scesa sensibilmente, mentre resta elevata la stima nei confronti del Presidente della Repubblica. Tale tendenza riflette la capacità dei protagonisti, Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, di affrontare il ruolo in modo responsabile e condiviso, ma anche di ‘personalizzarlo’, rivolgendosi ai cittadini in modo diretto.
Nell’insieme, per riassumere questi orientamenti, si fa riferimento alla sindrome dell’antipolitica, una formula divenuta corrente, usata con finalità più prescrittive che descrittive, che richiama, tuttavia, un sentimento diffuso e visibile d’insoddisfazione più ampio nei confronti della democrazia rappresentativa e delle sue istituzioni.
Dall’adattamento al disadattamento sociale
La ricostruzione sommaria e selettiva proposta nelle pagine precedenti contribuisce a spiegare alcuni dei problemi emersi nella società italiana. In particolare, tenta di chiarire le ragioni della crescente difficoltà di adattamento e di reazione incontrata di fronte ai cambiamenti profondi dell’ultimo decennio. L’idea di fondo è che nella società si siano indeboliti alcuni riferimenti che garantivano al tempo stesso stabilità e dinamismo; le ancore e le mappe che fornivano alle persone integrazione e orientamento. Le relazioni familiari e comunitarie sono divenute, al tempo stesso, più chiuse e più deboli, perché la famiglia è cambiata, i legami di comunità si sono allentati, ma al tempo stesso hanno accentuato le loro funzioni protettive; sono divenuti cioè fattori di conservazione piuttosto che d’innovazione. Così, più in generale, la rete associativa, le organizzazioni di rappresentanza economica e di partecipazione sono divenute più chiuse e particolaristiche di un tempo. Canali di promozione settoriale e corporativa, che hanno contribuito a frammentare la società piuttosto che a integrarla. Lo stesso volontariato si è in parte professionalizzato, istituzionalizzato, burocratizzato; si è trasformato in occasione di lavoro oltre che di impegno e tende, per questo, a essere percepito come ‘esterno’ dalla società e a sua volta parte del mercato e delle istituzioni. Il territorio è divenuto anch’esso fonte di frammentazione. Il localismo, l’attaccamento al contesto, il retroterra sociale ed economico si sono rafforzati, ma in modo particolaristico, alimentando i fattori dissociativi più di quelli associativi (De Rita 2002). Allo stesso tempo, si è riaperta la storica divisione fra Nord e Sud. Il che rende difficile percepire il policentrismo e le differenze come uno specifico elemento di coerenza del Paese. L’Italia, un tempo definita (dal sociologo Paolo Segatti) un ‘Paese di compaesani’, unito dalle sue differenze, oggi sembra spezzata dalle sue storiche divisioni e disintegrata dai suoi localismi. L’Italia è divenuta un Paese ricco e sviluppato, trainata da contesti un tempo considerati arretrati, come il Nord-Est e le province periferiche del Nord. Tuttavia l’apertura dell’economia e la globalizzazione hanno generato non solo benessere ma anche nuove paure che spingono le zone più internazionalizzate e più proiettate sui mercati esteri a chiudersi, a vivere con inquietudine i cambiamenti demografici, l’immigrazione, la concorrenza di nuovi Paesi. Le istituzioni continuano a essere percepite come lontane ed estranee. Mentre la politica genera rifiuto, i partiti, dopo la caduta della prima Repubblica, si sono rinchiusi nelle istituzioni dello Stato, nei luoghi dove si concentrano le risorse (economiche, finanziarie, di potere). Si sono in tal modo allontanati dalla società, sostituendo la partecipazione con la comunicazione, l’organizzazione con la personalizzazione, e non offrendo più identità, idee e ideologie, su cui è possibile dividersi ma anche aggregarsi. In tale scenario, i conflitti sociali non si sono ridotti ma, al contrario, accentuati, sebbene non riguardino più la fede, grandi idee e grandi progetti, ma soprattutto persone e vicende personali. La vitalità sociale non si è perduta, ma non viene più canalizzata in prospettive e strutture comuni. Al contrario, appare imprigionata in un contesto ad alta entropia, dove si disperde e implode. Soprattutto, si osserva una grande difficoltà della società a innovare e a innovarsi. Ne fornisce un esempio il rapporto intergenerazionale: i giovani, in particolare, sono al tempo stesso protetti e controllati dagli adulti. Questi ultimi li tutelano di fronte alle incertezze del mercato e della realtà sociale, ma al prezzo di un ritardo sistematico nei tempi della loro autonomia e della loro maturità: nell’uscita dal sistema scolastico e formativo, nell’ingresso nel mercato del lavoro, nel distacco dalla famiglia di provenienza, nel matrimonio, nella maternità e nella paternità. In altri termini, i giovani si muovono in un orizzonte corto, senza futuro, simbolizzando e definendo con efficacia una società afflitta dalla perdita del futuro e, per questo, sempre più inadatta ad adattarsi. Lo conferma l’indagine sull’identità nazionale più recente (LaPolis-Demos, dic. 2008, per «Limes», 2009, 2). Infatti, per la prima volta dopo quindici anni, fra i caratteri che distinguono gli italiani l’arte di arrangiarsi viene superata nella percezione sociale dall’attaccamento alla famiglia.
Gli anticorpi del declino
Non è possibile tuttavia riassumere il profilo della società italiana dell’ultimo decennio utilizzando come unica chiave di lettura il senso di declino e la perdita di capacità adattiva. Si tratta senza dubbio di tendenze presenti e marcate, come abbiamo già sottolineato, ma nella società si colgono anche indicatori di altro segno. Alcuni dei fenomeni descritti come esempi del declino che avanza possono essere letti anche in maniera differente e, talora, addirittura opposta.
Partiamo dalla realtà giovanile e dai rapporti intergenerazionali. I giovani in Italia appaiono una componente sociale profondamente innovativa, rispetto alle precedenti. In particolar modo, mostrano un grado di partecipazione sociale e civica superiore alle classi di età più anziane. Non si tratta solo di un effetto del ciclo di vita, destinato a svanire via via che i giovani diventano adulti e invecchiano. I tassi di partecipazione alla vita pubblica espressi dalle classi di età più giovani (fra i 15 e i 25 anni) sono, infatti, molto elevati rispetto a quelli dei coetanei negli anni Ottanta e Novanta (si vedano, fra l’altro, le ricerche condotte da Itanes, Iard, LaPolis); ma anche in confronto ai giovani degli altri Paesi europei (Deux pays, deux jeunesses?, 2008). I giovani, peraltro, privilegiano forme di partecipazione meno istituzionale e non convenzionale, fino a intraprendere azioni contrarie alle leggi vigenti (manifestazioni non consentite, occupazione di edifici pubblici, blocchi stradali e ferroviari); sono più aperti alle tematiche globali, dalla pace alla solidarietà e alla cooperazione internazionale, e si servono di strumenti nuovi rispetto alle altre generazioni, in primo luogo nell’ambito della comunicazione. Ciò richiama un altro importante aspetto che ne sottolinea la capacità innovativa: la competenza nell’uso delle tecnologie della comunicazione. I più giovani, infatti, fanno largo uso della rete, dove, oltre alla posta elettronica, frequentano social networks, blog, chat, communities. Dimostrano grande confidenza con i telefoni cellulari di nuova generazione, di cui si servono per molti e diversi fini: per tenersi in contatto, trasmettendosi messaggi, ma anche per navigare su Internet, ascoltare musica, registrare e riprodurre dialoghi e immagini, partecipare e dibattere su questioni di pubblica rilevanza. Il problema, semmai, è che si osserva una nuova frattura generazionale, definita dalla conoscenza e dall’esperienza tecnologica, che separa i più giovani (con meno di 25 anni) dagli altri e che, d’altro canto, emargina fortemente le componenti sociali adulte e anziane.
Un discorso analogo si può fare riguardo al rapporto dei giovani con il lavoro, a cui essi non attribuiscono lo stesso significato e la stessa importanza delle generazioni più anziane. Tuttavia, nel Centro-Nord, l’importanza del lavoro autonomo e indipendente è ancora prevalente, fra i giovani, mentre nel Mezzogiorno è cresciuta di nuovo la disponibilità a emigrare per cercare un lavoro adeguato alle aspettative o, più semplicemente, per cercare lavoro. I giovani, peraltro, si sono adattati a occupazioni flessibili e intermittenti, ma soltanto per necessità, visto che la sicurezza nel lavoro continua a costituire un’aspirazione diffusa e impossibile.
Anche il rapporto della società con l’immigrazione appare ambivalente. Da un lato, si rilevano preoccupazioni ed episodi di intolleranza, alimentati dai media e da ‘imprenditori politici della paura’ (Battistelli 2008). Tuttavia, come abbiamo rilevato, dopo una campagna elettorale durata quasi quattro anni (dalle elezioni europee del 2004 a quelle legislative del 2008) l’allarme suscitato dall’immigrazione si è sensibilmente riassorbito. D’altra parte, il grado di integrazione, misurato (dalla Fondazione Caritas-Migrantes per conto del CNEL) sulla base di un’ampia serie di indicatori statistici (relativi all’accoglienza, all’inserimento nel mercato del lavoro, dell’accesso ai servizi, della diffusione di reati ecc.), sottolinea una notevole divaricazione fra le immagini e le pratiche, fra la rappresentazione e la realtà sociale. Le zone che garantiscono il maggior livello di integrazione degli immigrati, infatti, sono quelle dove i pregiudizi e i timori nei loro confronti sono più diffusi: il Nord-Est, fra le macroaree, mentre, fra le regioni, primeggiano il Friuli-Venezia Giulia, il Trentino-Alto Adige, il Veneto e la Lombardia. Quanto alle province, tra le prime 26, per grado di integrazione, 18 appartengono all’area padana (escludendo dalla ripartizione geopolitica l’Emilia Romagna). Comprese quelle ritenute, nella percezione comune, le più ostili agli stranieri: da Vicenza a Treviso, da Bergamo a Lecco, da Varese a Mantova, da Cremona a Pordenone a Brescia. Province dove, d’altronde, l’immigrazione è richiamata e assorbita dal mercato del lavoro, il policentrismo urbano offre abitazioni e, al tempo stesso, limita la concentrazione (e la segregazione) degli stranieri in zone specifiche (per lo più periferiche e degradate). Dove gli immigrati e le immigrate risultano una risorsa o almeno una necessità per le famiglie che vi fanno ricorso per attività di assistenza e di servizio (agli anziani e non solo) e l’associazionismo (cattolico, ma anche laico) svolge un’importante funzione di accoglienza e di mediazione sociale e culturale. Infine, non va trascurato il contributo offerto dall’immigrazione sul piano demografico. Se negli ultimi anni la popolazione ha smesso di diminuire e, quindi, di invecchiare è soprattutto grazie agli immigrati. Da ciò l’ambivalenza: preoccupazione, insofferenza, necessità e integrazione spesso convivono e, anzi, si collegano reciprocamente (Billari, Dalla Zuanna 2008).
Neppure il rapporto della società con la politica può venire letto in modo univoco. Il livello di attenzione sui fatti e sui temi della politica, negli ultimi anni, è salito rapidamente, come testimoniano i sondaggi, gli ascolti delle trasmissioni televisive che affrontano i temi politici, ma anche il successo di alcuni libri che ne hanno fatto oggetto di inchiesta e denuncia. In primo luogo La casta, scritto dai giornalisti Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella nel 2007, che, oltre a imporsi come caso editoriale di proporzioni enormi (circa 1 milione e mezzo di copie vendute in pochi mesi), ha influenzato il dibattito politico, mediatico e il linguaggio comune. Il fatto è che il confine tra politica e antipolitica è incerto e sottile (Mastropaolo 2000); da ciò l’esigenza di distinguere, da un lato, l’antipolitica come argomento usato da leader, movimenti, partiti, ma anche dai media, e, dall’altro, come sentimento sociale. Considerata da questo punto di vista, l’antipolitica rivela non solo e non tanto rifiuto, ma una diffusa domanda di politica, un’estesa disponibilità a partecipare, condivisa da milioni di cittadini. Non è un caso che, negli ultimi anni, le manifestazioni di massa si siano ripetute, numerose, a opera di diversi attori politici, di destra e di sinistra, per esprimere non solo protesta, ma anche sostegno a progetti e soggetti politici. È il caso delle primarie, che hanno accompagnato la vita politica del centro-sinistra e la nascita di un nuovo partito: il Partito democratico. Peraltro, anche manifestazioni esplicitamente rivolte contro la classe politica e il sistema dei media hanno contribuito ad alimentare l’attenzione e la partecipazione politica. Basti pensare alle iniziative promosse da Beppe Grillo – al tempo stesso attore, predicatore, comico, dissacratore e moralista – il quale riempie, da anni, piazze, teatri-tenda, arene, perfino stadi ed è presente sulla rete con un blog tra i più frequentati a livello internazionale.
Il sentimento antipolitico della società italiana, d’altronde, non appare più esteso rispetto agli altri Paesi europei, dove la sfiducia nelle istituzioni rappresentative e nel ceto politico presenta proporzioni analoghe all’Italia (Diamanti 2007b). Più in generale, in tutta Europa (e in misura elevatissima nei Paesi dell’Est) i partiti sono percepiti più lontani dalla società, la politica si è personalizzata e mediatizzata, dovunque è cresciuta la sfiducia dei cittadini verso di essa, dovunque sono cresciute forme di partecipazione sociale, anche critica e non convenzionale. La sfiducia, la protesta, gli stessi populismi possono, d’altronde, evocare una sorta di ‘controdemocrazia’, come la definisce lo studioso francese Pierre Rosanvallon. Un insieme di pratiche attraverso le quali la società esercita poteri di correzione, controllo, pressione sulle istituzioni democratiche e sugli attori della rappresentanza, primi fra tutti i partiti. Semmai, il problema sorge quando la controdemocrazia sovrasta la democrazia come rappresentanza ed esercizio del governo, determinando una sorta di iperpolitica, che riflette una domanda politica frustrata.
Gli innovatori imprigionati
Appare necessario, dunque, evitare interpretazioni a senso unico dei cambiamenti che hanno coinvolto la società italiana negli ultimi dieci anni. Il problema maggiore, semmai, è che in Italia, più che altrove, i cambiamenti rischiano di inibire i principi stessi dell’innovazione sociale, perché hanno contrastato e in parte isolato le componenti maggiormente capaci di reagire alle trasformazioni e alle difficoltà, proiettandosi nel futuro. Ci riferiamo in primo luogo ai giovani, il cui accesso nella vita attiva in posizioni di responsabilità avviene sempre più in ritardo, con difficoltà sempre maggiore. Lo stesso discorso vale per le donne, a cui abbiamo dedicato solo qualche passaggio nella nostra analisi, ma che continuano a occupare una posizione periferica e svantaggiata nei processi di mobilità e nelle gerarchie sociali. Ci riferiamo, ancora, agli stranieri, agli immigrati: la loro presenza nella società è sempre più ampia, il loro contributo al mercato del lavoro, all’impresa e al sistema dei servizi sempre più rilevante, ma il loro inserimento avviene quasi per caso, in modo preterintenzionale.
D’altra parte, le istituzioni e le politiche pubbliche non sono riuscite, negli ultimi dieci anni, a favorire l’apertura dell’economia e della società. La crisi globale, al contrario, le ha spinte a riprendere un ruolo di protezione. Tuttavia, la società italiana difficilmente sarà in grado di coltivare, come in passato, l’arte di arrangiarsi, di adattarsi e di reagire ai cambiamenti, riuscendo, al tempo stesso, a innovare, senza innovare sé stessa; senza dare spazio e peso maggiore alle componenti più nuove ma, oggi, ancora periferiche: ai giovani, alle donne, agli immigrati.
Bibliografia
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Deux pays, deux jeunesses? La condition juvénile en France et en Italie, sous la direction de A. Cavalli, V. Cicchelli, O. Galland, Rennes 2008.
Gli aspetti metodologici e i principali risultati dei sondaggi citati nel testo sono reperibili nei siti: www.demos.it; www.uniurb.it/ lapolis; www.caritasitaliana.it; www.agcom.it/sondaggi/sondaggi_ index.htm; www.vsu.it. Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta il 19 giugno 2009.