La società Veneziana
L'assenza di vistosi rivolgimenti sociali, il successo nel mantenere la quiete interna rappresentano uno dei principali elementi costitutivi del "mito" di Venezia. Il viaggiatore istruito che veniva a visitarla, un Enrico III o un Montaigne, per esempio, sapeva benissimo di dovervi ammirare non soltanto la singolarità del sito, la bellezza dei monumenti, e in ispecie di piazza San Marco, la grandiosità dell'Arsenale, il tono cosmopolita dell'emporio e la rinomata bellezza delle "cortigiane" più famose, ma anche la perfezione degli ordinamenti costituzionali, che avevano assicurato alla Repubblica secoli di pace.
Eppure è indubbio che la Serenissima affrontò momenti difficili nel corso del Cinquecento (quel "lungo" Cinquecento cui lo storico Fernand Braudel annetteva, ai fini della periodizzazione, anche i primi decenni del secolo XVII): crisi militari come quella della sconfitta di Agnadello e dell'attacco turco a Cipro, crisi religiose e politico-ecclesiastiche dell'età della Riforma e della Controriforma, crisi economiche legate alla rivoluzione dei traffici ed alle grandi epidemie e carestie. Ma anche nei periodi più neri della storia della Repubblica le voci che si levarono a contestare l'egemonia del patriziato di governo furono sempre estremamente timide e flebili, poco più che semplici mugugni (1).
Una riprova di questa "apparente immobilità" (per usare una celebre espressione del Burckhardt) la si può trarre dalla sostanziale stabilità della rappresentazione che la società veneziana tendeva a dare di se stessa e della sua ripartizione in ceti: infatti anche sotto tale aspetto non emergono sostanziali fratture di continuità fra le opere dedicate alla costituzione veneziana da Gasparo Contarini e Donato Giannotti, pubblicate negli anni '40 del Cinquecento, e le Annotazioni che Nicolò Crasso pubblicò sul medesimo tema nel 1631. È però vero che fra questi autori si instaura una dialettica non fittizia, frutto di significative discordanze circa il modo di valutare origine e funzioni del ceto intermedio fra la nobiltà e il popolo: quello dei "cittadini originari".
Mentre infatti il Contarini ripartiva la società veneziana in due soli ordini, quello dei patrizi o "cives" e quello della plebe, altri autori, come il patrizio Marin Sanudo e il fiorentino Giannotti, concordavano nel suddividere la popolazione residente a Venezia in nobili, cittadini e popolani, secondo una tripartizione di origine verosimilmente recente, ma già assurta nel primo '500 ad una dignità almeno ufficiosa nella pratica amministrativa. Questa tesi fu accolta e fatta propria anche dai trattatisti di origine "cittadina", come il segretario del consiglio dei dieci Antonio Milledonne e l'avvocato Nicolò Crasso (2).
Ma anche nelle opere che assegnano un posto più onorevole ai cittadini originari nessuna voce si leva per contendere ai patrizi l'esclusivo privilegio dell'ingresso in maggior consiglio con voto deliberativo: semmai, qualche critica, qualche cauta riserva ammantata di erudizione storica viene avanzata in chiave retrospettiva, quando si tratta di descrivere la famosa "serrata" del maggior consiglio, cui si attribuivano le maggiori responsabilità per la rigida chiusura della nobiltà veneta (3).
Questa evidente staticità istituzionale non deve peraltro impedirci di cogliere l'emergere di nuove o rinnovate tensioni sociali, al cui sviluppo contribuirono in modo rilevante le profonde trasformazioni dell'economia veneziana, la "rottura della tradizione mercantile da parte del ceto patrizio" di cui ha parlato Ugo Tucci, che ha inoltre segnalato l'importanza del ruolo conseguentemente assunto nei traffici veneziani col Levante dai mercanti non nobili (per lo più "cittadini", ma non tutti di antica origine veneziana come i cosiddetti "originari") (4).
Alle cause economiche di un latente malessere sociale si aggiunse la concomitante diffusione di modelli di vita propri delle nobiltà continentali, specialmente di quelle di Spagna e di Francia, il cui decisivo coinvolgimento nelle vicende degli Stati italiani finì col condizionare drammaticamente il vivace dibattito che vide i ceti dirigenti della penisola impegnati a definire il concetto di nobiltà ed i suoi requisiti. Come ha scritto Claudio Donati, il risultato finale di tale dibattito fu che intorno alla metà del '500 ci si avviò, sia pure tra esitazioni e incertezze molto vive soprattutto in Toscana, sulla strada di "una sempre più netta omogeneizzazione ideologica di segno nobiliare delle diverse classi dominanti italiane" (5).
A suo modo Venezia aveva precorso quest'evoluzione con la "Serrata" da cui era sorta nel '3-'400 la risentita coscienza aristocratica del suo patriziato; inoltre, la tradizionale estraneità dei nobili veneti ad un diretto coinvolgimento in attività artigianali consentiva di assumere un atteggiamento di signorile disprezzo verso i maggiorenti fiorentini che lavoravano nelle loro botteghe (come appare nella celebre relazione su Firenze dell'ambasciatore Marco Foscari (6)), senza che per questo fosse necessario ripudiare formalmente l'illanguidita tradizione mercantile del patriziato lagunare. Però anche a Venezia l'evoluzione ideologica operava nel senso di un ulteriore irrigidimento della divisione tra i ceti: ciò poteva inasprire latenti tensioni e suscitare disagio, specie quando le gerarchie sociali sancite dalle leggi e approvate dalla consuetudine venivano a trovarsi in contrasto con l'effettiva distribuzione del potere politico-amministrativo e con le ancor più mobili gerarchie basate sulla ricchezza e sul tenore di vita.
La nostra intenzione è dunque quella di cogliere gli elementi dinamici racchiusi all'interno di una società articolata per ceti; al tempo stesso, però, non è possibile prescindere interamente dallo schema dei tre ordini (nobiltà, "cittadini" e popolo) giacché esso non si riduceva nel '5-'600 a una vuota formula ritualisticamente ripetuta, ma costituiva un elemento importante dell'autorappresentazione della società veneziana, costantemente riproposto dalle leggi, dalla maggior parte degli osservatori contemporanei e dai censimenti.
Fra la metà del '500 e i primi decenni del '600 l'incidenza percentuale dei patrizi e delle loro famiglie sul totale della popolazione residente a Venezia si ridusse dal 4,5 al 4%. In particolare i maschi al di sopra dei diciotto anni, che nel censimento del 1563 erano 2.435, dopo la peste del 1576-77 dovettero registrare un netto declino: nel censimento del 1581 se ne contarono solamente 1.843. Verso la fine del secolo ci fu una moderata ripresa, sicché nel 1609 furono contati ben 2.090 nobili al di sopra dei venticinque anni; ma nel 1620 il loro numero calò nuovamente a circa 2.000, per poi precipitare a soli 1.660 dopo la peste del 1630-31 (7).
Il progressivo restringimento della classe politica veneziana, ben evidenziato dagli studi di J.C. Davis, non deve però essere imputato solo al calo demografico: vi giocarono un ruolo anche cause politico-sociali, come il prolungato rifiuto di nuove aggregazioni al maggior consiglio ed il progressivo impoverimento di una parte del patriziato. Il primo di questi fenomeni è largamente noto: dalla fine del '300 al 1645 il patriziato non subì alcun significativo allargamento, nonostante l'avvenuto assoggettamento delle città della Terraferma, i cui ceti dirigenti rimasero così esclusi dal maggior consiglio.
Fra le poche eccezioni, la più significativa riguardò la casata friulana dei Savorgnan, tradizionale pilastro della presenza veneziana in Friuli. Ma anche in questo caso ebbe modo di palesarsi il tendenziale esclusivismo del ceto dirigente veneziano, orgogliosamente cosciente della propria diversità rispetto alle nobiltà di Terraferma. Difatti, nonostante gli straordinari meriti dei Savorgnan, il loro casato dovette attendere fino alla seconda metà del '600 per entrare nel giro delle magistrature veneziane più prestigiose: molte generazioni di Savorgnan avevano invece dovuto accontentarsi del conferimento da parte della Repubblica di nuovi feudi e di importanti incarichi militari (8). Da questo esempio si potrà ben comprendere il valore di altre ascrizioni al patriziato accordate a titolo onorifico a illustri personaggi, come principi e nipoti di pontefici.
A parte questi casi eccezionali, i criteri che regolavano l'ammissione all'assemblea sovrana erano nel '500 ancora sostanzialmente gli stessi che erano stati definiti nel corso del secolo XIV. F.C. Lane li ha riassunti con limpida chiarezza (9):
l'appartenenza di padre o avo al Maggior Consiglio era essenziale per ottenere l'ammissione. Tutti coloro che potevano provare quest'ascendenza tramite l'avvenuta registrazione alla nascita in quello che si chiamò poi il Libro d'oro potevano diventare automaticamente membri del Maggior Consiglio all'età di venticinque anni [...>; trenta venivano scelti a sorte e ammessi a vent'anni. Tutti i ventenni erano formalmente certificati come membri della nobiltà al momento dell'accettazione per il sorteggio, avendo provato la propria ascendenza.
Cessate col 1381 le aggregazioni al maggior consiglio, la trasmissione della nobiltà divenne esclusivamente ereditaria, per via patrilineare; furono peraltro esclusi nel 1376 i figli nati prima del matrimonio (10). Questa norma, sempre ribadita, era però di applicazione meno lineare di quanto non possa apparire a prima vista, a causa delle incertezze della disciplina matrimoniale pretridentina, che era tutt'altro che rigorosa nello stabilire le condizioni minime necessarie per la validità delle nozze (11). Era inoltre molto difficile mettere mano a una materia di gelosa competenza ecclesiastica. Ancora in pieno '500 potevano quindi verificarsi episodi curiosi, non dissimili da quelli attestati per i secoli precedenti (12).
Nel 1539 si discusse davanti all'avogaria di comun il caso del patrizio Pietro Contarini (fu Alvise), personaggio autorevole e fratello del patriarca di Venezia, Antonio. Poco prima di morire Pietro aveva confessato nel testamento di avere sposato segretamente la sua donna, una certa Giovanna, già prima che questa gli generasse i figli Andrea e Vincenzo. Così i due giovani, creduti fino a quel momento figli naturali, avrebbero ora potuto aspirare all'ingresso nel maggior consiglio, se l'avogaria avesse riconosciuto la civile condizione della madre ed avesse poi seguito, per quanto atteneva alla validità del matrimonio, lo stesso orientamento già espresso dal tribunale ecclesiastico, che l'aveva pienamente riconosciuto (13).
Se alcuni matrimoni venivano tenuti segreti, altri avevano luogo in circostanze tumultuose. Se ne coglie una tarda eco in un processo della fine del '500, che però si riferisce ad accadimenti del 1533. Antonio Venier, figlio del patrizio Benetto, espose all'avogaria che suo padre, di ritorno dalla Siria, si era segretamente innamorato della nobildonna Diana Minio:
[...> procurò di stringer la pratica con lei, et essendosi per questo ridotto una sera alle tre ore di notte in circa a San Iulian alla casa dove essa abitava con li clarissimi signori Andrea, Almorò, Giacomo, Iovanni Battista e Francesco [Minio> sui fratelli, fu trovato in casa a quella ora da detti fratelli, li quali, non volendo comportare che egli lasiase il mondo in sospeto de aver praticato con la sorella, volsero, prima che egli si partisse, anzi nela medesma ora, che la prendesse per moglie e sposase, come sucesse con l'intervento di sacerdote e di compadre, che fu il clarissimo signor Francesco Soranzo. La sposò ala presentia de molti che a caso capitorno in quel loco e si fermorno più per il tumulto di questo acidente che per altro rispeto (14).
Più tardi le nozze furono solennemente ripetute ("non perché vi fusse bisogno di sponsalitio ma perché egli si publicase"); ma né la prima volta, né la seconda il padre fece registrare la nascita del figlio all'avogaria di comun. E fu probabilmente questo il motivo per cui ancora nel 1591 Antonio Venier si batteva invano per il riconoscimento della propria nobiltà.
Infatti, muovendo da generali preoccupazioni di buon governo e di sana amministrazione, cui non era forse estranea l'intenzione di porre ordine in episodi del genere, il consiglio dei dieci, con due deliberazioni assunte rispettivamente nel 1506 e nel 1526, aveva imposto ai membri del patriziato l'obbligo di notificare entro limiti di tempo assai ristretti all'avogaria di comun la nascita dei loro figli legittimi ed i matrimoni. Si precisava che i magistrati avrebbero provveduto alla registrazione di tali atti nel "Libro d'oro" solo "se il matrimonio non sarà delli proibiti dalle leze nostre" (15).
Con questa puntualizzazione ci si ricollegava a un orientamento legislativo sempre più spiccatamente ostile all'ammissione nel patriziato dei figli nati da matrimoni con donne di bassa condizione. Fin dal 1422 erano stati esclusi dal maggior consiglio i figli delle schiave (16). Passi ancor più energici furono compiuti nel 1533, escludendo dalla nobiltà i figli nati da "alcuna fantesca o femina di villa, over qualunque altra di abjetta e vil condizione" (17). Sicché ormai l'unico spiraglio aperto ai patrizi per uscire dalla più rigida endogamia era rappresentato, al di fuori dei rari matrimoni con nobili non veneziane, dalle nozze con figlie di "cittadini originari": ciò che non mancò di esercitare una qualche influenza sulla evoluzione del ceto cittadinesco, contribuendo alla sua progressiva trasformazione in una nobiltà "di secondo ordine".
Questa normativa, la cui pratica applicazione richiese allo Stato veneziano uno sforzo amministrativo per quei tempi non irrilevante, poté soddisfare sentite aspirazioni del ceto patrizio, in ossequio a un'ottica aristocratica che avrebbe trovato un'elaborata giustificazione ideologica nell'opera di Paolo Paruta Della perfezione della vita politica, pubblicata nel 1579 (18). Ma la chiusura del patriziato portava con sé, nel lungo periodo, serie minacce alla stabilità degli ordinamenti: tali erano, innanzi tutto, l'impoverimento di una parte della nobiltà, non compensata dall'afflusso di forze fresche dal basso, e - a partire dal '600 - il generale calo demografico del patriziato. Questi fenomeni, che nell'insieme minacciavano di ridurre la consistenza della classe politica veneziana al di sotto dei livelli necessari per il perfetto funzionamento della macchina governativa, avevano certamente le >oro radici nelle trasformazioni economiche intervenute nel corso del '500, anche se non si può davvero affermare che la povertà di una parte dei nobili costituisse una novità assoluta nella storia della Repubblica.
Infatti gli studi sulla Venezia del tardo Medio Evo hanno dimostrato l'esistenza di profondi squilibri nella distribuzione della ricchezza all'interno del patriziato fin dall'epoca in cui esso aveva assunto la sua fisionomia di ceto giuridicamente definito (19). Ma è anche vero che il problema della povertà nobiliare si manifestò nel '5-'600 con una drammaticità prima sconosciuta, soprattutto perché erano nel frattempo venuti meno alcuni degli strumenti adoperati dalla Repubblica a sostegno dei patrizi meno fortunati.
Per trovare un'eloquente esposizione dei provvedimenti legislativi che nei secoli XIV e XV avevano incoraggiato la partecipazione all'attività mercantile dei patrizi dotati di capitali modesti, possiamo ricorrere al De magistratibus et republica Venetorum di Gasparo Contarini, naturalmente desideroso di dimostrare la perfezione degli ordinamenti politici e sociali della Repubblica. Le "leggi antiche", menzionate dal Contarini a proposito dell'educazione del patriziato, avevano imposto agli appaltatori delle galere da mercato, che facevano periodicamente la spola tra Venezia e i principali empori del Mediterraneo e delle Fiandre, l'obbligo di riservare un certo numero di posti, fino a un massimo di otto, a giovani nobili destinati ad apprendere l'arte della marineria. In aggiunta a un discreto stipendio, che all'inizio del '500 ammontava a ottanta ducati, questi "patricii adolescentes" godevano del privilegio di poter trasportare una certa quantità di merci senza pagarne il nolo. È stato calcolato da F. C. Lane che i giovani interessati al provvedimento fossero ogni anno almeno centocinquanta; ed il guadagno che essi traevano esercitando personalmente i propri privilegi o anche cedendoli a terzi doveva ammontare a cento-duecento ducati per viaggio (20).
Si trattava certamente di un utile sussidio per famiglie patrizie contro cui si era accanita la malasorte: è noto il caso di Andrea Barbarigo, che nella prima metà del '400 riuscì a risollevare le sorti del casato accettando a diciannove anni l'imbarco su una galera in qualità di "balestriere della popa" e sfruttando poi al meglio per i suoi traffici un modesto capitale iniziale di duecento ducati. Questo intervento indiretto dello Stato, il cui onere gravava prevalentemente sui patrizi appaltatori delle galere, era dunque nel complesso efficace e ben si inseriva all'interno di una politica del senato volta a tutelare anche gli interessi degli operatori commerciali di medie dimensioni (21). Così, se ci furono sempre dei patrizi sfortunati, malaccorti o dissipatori che andavano in rovina, fino a tutto il '400 ce ne furono altri che, come i futuri dogi Antonio Grimani e Andrea Gritti, seppero fondare sui profitti della mercatura la grandezza di famiglie fino ad allora relativamente modeste.
Ma tra la fine del '400 e l'inizio del '500 il clima era nettamente cambiato all'interno di un patriziato che con l'inizio del nuovo secolo si avviava a raggiungere il suo massimo sviluppo demografico: era infatti considerevolmente cresciuto anche il numero dei nobili relativamente poveri, che affollavano le riunioni del maggior consiglio alla ricerca di un incarico pubblico sufficientemente remunerativo, proprio mentre la possibilità di un loro impiego nella flotta mercantile si veniva riducendo, sia a causa delle frequenti guerre, sia anche per i più durevoli mutamenti intervenuti nelle principali rotte commerciali, che avevano imposto la soppressione dei viaggi delle galere da mercato verso ponente (22). Pertanto lo stesso Gasparo Contarini doveva malinconicamente riconoscere che ai suoi tempi i nobili poveri non potevano più essere adeguatamente soccorsi con le tradizionali provvidenze statali (23).
Già in questi primi decenni del Cinquecento la riflessione sul generale andamento dell'economia induceva molti patrizi a procedere a trasferimenti di capitali verso la Terraferma, per acquistarvi case e terreni. Era anche una scelta coerente con l'evoluzione sociale in corso nell'aristocrazia veneziana, dove, per usare le parole di un osservatore inglese di epoca più tarda, la figura del "gentleman" andava progressivamente sostituendosi a quella del "merchant" (24). Ma le prospettive che si aprivano in questo settore non erano ugualmente favorevoli per tutti i gruppi esistenti all'interno del patriziato che lo stesso doge Andrea Gritti - nel suo discorso di insediamento del 1523 - aveva sentito di dover distinguere secondo la gerarchia delle ricchezze fra "zentilhomini richi", "mezani" e "poveri" (25).
Per le casate più doviziose e meglio inserite nel governo della Repubblica c'erano i più pingui benefici ecclesiastici, varie rendite di tipo feudale ed enormi possibilità di investimento e di speculazione nelle bonifiche e nell'appalto dei dazi. Anche il prestito a garanzia fondiaria era destinato ad assumere un ruolo rilevante, soprattutto verso la fine del '500 (26).
Del tutto diverse erano le prospettive per i patrizi "mezani": a costoro la corsa verso la terra non offriva speranze di arricchimento neppure lontanamente paragonabili a quelle consentite un tempo dall'esercizio della mercatura. È vero che questi nobili potevano collocare i loro modesti capitali nel debito pubblico, finché non venne liquidato negli ultimi decenni del '500, e poi nel prestito a privati; ma anche questo era un tipo di investimenti che, pur offrendo la sicurezza di un buon reddito, non poteva certo risollevare le sorti di una famiglia. D'altronde, anche quei membri del patriziato che proseguivano nelle attività tradizionali e si imbarcavano sulle navi dirette nel Levante non conseguivano più incoraggianti successi.
All'interno della comunità mercantile che faceva capo a Rialto, e che era composta, oltre che da nobili, da "cittadini" di antica origine o di più recente immigrazione, nonché da forestieri che operavano fra molte limitazioni, erano proprio i rappresentanti dell'aristocrazia veneziana che si erano ora venuti a trovare in condizioni di maggiore disagio, soprattutto psicologico, per la difficoltà di adeguare la propria mentalità, prigioniera di una secolare e prestigiosa routine, alle difficili condizioni del "mondo mudado", dove i preziosi carichi delle spezie seguivano nuove rotte ed una più vivace concorrenza si era messa all'opera nella stessa area mediterranea (27).
In tale delicata situazione, la scarsità di mezzi della nobiltà minore costituiva un handicap più grave che nel passato. Infatti, come ha rilevato Ugo Tucci, nel Cinquecento inoltrato "chi non poteva valersi di grossi capitali restava solo con la speranza di guadagni mediocri [...>, a parte il rischio di grosse perdite senza possibilità di recupero [...>. Non erano più i tempi in cui si poteva fondatamente confidare su un peculio iniziale di 500/1.000 ducati" (28). Cosa poteva dunque sperare il modesto patrizio Marco da Molino, che nel 1563 procurò al figlio Francesco un posto privilegiato su una delle ultime galere dirette ad Alessandria e gli assegnò come viatico quel "poco agiuto per far mercantia" che non superava "gli scudi cento d'oro"? Il diciassettenne Francesco, nel suo bel diario, manifestò piena comprensione per il "povero padre", che aveva anche altre preoccupazioni, dovendo dotare una figlia e curare la piccola proprietà familiare presso La Motta (29). Era però evidente che con quella somma il giovane mercante, pur dotato di intelligenza pronta e vivace, poteva concludere ben poco. Pure, ritentò tenacemente la prova nel 1566, imbarcandosi insieme al fratello in qualità di balestriere, non più su una galera, ma su una grande nave di "mille botti" (circa ottocento tonnellate) carica di uve passe di Zante destinate al mercato inglese. Questa volta, almeno, Francesco si era messo al servizio di un'iniziativa commerciale al passo coi tempi, concepita dai grandi mercanti Giacomo Foscarini e Giacomo Ragazzoni (ricchissimo "cittadino", quest'ultimo, dal glorioso avvenire). Ma ancora una volta la fortuna volse le spalle al da Molino: durante il viaggio di ritorno la nave fu requisita dalla flotta spagnola. Francesco, dopo aver lungamente e vanamente atteso che la situazione si sbloccasse, trovò infine preferibile rientrare in patria, anche perché raggiunto dall'allettante notizia della sua anticipata nomina a membro del maggior consiglio, a soli 20-21 anni, anziché ai 25 di rito, in virtù del tradizionale sorteggio del giorno di Santa Barbara (30). Da quel momento egli visse sia delle magre rendite familiari, sia dei proventi degli uffici, cui fu chiamato dal voto del maggior consiglio. In seguito, provò ancora ad avviare qualche commercio nel periodo in cui fu rettore nel Levante, mentre non tentò più la carriera navale, altra possibile destinazione di un patrizio "mezano" o "povero", cui pure era stato precocemente iniziato (31).
Possiamo definire Francesco da Molino un patrizio povero? E quanti altri fra i membri del patriziato si trovavano in condizioni simili o peggiori delle sue? In generale è difficile quantificare il fenomeno della povertà nobiliare. Nei primi decenni del '600 un dichiarato avversario della Repubblica, il marchese di Bedmar, già ambasciatore spagnolo a Venezia, tratteggiò a tinte fosche la situazione del patriziato minore, schiacciato dal confronto con le maggiori casate. C'erano, secondo le sue vaghe stime, "moltissime" famiglie con una rendita annua superiore ai quattromila scudi; alcune fra queste vantavano "ricchezze grandi, che se non superano aguagliano almeno tutte l'altre d'Europa" e in questo caso le entrate annue arrivavano ai dieci-quindicimila scudi, con punte massime di venticinquemila. Al polo opposto il Bedmar aveva scoperto con stupore l'esistenza di famiglie patrizie oppresse da una "indicibile povertà": vecchi nobili costretti a raccomandarsi ai predicatori per mendicare aiuti per sé e per la casa, fanciulle patrizie che non avevano di che coprirsi, abitazioni simili a "tuguri"; "e questi tali ancorché habbino la prerogativa di nobili, si vergognano però di comparir avanti agl'altri" (32). Se questo era il consistente gruppo dei patrizi "estremamente poveri", il Bedmar non dimenticava però di segnalare un'altra "classe" di nobili, che potevano essere definiti solo relativamente poveri, in quanto le loro angustie derivavano dalla parziale inadeguatezza delle rendite rispetto al tenore di vita richiesto a un membro dell'aristocrazia.
Infatti in una società di ordini o ceti la definizione della soglia di povertà era legata alla condizione di ciascuno, dalla quale dipendevano sia il livello dei bisogni che dovevano essere assolutamente soddisfatti, sia i modi leciti di acquisizione delle entrate a ciò necessarie. Gasparo Contarini era stato fra i primi a riflettere su questi problemi, allorché nel trattato De officio episcopi, composto nel 1517, aveva raccomandato alle cure del vescovo l'assistenza ai poveri in generale, ma soprattutto la carità rivolta al sostegno dei "poveri vergognosi", cioè di quei nobili decaduti che non avrebbero potuto ridursi a mendicare pubblicamente e nemmeno ad esercitare le vili "arti meccaniche", senza perdere la propria dignità (33).
Solo se ci si pone in quest'ottica si possono correttamente inquadrare le numerose suppliche presentate al collegio da quei patrizi che invocavano l'aiuto pubblico sotto forma di sgravi fiscali, di provvigioni in denaro o di concessione di uffici. Prendiamo ad esempio il caso di Domenico Loredan, che nel 1608 si rivolse alla Signoria pur potendo godere di una rendita annua accertata di 408 ducati (34).
Non era un'entrata irrisoria: in quell'epoca 60 ducati erano considerati sufficienti al decoroso mantenimento di una nobile che avesse preso il velo, mentre 70 ducati erano il salario annuo di un muratore; ed un segretario del senato, alto funzionario proveniente dal ceto "cittadino"", percepiva uno stipendio nominale non superiore ai 200 ducati, salvo poi a raddoppiare la busta paga effettiva grazie ad altre provvigioni assegnate a vario titolo (35). Però anche il Loredan avrebbe potuto aggiungere alle proprie entrate, almeno saltuariamente, i proventi di quelle magistrature minori, che il maggior consiglio era solito affidare ai nobili poveri. In realtà, per giustificare la richiesta d'aiuto il patrizio sottolineava soprattutto le ingenti spese che doveva sostenere per il mantenimento di una ventina di persone: una decina di familiari e altrettanti servitori, distribuiti tra la casa di Venezia e la villa in Terraferma. L'idea che un gentiluomo, per quanto in difficoltà, non potesse comprimere al di là di un certo limite le proprie spese era evidentemente il tacito presupposto che accomunava, nella solidarietà di ceto, il supplicante e i magistrati preposti all'esame della richiesta.
Del resto, ovunque nell'Europa del tempo i ceti più elevati spendevano fortune per erigere le loro dimore ed arredarle in conformità ai propri gusti e alle proprie esigenze; vestivano con ricercata eleganza; curavano l'alimentazione con cibi raffinati; si circondavano di domestici; si procuravano i migliori mezzi di trasporto (cavalli, portantine, carrozze - specie nel '600 - e, a Venezia, gondole); celebravano grandi feste, fra cui erano particolarmente sontuose quelle tenute in occasione delle nozze, dove l'apparato dei festeggiamenti era inutilmente vietato dalle leggi suntuarie, egualmente incapaci di controllare la crescita delle doti. Forse, senza riaprire la plurisecolare disputa sui consumi di lusso, possiamo in linea di massima aderire alle recenti osservazioni di Peter Burke, che ne ha sostanzialmente riconosciuto la razionalità nel contesto del "sistema politico e sociale in cui vivevano i consumatori" nell'Europa del '5-'600: tali spese riguardavano soprattutto membri dei ceti dirigenti che avevano un preciso ruolo da rappresentare e da difendere (36).
Il problema era però diverso per la nobiltà dei vari paesi. Per quanto in particolare attiene a Venezia è possibile avanzare l'ipotesi che l'antica tradizione mercantile del patriziato, profondamente introiettata a livello psicologico e talora anche teorizzata ideologicamente, abbia esercitato per tutto il '500 e nel primo '600 una certa influenza, in alcuni ambienti patrizi più che in altri, contribuendo a contenere alcune voci dei bilanci familiari a un livello più basso rispetto ad altre nobiltà europee (37). Ciò è tanto più notevole, considerato l'altissimo rispetto di cui erano circondate Venezia e la sua aristocrazia.
Ascoltiamo alcune testimonianze di viaggiatori, sostanzialmente concordi: secondo Montaigne, che visitò Venezia nel 1580, "non c'è città al mondo dove si viva tanto a buon mercato", non certo a motivo delle vettovaglie, care come a Parigi, bensì piuttosto "perché il seguito di servitori è del tutto inutile, ognuno andando in giro da solo" (38). Osservazione riecheggiata nel 1608 dall'inglese Coryat, secondo il quale i nobili veneziani seguivano uno stile di vita molto più sobrio rispetto all'aristocrazia inglese: infatti pur abitando bei palazzi e possedendo ragguardevoli ricchezze, "non tengono né onorevole ospitalità, né sontuoso seguito di servitù, ma hanno una tavola frugale" (39). Pochi anni più tardi, in perfetta simmetria con questo giudizio, un ambasciatore veneziano a Londra avrebbe condannato le grandi spese dei Pari inglesi come una vana ostentazione di ricchezza (40). Anche gli abiti riflettevano e rafforzavano questa immagine severa del patriziato. L'amore del lusso poteva sfogarsi nella scelta di ricchi tessuti e nella varietà delle fodere; ma per i patrizi in età matura erano rigorosamente bandite le tinte vivaci care alla nobiltà francese ed inglese: sicché ancora alla fine del '500, come già un secolo prima, i nobili veneziani continuavano a portare le "veste negre longhe fino a terra", il cui uso era concesso dal costume anche ai "cittadini", ai dottori in legge e ai ricchi mercanti forestieri (41). L'ideologia che si voleva vedere sottesa alla scelta di quest'abito è esposta da Francesco Sansovino nel suo Dialogo del gentilhuomo vinitiano, in cui raccomanda ai giovani "buoni habiti più presto gravi che pomposi" (42). E già alla metà del '500 l'ex-nunzio pontificio monsignor della Casa aveva manifestato nel Galateo il suo apprezzamento per l'austerità delle vesti patrizie. Si era anzi esplicitamente richiamato alle usanze veneziane per introdurre le proprie riflessioni sulla necessità di sottoporre a un severo disciplinamento la scelta degli abiti. Secondo i precetti del della Casa, chi si fosse recato a Venezia avrebbe dovuto conformarsi allo stile di vita di quella "veneranda città", che egli descriveva, idealizzandola, come eminentemente "pacifica e moderata": non vi stavano dunque bene "le penne che i Napoletani e gli Spagnoli usano di portare in capo" e "molto meno le armi e le maglie" (43).
In realtà all'interno del ceto dirigente veneziano si potevano cogliere atteggiamenti molto diversificati rispetto alla tanto predicata sobrietà dei costumi: c'erano infatti patrizi che aderivano alla moda di una eleganza morbida e lasciva, ambiguamente correlata alla larga diffusione di pratiche "sodomitiche" (44). Ed anche il mito della città "pacifica" si scontrava con la realtà dei molti nobili che giravano armati: non era certo una novità del '500 l'allarmante livello della criminalità nobiliare (45). Nuovo era invece il costume diffusosi nella seconda metà del '500, quando i patrizi più violenti avevano cominciato a circondarsi di "bravi", che li spalleggiavano nelle loro ribalderie, non solo in Terraferma, ma anche nella Dominante. Nonostante i severi editti emanati al riguardo dal consiglio dei dieci, alla fine del secolo la figura del "bravo venetiano" era ormai ben caratterizzata e largamente diffusa (46). La strada era così aperta per le più clamorose imprese criminali dei patrizi che riempirono di sé le cronache dei primi decenni del '600: Leonardo Pesaro e Gabriele Morosini, Mario Malipiero, Alvise Morosini, Marco Gritti (47).
Esiste una correlazione tra il rifiuto dell'abito e dell'immagine tradizionale del patriziato e determinati atteggiamenti politici? Sicuramente queste inquietudini nobiliari preoccupavano il patriziato "vecchio": non a caso, proprio alla vigilia della crisi costituzionale del 1582 assistiamo al clamoroso rifiuto del consiglio dei dieci di rendere giustizia a Girolamo Barbaro, Pietro Zorzi e Carlo Boldù, rimasti feriti in una rissa con dei "bravi": l'"eccelso Consiglio", competente a giudicare i delitti contro i nobili, aveva obiettato che in questo caso i querelanti non si erano fatti riconoscere dai loro aggressori come gentiluomini veneziani, perché erano andati in giro vestiti "alla forestiera", armati di archibugi e circondati essi pure da "bravi" (48).
Talvolta la stravaganza dell'abito si accompagnava all'ancor più inquietante eterodossia religiosa: secondo quanto riferiscono le cronache del tempo, "andava sempre con cappa e spada" il poeta e letterato giramondo Marchiò Michiel, lo stesso che, secondo un'inchiesta condotta dal Sant'Ufficio aquileiese nel 1603-4, si dichiarava apertamente convinto della salvezza degli Ebrei e dei Turchi ed affermava con uguale risolutezza, anche in faccia al clero, la nullità delle scomuniche papali (49).
Con queste dichiarazioni - che suscitarono l'allarme dell'Inquisizione romana - siamo ormai quasi nel clima dell'Interdetto. Ma certo il Michiel non esprimeva le posizioni più caratteristiche del patriziato di orientamento antiromano. Di gran lunga più rappresentativa ci appare la figura del doge Leonardo Donà, del quale non può essere messa in dubbio la sicura fedeltà ai costumi tradizionali: proverbiale, ad esempio, la sua parsimonia, così nella conduzione degli affari domestici come anche in quelli pubblici. Ciò invero non gli impedì di sostenere spese elevate, senza peraltro contraddire la sua natura di oculato amministratore. Appassionato uomo di cultura, si procurò un'ampia e costosa biblioteca ammortizzandone la spesa con economie e risparmi puntigliosamente registrati, mese per mese, per circa un decennio (50). La stessa mentalità trovò modo di manifestarsi nella costruzione del palazzo di famiglia alle Fondamenta nuove, iniziato nel 1610. Si trattava di un ardito e rilevantissimo investimento; tuttavia l'edificio risultò intenzionalmente "sobrio e laconico", autentico manifesto edilizio del rigorismo etico del Donà. Vi si può cogliere il richiamo - palese anche in altri palazzi del '500, come quello del doge Andrea Gritti - all'ideale dell'uguaglianza aristocratica fra i membri del ceto dirigente (51).
Ci si può peraltro chiedere se tutto il patriziato fosse concorde su tale concezione e soprattutto è lecito domandarsi a quale livello di spese e di consumi tendesse a collocarsi per alcuni quell'ideale di equilibrio e di temperanza. Su questo punto sia il testamento dell'ambasciatore Marino Cavalli, redatto nel 1571, sia il trattato Della perfezione della vita politica, pubblicato dal Paruta nel '79, danno una risposta chiara e univoca: lo stile di vita che essi additano presuppone assolutamente il possesso di un solido patrimonio. Solo grazie a "la facultà e la roba" gli eredi del Cavalli potranno intraprendere con decoro la carriera politica, "fuggendo sempre ogni sordidezza" e quindi spendendo quanto è conveniente a chi deve sforzarsi di conseguire l'approvazione universale "con li benefici fatti al publico egregiamente". Tutte le esortazioni di Marino Cavalli sono giocate su un duplice registro: da un lato i ripetuti inviti alla moderazione (perché occorre ricordarsi sempre "di essere nasciuti gentilhuomini di Venetia, et non signori né duchi"); dall'altro il palese disprezzo rivolto non verso la povertà in sé (perché anche i Cavalli avevano conosciuto un periodo di "estrema e honorata povertà" dopo Agnadello), quanto piuttosto verso l'atteggiamento mentale di coloro che si comportano da "vergognosi et sordidi gentilhuomini" (52).
Nel Paruta l'esaltazione della ricchezza è, se possibile, ancora più netta, perché ideologicamente fondata sui valori della tradizione umanistica. Essa gli appare dunque necessaria "al vivere humanamente: cioè a dire con certa eleganza e dignità, che si richiede alla vita civile". Il ricco può nutrirsi meglio, può dare ai figli un'educazione più completa, può dedicarsi senza altre preoccupazioni alla politica; e solo le ricchezze consentono l'esercizio di virtù essenzialmente aristocratiche quali la liberalità e la magnificenza. Per tutte queste ragioni la ricchezza entra prepotentemente, accanto alla virtù e all'onore, nella definizione parutiana della nobiltà; ed anche il lusso appare pienamente giustificato (53).
Nel dialogo parutiano queste posizioni vengono vanamente contrastate da quei personaggi - prelati veneziani presenti alla fase finale del Concilio di Trento - che ricoprono nell'opera il ruolo di portatori delle istanze etiche della Controriforma e difendono il primato dei valori spirituali: tale è ad esempio la posizione del patriarca di Aquileia Giovanni Grimani, mentre il suo parente e successore designato, il patriarca "eletto" Daniele Barbaro, funge un po' da mediatore fra le opposte posizioni. Ma per quanto il Paruta sia stato in genere abbastanza attento a collocare questi immaginari colloqui in un contesto storicamente verosimile, in questo caso ci troviamo di fronte a un ritratto un po' di maniera.
È bensì vero che una parte del patriziato "vecchio", maggiormente legato al mondo ecclesiastico, era ideologicamente incline a una teorica condanna del lusso. Ma se l'ideale dell'eguaglianza aristocratica fra tutti i membri del patriziato tendeva a divenire sempre più remoto ed utopico, a ciò non era certo estranea la spinta proveniente proprio da questi ambienti, che si erano assicurati posizioni di prestigio e di potere tali da elevarli a uno splendore quasi principesco (54).
Si consideri ad esempio il ruolo svolto nella vita sociale e nella politica ecclesiastica veneziana dai patriarchi di Aquileia: i già ricordati Giovanni Grimani e Daniele Barbaro ed il successore Francesco Barbaro, nipote di Daniele. Può valere per tutti il suggestivo ritratto che uno storico pur ostile come il Sarpi tratteggiò di Giovanni Grimani: prelato "splendido, generoso e affabile e compitissimo nella conversazione" (55). È stato del resto osservato che la costante preoccupazione di distinguersi dal resto del patriziato emerge come la principale connotazione del mecenatismo artistico del Grimani, pur nella mancanza di una vera coerenza di gusto e di stile (56). Da parte sua Daniele Barbaro è invece un finissimo esperto di architettura, che non a caso sceglie di affidarsi ad Andrea Palladio per il progetto della villa eretta nella proprietà familiare di Maser verso la fine degli anni '50 del Cinquecento. Ma Daniele e suo fratello Marcantonio non accettano fino in fondo lo spirito di rigorosa funzionalità che pervade la soluzione palladiana, pur nelle forme solenni della casa tempio, e quindi promuovono l'intervento pittorico e probabilmente anche architettonico di Paolo Veronese, che accentua con complesse raffigurazioni allegoriche il motivo celebrativo delle glorie del casato (57).
Sotto il profilo ecclesiastico, il controllo dei Grimani e dei Barbaro sul patriarcato aquileiese dura per oltre un secolo, dal primo '500 fino al terzo decennio del '600. Ciò ha rilevanti conseguenze politiche, perché Aquileia non rappresenta solo una gloriosa tradizione ecclesiastica, ma anche una complessa e irrisolta questione di diritto, che tiene avvinti a sé i destini di tutto il Friuli veneto. I patriarchi, più inclini a una politica indipendente nella prima metà del '500, più ossequiosi verso la Santa Sede sul finire del secolo, manifestano comunque un forte spirito di autonomia nei confronti della Repubblica; ed aggiungono ostentatamente ai propri titoli quello principesco (58). È vero che asseriscono di tutelare in tale modo le ragioni della Serenissima contro gli Asburgo e le loro rivendicazioni. Ma intanto curano benissimo i propri interessi, grazie anche alla possibilità di influire tramite il loro potente casato sulla politica dei consigli veneziani, specie di quelli più ristretti e esclusivi, come il consiglio dei dieci.
Rivendicazioni temporali paragonabili a quelle dei patriarchi Grimani e Barbaro furono avanzate tra '500 e '600 a Ceneda dai vescovi Marcantonio e Leonardo Mocenigo, che si succedettero nel governo della diocesi (59). Diverso è in parte il caso della potente famiglia Corner, per la quale il conseguimento di una posizione privilegiata non dipese soltanto dalle fortunate carriere ecclesiastiche di molti suoi membri, che pure conseguirono un eccezionale successo, attestato sia dai sette cardinalati ottenuti nel giro di tre generazioni, sia dal controllo esercitato assieme ai Pisani e ai Grimani sulle principali diocesi della Terraferma veneta nella prima metà del Cinquecento (e del resto, il ricchissimo vescovato di Padova sarebbe rimasto nelle mani dei Corner e dei Pisani anche in epoca successiva al Concilio di Trento). A tutto ciò si aggiungeva con un peso determinante il prestigio derivante dalla parentela con l'ultima regina di Cipro, quella Caterina Corner che il fratello Giorgio aveva indotto nel 1488 ad abdicare in favore della Signoria. Rinfacciando continuamente ai consigli veneziani il ruolo avuto nella soluzione di una crisi dai risvolti giuridici quanto mai delicati, i Corner, spalleggiati anche da influenti parentele, ottennero un trattamento di favore: fino alla caduta dell'isola in mani turche, essi vi conservarono l'amministrazione di quarantuno villaggi, per un valore stimato intorno ai centomila ducati; ricevettero inoltre, a parziale rimborso dell'eredità di Caterina, una sovvenzione di trentamila ducati per il rifacimento del palazzo di famiglia distrutto nel 1532 da un incendio: come è noto, ne sortì una delle più grandiose opere di lacopo Sansovino (60).
Su scala minore, le medesime ambiguità si ritrovano nei rapporti fra la Repubblica e il consorzio dei Vendramin, signori di Latisana: col pretesto di non voler risvegliare potenziali rivendicazioni degli Asburgo (eredi e successori di quei conti di Gorizia dai quali Latisana era teoricamente dipesa fino al 1500), questi patrizi veneziani manovrarono in modo da non dover riconoscere apertamente la sovranità della Repubblica. Anche gli Zorzi seppero ritagliarsi un'autorità esente da limiti e controlli a Zunelle, nel Bellunese (61).
Alla luce di casi come questi ci si può porre il problema se veramente nel '5-'600 il patriziato disprezzasse i titoli feudali, specie quelli cui si associavano rendite di un certo rilievo: dopo tutto, furono ben ventisette le casate veneziane che tra il 1586 e il 1648 chiesero ai provveditori sopra i feudi la conferma di investiture relative a località del dominio veneto. Alcune di queste famiglie erano solo formalmente aggregate al patriziato, come i Savorgnan friulani, i Collalto del Trevigiano, i Martinengo e gli Avogadro bresciani; ma nell'elenco figurano pure alcuni fra i più bei nomi dell'aristocrazia veneziana: i Barbarigo, i Bollani, i Capello, i Civran, i Contarini, i Dandolo, i Donà, i Duodo, i Foscari ed i Foscarini, i Gabriel, i Grimani, i Gritti, i Lion, i Malipiero, i Mocenigo, i Molino, i Morosini, i Pisani, i Priuli, i Querini, i Salamon, i Trevisan. Altri mancano da questo elenco non perché privi di feudi, ma perché omisero di denunciarli, come i Pisani del Banco, i da Canal, i Lando e i Tiepolo, oltre ai già ricordati Vendramin e Zorzi (62). Del resto, c'era anche chi, come i Gabriel, pur essendosi fatto investire dei propri feudi, non perdeva occasione per manifestare un profondo disprezzo per l'autorità dei magistrati veneziani. Eppure la Repubblica pagava un rilevante prezzo politico per tutelare gli interessi di queste famiglie nella Terraferma, con negative ripercussioni sui rapporti tra la Dominante e i sudditi: lo si vide chiaramente in occasione della violenta protesta di Aviano nel 1577, allorché questa comunità del Friuli occidentale, delusa da una sentenza veneziana favorevole alle prerogative giurisdizionali dei Gabriel, fece issare sul campanile della pieve l'iscrizione "1577, 23 zugno è morta la iustitia di Venetia"; suonarono le campane a martello e fu trattata ingiuriosamente l'effigie del leone di San Marco. Secondo la denuncia dei feudatari questo sarebbe stato solo l'ultimo e il più clamoroso fra gli atti di violenza di cui già in passato avevano fatto le spese "li capitanii et oficiali nostri deli quali gran parte ne hanno miseramente et infelizamente amazzati". Ma i Gabriel, forti del sostegno del consiglio dei dieci, non intendevano certo rinunciare alla difesa della "iurisditione et beni nostri" (63).
Quest'attenzione per l'esercizio di un potere di tipo feudale non deve però impedirci di riconoscere che le massime aspirazioni del patriziato cinquecentesco restavano ancora prevalentemente legate all'esercizio del potere sovrano, così a Venezia come nei maggiori rettorati, ed all'ostentazione delle ricchezze private nel suggestivo scenario della laguna e delle ville dell'immediato retroterra. Perciò, se il clima politico-sociale del tardo '500 poté apparire propizio a un cambiamento di mentalità dei ceti dirigenti, a Venezia esso non si tradusse se non limitatamente nelle forme di una problematica "rifeudalizzazione"; palese fu invece il richiamo esercitato su importanti settori del patriziato sia dall'idea imperiale, esaltata da Giovanni Antonio Memmo, sia dal modello statuale del principato assoluto, apertamente lodato nelle relazioni di alcuni ambasciatori veneti (64).
La nuova Weltanschauung ebbe del resto modo di esprimersi anche in patria, a livello politico, nell'esaltazione dei poteri del consiglio dei dieci, e sul piano sociale negli atteggiamenti assunti da quegli autorevoli membri dell'aristocrazia, che si allontanarono dalle tradizioni di relativa austerità della nobiltà veneziana per condurre invece "una vita splendida e quasi che da principe", come si disse ad esempio a proposito del cavaliere e procuratore di San Marco Giacomo Soranzo (65).
Molte di queste casate, che superavano le altre per ricchezza e splendore, erano accomunate, come già si è visto, da un orientamento politico-religioso filocuriale. Erano i cosiddetti "vecchi", che la Santa Sede teneva in gran conto e raccomandava - in un prezioso documento del 1576 - alle attenzioni del nunzio: questi patrizi "tengono grado principale negli honori della Republica, vivono con più chiarezza dell'altri et hanno del cortigiano" (66). Tuttavia essi erano talvolta soggetti a opposizioni e persino a persecuzioni individuali, la cui origine va forse ricercata, prima ancora che a livello politico, nelle tensioni sociali fra ambienti e strati diversi del ceto patrizio. Accadde così che Giacomo Soranzo venisse accusato negli anni '80 del Cinquecento di avere tradito la Repubblica svelandone i segreti alla curia, nella speranza di ottenere il cappello cardinalizio. Era questa un'insinuazione ricorrente, che colpiva patrizi ambiziosi e legati alla Santa Sede, e che doveva apparire sufficientemente verosimile, in un'epoca in cui l'alta diffusione del celibato nobiliare e la particolare natura delle relazioni fra Stato e Chiesa aprivano la strada a un repentino passaggio dalla carriera politica a quella ecclesiastica. Di un'accusa analoga, probabilmente non del tutto infondata, era stato oggetto nel 1581 il futuro patriarca di Aquileia Francesco Barbaro, poi assolto grazie all'influenza delle sue parentele; delle stesse colpe si sarebbe poi macchiato Angelo Badoer, fuggito a Roma nel 1612. Invece nel caso del Soranzo i sospetti erano stati forse ingiusti, come ammise con molta onestà un patrizio di orientamento anticuriale, Francesco da Molino, secondo il quale la condanna del procuratore di San Marco era scaturita non da prove concrete ma dall'emulazione e dall'invidia (67).
Di sospetti e di calunnie fu oggetto, sia pure in modo meno drammatico, anche Giacomo Foscarini, questa straordinaria figura di mercante (uno degli ultimi grandi mercanti patrizi), ammiraglio della flotta veneziana nell'ultima fase della guerra di Cipro, abile uomo politico, proprietario terriero e finanziere. Insignito delle dignità di cavaliere e di procuratore di San Marco, egli poté degnamente ospitare nel suo palazzo ai Carmini il re di Francia Enrico III in occasione della celebre visita a Venezia nel 1574; e fu anche molto vicino alla elezione dogale nel 1595. Fu però rattristato nei suoi ultimi giorni dall'accusa di speculazioni finanziarie, cioè di aver promosso "il particolar interesse e ricchezza della sua casa con il mezzo della publica autorità". Anche in questo caso gli avversari più onesti avrebbero poi riconosciuto l'inconsistenza demagogica dell'insinuazione. Ma certo non poteva non suscitare invidie questo patrizio imparentato con gli influenti Barbaro, amico dei gesuiti, cautamente filospagnolo e, soprattutto, sconfinatamente ricco: tanto da confessare nel suo testamento di aver speso oltre novantamila ducati per maritare quattro figliole, laddove secondo le leggi non avrebbe dovuto superare i seimila ducati per ciascuna (68).
Esiste certamente un rapporto, peraltro non semplice da definire, fra le tensioni interne alla società veneziana del '5-'600 e la vicenda, lunga e tormentosa, della legislazione suntuaria che avrebbe dovuto porre un limite all'ostentazione della ricchezza. La magistratura preposta all'applicazione di tali norme era quella dei provveditori alle pompe, cui era stato dato stabile assetto con provvedimenti del 1512 e del 1515 (69). Oltre a riflettere l'ondata di commozione religiosa e di autocritica moralistica che fece seguito alla sconfitta di Agnadello, questo intervento delle autorità della Repubblica contro gli eccessi del lusso, anche di quello nobiliare, poteva esprimere la consapevolezza degli effetti dirompenti che l'eccessiva ostentazione della ricchezza poteva provocare, in una fase di crescente divaricazione delle fortune dei vari strati del patriziato. Le conseguenze sarebbero state particolarmente gravi soprattutto nel caso in cui il patriziato minore si fosse lasciato trascinare in una vana rincorsa al tenore di vita del patriziato più facoltoso. Questa preoccupazione fu apertamente espressa dal doge Andrea Gritti nel 1530, allorché egli tentò vanamente di vietare l'uso di vesti troppo costose da parte di una delle famose Compagnie della Calza, formate da gentiluomini che organizzavano feste e spettacoli teatrali. La concessione, giustificata da una visita del duca di Milano, avrebbe aperto la strada a ulteriori trasgressioni: "poi le donne si prepara venir con vesture d'oro, perle grosse, zoie de gran precio etc.; e chi non ha il modo vorà far il simile con danno di mariti etc." (70). Ma persino alcuni autorevoli membri del collegio si erano opposti alla severità del doge, sicché, come spesso accadeva, il divieto era rimasto inapplicato.
Un tentativo di rilanciare in grande stile la legislazione suntuaria fu compiuto nel 1562 (71); né si può dire che i magistrati siano rimasti inoperosi. Però i risultati dovettero apparire almeno relativamente insoddisfacenti, certo non proporzionati all'impegno profuso nel descrivere minuziosamente le principali manifestazioni di un lusso smodato e nel comminare pene ai rei e specialmente ai popolani (per esempio cuochi e sarti) che avessero concorso con la loro opera a tali sprechi. Di nuovo nell'ultimo decennio del '500 alcuni esponenti del patriziato "vecchio" ritornarono a caldeggiare con zelo la limitazione dei consumi di lusso. Fu soprattutto il procuratore di San Marco Federico Contarini a voler combattere una tenace lotta contro le costosissime collane di perle e gli altissimi zoccoli delle gentildonne veneziane; non pare però che lo si possa considerare come un modello di coerenza, viste le enormi somme da lui profuse per ottenere la dignità di procuratore, per ospitare il re di Francia nel suo palazzo di Mira e per raccogliere con spese degne di un re ("sumptu piane regio") un museo di antichità greco-romane (72).
Del resto, anche senza un'esplicita violazione delle leggi, ampi varchi allo sfoggio del lusso sarebbero stati comunque tenuti aperti sia dall'esenzione delle nobildonne della famiglia dogale, sia dalla volontà della Serenissima di impressionare i più illustri fra i suoi ospiti con l'abbagliante splendore delle feste e con la compiaciuta esposizione delle ricchezze del patriziato più dovizioso: in tal caso le leggi potevano essere temporaneamente sospese (73). È poi il testo stesso delle norme suntuarie a rivelare, a un'attenta lettura, l'incertezza e la debolezza dei magistrati. Infatti i limiti comunque tollerati nello sfoggio del lusso appaiono, in un confronto esteso a tutta la penisola, particolarmente alti (74). Inoltre, come ha ben osservato Claudio Donati, i decreti emanati dai consigli veneziani non si prefiggevano nemmeno in teoria l'obiettivo di rafforzare le tradizionali gerarchie sociali mediante un'opportuna graduazione dei divieti e dei limiti imposti a ciascun ceto: al contrario, le leggi suntuarie ponevano sullo stesso piano ogni qualità di persone, eccettuate le meretrici, e quindi rinunciavano a reprimere l'aspirazione dei ricchi popolani ad adottare i consumi di lusso propri dei ceti superiori, fenomeno che era invece considerato scandaloso dalle autorità di molti paesi (75).
Il più tollerante atteggiamento veneziano è ben riflesso nei Diarii di Sanudo, che testimoniano senza aristocratico rancore, ma tutt'al più con una nota di stupore, le solenni esequie del ricco fruttivendolo Taddeo Bergamasco, oppure il "belisimo pasto et festin" di un Girolamo Garzoni (un "popular" divenuto "richisimo") onorato dalla partecipazione di alcuni alti magistrati "et assà nobili et citadini populari" (76). Più duro da sopportare fu per Sanudo il comportamento di una "compagnia de famegii de zentilhomini" che nel febbraio del 1525 organizzarono una vera e propria festa da ballo, eleggendo persino un "signore" dei festeggiamenti e non lasciando entrare nessuno, salvo le loro donne: "siché a concorentia di nobili, li famegii fanno festa". Drastico il giudizio: "Fo mal fatto, e li Cai di Dieci dovea proveder" (77). Ma forse lo sdegno del Sanudo fu provocato soprattutto dalla grossolana imitazione delle usanze nobiliari tipiche delle famose Compagnie della Calza, cui egli era molto legato. Non suscitava invece alcuno scandalo l'ingresso in quelle Compagnie di gentiluomini, il cui statuto era approvato dai capi del consiglio dei dieci, di qualche nobile forestiero, come uno Strassoldo friulano, e persino di "cittadini" di antiche tradizioni e di rilevante patrimonio, come il gastaldo ducale Vittore Gonella (78).
L'atteggiamento per così dire permissivo adottato dai vertici dello Stato veneziano verso le manifestazioni dell'agiatezza e del lusso di nuove forze sociali emergenti poteva apparire come l'espressione di una consumata saggezza politica: tale fu, ad esempio, il giudizio del segretario del consiglio dei dieci Antonio Milledonne e del grande giurista francese Jean Bodin (79). Tuttavia la particolare formulazione delle leggi suntuarie veneziane poteva assumere valenze ambigue nei confronti del patriziato minore: da un lato, infatti, la mancata esenzione della nobiltà dal rispetto di tali norme mirava certamente, almeno nelle intenzioni del legislatore, a porre un qualche freno al dissanguamento del patriziato minore, in quanto offriva ai casati sull'orlo della rovina una decorosa giustificazione pubblica per il contenimento delle spese familiari entro limiti più accettabili. D'altra parte, però, il silenzio delle leggi sul rispetto delle distanze tra i diversi ceti poteva esprimere anche una certa sfiducia delle magistrature veneziane in merito alla possibilità di difendere le tradizionali barriere sociali che ormai venivano erose, almeno sotto il profilo del tenore di vita, dalla crescita economica di elementi provenienti dai ceti inferiori e dall'impoverimento, giudicato ormai irreversibile, di tutto un settore del patriziato (80).
Un'eco dell'interesse con cui le autorità veneziane guardavano a questi problemi può essere colta nei censimenti della popolazione di Venezia periodicamente organizzati dai provveditori alla sanità. Per quest'attività amministrativa di ammirevole modernità venivano impiegati dei moduli prestampati e dei questionari, che contenevano fra l'altro precise domande sulla servitù e sulle gondole eventualmente presenti in ogni famiglia veneziana, patrizia, cittadina o popolare (81). I dati così raccolti, che sono parzialmente conservati a partire dal primo '600, confermano il primato del patriziato, inteso come "ordine", saldamente ai vertici della ricchezza e del lusso (82). Ma un esame più analitico rivela l'enorme divario esistente tra il tenore di vita della più potente aristocrazia e quello dei patrizi meno fortunati: non era certamente da tutti il potersi permettere, pochi anni dopo la catastrofica pestilenza del 1630, le tre gondole e le diciassette persone di servizio censite in casa di Andrea Badoer a San Moisè, oppure le tre gondole, gli otto servitori e le sei serve ("massere") di Andrea di Vincenzo Pisani a Santa Maria Zobenigo. Al di sotto di queste grandi casate patrizie, e anche a una certa distanza, troviamo i più illustri esponenti del ceto "cittadino", segretari, medici e avvocati che, con la loro bella gondola, uno o più servitori e qualche "massera" superano in agiatezza i patrizi di mediocri fortune e surclassano addirittura i nobili meno fortunati. Infatti questi ultimi non possono sempre contare nemmeno sull'aiuto di una serva e sono così scavalcati dagli stessi popolani di maggiore successo: speziali, bottegai, "fanti", cioè funzionari di basso livello, i quali, una volta raggiunta una certa "comodità", non sanno più fare a meno dell'opera di un paio di "massere" (83). Il confronto, che può avvenire all'interno dalla stessa contrada, è certo imbarazzante per il nobile decaduto, verosimilmente costretto a far fronte assieme ai familiari alle più umili mansioni domestiche.
Viene così lentamente prefigurandosi il quadro ben noto della Venezia settecentesca, con un patriziato abbastanza nettamente suddiviso in tre (o persino in cinque) strati gerarchicamente disposti: al vertice del potere e della ricchezza i grandi; in posizione intermedia i nobili che si avvicendano nei tribunali delle quarantie; al gradino più basso i cosiddetti "barnabotti", che vivono di sussidi e abitano in case dall'affitto modesto, numerose soprattutto nel sestiere di Dorsoduro, di cui fa appunto parte la contrada di San Barnaba (donde il loro soprannome) (84). È evidente che l'equilibrio di questa società aristocratica dipendeva in larga misura dalla capacità di tenuta di quello strato nobiliare intermedio prevalentemente costituito da patrizi eletti a cariche giudiziarie o a piccoli rettorati. Possiamo cercare di addentrarci in questi ambienti sfogliando il diario di uno di questi patrizi, quel Francesco da Molino di cui abbiamo ricordato la sfortunata esperienza mercantile. Dopo la guerra di Cipro il da Molino fu rettore nell'isola di Candia (a Rettimo e nella fortezza di Spinalonga) e nel Friuli (a Pordenone). A questa carriera egli alternò quella giudiziaria: già prima della guerra di Cipro era stato eletto dal maggior consiglio "avvocato ordinario" (funzione che non richiedeva il titolo dottorale); in seguito fu ripetutamente chiamato a far parte della quarantia, magistratura che assicurava per due anni l'apprezzabile stipendio di 130-160 ducati e che specialmente negli ultimi otto mesi acquistava una certa rilevanza politica consentendo all'eletto, divenuto ora giudice della quarantia criminale, la partecipazione con diritto di voto ai lavori del senato (85). Certamente il da Molino ne approfittò per approfondire la conoscenza degli affari pubblici e per esternare con il voto quelle idee che affiorano anche dalle sue memorie: una fiera ostilità allo strapotere della Spagna e della Santa Sede e un vivo malcontento per gli abusi dell'oligarchia dei patrizi "vecchi", che si erano arroccati a difesa del consiglio dei dieci con il sicuro appoggio dell'apparato burocratico, cioè degli influenti segretari provenienti dal ceto "cittadino" (86).
Il ritratto del giudice della quarantia che emerge da questi diari è moralmente solido e civilmente impegnato. Ci si può però chiedere entro quali limiti il da Molino possa essere considerato un tipico rappresentante del patriziato meno potente e ricco. Proprio la vivacità e l'interesse delle sue memorie fanno sospettare che egli si elevasse un po' al di sopra della media, anche per la discreta abilità dimostrata nell'impiegare come lingua scritta un italiano sufficientemente corretto. Altri patrizi, che pure venivano chiamati dal voto del maggior consiglio a ricoprire uffici a Venezia e nel Dominio, erano sicuramente più poveri, meno dotati di virtù civiche ed anche meno colti (il Bedmar addirittura asseriva che la nobiltà fosse composta per nove decimi da illetterati) (87).
Il problema dell'istruzione del patriziato era assolutamente cruciale. Infatti nel caso dei patrizi di più modesta condizione la perdita del tradizionale tirocinio mercantile non era stata compensata dai costosi viaggi di piacere a Firenze e a Roma e dalla partecipazione alle splendide ambascerie, che invece contribuivano alla formazione dei giovani delle maggiori casate. Inoltre non tutte le famiglie patrizie potevano assicurarsi i servigi di buoni precettori privati, a integrazione dell'inadeguato intervento pubblico in campo educativo. Forse sarebbe stato possibile affrontare più efficacemente il problema accordando fiducia alle iniziative della Compagnia di Gesù che - come è noto - si dedicava con accorto zelo alla formazione dei giovani nobili; ma l'anticurialismo del patriziato "giovane" agì in questo caso da freno, finché l'espulsione della Compagnia, decretata nel 1606 durante l'Interdetto, non troncò definitivamente ogni discussione al riguardo (88).
Non a caso, fu proprio un estimatore dei gesuiti, il procuratore di San Marco Federico Contarini, che nel 1609 avanzò una nuova proposta tendente alla realizzazione di un "seminario dei nobili" inteso come istituzione educativa per i patrizi meno fortunati (89). Il progetto venne concretamente attuato a partire dal 1619: nelle parole di uno dei promotori, l'autorevole Ottaviano Bon, si coglie bene la consapevolezza del legame tra il problema pedagogico e quello politico-sociale che vi era sotteso:
Una delle maggiori imperfettioni ch'habbia il nostro governo è la quantità de nobili poverissimi, li quali per mancamento de beni di fortuna restano senza eruditione et alcuna edificatione di spirito, onde dati in preda al senso si reggono più da animali che da huomeni; questi ne' maneggi publici e privati, così nella città come fuori, danno quel saggio che ogni dì si scopre di rapine, di tirannie et di malissimi essempi, perché hanno per fine il proprio et particolar interesse et non il ben publico, et da qui è che li popoli sono mal governati, esclamano et si risentono con intacco della reputatione publica et vengono anco perciò li buoni a sentirne nocumento et dispiacer grandissimo [...> (90).
Non si può dire che le denunce dei sudditi restassero sempre inascoltate: esse provocavano la saltuaria reazione dell'oligarchia di governo, che affidava la revisione dell'operato dei rettori a qualche magistratura straordinaria. Fra tutte fece epoca il provveditorato generale dell'isola di Candia esercitato con estrema energia da Giacomo Foscarini, che si propose di consolidare la vacillante autorità veneziana dopo la sfortunata conclusione della guerra di Cipro. Le sue riforme, che pure miravano alla conservazione del sistema feudale vigente nell'isola, alleggerirono gli oneri gravanti sui contadini e cercarono di porre un freno alle "estorsioni e tiranie" di cui erano accusati i rettori veneti e i "principali nobili di quel Regno" (91).
Il diarista Francesco da Molino era allora consigliere a Rettimo e, non avendo personalmente nulla da rimproverarsi, seguì con attenzione e competenza l'attività del Foscarini, sulla quale formulò un articolato giudizio. In nome di un sincero ideale di giustizia egli dovette approvare la rimozione degli abusi e il riordino dell'amministrazione (giacché il provveditore "riscosse allegramente da quei, che aveano rubato e convertito in uso suo la pecunia publica"), così come riconobbe la solidità dei nuovi ordinamenti, salutando nel Foscarini il "fondator et instruitor di un nuovo regno". Ma a questo punto le lodi cedevano il campo alle perplessità e ai dubbi. Sul piano politico il da Molino coglieva acutamente il nesso esistente fra la straordinaria ampiezza dei poteri concessi al provveditore ed il progressivo affermarsi di una sorta di versione veneziana dell'assolutismo principesco: la preponderanza di un'oligarchia di governo, che trovava la sua più piena espressione nell'"auttorità suprema" del consiglio dei dieci (92). Sul piano sociale, la particolare intonazione del repubblicanesimo del da Molino, nobile della quarantia, si manifestava attraverso la sua commiserazione per i rettori ed i nobili veneti di Candia sottoposti a troppo rigorose indagini. L'ideale repubblicano si rivelava quindi come espressione di un'esigenza di solidarietà aristocratica, non facilmente componibile con la volontà di rendere giustizia ai sudditi oppressi. Da questo punto di vista erano forse i patrizi "vecchi", come il Foscarini, ad esprimere una concezione dello Stato più moderna di quella dei loro avversari (93).
È merito della recente storiografia su Venezia l'aver sottolineato la gravità e l'asprezza dei contrasti politico-sociali esistenti all'interno dell'aristocrazia veneziana.
Va comunque rilevato che l'opposizione di patrizi come il da Molino operava in sostanza all'interno del sistema: anche le gravi crisi che talora interruppero il normale funzionamento delle istituzioni repubblicane e ne imposero una parziale riforma, come nel 1582-83 e nel 1628, furono soggettivamente vissute dai protagonisti con spirito conservatore, cioè come tentativo di restaurazione di un ordine più antico, e comunque non andarono al di là di una modifica degli equilibri fra le varie magistrature: nulla di paragonabile, ad esempio, alle autentiche rivoluzioni subite dagli ordinamenti della Repubblica di Genova nel 1528 e nel 1576 (94).
Per spiegare questa differenza di evoluzione storica non si potrà certo riproporre l'ormai vetusto mito della perfezione degli ordinamenti costituzionali della Serenissima: si dovrà invece cercare di comprendere come concretamente si esercitasse l'egemonia dei settori più influenti del patriziato e quali compensazioni fossero offerte al resto della nobiltà. Sotto questo aspetto riemerge la centralità del maggior consiglio, dove i patrizi veneziani, pur divisi per censo, antichità dei casati, alleanze familiari e opinioni politiche, continuavano a sedere fianco a fianco per partecipare alle complesse manovre della procedura elettorale, cui tutti erano vivamente interessati, sia pure con possibilità e aspirazioni alquanto diverse. I nobili più poveri erano addirittura pronti a vendere il loro voto e venivano perciò soprannominati gli svizzeri, cioè i mercenari. Al polo opposto, nel settore più dovizioso del patriziato, non mancavano invece le potenti famiglie disposte a investire una parte del patrimonio a sostegno della carriera pubblica di qualche loro membro. Ciò non avveniva soltanto per mezzo della corruzione elettorale, ma anche per altre vie più legittime: nel corso del '500 le aspirazioni dei più ricchi trovarono una sorta di legittimazione, allorché si incontrarono con le esigenze finanziarie della Repubblica, che doveva far fronte ai pesantissimi oneri di guerre come quella della Lega di Cambrai, o come quella di Cipro; si misero in vendita alcuni uffici e bastarono 100-200 ducati per entrare in maggior consiglio prima dell'età legale, mentre ne furono richiesti 20.000 per poter aspirare alla dignità di procuratore di San Marco (95).
Però nella Repubblica di Venezia la venalità delle cariche pubbliche non era destinata ad affermarsi nella stessa misura in cui ciò avvenne nelle maggiori monarchie d'Europa: si trattò invece di un espediente deciso in casi di urgente necessità; ed anche in tali occasioni non veniva abbandonato il metodo elettorale, giacché l'offerente doveva comunque sottoporsi al voto del maggior consiglio. È vero che questa votazione poteva talvolta ridursi a una semplice formalità; tuttavia essa esprimeva la volontà di conservare un aspetto fondamentale della costituzione veneziana, che fungeva al tempo stesso da principio regolatore delle relazioni sociali all'interno del patriziato: nessuno, nemmeno i "grandi", poteva esimersi dall'obbligo di sottoporsi ripetutamente al voto degli altri patrizi.
Questo residuo elemento di eguaglianza aristocratica era indirettamente riconosciuto anche dagli osservatori più ostili, come il marchese di Bedmar, secondo il quale i patrizi "che sono di basso stato" compivano le loro vendette contro i potenti attraverso la procedura elettorale (96).
Con tono ben diverso, gli apologeti del governo veneziano individuavano una sorta di "giustizia distributiva" nell'oculata ripartizione delle cariche operata dal maggior consiglio attraverso un attento dosaggio degli "utili" e degli "onori": uffici remunerativi per i nobili meno abbienti, magistrature prestigiose per chi, oltre a meritarle, poteva sostenerne l'onere finanziario. Più chiaramente di tutti si espresse al riguardo il Botero, la cui opera, giova ricordarlo, aveva carattere semiufficiale, come è comprovato dalla dedica al doge Marino Grimani:
[...> Se pure alcuni più degli altri ne partecipano [degli averi>, questi sono anche adoperati nella Republica in offitii et in carichi, ove hanno maggior occasione di lasciar del suo per acquistarsi riputatione, che di portar a casa dell'altrui per arricchire.
Quelli poi, che carichi così fatti sostener per la povertà non possono, in ufficii di più utilità s'impiegano: così i ricchi honorano la Republica con le facoltà private, e la Republica sostiene i poveri con gli emolumenti publichi, e gli uni e gli altri restano sodisfatti, quelli per l'honore che la Republica fa loro, questi per l'utile che da lei ricevono; e gli uni servono la patria negli affari importanti, gli altri nelle bisogne necessarie [...> (97).
Resta solo da aggiungere che talora anche patrizi fortemente penalizzati da un patrimonio modesto riuscivano a superare questo handicap iniziale ed a percorrere una prestigiosa carriera: sono noti gli esempi di Nicolò da Ponte, che fu doge nel 1578, e di Nicolò Contarini, eletto al dogato nel 1630. Certamente si trattava di casi eccezionali: difatti la vittoria del da Ponte, che riempì di stupore e di entusiasmo il diarista Francesco da Molino, offerse a quest'ultimo l'occasione per meditare sulle condizioni normali del successo politico e quindi sugli ostacoli che il nuovo doge aveva saputo brillantemente superare, come "la povertà di robba, ma più de parenti" (98).
Francesco da Molino non era certo isolato nel segnalare l'influenza esercitata dalle grandi famiglie patrizie nella vita pubblica. Il ceto dirigente veneziano, non sempre sensibile - come vorrebbe il "mito" - ai supremi interessi della Repubblica, era invece molto rigido nel subordinare il destino dei singoli, le loro carriere e le stesse scelte matrimoniali alle esigenze di complesse strategie familiari.
L'ambito in cui si esercitava la solidarietà familiare non si restringeva alla famiglia nucleare (quella composta dai soli genitori e figli); anzi, questa concezione della famiglia era sostanzialmente estranea alla nobiltà e ai cittadini di Venezia. Nell'organizzazione del ménage familiare prevaleva invece nettamente il modello della "fraterna", definibile in linea generale come un tipo di famiglia complessa, il cui elemento costante era rappresentato dalla convivenza in uno stesso palazzo di due o più fratelli celibi o sposati (99). Naturalmente una famiglia così vasta, che poteva comprendere più nuclei familiari, doveva solitamente disporre anche di una servitù relativamente numerosa.
Esiste un nesso evidente tra la "fraterna" e le modalità della successione ereditaria: infatti fin dal '200 gli Statuti avevano disposto che i figli maschi fossero eredi in parti uguali del patrimonio paterno in caso di successione ab intestato. In teoria chi redigeva un testamento era invece libero di privilegiare uno degli eredi, col solo obbligo di riconoscere una ridotta parte di eredità, la legittima, anche al figlio più reietto. Ma la divisione in parti eguali, entrata ormai a far parte del costume veneziano, era solitamente adottata anche dai testatori; e non valse a modificare sostanzialmente questa consuetudine nemmeno il diffondersi nella seconda metà del '500 degli istituti del fidecommisso e della primogenitura. Di quest'ultima, in particolare, i Veneziani del '5-'600 fecero un uso abbastanza moderato, circoscrivendone l'applicazione al palazzo di famiglia o a una lussuosa residenza in Terraferma: il "residuo", che comprendeva la maggior parte del patrimonio, continuò ad essere diviso in parti eguali tra i figli (100).
Spesso il padre aggiungeva a tali disposizioni testamentarie un caldo invito ai figlioli perché volessero continuare a condurre una vita in comune anche dopo la sua morte: concezione chiaramente espressa nella seconda metà del '50o da Leonardo Donà in una pagina dei suoi diari, dove lamentò che i fratelli si fossero allontanati da lui "poco curandosi il beneficio et la sostentatione et l'honore de casa nostra" (101). Sembra però che queste divisioni fossero tutt'altro che infrequenti: tanto che ci si può chiedere se alla fine del '500 l'istituzione della "fraterna" non avesse ormai superato il momento del suo massimo splendore, pur essendo destinata a resistere tenacemente nella mentalità e nel costume dei secoli successivi.
Si debbono infatti distinguere almeno due fasi nell'evoluzione della famiglia patrizia in età moderna. Fino ai primi decenni del '500 la fraterna operò in modo ottimale al servizio di un patriziato ancora attivamente impegnato nei traffici: in quest'epoca essa era, al tempo stesso, un'unità di consumo fondata sulla coabitazione e una società commerciale (la "fraterna compagnia") nelle cui attività erano investiti i capitali comuni dei suoi membri. Non a caso i superstiti libri contabili delle "fraterne" testimoniano sia i grandi investimenti nel Levante, sia le più modeste spese domestiche (102).
Ma con il graduale ritiro di molte famiglie patrizie dal commercio marittimo la "fraterna" smarrì almeno parzialmente la sua funzione economica: in passato essa aveva messo a disposizione di ciascun membro della famiglia i capitali di tutti, favorendo così la rapida realizzazione di grandi e ardite speculazioni commerciali; ora, invece, essa non tutelava affatto il patrimonio di una famiglia di rentiers dall'assalto dei creditori di un fratello scialacquatore: pericolo tutt'altro che ipotetico in un'età in cui la mentalità di molti patrizi tendeva ad omologarsi anche nel dispendioso tenore di vita alle nobiltà di Terraferma. Ancora alla fine del '500 l'unico rimedio possibile consisteva nella "divisione" tra i fratelli, compiuta con atto notarile: provvedimento doloroso, perché sentito quasi come un disonore per la "casa" (103). Per avviare a soluzione lo scabroso problema intervenne dunque il maggior consiglio, che nel 1619 modificò disposizioni statutarie vecchie di quasi quattro secoli, dichiarando che d'ora innanzi ciascun membro della "fraterna" avrebbe potuto obbligarsi solo per la sua porzione dei beni comuni. In tal modo la "fraterna" non era abolita (se ne ritrovano le tracce nei censimenti del '600), ma se ne attenuavano gli ormai anacronistici vincoli di solidarietà economica (104).
Rimase invece invariata attraverso i secoli la norma che consentiva di abbracciare sotto il nome di "fraterna" anche la comunione fra zii e nipoti e quella tra primi cugini, ma vietava di estendere la "fraterna" al di là di questo grado di parentela (105). Ciò nonostante, alcuni studiosi hanno ritenuto di poter estendere anche alla Venezia del '500 uno schema sociologico sicuramente valido per altre città italiane del tardo Medio Evo e della prima età moderna, anch'esse rette a repubblica, come Genova e Lucca, dove la solidarietà tra parenti non si restringeva entro i limiti del ménage familiare, ma accomunava tutti gli appartenenti a un medesimo "clan", raggruppando così tutti coloro che erano in grado di richiamarsi, con maggiore o minore attendibilità storica, a un antenato comune per via patrilineare (106). D'altra parte, proprio il maggiore studioso della Lucca del '500, Marino Berengo, aveva escluso ogni somiglianza con la coeva situazione di Venezia, giacché "l'aristocrazia veneziana ha visto per tempo le sue più grandi famiglie suddividersi in vari rami che non serbano più tra loro alcun elemento in comune all'infuori del nome" (107).
Non si vuole negare che la solidarietà fra patrizi portatori di uno stesso cognome abbia potuto costituire una realtà storicamente operante nei primi due secoli dopo la "serrata". Ma al tempo stesso si erano venuti manifestando fenomeni che lasciavano supporre l'inizio di un processo disgregativo. Soprattutto la dispersione delle dimore degli appartenenti ai vari "clan" nei più lontani sestieri cittadini appare in singolare contrasto con quanto avvenuto in quelle città in cui la solidarietà di "clan" si era maggiormente conservata anche nell'insediamento, come a Genova.
All'inizio del '500 l'indebolimento dei legami di lignaggio all'interno del patriziato era divenuto ormai evidente. Lo metteva bene in luce l'anonimo Traité du gouvernement de la cité et seigneurie de Venise, allorché rilevava che a Venezia c'erano 125 "maisons" composte dai discendenti di una medesima stirpe, che portavano lo stesso cognome e avevano il medesimo stemma; ma soggiungeva che ormai quasi tutte queste case si erano separate e i loro membri non vivevano più insieme (108).
È vero che ci volle comunque del tempo prima che questa separazione fisica giungesse alle estreme conseguenze anche sotto il profilo sociale e politico. Solo nel '6-'700 questo processo può dirsi interamente compiuto: difatti gli osservatori contemporanei meglio informati avvertono la necessità di far riferimento alla suddivisione di ogni lignaggio in più rami, ciascuno dei quali è identificato dalla residenza in un dato palazzo, donde la loro pregnante definizione di "case" e la probabile identificazione con le già ricordate "fraterne" (109). Invece nel '500 si riscontrano ancora tracce residue dell'antica influenza dei "clan" e delle loro coalizioni: è noto, ad esempio, che fino al 1612 una coalizione di "clan" di origine relativamente più recente (i "curti") escluse dal dogato i membri dei "clan" più antichi (i "longhi") (110). Anche le procedure elettorali del maggior consiglio conservavano il ricordo della solidarietà di lignaggio: infatti tutti i membri di uno stesso "clan" erano esclusi dalla partecipazione all'elezione di quelle cariche cui concorreva un altro membro del "clan", anche quando il grado effettivo di parentela era quanto mai remoto. Un'analoga disposizione limitava a un solo patrizio per ciascun lignaggio la possibilità di entrare a far parte dei comitati di designazione dei candidati (quattro "mani di elettori", composte ciascuna di nove membri scelti mediante sorteggio). Evidentemente si voleva impedire che i "clan" più numerosi, come i Contarini - che contavano nel 1527 ben 172 maschi adulti - o come i Morosini - che erano 102 - potessero esercitare una influenza soverchiante nella designazione alle varie cariche; d'altra parte, questa esclusione doveva apparire come un'autentica ingiustizia ai membri dei "clan" più estesi, in cui si era ormai indebolita la coscienza dell'antico legame. Per tale ragione fu proposta nel 1527 una riforma elettorale, che fu lungamente contestata dai membri dei "clan" minori e in particolare da Marin Sanudo, ma poté essere infine approvata mediante un compromesso, che elevò a due (e non a quattro, come inizialmente richiesto) il numero dei membri di uno stesso "clan" ammissibili per sorteggio nei comitati di designazione (111).
Per ciò che attiene ai legami che univano i membri di un "clan" sul piano sociale si possono segnalare alcune opere di carità e lasciti pii, che privilegiavano fra i possibili beneficiari i patrizi poveri accomunati al donatore da uno stesso cognome (112). Anche la prospettiva dell'imminente estinzione di un glorioso casato per mancanza di eredi maschi - evento non raro, specie a partire dalla fine del '500 - poté talora risvegliare in qualche patrizio la solidarietà di "clan": ne scaturiva allora la decisione di redigere testamenti che avevano come beneficiari parenti anche lontanissimi, purché appartenenti allo stesso lignaggio. Il medesimo risultato si poteva ottenere, come avvenne nel caso dei Donà dalle Rose, dando in spose ai parenti di un ramo collaterale le proprie figlie, ultime eredi del patrimonio familiare (113).
Tuttavia la maggior parte dei matrimoni patrizi non veniva conclusa all'interno del "clan", né secondo una logica di "clan". Venivano invece privilegiati gli interessi della "fraterna", che si rafforzava cementando con una complessa rete di alleanze matrimoniali le amicizie rivelatesi preziose sotto il profilo politico, sociale ed economico. Si formavano così potenti consorterie aristocratiche, probabilmente identificabili con gli "amici e parenti" talora evocati dalle fonti come effettiva base sociale della politica veneziana (114). Così all'epoca della guerra di Cipro ebbe vaste ripercussioni il matrimonio fra Alvise di Marcantonio Barbaro e Marietta di Giacomo Foscarini: fortunata alleanza tra un casato già illustre per lo splendore delle sue tradizioni politiche, culturali ed ecclesiastiche ed una famiglia ricca per i proventi della mercatura ma non ancora ben inserita ai vertici del potere. Assieme alle altre prestigiose parentele dei Barbaro (prima fra tutte quella con Giovanni Grimani patriarca di Aquileia), "l'amicizia" fra Marcantonio Barbaro e Giacomo Foscarini rappresentò per oltre un ventennio uno dei principali punti di riferimento della vita pubblica veneziana, influendo sulle scelte urbanistiche come su quelle politiche, sul riassetto della platea marciana come sulla fondazione della fortezza di Palmanova (115).
L'importanza di questa consorteria, che alla fine del '500 controllava saldamente anche il patriarcato di Aquileia, fu ulteriormente confermata e rafforzata dall'alleanza contratta nel 1597 con Paolo Paruta. In quell'epoca il grande scrittore politico, già celebre presso i contemporanei per l'opera letteraria e l'attività diplomatica, si vedeva ancora ostacolato nella sua ascesa politica a causa dello scarso prestigio del suo casato (aggregato al patriziato appena nel 1381) ed anche per le spiacevoli polemiche seguite alla sua ambasceria romana, nel corso della quale aveva avanzato al pontefice proposte non ratificate dal senato. Egli cercò dunque di superare questi handicap combinando per il figlio maggiore Giovanni un matrimonio con Elena Barbaro, figlia del già citato Alvise: scelta strategica, che collocava i Paruta proprio al centro dell'alleanza fra i Foscarini e i Barbaro, cementando una intesa già manifestatasi pochi mesi prima nella votazione che aveva portato Paolo Paruta alla procuratia di San Marco. Quando poi, di lì a pochi mesi, la giovane Elena Barbaro morì, Paolo Paruta si pose a studiare un nuovo vantaggioso matrimonio per il figlio Giovanni, tenendone però informati i Barbaro, alla cui amicizia e collaborazione politica non voleva certo rinunciare: la loro corrispondenza ci consente di rilevare come dalla nuova sposa ci si aspettasse soprattutto una cospicua dote (116). Del resto, ogni giudizio sulla bellezza delle fanciulle patrizie era reso difficile dalla loro vita estremamente ritirata.
Nel descrivere i costumi matrimoniali del patriziato veneziano siamo singolarmente aiutati da alcuni scrittori contemporanei: infatti nella seconda metà del '500 gli uomini di lettere cominciavano a trarre un vivo piacere intellettuale dalla riflessione sulla varietà degli usi dei diversi popoli. In questo clima culturale, che a un livello più alto ci riporta ai nomi gloriosi del Sarpi, di Andrea Morosini e di Alvise Lollino, si colloca anche l'iniziativa del pittore e incisore cadorino Cesare Vecellio, che nel 1590 (e poi di nuovo nel 1598) ebbe la felice intuizione di proporre ai lettori gli "habiti... di diverse parti del mondo". In questo stesso libro in cui realizzava "la più accurata e paziente opera di divulgazione presso il pubblico italiano dei costumi degli amerindi", egli trovò il modo di ragguagliare i suoi lettori anche sopra "l'uso et instituto d'allevar le donzelle nobili in Venetia", lodandolo altamente (perché "è di somma e notabile honestà"), ma sottolineandone in modo inequivocabile la peculiarità (117):
Le donzelle nobili in Venetia [...> sono così ben guardate e custodite nelle case paterne, che ben spesso neanche i più stretti parenti le veggono, se non quando elle si maritano. E non è da tacere che molte di loro fino a quel tempo, conformandosi con riverente ubidienza alla volontà de' genitori, se ne stanno senza ornamento veruno. Queste, quando già cominciano ad essere grandicelle, vanno rarissime volte fuor di casa, e quasi non mai, se non per andare alla messa et ad altri ufficii divini in chiesa.
E già allora non mancò chi contrappose queste usanze alla relativa libertà di cui godevano le giovani della Terraferma, traendone acute conclusioni sulla relatività di concetti come quelli di pudore ed onore: fu questi Enrico Caterino Davila, cioè uno storico legato all'ambiente del Lollino e del Morosini (118). Ma la spregiudicatezza di questi letterati e la pubblicazione, intorno alla metà del '500, di opere che non si conformavano interamente alla concezione tradizionale del matrimonio patrizio (come l'umanistico De re uxoria di Francesco Barbaro), non incisero concretamente sulle pratiche matrimoniali, che continuarono ad essere concluse secondo la volontà delle famiglie, anche dopo che il Concilio di Trento ebbe formalmente ribadito la necessità del libero consenso degli sposi (119).
Perciò anche nella seconda metà del '500 i riti matrimoniali, così pittorescamente descritti da Francesco Sansovino e da Cesare Vecellio, continuarono a esprimere con chiarezza il reale significato delle nozze patrizie, in cui si privilegiava nettamente il ruolo dei capifamiglia. In un abboccamento preliminare essi si accordavano sul matrimonio e sull'ammontare della dote: la decisione veniva presa "senza veder la fanciulla" (120) e solitamente richiedeva la mediazione di un amico oppure quella di un vero e proprio sensale di matrimoni, il "golo", ricordato dalle leggi e retribuito in proporzione alla dote fissata (121). La mattina seguente, la felice conclusione delle nozze veniva resa nota alla città.
La stretta connessione tra la vita pubblica e quella privata del patriziato era palesata dalla scelta del cortile di palazzo Ducale come luogo in cui per eccellenza "si publica il parentado" (122). Qui era presente lo sposo, circondato dai parenti e congratulato da tutti i gentiluomini; mancava invece la sposa, che sarebbe apparsa solo nella cerimonia successiva, allorquando "s'invitano gli amici a casa del padre della sposa, per un giorno diputato a ora di vespro", presenti anche "i Consiglieri, gli Avogadori, i Savi, i Capi del Consiglio de Dieci, et insomma tutta la nobiltà" o meglio una sua ampia e autorevole rappresentanza (123). In età tridentina avrebbe progressivamente acquistato più netto rilievo anche "la messa [...> e benedittione del sacerdote", cui seguivano il trasporto della sposa alla casa dello sposo e nuovi festeggiamenti (124).
Ma forse ha ragione S. Chojnacki nel considerare come specialmente simbolico il momento in cui la giovane sposa veniva presentata ai parenti e agli amici con un elaborato cerimoniale, che prevedeva fra l'altro lo sfoggio di magnifici abiti ed i primi passi di ballo, e che dunque era particolarmente atto ad indicare "non solo che la giovane sposa emergeva pienamente dalla sua clausura nubile, ma anche che la vita degli adulti in cui adesso esordiva era una vita di compagnia e di divertimenti" (125).
Quest'osservazione può forse aiutarci a comprendere come non fosse del tutto priva di attrattive e di lusinghe la vita dei giovani e delle fanciulle patrizie che si assoggettavano a un matrimonio combinato. È del resto evidente che, per quanto l'etica nobiliare non prevedesse affatto il diritto dell'individuo alla libera ricerca della felicità, dovevano tuttavia sussistere nella società del tempo motivazioni all'obbedienza sufficientemente efficaci per giustificare l'estrema rarità dei casi di aperta ribellione a queste convenzioni.
Una forte influenza era certamente esercitata da un'educazione improntata al massimo rispetto per l'autorità paterna. Inoltre, dato l'intrinseco legame tra la società aristocratica e le istituzioni repubblicane, chi avesse vagheggiato di uscire dalle norme di comportamento tradizionali rischiava di trovarsi in una situazione senza via d'uscita: il giovane, che avesse cercato di forzare la mano alla famiglia per costringerla ad accettare il fatto compiuto di un matrimonio di sua scelta, rischiava una severa punizione sancita anche dall'intervento delle magistrature e dei consigli; e la fanciulla che fosse fuggita di casa poteva diventare anch'essa una sradicata, una avventuriera bandita dalla famiglia e dalla Repubblica, come accadde appunto alla celebre Bianca Cappello, poi perdonata per fredda ragion di stato quando ebbe infine sposato il granduca di Toscana (126).
Invece la totale sottomissione alla volontà dei genitori era parzialmente compensata, per i patrizi maschi, dalla relativa tolleranza che circondava le loro pratiche sessuali illecite. Certo, anche per un nobile la libertà dei costumi aveva dei limiti che non potevano essere valicati senza gravi rischi: non ci riferiamo tanto alla violenza sessuale, a riparare la quale potevano spesso bastare (secondo la giurisprudenza dei tribunali) congrui risarcimenti pecuniari (127), quanto piuttosto alla "sodomia" (non esclusivamente omosessuale). Le leggi tuonavano contro questo "nefandissimo, orrendo vizio e crimine della sodomia che attira i castighi dell'ira divina sulle città intere come mostra la città di Sodoma" (128). Con queste formule, non a caso attinte alle Scritture veterotestamentarie, si esprimeva una reale convinzione religiosa circa il rapporto esistente fra i peccati degli uomini e le sventure della Repubblica: i timori di sovvertimento dell'ordine sociale non erano certo assenti, ma erano per così dire inglobati in questa prospettiva totalizzante. Perciò contro questa ribellione all'ordine divino e naturale, largamente diffusa ai vertici e alla base della piramide sociale, lo Stato veneziano ingaggiò soprattutto nel '500 una lotta spietata che contemplava l'applicazione della pena di morte: supplizio spesso effettivamente comminato ed eseguito a scopo di deterrenza, oppure sostituito dal carcere, dal bando, dalla relegazione: solo verso la fine del '500 e nel secolo successivo sarebbe subentrato un atteggiamento relativamente più mite (129).
Una larga tolleranza circondava invece le relazioni con le prostitute, che sulla laguna si contavano a migliaia: lo sforzo discriminante delle leggi e dei magistrati colpiva non i clienti, ma le donne, e anche in questo campo era relativamente inefficace, quando c'erano di mezzo autorevoli protezioni. Il signore di Montaigne, che pure non trovò di suo gusto la bellezza delle più rinomate cortigiane (l'élite della professione), dovette constatare con stupore come ve ne fossero "centocinquanta o pressapoco" che "facevano in mobili e vestiti spese da principesse senz'altra fonte di guadagno che questo traffico; e molti nobili del luogo mantener pubblicamente delle cortigiane" (130).
In tale situazione, persino la scelta del celibato - imposta a molti patrizi da complesse strategie familiari volte alla conservazione del patrimonio o al controllo su pingui benefici ecclesiastici - poteva apparire relativamente tollerabile. Anche la nascita di qualche figlio naturale, frutto della diffusa pratica del concubinato, non costituiva affatto una vergogna da nascondere (131).
Le decisioni familiari incidevano in modo molto più drammatico sul destino delle giovani nobili: è infatti evidente che le fanciulle destinate al matrimonio risultavano di gran lunga privilegiate rispetto a quelle relegate nei conventi. Perciò un padre che avesse maritate tutte le figliole, come fece il ricchissimo Giacomo Foscarini, devoto ai gesuiti ma ostile alle monacazioni, poteva senza iattanza ricordare la propria "amorevolezza e pietà", nel momento in cui esortava anche gli eredi ad imitare in avvenire il suo esempio di padre "pietoso" (132).
Con il matrimonio la donna patrizia acquistava un rilievo sociale che contrastava in modo singolare con quella sorta di invisibilità che la aveva caratterizzata da nubile, quando era stata educata a casa o in convento. Ora il suo nuovo ruolo si palesava all'esterno nella partecipazione alle feste pubbliche e private e nel lusso straordinario di cui tendeva a circondarsi: le leggi suntuarie a stento riuscivano a contrastare l'estrema libertà della moda veneziana, di cui facevano parte integrante non solo l'uso delle perle e di vesti preziose, ma anche i cosmetici, i capelli tinti di biondo e la singolare usanza - rilevata dai viaggiatori ma poco e tardivamente combattuta dalle leggi - di scoprire interamente il petto. La nobildonna trionfava soprattutto nella sua maternità: il lusso con cui si addobbava la dimora della puerpera per ricevere le numerose gentildonne che venivano a congratularla era così ostentato che i provveditori alle pompe ed il senato si sentirono in obbligo di intervenire per porvi dei limiti (133). È però vero che a queste manifestazioni esteriori corrispondeva un effettivo ruolo delle madri nell'educazione dei figli fin dalla più tenera età (134).
Ma il momento in cui la gentildonna veneziana acquistava un più rilevante grado di autonomia, specie se sostenuta da un solido patrimonio, era costituito dalla vedovanza. Questo giudizio apparentemente paradossale si basa sulla valutazione dei riflessi sociali ed economici dell'istituto della dote, che già durante il matrimonio contribuiva almeno indirettamente ad elevare la considerazione di cui la sposa godeva in seno alla sua nuova famiglia. Infatti nel corso del '4-'500, di pari passo con la crescente importanza politico-sociale delle nozze patrizie, si era altresì innalzato il livello delle doti, che avevano quindi acquisito un rilievo sempre maggiore nell'economia delle famiglie. Nella seconda metà del '500 il livello massimo ufficialmente tollerato dalle leggi suntuarie fu elevato sino a 6.000 ducati, ma non per questo la norma divenne più realistica, né ebbe efficacia calmieratrice: in pratica in quell'epoca una ricca famiglia patrizia doveva esborsarne 20.000-25.000. E nel primo '600 anche un patrizio povero non avrebbe potuto accasare decorosamente una figlia senza una dote di almeno 2.000-4.000 ducati (135).
Questa dote, di cui la famiglia della sposa era costretta a privarsi (in via transitoria o definitiva a seconda delle successive vicende), era destinata ad aiutare lo sposo e la sua famiglia a sostenere gli oneri del matrimonio; però sul piano giuridico essa restava di proprietà della sposa. Ciò non incideva sulle modalità di amministrazione dei beni dotali, sicché in pratica il marito li gestiva assieme ai propri; ma la ben diversa natura della dote emergeva prepotentemente al momento dello scioglimento del matrimonio per morte di uno dei coniugi. La donna, premorendo al marito, poteva certo lasciare che la dote pervenisse ai suoi naturali eredi (e allora essa spettava ai figli, se c'erano, o alla famiglia d'origine; molto raramente, e solo nell'assoluta mancanza di altri eredi, al marito). In alternativa, però, la donna poteva liberamente disporne per testamento, non solo a favore del marito e dei figli, ma anche a vantaggio della famiglia d'origine (136).
Se invece era la donna a restare vedova, le leggi venete e le procedure del magistrato del proprio tutelavano efficacemente il suo diritto a una rapida restituzione della dote. Gli eredi del defunto avrebbero in teoria potuto trattenerne un terzo; ma molti mariti, in segno d'amore verso le mogli, provvedevano per via testamentaria ad imporre ai familiari il pagamento integrale, talora anche con un rilevante accrescimento. Le leggi avevano provveduto anche per l'eventualità che il marito si fosse rivelato un cattivo amministratore: la moglie poteva allora avviare tempestivamente, vivente il coniuge, una procedura legale atta ad assicurare la propria dote dall'assalto dei creditori (137).
È vero che una così rigorosa difesa dei diritti delle vedove si rendeva necessaria proprio a causa della delicatezza della loro posizione: infatti anche quando potevano contare pure su altri beni, provenienti dai legati di parenti o da regali, la dote rappresentava per loro il principale sostegno durante la vedovanza e in vista di eventuali seconde nozze. Per il resto la donna, in quanto già dotata, non poteva accampare ulteriori pretese sull'eredità paterna, ma solo su quella materna; e gli Statuti veneziani limitavano di molto l'ampiezza e l'efficacia delle disposizioni lasciate dai mariti per garantire alle mogli autorità e rispetto nel caso in cui avessero scelto di trascorrere la vedovanza nella casa maritale (138).
In compenso, una volta recuperata più o meno pacificamente la disponibilità della dote, la vedova era in grado di compiere liberamente (anche se forse sotto l'influenza psicologica della famiglia di origine) scelte drastiche come quella di lasciare la casa maritale e passare a nuove nozze, senza curarsi soverchiamente dei figli di primo letto. Al loro mantenimento e alla loro educazione avrebbe dunque dovuto provvedere la famiglia del defunto, già messa in difficoltà dalla perdita della dote. Eppure i parenti dello scomparso non potevano far altro che rassegnarsi, salvo poi inserire anche questa disgrazia nell'elenco delle sventure addotte per giustificare la richiesta di sgravi fiscali e di sovvenzioni statali (139).
Va infine osservato che le rilevanti disponibilità delle ricche vedove consentivano loro di procedere a proficui investimenti: non a caso le gentildonne veneziane erano attivamente presenti, verso la fine del '500, sul mercato dei prestiti a garanzia fondiaria (140).
Ma se l'istituto della dote si rifletteva positivamente sulla condizione delle nobili maritate e vedove, esso d'altra parte costituiva una fonte di gravi preoccupazioni per molti gentiluomini, che cercavano di sottrarsi a quest'onere alimentando così il fenomeno delle monacazioni forzate (come nel resto dell'Europa cattolica, certamente). In effetti, alla luce dei livelli raggiunti dalle doti, collocare le figlie in convento era assai più conveniente: verso la fine del '500 l'assegnazione richiesta era di circa mille ducati, più altri cinquecento di mobili e arredi (141).
Quanto poi alla disponibilità delle fanciulle a sacrificarsi, essa dipendeva in parte dall'educazione nobiliare e in parte dalle effettive condizioni di vita nei conventi. Nel primo '500 i monasteri veneziani avevano goduto di una seducente e chiacchieratissima libertà, che li aveva resi famosi come sede di onesti ritrovi e persino come luoghi di piacere (142).
Dopo il Concilio di Trento vi fu applicata più severamente la clausura, ma la Repubblica difese strenuamente la propria prerogativa di vigilare tramite i provveditori sopra i monasteri sull'osservanza della disciplina. La Santa Sede era ben consapevole che i patrizi, mentre cercavano di convincere le figlie a rassegnarsi in ossequio agli interessi familiari, erano d'altra parte interessati a temperare per quanto possibile l'asprezza di quella reclusione senza speranza, che avrebbe suscitato nel '600 la vivace protesta della Tarabotti (143).
Il movente principale che giustificava queste scelte dolorose consisteva nella necessità di prevenire la minaccia di una dispersione del patrimonio familiare. Questa spiegazione generale deve però essere posta in rapporto con i caratteri essenziali del patriziato e con l'evoluzione subita dall'economia veneziana nel corso del '500. Come ha ben osservato J. C. Davis a proposito di uno di questi casati (144):
I Donà e le altre famiglie ricche e politicamente attive avevano bisogno del denaro [...> per svolgere quelle carriere politiche che portavano loro prestigio, mantenevano la loro posizione nella classe dominante e soddisfacevano il loro orgoglio nel continuare le tradizioni di famiglia. La trasformazione in proprietari terrieri nella seconda metà del XVI secolo diede ai Donà e a molte altre ricche famiglie veneziane un motivo particolare per conservare la ricchezza: il loro patrimonio consisteva ora, principalmente, di terre e non poteva essere reintegrato altrettanto facilmente che nei giorni di fiorente commercio.
Per soddisfare analoghe esigenze le nobiltà di altri paesi si avvalevano degli istituti del fidecommesso e della primogenitura. Mediante il primo si istituiva, di solito per via testamentaria, un vincolo di inalienabilità sui beni familiari, che dovevano dunque rimanere in perpetuo al casato del testatore; con la seconda si stabiliva l'indivisibilità dei beni così vincolati, destinandoli a uno solo dei figli (solitamente il primogenito), che a sua volta avrebbe dovuto attenersi rigidamente, nelle sue ultime volontà, all'ordine di successione prefissato da chi aveva istituito il fidecommesso (145).
L'originalità del caso veneziano consiste nel fatto che, anche quando l'uso del fidecommesso vi si diffuse ben più largamente che nel tardo Medio Evo (ciò che pare essere accaduto nella prima metà del '500), non si ricorse se non in misura estremamente limitata alla primogenitura. In apparenza, dunque, la perdurante consuetudine della divisione dell'eredità in parti eguali - rilevata e lodata ancora nel '700 dal Montesquieu - avrebbe dovuto causare la dispersione del patrimonio tra le nuove famiglie sorte dal matrimonio dei figli maschi, per non parlare dell'ulteriore intacco determinato dall'assegnazione della dote alle figlie. Ma in questo contesto acquistavano un particolare rilievo e trovavano la loro giustificazione funzionale i già ricordati fenomeni del celibato maschile e delle monacazioni.
Nel '500 si andò progressivamente diffondendo l'abitudine di far sposare solo uno dei figli (non necessariamente il primogenito), o tutt'al più due. Gli altri figli potevano abbracciare la carriera ecclesiastica o quella politica (senza peraltro chiudere la porta a una futura dignità in seno alla Chiesa): essi ottenevano bensì la loro parte dell'eredità paterna, ma poi, non potendola alienare a causa del fidecommesso, finivano col lasciarla per testamento ai figli del fratello. Per questa via l'unità del patrimonio poteva ricostituirsi ad ogni generazione (146).
Quanto alle doti delle figlie, si ricorreva a vari accorgimenti per ridurne l'incidenza: le monacazioni, innanzi tutto; si contava poi sull'attaccamento delle figlie alla famiglia d'origine, nella speranza che, una volta venute in possesso della dote, si ricordassero di disporne a vantaggio dei fratelli e dei loro eredi; infine, si cercava di mantenere una sorta di equilibrio dinamico tra doti pagate e doti ricevute. Se non si riusciva a combinare per il figlio un matrimonio conveniente in seno al patriziato, le leggi ed il costume non escludevano le nozze con la figlia di qualche ricco cittadino: matrimonio perfettamente valido ai fini dell'ammissione dei discendenti al maggior consiglio.
Se è vero che questi casi di ipergamia femminile attenuarono l'incidenza delle monacazioni sull'andamento demografico del patriziato, tuttavia nel complesso i comportamenti matrimoniali dell'aristocrazia finirono coll'incidere sulle sue dimensioni, sicché già alla fine del '500 si manifestò un evidente declino numerico (147). Inoltre, il fatto di avere in pratica affidato la continuità del nome a un solo figlio sposato per ogni generazione accresceva il rischio d'estinzione di molti casati.
C'erano, è vero, altri figli dei patrizi; ma si trattava in questo caso di illegittimi, che non sarebbero mai potuti entrare nel maggior consiglio: perciò essi confluivano in quel singolare ceto semiprivilegiato, eterogeneo nelle sue origini ma reso in qualche modo unitario dalle prerogative e dallo stile di vita nobiliare, che i Veneziani del '500 definivano come la "cittadinanza originaria".
In un famoso studio sulla vita delle società del mondo mediterraneo nella seconda metà del '500 Fernand Braudel si interrogò sulle ragioni che avevano indotto le borghesie dell'Europa meridionale, dalla Spagna all'Italia, ad abbandonare progressivamente i traffici in favore della rendita fondiaria e delle cariche pubbliche, assumendo altresì lo stile di vita tradizionalmente appartenuto alla nobiltà. Veniva così formulata l'idea di una sorta di "tradimento della borghesia", concetto che peraltro lo stesso Braudel si preoccupò di mettere a fuoco precisando che in quest'epoca "non esiste ancora una classe borghese che senta veramente di costituire una classe sociale". Perciò l'ambizione dei ricchi borghesi non era quella di sostituirsi all'aristocrazia, bensì semmai di cercare di inserirvisi, o almeno di collocarvi le proprie figlie come spose (148).
Molte di queste caratteristiche si potevano ritrovare nel ceto dei "cittadini" di Venezia, che lo storico francese citava esplicitamente a titolo d'esempio, sottolineando la loro scarsa consistenza demografica, che ne faceva un gruppo non molto più numeroso dello stesso patriziato; e ciò poteva spiegare, con altre concomitanti ragioni, la timidezza dei loro comportamenti politico-sociali. In effetti anche nei secoli successivi il ceto cittadino avrebbe seguito un'evoluzione sostanzialmente coerente con lo schema tracciato dal Braudel: a metà '600 alcuni fra i cittadini più ricchi si sarebbero affrettati a procurarsi l'aggregazione alla nobiltà veneta ed il diritto di accedere al maggior consiglio mediante l'esborso dell'enorme somma di centomila ducati, approfittando dell'occasione offerta dalle difficoltà finanziarie della Repubblica impegnata nella guerra di Candia (149). Né mai i cittadini avrebbero sfidato le magistrature della Repubblica o preteso una propria rappresentanza, se si eccettua il singolare ma modesto tentativo degli influenti segretari della cancelleria ducale, che nel 1629 cercarono di riunirsi in assemblea a tutela di interessi corporativi, salvo a rinunciarvi subito di fronte alla tempestiva reazione del consiglio dei dieci (150).
È però lecito chiedersi se alla chiarezza del quadro delineato dal Braudel, pur così ricco di valide intuizioni, non avesse in parte nuociuto l'applicazione alle società di Antico Regime di un concetto storiografico ambiguo come quello di "borghesia". In alternativa all'uso di un termine così carico di significati polemici è stato perciò ripetutamente proposto il concetto di "ceto medio", inteso nel senso di "ceto intermedio fra la nobiltà e il popolo" (151). In particolare nel caso di Venezia quest'uso pare autorizzato almeno da una parte della trattatistica cinque-seicentesca che, come abbiamo già ricordato, ravvisava nella società veneziana la presenza dei tre ceti della "nobiltà", dei "cittadini" e del popolo (o degli abitanti, o degli "artefici").
Anche questa definizione dei "cittadini" non è però priva di problemi, che sono stati recentemente esaminati da J.S. Amelang. Quest'autore individua come "appartenenti al ceto medio" nelle società di Antico Regime "gli artigiani più ricchi, i negozianti, i mercanti, i professionisti, i banchieri e i funzionari governativi"; ma aggiunge molto opportunamente che i contemporanei si interessavano soprattutto agli strati superiori di questo ceto, i soli che parevano meritare la qualifica di "cittadini". Tale è appunto il caso di Venezia, dove non erano ammessi nella "cittadinanza" né gli artigiani, per quanto abili ed affermati, né i bottegai, salvo rare eccezioni (152).
Alla luce di queste precisazioni, possiamo definire i cittadini veneziani del '5-'600 come un'élite del ceto medio; mentre nell'ordine inferiore, quello del popolo, non troviamo solo la plebe, ma anche elementi sociologicamente attribuibili al ceto medio: sicché la stessa fondamentale discriminazione tra lavoro manuale e lavoro non manuale non costituisce un elemento di separazione fra i due ceti, ma passa all'interno del popolo (153).
Dato che i questionari e i moduli a stampa dei censimenti veneziani erano ordinatamente suddivisi secondo i tre ordini, possediamo per il '5-'600 diverse rilevazioni sulla consistenza numerica del ceto cittadino. Nel 1563 i suoi membri erano complessivamente, tra maschi e femmine, adulti e bambini, 13.604, pari a circa l'8% della popolazione censita. Scesero nettamente dopo la peste del 1576: nel 1581 se ne contarono 7.209 (pari al 5,3%) e nel 1586 poche centinaia in più. Una consistente ripresa dovette però manifestarsi tra la fine del '500 e il primo '600: sicché anche dopo la falcidia prodotta dalla peste del 1630 ne furono registrati - nell'anno 1642 - ben 9.358, pari al 7,7% (ma nel 1624 erano stati forse più di 10.000) (154).
Ci sono però fra queste cifre oscillazioni difficilmente spiegabili in termini di movimento naturale della popolazione e di movimento migratorio: perciò ci si è chiesti se i criteri adottati per individuare i "cittadini" siano rimasti costanti lungo l'arco cronologico qui considerato. Il dubbio pare fondato (155). In teoria, dato che i "cittadini" costituivano un ceto dotato di rilevanti privilegi, peraltro molto diversificati a seconda del tipo di cittadinanza, gli interessati avrebbero dovuto poter dimostrare la propria condizione mediante attestazioni rilasciate dalle magistrature competenti: l'avogaria di comun accertava il diritto alla prestigiosa "cittadinanza originaria"; i provveditori di comun proponevano al senato, sulla base di una legge del 1552, la concessione della cittadinanza de intus et extra ai ricchi mercanti forestieri venuti a risiedere a Venezia da almeno venticinque anni, in modo da abilitarli a navigare e negoziare con tutti i diritti dei Veneziani negli scali tradizionali del commercio veneto; laddove per l'esercizio di meno rilevanti attività economiche nella stessa Venezia o per poter occupare modesti uffici pubblici sarebbe bastata la cittadinanza de intus, che veniva accordata dopo quindici anni di residenza, riducibili a otto per chi aveva sposato una veneziana (156).
Scopriamo però che non tutti gli aventi diritto si preoccupavano di richiedere la concessione della cittadinanza per privilegio, forse perché la sorveglianza sull'usurpazione del titolo e sui casi controversi variava a seconda dell'intensità e dell'asprezza della concorrenza commerciale fra i Veneziani di antica origine e i nuovi venuti. Così, mentre nel 1534 il senato era stato energicamente sollecitato ad assumere provvedimenti restrittivi circa il conferimento della cittadinanza de intus et extra onde favorire i "nostri nobeli et citadini originarii" (157), nel 1589 fu invece solo in virtù della segnalazione di certi zelanti funzionari che ci si accorse della disinvolta procedura adottata da alcuni mercanti, i quali avevano praticato una sorta di autocertificazione della cittadinanza: consapevoli di essere in possesso delle condizioni previste dalle leggi, essi si erano infatti accontentati di farsi riconoscere come Veneziani dai dazieri. Il senato intervenne; ma riconobbe la buona fede dei mercanti, concedendo un'amnistia per le passate irregolarità (purché le leggi fossero state nella sostanza rispettate); nel contempo fu definitivamente imposto l'obbligo di richiedere la "grazia" della cittadinanza, per poter esercitare i relativi privilegi (158).
Eppure la definizione della cittadinanza conservò anche in seguito un certo margine di approssimazione. Le istruzioni inviate dai provveditori alla sanità ai parroci che, accompagnati da un nobile e da un cittadino, compilavano i registri dei censimenti, attestano che in pieno secolo XVII si usava una procedura molto spiccia e informale per individuare chi fossero i cittadini: "per cittadini metterete avvocati, medici, notari et altri che esercitano professione civile et anco li preti che non sono nobili" (159). L'idea che stava alla base di questa classificazione non era del tutto assurda, in quanto già da tempo queste professioni erano state riservate ai soli cittadini (oppure ai cittadini e ai nobili insieme, come l'avvocatura e l'ingresso nel clero secolare) sotto la sorveglianza delle magistrature competenti. Colpisce tuttavia in questa definizione il margine di ambiguità connesso sia alla vaghezza di un criterio come quello della "professione civile", sia al silenzio dei provveditori su temi importanti come quello della collocazione dei mercanti e della loro differenziazione dai bottegai: evidentemente, al di là delle regole scritte, doveva esistere un largo consenso sociale che consentiva di definire queste situazioni, ma non sempre con assoluta uniformità.
Così, intorno al 1630 i mercanti sono senz'altro collocati tra i cittadini; però alcuni mercanti di vino e mercanti "da fontego" (del frumento) sono registrati come popolani. Anche i "sanseri" o sensali figurano in entrambi i ceti. La medesima incertezza si ritrova nei gradi inferiori delle libere professioni, specie tra i "solicitadori" che affiancano gli avvocati. Nelle arti, i musici sono generalmente popolani, più raramente cittadini (soprattutto chierici, come Claudio Monteverdi). Più netta la prevalenza degli "artefici" fra i pittori; ma ci sono anche quelli che, provenienti da antica famiglia veneziana, giungono a provare all'avogaria la cittadinanza originaria (160). Tutti popolani (o meglio "artefici") sono gli artigiani delle varie Arti, ed anche i tipografi (inclusi i Pinelli stampatori ducali) e la maggior parte dei librai; però uno di questi, che si avvale di un fattore e forse non esercita direttamente il commercio, è riconosciuto come cittadino (161).
Un caso particolarmente complesso è quello degli uffici burocratici minori che sono ricoperti da "fanti", "comandatori" ecc. Le leggi richiedevano come condizione minima per l'esercizio di tali funzioni il possesso della cittadinanza de intus. Ciò nonostante, un autorevole trattatista della seconda metà del '500, il segretario del consiglio dei dieci Antonio Milledonne, aveva considerato quegli uffici come appannaggio dell'elemento popolare, forse perché nel '4-'500 era mutata l'immagine sociale dei "cittadini", cui era stato attribuito un prestigio sociale chiaramente incompatibile con la permanenza nelle loro file di quanti esercitavano quelle più umili mansioni esecutive.
I censimenti del '600 sembrano adeguarsi a questa nuova mentalità, in quanto collocano uniformemente tra gli "artefici" i funzionari popolani già individuati dal Milledonne. Rimangono però due rilevanti eccezioni: il capitano grande del consiglio dei dieci e l'"armiraglio" del porto sono indicati come cittadini. In questi casi, evidentemente, il rispetto che circondava la carica ne aveva tenuto alto il prestigio sociale, nonostante il diverso parere del Milledonne e del Botero (162).
Queste oscillazioni ed imprecisioni dei censimenti non sono tuttavia inspiegabili, né devono essere considerate in reale contrasto con gli elogi spesso rivolti dai contemporanei e dagli storici all'efficienza della burocrazia veneziana. Questa va infatti valutata in relazione al suo tempo e soprattutto in rapporto al livello dei servizi amministrativi percepiti come necessari dal ceto di governo. Ora, senza voler negare l'importanza economico-sociale dei gradi inferiori della cittadinanza e delle distinzioni sociali reperibili all'interno dello stesso ceto popolare, va tuttavia rilevato che le autorità di governo rivolsero le proprie preoccupazioni soprattutto alla definizione dei ceti e dei corpi collocati ai vertici della scala sociale. Difatti, come già si è ricordato, un'attenta sorveglianza fu rivolta fin dal '300 a prevenire l'usurpazione del grado nobiliare, mentre solo nei secoli seguenti - per un evidente processo di imitazione - un analogo controllo fu indirizzato alla delimitazione verso il basso di quella élite cittadina, che si fregiava della "cittadinanza originaria" e che per molti aspetti doveva sentirsi più vicina al patriziato che non ai cittadini per privilegio de intus et extra.
Partendo da un'attenta lettura delle leggi relative ai "cittadini originari" lo storico settecentesco Vettore Sandi arrivò a interessanti conclusioni sulle modalità di svolgimento di questo processo (163):
[...> Giunse la metà del secolo XV. Ecco l'epoca in cui pensò il governo, e per sua dignità, e per suo maggior servigio, di separar dalla mole de' sudditi abitanti in Venezia un corpo di civili persone con titolo di cittadini originari: lo fortificò in serie de' tempi con leggi e decreti, che ne stabilirono li requisiti e le prove de' medesimi, appoggiandone a gravi magistrature ed a' Consigli l'esame e il processo. Questa è quella classe li di cui singolari [individui> sono stati abilitati a concorrere ad un ordine della Cancelleria ducale [...>.
In realtà l'opera del ceto di governo consistette nel sanzionare e nel finalizzare a esigenze di conservazione dell'ordine politico l'ascesa sociale di quelle influenti famiglie cittadine, che più stabilmente si erano inserite nella vita veneziana e che tuttavia non potevano coronare le loro aspirazioni con l'ingresso nel maggior consiglio, perché erano immigrate a Venezia solo in epoca relativamente recente o comunque, anche se native, erano uscite dall'oscurità solo dopo il compimento del processo di chiusura del patriziato (164).
A questi elementi furono via via riservate le maggiori cariche delle Scuole grandi, dedite ad opere di carità e di devozione, il notariato, che fino al '400 era stato appannaggio di preti-notai, i posti di notaio e di "massaro" degli uffici amministrativi di Rialto e di San Marco, assegnati con durata quadriennale dalla quarantia criminale e, più importanti di tutti, i posti di notaio e segretario della cancelleria ducale, sottoposti al voto del consiglio dei dieci. Le "castellanie" della Terraferma e della Dalmazia continuarono invece ad essere accessibili anche ai non Veneziani; ma almeno i "cittadini originari" videro esclusi quei temibili concorrenti che erano gli stessi patrizi veneziani (165).
Nell'insieme, questi provvedimenti legislativi configurarono all'interno dell'amministrazione veneziana un complesso di uffici da cui erano contemporaneamente esclusi sia i nobili, sia coloro che non possedevano la cittadinanza o che avevano ottenuto solo quella per privilegio: il tutto ad esclusivo vantaggio dei "cittadini originari". Infatti questo gruppo, che comprendeva anche ricchi mercanti e liberi professionisti, era deciso a sfruttare fino in fondo i privilegi della propria condizione.
Nel 1508 un dibattito davanti al collegio ci mostra gli "originari" impegnati a sostenere la loro interpretazione di una norma trecentesca sui sensali del fondaco dei Tedeschi, col chiaro obiettivo di escludere da queste lucrose intermediazioni commerciali i concorrenti di rango sociale inferiore (166). Costoro asserivano che la legge invocata dagli "originari" era decaduta per desuetudine; in ipotesi subordinata, cercavano di far valere i privilegi di cui godevano le varie arti dei "botteghieri", oppure vantavano il possesso della cittadinanza de intus, che nel '400 la Repubblica aveva concesso ai sudditi delle città della Terraferma recentemente sottomesse. Gli "originari" replicavano con abilità, cercando di dimostrare che la vecchia legge era ancora attuale; ribadivano la distinzione tra la funzione dei mercanti e quella più modesta dei bottegai ("l'è officio de' botteghieri vender a minudo, e non in grosso") e segnalavano la distanza che separava la loro cittadinanza da quella degli immigrati bergamaschi ("detto privilegio suo è limitado e qualificado, e per quello non sono cittadini originarii"). Ma la sicurezza con cui gli "originari" replicavano ai loro avversari si fondava soprattutto sulla perfetta conoscenza della legge e sull'appoggio di importanti magistrature: fattori decisivi, cui probabilmente non era estranea la comunanza di ceto, e talvolta anche l'amicizia e la parentela coi segretari della cancelleria ducale.
La cancelleria era per i patrizi veneziani "il cuore del nostro stato" (cor status nostri). Era un'istituzione già organicamente sviluppata e ricca di illustri personalità nel secolo XIV; ma in quell'epoca essa era ancora aperta all'afflusso di elementi forestieri. Invece il suo organico collegamento con il ceto cittadino era intervenuto, come aveva notato Vettor Sandi, intorno alla metà del secolo successivo per mezzo di una serie di deliberazioni emanate tra il 1443 e il 1478. Anche allora il consiglio dei dieci si sarebbe riservato l'autorità di poter ammettere alla cancelleria i sudditi del dominio veneto; ma in pratica dopo quella data il controllo degli "originari" sulla carica di notaio e di segretario sarebbe stato pressoché totale (167).
Riflettendo su questa evoluzione dei criteri di reclutamento, ci si è potuti chiedere se il rifiuto di ammettere i sudditi di Terraferma all'interno del principale corpo di funzionari della Repubblica non abbia rappresentato un oggettivo limite dello sviluppo dello Stato veneziano in vista del superamento, mai pienamente realizzato, della sua antica dimensione di stato cittadino: tanto più che in questo modo il corpo dei segretari non si amalgamò con il resto della burocrazia veneziana, ma rimase limitato a una ristretta élite, che affiancava i magistrati e i consigli della Dominante e gli ambasciatori all'estero, nonché i comandanti navali nello Stato da mar, ma restava quasi completamente assente dallo "Stado italico" conquistato nel '400 (168). Si tratta di osservazioni sicuramente valide, soprattutto se proiettate in una prospettiva plurisecolare; ma intanto, a più breve scadenza, l'attribuzione degli uffici di cancelleria agli originari aveva contribuito - fra '400 e '500 - a creare un ambiente sociale relativamente omogeneo cui attingere per il reclutamento e la formazione di un corpo di funzionari di professione.
A questo fine la vecchia definizione della cittadinanza originaria, di origine trecentesca, doveva rivelarsi sostanzialmente inadeguata: le magistrature si affannarono a ridefinirla, sia pure fra mezzo a notevoli difficoltà. Da un lato infatti, la cittadinanza originaria era stata tradizionalmente riconosciuta a chi era nato a Venezia e poteva vantare origini veneziane. D'altra parte, tuttavia, essa stava diventando il simbolo di uno status sociale particolarmente elevato: difatti ci si aspettava che i "cives populares" (come ancora si chiamavano in quest'epoca) fossero in grado di rappresentare dignitosamente Venezia come castellani in qualche località del Dominio; e che facessero studiare ai loro figli la cultura classica - sia pure coll'aiuto dello Stato, che fondò all'uopo la Scuola di San Marco - perché potessero poi presentarsi come candidati alla cancelleria. Inoltre si pretendeva dagli "originari" che essi fossero nati da matrimoni celebrati nel rispetto di tutte le formalità e che la loro famiglia avesse messo stabili radici a Venezia da più generazioni. Si chiedeva altresì che la cittadinanza venisse provata davanti alle più autorevoli e temute magistrature, come il consiglio dei dieci e l'avogaria di comun. Finalmente tra il 1559 e il 1569 si diede ordine e completezza alle "prove della cittadinanza" per l'ammissione agli uffici riservati agli "originari" (non solo la cancelleria, ma anche i posti di notaio, scrivano, coadiutore e massaro degli officia di Rialto e di San Marco, nonché posti di cancelliere inferiore, gastaldo ducale, gastaldo e notaio di procuratia...). Il candidato fu obbligato a provare la nascita a Venezia ed i legittimi natali non solo suoi, ma anche del padre e dell'avo (169).
Non fu subito detto apertamente che a queste condizioni doveva aggiungersi anche l'obbligo di dimostrare che da tre generazioni la famiglia era vissuta "civilmente", cioè secondo uno stile di vita nobiliare, con la conseguente astensione dalle cosiddette "arti meccaniche", compreso il commercio al minuto. Ma questo ulteriore criterio discriminante, che ben rispondeva al generale clima dell'epoca ed al processo di progressiva chiusura aristocratica del ceto cittadino, fu rapidamente introdotto (fin dagli anni '70) dalla giurisprudenza degli avogadori e dei loro notai, che erano essi stessi dei "cittadini originari". L'esclusione delle arti meccaniche fu inoltre fatta passare per via indiretta attraverso la legislazione sulle nozze dei nobili e sulle condizioni per l'accesso al maggior consiglio. Infatti l'importante privilegio di poter dare le figlie in spose ai patrizi, tradizionale prerogativa del ceto cittadino, fu sottoposto a partire dal 1589 all'esplicita condizione che tra le spose dovessero respingersi "quelle che fossero nate di padre et avo, che avesse esercitato arte mecanica e manual, overo di altra conditione simile a questa" (170). Ma solo nel secolo successivo, con una legge votata dal maggior consiglio nel 1641, l'inchiesta sull'eventuale esercizio di qualche arte da parte del candidato o dei suoi avi entrò esplicitamente a far parte delle procedure per l'ammissione alla "cittadinanza originaria", probabilmente in risposta a sollecitazioni provenienti da questo stesso ceto. Se ne coglie l'eco nei versi di un borioso cittadino, il poeta Giovan Francesco Busenello (1598-1659), discendente da un'importante famiglia di segretari. Nella poesia El mondo alla moda egli così satireggia gli sforzi di qualche nuovo ricco per far dimenticare le sue modeste origini (171):
E si se trova l'arte manoal
Del pare, nono e bisnono in la schiatta,
Ghe sia la gratia per sta volta fatta
D'esser fra i cittadini original.
El possa senza tara comparir
In mezzo della zente più stimada;
Anzi, ghe sia la gratia despensada
Starlo, col parla lu, tutti a sentir [...>.
La legge decisiva era stata comunque quella del 1569. A partire da quella data vi fu una più sistematica registrazione e conservazione delle "prove" di ammissione, che ci consentono di capire meglio quali fossero verso la fine del '500 i principali gruppi di cui si componeva la "cittadinanza originaria".
Una componente di rilevante importanza era costituita da quei cittadini che, pur discendendo da casati patrizi, non erano stati ammessi al maggior consiglio perché il padre, l'avo o un più remoto antenato non avevano ottemperato a tutte le condizioni previste dalle leggi sulla nobiltà: per esempio, avevano sposato una donna di bassa condizione, oppure avevano avuto una relazione fuori del matrimonio. È vero che anche in questi casi il padre poteva ottenere la legittimazione dei figlioli, o sposandone la madre, o rivolgendosi all'autorità: ai conti palatini, fino al 1613, e poi alla Signoria, dopo che questa ebbe avocato interamente a sé la delicata materia (172). Però la legittimazione, che pure aveva una notevole rilevanza sotto il profilo del diritto ereditario, non modificava affatto la condizione sociale dei figli che, naturali o legittimati, rimanevano comunque esclusi dal patriziato.
La gravità di questa privazione era peraltro temperata dalle leggi e dal costume. Infatti un'antica consuetudine concedeva la cittadinanza originaria a quanti potevano provare che il padre era un nobile veneziano. In genere ciò doveva riuscire abbastanza agevole, in quanto i patrizi si mostravano solleciti per la sorte della prole illegittima: alcuni padri si presentavano essi stessi all'avogaria a richiedere questo privilegio per i figli, oppure accettavano di buon grado di deporre a loro favore (173). Molti ricordavano i figli naturali nei loro testamenti. È vero che le leggi del '5-'600 tesero a discriminare la prole illegittima, imponendole una tassa del 5% ed escludendola dalla successione ab intestato, cui erano invece ammessi i legittimati; non si poté però impedire ai padri di destinare ai figli naturali dei lasciti talora modesti, talora invece più cospicui; specialmente nel caso in cui fossero venuti a mancare figli o nipoti legittimi, il figlio naturale poteva perciò ricevere in eredità anche l'intero patrimonio paterno non sottoposto a fidecommesso (174). Del resto, il testamento era solo l'ultimo segno di un affetto che si era manifestato fin dalla nascita dell'illegittimo: il padre assisteva al suo battesimo, gli procurava dei nobili padrini, lo faceva allevare nella propria casa o almeno partecipava alle spese per il suo mantenimento, ne curava gli studi e cercava di procurargli una dignità ecclesiastica o un ufficio amministrativo. Spesso, quando non c'erano sul tappeto dolorosi contrasti per l'eredità, questi rapporti di amorevole protezione continuavano a legare il figlio naturale anche ai nobili parenti del padre defunto: zii, cugini e fratellastri erano spesso disposti a deporre davanti all'avogaria in favore del congiunto illegittimo; talora ricorrevano ai suoi servigi per curare i loro affari nel Levante, oppure lo portavano con sé nell'esercizio di magistrature e rettorati, magari in qualità di cancelliere (175).
Quando non abbracciavano la carriera ecclesiastica, spesso gli illegittimi sposavano la figlia naturale di qualche patrizio, oppure una giovane di buona famiglia cittadinesca. Da quelle nozze traeva dunque origine una nuova casata, che talora poteva vantare tra i suoi antenati persino qualche doge, ma che progressivamente veniva assimilata all'interno della cittadinanza originaria, con la quale condivideva la condizione giuridica ed il ristretto ambito delle possibili scelte occupazionali: la mercatura, gli uffici o le libere professioni, come l'avvocatura, in cui eccelse Pietro Badoaro o Badoer, autore di un importante volume di Orationi civili (176). Fin dal '400 le leggi escludevano gl'illegittimi dai più prestigiosi uffici della cancelleria ducale; ma un'interpretazione meno rigida vi ammetteva spesso i loro discendenti, purché nati da legittime nozze. Si spiega così (a prescindere dai pur frequenti casi di omonimia fra casati patrizi e cittadini) la presenza di funzionari dai nomi altisonanti: Pietro Nani, Filippo Garzoni, Giulio Priuli segretario del senato...
Se questi figli di nobili ci appaiono molto lontani dal costituire il nucleo di una moderna borghesia, essendo evidente nelle loro suppliche la nostalgia per la condizione patrizia degli avi, nemmeno i discendenti di gloriose famiglie mercantili appaiono portatori di valori che possano essere polemicamente contrapposti a quelli della società aristocratica in cui sono inseriti. Questi mercanti o figli di mercanti figurano in numero rilevante nelle domande di riconoscimento della "cittadinanza originaria"; ma la funzione della mercatura nella genesi del ceto cittadino ci apparirebbe ancor più decisiva se potessimo sempre risalire alle origini di quelle famiglie di possidenti, funzionari e liberi professionisti, che con ogni probabilità avevano tratto proprio dalle attività connesse alla vita dell'emporio un patrimonio capace di sostenere la loro ulteriore ascesa sociale, fondata sull'adozione di uno stile di vita nobiliare (tale è in fondo il significato del vivere "civilmente") e su un'accurata e costosa educazione dei figli.
In una città come Venezia, dove la tradizione dei traffici era alla base di molta parte delle stesse ricchezze patrizie, l'origine mercantile non rappresentava certo un'ombra disonorevole per le casate cittadine, purché - giusta una celebre distinzione mutuata da Cicerone - il commercio fosse stato esercitato su larga scala. Questo è il motivo per cui nelle testimonianze presentate all'avogaria la figura dell'antenato mercante tende ad adeguarsi a uno stereotipo: quello del "mercante onorato", notoriamente ricco, ben conosciuto e apprezzato a Rialto e tenuto in molta considerazione anche dal patriziato. Quando non è proprio possibile definirlo come un grande mercante, lo si presenta per lo meno come un grossista; se poi nella sua bottega si vendeva al minuto, non era certo lui a provvedervi, ma se ne incaricavano fattori e garzoni.
A volte si ha l'impressione che dietro l'accettazione di certe domande di cittadinanza vi fossero manovre, pressioni e - soprattutto - un notevole scarto tra l'esito imbarazzante degli interrogatori e la più benevola deliberazione degli avogadori. C'erano infatti dei testimoni i quali, pur essendo stati citati ad istanza del supplicante, deponevano di avere visto il padre o l'avo del candidato intenti a vendere di persona, a tagliare, a pesare e a misurare nella loro bottega oppure impegnati a preparare pillole in una spezieria. Intervenivano allora altri testimoni autorevoli, fra cui persino qualche procuratore di San Marco, che coll'uso di formule ben ponderate e di amplissime dichiarazioni di stima cercavano di far dimenticare quelle più ingenue attestazioni (177).
Sbaglieremmo, tuttavia, a far nostri gli sdegni aristocratici del poeta Busenello: nel tardo '500 questi giochi dell'ambizione e del potere servirono forse a ritardare la chiusura del ceto degli "originari" e contribuirono quindi in qualche misura a rinsanguarlo dal basso.
Ad ogni modo nella seconda metà del '500, nonostante l'impetuosa ascesa di alcuni bottegai arricchiti, l'élite mercantile cittadina era ancora rappresentata da coloro che conducevano il commercio per mare, magari su navi "di suo carato" (cioè di loro proprietà) o, almeno nell'Adriatico, su più agili "marciliane". Erano i discendenti e i continuatori di quei cittadini veneziani che da secoli praticavano la mercatura fianco a fianco coi patrizi, fidando nei privilegi che li ponevano quasi alla pari con i nobili e molto al di sopra dei popolani e dei forestieri. Nel '500 questi cittadini potevano talora lamentare l'eccessiva arroganza di quei loro più illustri compagni che potevano entrare nel maggior consiglio (178); ma la frequenza di questi contrasti si ridusse man mano che il patriziato cessò di impegnarsi attivamente nella mercatura. Erano in gran parte "cittadini", dunque, quei mercanti veneziani che ancora nella seconda metà del '500 si spingevano fino in Inghilterra e nella lontana India, ma si concentravano soprattutto negli scali del Levante. La tradizione mercantile permeava a tal punto la mentalità del ceto cittadino, che persino i funzionari del governo veneziano in missione a Costantinopoli, come ad esempio il "rasonato" Tullio Fabri, non disdegnavano di condurre lucrosi traffici parallelamente allo svolgimento della loro attività ufficiale (179).
Occorre tuttavia ricordare che chi richiedeva la "cittadinanza originaria", assai più difficile da ottenere di quella per privilegio, poteva anche essere un mercante in attività, ma aveva solitamente l'ambizione di procurare a sé o ai figli un ufficio pubblico; o, quanto meno, non escludeva tale ipotesi. In effetti le motivazioni economico-sociali che potevano suggerire il ritiro dalla mercatura non influivano solo sul comportamento dei patrizi, ma erano avvertite in varia misura anche dalle famiglie dei "cittadini". Nel '600 il rabbino Simone Luzzatto avrebbe teorizzato questo fenomeno con l'esplicito intento di giustificare l'importanza del ruolo economico nel frattempo assunto a Venezia dai mercanti ebrei. Ma la validità delle sue osservazioni non è inficiata dalla finalità apologetica: "qualunque mercante ha per scopo e meta de' suoi traffici con la cessatione de' negotii il riposo", egli scrive, soggiungendo che "dopo aver ammassato ricchezze convenevoli, procura di godere l'acquistato in quiete e tranquillità, investendo in beni stabili et entrate cittadinesche lontane dall'insulti della fortuna; et questo non solo attenta per sé medesimo, ma molto più per i suoi figliuoli e successori, dubitando che [...> disperdano il già da lui acquistato con istento e travaglio" (180).
Un caso esemplare è quello della famiglia Vianol, che passò nel giro di un secolo dall'attività armatoriale all'acquisto della nobiltà veneta. Intorno alla metà del '500 Giovanni Vianol era proprietario di una caracca di circa ottocento tonnellate, davvero una grande nave per quell'epoca: in tutta Venezia non se ne contavano più di quaranta, con un equipaggio di cinquanta-settanta uomini per ciascuna. Il figlio Giacomo non aveva però proseguito l'attività paterna, forse a causa della crisi che aveva colpito l'armamento veneziano dopo la guerra di Cipro. Era dunque vissuto di rendita, da gentiluomo; aveva sposato la figlia di un avvocato e aveva procurato un'educazione umanistica al proprio figlio Agostino, destinato a entrare nella cancelleria ducale nel 1607 e a compiervi un'eccezionale carriera fino alla carica di cancellier grande: anche due figli di Agostino sarebbero entrati nel corpo dei segretari, prima che la famiglia si procurasse nel 1658 l'ammissione al maggior consiglio mediante il consueto enorme esborso (181).
Altre storie familiari, certo meno illustri, si conclusero egualmente col ritiro dai commerci e col passaggio agli uffici. Ciò peraltro non significa che i cittadini abbiano disertato in massa gli scali del Levante già prima del tracollo del commercio veneziano nei primi decenni del '600: infatti nuove famiglie di origine veneziana o di immigrati subentravano a quelle che via via si ritiravano. I nuovi arrivati non avevano però i titoli per ottenere subito la cittadinanza originaria: li ritroveremo piuttosto nelle concessioni di cittadinanza de intus et extra votate dal senato (182).
Sono invece relativamente numerose le domande di cittadinanza originaria presentate dagli esponenti delle libere professioni (notariato, avvocatura, medicina), strettamente imparentati fra di loro e con i detentori di grandi e piccoli uffici amministrativi. Talora si trattava di vere e proprie dinastie, come nel caso degli Abbioso, medici per tre generazioni. In altri casi le inclinazioni individuali, le opportunità e le strategie familiari determinavano un ventaglio di scelte, sia pure sempre nell'ambito delle attività aperte ai cittadini. È per questa ragione che un illustre segretario del senato, Giovanni Carlo Scaramelli, poté indicare la propria scelta professionale come frutto insieme della "fortuna", che l'aveva fatto nascere "originario", e della "vocazione" (183).
La "fortuna", in fondo, poneva dei condizionamenti sia all'ascesa sociale sia alla caduta di rango. In caso di tracollo economico era un preciso dovere il non derogare alla propria "civiltà" attraverso l'esercizio di attività che determinassero la caduta fra gli "artefici".
Meglio ridursi a vivere di un'esigua rendita insomma, piuttosto che cercare di risollevarsi attraverso mestieri lucrosi, ma vili. Questa scelta, che ben rispondeva alla concezione nobiliare della "cittadinanza" affermatasi nel '500, era resa concretamente possibile dall'efficace rete di provvedimenti assistenziali messi in atto a vantaggio dei cittadini caduti in miseria dalle Scuole grandi e dai provveditori di San Marco. C'erano inoltre i proventi dei numerosissimi uffici assegnati agli "originari" dalla quarantia criminale o da altre magistrature. In teoria essi avevano una durata quadriennale; ma spesso venivano assegnati per dieci o vent'anni, a vita e persino per due generazioni. Tali deroghe potevano dipendere dal fatto che l'ufficio era stato venduto, assieme al "salario" e alle "utilità" che se ne potevano trarre, a qualche privato disposto a venire incontro agli urgenti bisogni della finanza statale. Però nel corso del '500 la Repubblica ricorse a questo espediente solo in casi di reale necessità; più comunemente la concessione traeva origine da una "grazia" accordata dal senato o dal consiglio dei dieci alle famiglie di cittadini benemeriti. È evidente che questi uffici finivano coll'essere considerati alla stregua di una qualsiasi rendita: erano spesso esercitati mediante sostituti (col consenso tacito o espresso dello Stato) e potevano anche entrare a far parte delle doti che i padri assegnavano alle figlie (184).
Nonostante queste provvidenze, qualche famiglia di "cittadini originari" si perdeva. Quando ciò non avvenne per la mancanza di eredi maschi, la causa immediata fu talora costituita dal trasferimento in Terraferma, presso qualche proprietà familiare: decisione che in alcuni casi poteva rappresentare il frutto di una libera scelta di cittadini benestanti, ma per altre famiglie fu certamente la conseguenza di un declino economico così grave da imporre il drastico taglio delle spese connesse alla residenza nella Dominante. Restano poi da accertare, caso per caso, le ragioni di fondo di tale impoverimento, che poté essere determinato da affari sbagliati, dalla cattiva amministrazione e dallo sperpero del patrimonio, dall'eccessivo importo delle doti pagate per maritare le figlie o dalla divisione fra più fratelli delle entrate familiari (185).
In altri casi, invece, il sostegno tempestivamente accordato a un cittadino in difficoltà conseguì pienamente l'esito voluto. Dal testamento del cancellier grande Bonifacio Antelmi (1542-1610) apprendiamo che il padre, Marcantonio, aveva subito gravi perdite nel commercio col Levante. Perciò Bonifacio aveva dovuto trascorrere la giovinezza "in strettissima fortuna": solo la carità della Scuola grande della Misericordia, che aveva concesso alla famiglia l'uso gratuito di una delle sue case, aveva consentito al padre di spendere quanto necessario per l'educazione umanistica dei suoi quattro figli, che erano stati poi avviati alla carriera di segretari ed avevano occupato posizioni di prestigio all'interno della cancelleria ducale ("la più onorata parte che abbiano li cittadini" all'interno del governo aristocratico, come ebbe a definirla il segretario Milledonne) (186).
Il corpo dei segretari era costituito da ottanta-cento funzionari, di cui solo una trentina occupavano i gradi più elevati (segretari del senato, segretari del consiglio dei dieci e cancellier grande). Nel suo complesso la cancelleria godeva di prerogative tali da garantirle un'assoluta preminenza all'interno del ceto cittadino: la forte propensione dei segretari all'endogamia ed il privilegiamento dei loro parenti nelle nuove assunzioni tendevano inoltre a farne un gruppo ben distinto dagli altri cittadini, anche se non ancora chiuso, nel '500, a nuovi apporti provenienti da famiglie prive di tradizioni cancelleresche. Ma già tra la fine del '500 e l'inizio del '600 l'incidenza dei parenti dei funzionari sul totale delle nuove nomine si attestò intorno al 59%.
Più tardi il monopolio esercitato sulle segreterie da questo corpo di burocrati sarebbe divenuto pressoché esclusivo (187), giustificando in qualche misura l'immagine satirica del "cittadino originario" prepotente e borioso perché membro di una famiglia di segretari (188):
Segretari egli ha di su
Padre, zii, fradei, cugini
E nessun di lui può più.
Va peraltro rilevato che il desiderio dei funzionari di cancelleria di avere come successori i propri figli e nipoti non si sarebbe potuto realizzare senza il consenso del patriziato di governo. Infatti tutte queste nomine passavano attraverso il voto del consiglio dei dieci, che non si oppose alla formazione di dinastie di segretari ed anzi qualche volta le incoraggiò, concedendo parziali deroghe al principio meritocratico che prevedeva, in via ordinaria, l'ammissione alla cancelleria attraverso il metodo dell'esame-concorso basato su una prova di composizione latina (189).
In realtà operavano congiuntamente a incoraggiare la formazione di tradizioni familiari sia il pregiudizio aristocratico, che voleva la virtù trasmissibile per via ereditaria ai discendenti, sia le concrete modalità di un'istruzione professionale basata in larga misura sulla pratica, cioè sull'apprendimento condotto per via di tirocinio. Infatti la preparazione del segretario non avveniva in grandi strutture educative come collegi e università: alla formazione letteraria e retorica (indispensabile per chi avrebbe poi dovuto redigere il testo delle deliberazioni dei consigli oppure impegnarsi in una delicata attività diplomatica) potevano bastare in una prima fase, fino ai 15-18 anni, i precettori privati e le scuole di sestiere (190); mentre all'ulteriore perfezionamento, dopo l'ingresso nella cancelleria, avrebbe provveduto il "precettore della lingua latina", appositamente stipendiato dalla Repubblica. Non era invece più richiesta nel '5-'600, se non come eccezione, una particolare competenza nell'arte notarile; ed era sostanzialmente fallito il tentativo compiuto tra gli anni '20 e '30 del Cinquecento di fornire ai segretari una formazione giuridica di stampo romanistico presso l'Università di Padova (191). La preparazione specifica del segretario alle sue future mansioni era invece di preferenza affidata ad una precoce esperienza compiuta al fianco di un parente o di un amico di famiglia che fosse impegnato come segretario in missioni all'estero e nello Stato da mar, oppure presso le magistrature e gli uffici di Venezia. In tale contesto, il giovane poteva svolgere funzioni non ufficiali di coadiutore ancor prima della sua assunzione, giacché nessuno si scandalizzava se il figlio di un funzionario ricopiava dispacci segreti e maneggiava cifrari, sotto l'esclusiva responsabilità del genitore. Questo tirocinio poteva anzi costituire un titolo di merito da far valere al momento opportuno (192).
Il funzionario che seguiva questo tipo di carriera non era certamente un giurista: non ne aveva i titoli accademici, le conoscenze e la mentalità. Le sue competenze erano di tipo burocratico: a volte assumevano aspetti squisitamente tecnici (sia pure di una tecnica un po' esoterica, come quella delle "cifre"); a volte invece gli permettevano di esercitare una sottile influenza sul funzionamento dei consigli attraverso la conoscenza delle leggi e delle procedure. Tale era il caso dei quattro segretari del consiglio dei dieci: in virtù della loro inamovibilità (abolita solo negli anni '20 del Seicento) essi erano i veri depositari del temutissimo "rito" secondo cui si svolgevano i processi celebrati davanti all'"eccelso Consiglio", che era il solo tribunale competente a giudicare i reati dei nobili (193). Altrettanto delicata era la posizione del "segretario alle leggi", cui spettava il compito di richiamare i precedenti legislativi di ogni nuova deliberazione che i consigli si accingevano ad approvare. Non meno decisiva per l'esito delle votazioni era l'altra sua incombenza di notificare preventivamente il tipo di maggioranza qualificata, a volte veramente proibitiva, che si rendeva necessaria per approvare validamente certi provvedimenti, ad esempio la concessione di una "grazia" o il rimborso delle spese sostenute da un magistrato (194).
Per tutte queste ragioni si è potuto parlare di un ruolo politico-istituzionale silenziosamente svolto dai segretari nella vita pubblica veneziana. È tuttavia necessario articolare quest'osservazione su piani diversi. Indubbiamente l'esercizio di un potere amministrativo dotato di un certo margine di arbitrarietà offriva ai segretari di grado più elevato la possibilità di condurre manovre clientelari ed un'attività di "sottogoverno". A titolo di esempio si possono ricordare alcuni particolari della denuncia rivolta nel 1628 contro questi funzionari dal patrizio Renier Zeno: a suo dire i segretari del consiglio dei dieci si sarebbero intromessi nelle nomine dei pittori e dei musici al servizio delle Scuole grandi; si sarebbero ingeriti nel conferimento di provvigioni ai benemeriti dello Stato e avrebbero brigato per ottenere rilevanti sgravi fiscali (195).
Di ben altra gravità erano le accuse che furono rivolte ai segretari sotto il profilo politico-istituzionale, non solo nel 1628 ma in parte già prima, fin dal 1582. Avrebbero favorito brogli elettorali a vantaggio dei patrizi "vecchi"; avrebbero occultato il vero testo di una legge che definiva i rapporti fra il maggior consiglio e il consiglio dei dieci. Più in generale, avrebbero inculcato ai patrizi eletti nel consiglio dei dieci una concezione impersonale dello Stato. Quest'ultima accusa può forse disturbare la nostra sensibilità, che rimane legata a una certa idea dello Stato moderno; però tale denuncia esprimeva assai bene le aspirazioni del patriziato minore, di cui Renier Zeno si era posto a capo: questi nobili intravedevano nella rigorosa applicazione della legge la fonte del potere dei burocrati e l'origine della deformazione assolutistica della potente magistratura dei dieci, sottrattasi all'influenza moderatrice dei legami sociali che univano i patrizi attraverso una fitta rete di amicizie e parentele (196).
Ci poteva essere del vero anche in queste accuse. Come si è già ricordato, i funzionari della cancelleria, tutti quanti "cittadini", dipendevano per la loro carriera dal voto del consiglio dei dieci, che esprimeva le aspirazioni oligarchiche del patriziato più potente e ricco. Perciò i segretari potevano intravedere nell'ascesa dell'"eccelso Consiglio" il mezzo più idoneo per innalzarsi anch'essi e per superare, in virtù della partecipazione alla gestione del potere, la persistente inferiorità giuridica nei confronti del patriziato (197).
Infatti il contrasto evidenziato da Renier Zeno aveva uno sfondo sociale non meno importante di quello politico. Per molti versi, anche il cittadino poteva considerarsi un "gentilhuomo". Poteva, sia pure di rado, ammogliarsi con la figlia di un patrizio; poteva, più frequentemente, dare in sposa la figlia a un membro del maggior consiglio: così il doge Giovanni Bembo, eletto nel 1615, discendeva dalla parte materna dai del Basso, ricchi mercanti di drappi. I cittadini conversavano insieme ai patrizi, li invitavano come padrini di battesimo, portavano solitamente il medesimo abito (198).
Anche per altri aspetti vi era una forte somiglianza nello stile di vita: i mercanti cittadini vivevano spesso in fraterna; e anch'essi presero l'abitudine di sottoporre le loro proprietà a fidecommessi nel '5-'600 (199). Il cittadino originario, al pari del patrizio, poteva ricevere un'educazione umanistica e compiere viaggi di istruzione in altre parti della penisola. In campo culturale, se è vero che i cittadini non si distinsero per una produzione spiccatamente originale, va però sottolineato che ebbero ugualmente i loro letterati, come Benedetto Ramberti, Aldo Manuzio il giovane, Celio Magno, Lorenzo Massa. Il segretario del consiglio dei dieci Giovan Battista Ramusio produsse il capolavoro geografico delle Navigationi et viaggi; e i segretari non mancarono, attorno a Paolo Sarpi, nel dotto ritrovo di Andrea Morosini (200).
Nelle loro case i cittadini dimostrarono una particolare sensibilità per il lusso; si circondarono di quadri, talora lasciarono ai posteri il proprio ritratto. Il medico Tommaso Rangone si fece raffigurare nella facciata della chiesa di San Giuliano; molti altri cittadini curarono amorevolmente la tomba o la cappella di famiglia in qualche chiesa veneziana. In tutto ciò non si distinsero nettamente dal patriziato.
Qualche differenza affiora forse sul piano dei valori etici. I cittadini appaiono più temperanti e morigerati: figurano meno frequentemente dei patrizi negli archivi delle magistrature criminali, fra quanti compirono gesti violenti e immorali. Ed è proprio a un cancellier grande del primo '500 che si deve un'eloquente difesa del matrimonio e della famiglia (201). Secondo il marchese di Bedmar, i cittadini avevano una più risentita coscienza del loro dovere di "abbracciare le virtù", perché, a differenza dei nobili, non potevano promettersi promozioni o onori "se non con il farsi conoscere intelligenti, spiritosi e dotati di buone qualità". Ma pur insistendo su questi caratteri per così dire "borghesi" della loro mentalità, lo stesso Bedmar doveva riconoscere che "vive però tra essi una certa albagia" (202).
"Albagia", "superbia": accusa ricorrente rivolta dai patrizi, e soprattutto dal patriziato minore, ai cittadini, specie ai funzionari. In realtà, "cittadini originari" e patrizi poveri si causavano reciprocamente terribili frustrazioni, perché il ruolo degli uni era in palese contraddizione rispetto alla posizione che gli altri avrebbero voluto vedersi riconosciuta nelle gerarchie sociali. Così ad esempio, se leggiamo gli elogi di cittadini illustri, segretari o mercanti, notiamo in genere come il panegirista tenda a mettere in luce l'eccellenza delle virtù e la gloriosa tradizione familiare, cui mancava solo il diritto di accedere al maggior consiglio per raggiungere l'assoluta perfezione della nobiltà (203). Non è da chiedere se ciò non pesasse ai "cittadini"; anche se, d'altra parte, il titolo di patrizio veneto poteva apparire oggettivamente svalutato dal triste spettacolo delle famiglie patrizie andate in rovina. Esse superavano gli "originari" solo nella classificazione giuridica dei ceti, non certo per il tenore di vita o per il potere effettivo.
In tale situazione, poteva bastare l'arroganza di un portiere del collegio (un "originario" anche lui) per infliggere umiliazioni gravissime a un patrizio veneziano costretto a mendicare qualche sovvenzione dalla Signoria (204).
Dai segretari il patriziato minore avrebbe voluto ricevere manifestazioni di rispetto e di deferenza, per essere psicologicamente tranquillizzato sulla stabilità del suo periclitante status sociale. Perciò il segretario che voleva raccogliere il voto di tutto il maggior consiglio in occasione dell'elezione a cancellier grande, doveva ostentare modestia e dichiararsi "servitor umilissimo della nobiltà in generale e in particolare" (205). Chi non conosceva quest'arte, come il segretario del consiglio dei dieci Antonio Milledonne, che sentiva una sincera vocazione per i grandi affari di stato e trascurava le pubbliche relazioni (limitandosi per esempio a saluti molto contenuti e poco cerimoniosi), rischiava di diventare "odioso" al patriziato per la sua "natura superba" (206).
Del resto l'accusa, a suo modo, colpiva nel segno. Chi legga le memorie del Milledonne sulla sua mancata elezione a cancellier grande può ben ridere dei ringraziamenti da lui rivolti alla bontà divina che lo aveva preservato dalle terrene pompe del cancellierato. Quelle vanità, pare di capire, egli avrebbe voluto provarle tutte: dalla veste scarlatta alla precedenza nelle solenni processioni; ed avrebbe lungamente pregustato, se eletto, la gloria delle esequie a San Marco, presente la Signoria, e dell'elogio funebre. Dovette invece accontentarsi di un opuscolo commemorativo semiclandestino, scritto da un altro segretario del suo stampo, Pietro Darduin, e del quadro dedicatogli dal Tintoretto nella chiesa di San Trovaso, di cui a proprie spese aveva curato il restauro (207).
Ma fu forse Giacomo Ragazzoni colui che meglio mostrò che cosa sapesse e volesse fare un "cittadino" intelligente e ricco, ma non autorizzato a varcare il solco che lo separava dal patriziato. Proveniva da un casato dotato di capitali e aderenze; ebbe un fratello segretario di cancelleria ed un altro, vescovo di Bergamo, che fu un eccellente collaboratore di Carlo Borromeo. In gioventù esercitò la mercatura; fu proprietario di tre grandi navi e condusse un attivo commercio con l'Inghilterra.
Ma poi affidò a un altro fratello la conduzione degli affari e cercò nuovi sbocchi per la sua esuberante personalità. Pur senza entrare formalmente in cancelleria, ebbe modo di svolgere, da mercante, una delicata missione diplomatica a Costantinopoli durante la guerra di Cipro, ed al ritorno stese una relazione di qualità eccellente, non inferiore a quelle degli altri diplomatici della Serenissima. Ricchissimo, emulò e in certo qual senso superò Giacomo Foscarini nella magnanimità verso le figlie: le diede in spose tutte e nove a patrizi veneziani. Per sé volle acquistare un feudo in Friuli, la contea di Sant'Odorico, piccola, ma dotata di una giurisdizione che dava accesso al feudale Parlamento friulano, nel ramo dei "nobili castellani". E vicino al suo feudo, a Sacile, fece costruire un palazzo, i cui affreschi celebravano, con un evidente amore per l'avventura esotica, la sua famosa missione presso il sultano. Dopo la morte gli fu dedicata una biografia a stampa, il cui esordio ben descrive il limbo in cui erano sospesi gli "originari" (208):
Tra le famiglie nobili della città di Venezia (non parlo per ora di quel grado di nobiltà, che per legge si conviene solamente a quelli, che dall'origine portano seco il privilegio d'intravenire ai maneggi, et al governo della Republica), la famiglia Ragazzoni ha tenuto sempre loco così onorato, che con ragione si può numerar con le prime. Poiché se avemo riguardo a quelle cose, che sogliono nobilitar le fameglie, cioè la robba, le persone e i meriti, non so vedere che altra in ciascheduna di queste si sia già mai dilatata cotanto, quanto ella.
Nel tardo '500 e nel '600 la preoccupazione degli "originari" di qualificarsi come una sorta di seconda nobiltà si manifestò anche come volontà di distinguersi da coloro che stavano più in basso nella scala sociale. Si colloca in questo spirito una dissertazione pubblicata nel 1631 dall'avvocato Nicolò Crasso, che non si limita a descrivere la legislazione vigente sul conferimento della cittadinanza, ma l'interpreta e ne anticipa gli sviluppi secondo i propri orientamenti ideologici: perciò egli inserisce fra gli elementi fondanti della definizione di "cittadino originario" quell'assoluta astensione dalle arti meccaniche che invece, come si è visto, non costituiva ancora in quest'epoca un obbligo esplicitamente sancito dalla legge. Ne deriva, almeno indirettamente, lo svilimento della cittadinanza ottenuta per privilegio, giacché chi aspira ad essa deve bensì risiedere nella Dominante per un certo numero di anni, ma - soggiunge il Crasso - "non è punto necessario che si astenga dall'arti meccaniche e sordide" (209).
Ciò che in questo modo veniva messo in parentesi, perché estraneo al ragionamento del Crasso se non addirittura in contrasto con la sua tesi, era l'esistenza di uno strato di cittadini per privilegio, che non potevano aspirare alla "cittadinanza originaria" a causa della immigrazione relativamente recente, ma che ugualmente appartenevano alla élite mercantile per la ragguardevole dimensione del loro giro d'affari e per le elevate disponibilità finanziarie, in virtù delle quali avevano potuto adeguarsi al livello dei consumi e allo stile di vita dei "cittadini" di più antica origine. Per accorgersene bastava guardarsi attorno, come aveva ben dimostrato nel 1590 Cesare Vecellio, il quale, dopo aver descritto l'abito comune ai cittadini originari e ai patrizi (la veste lunga con maniche "a gomito"), aveva soggiunto che anche "molti dei mercanti e bottigai commodi della città di Venetia" l'avevano fatta propria, preferendola al ferraiolo (abito corto) solitamente portato dai bottegai di minori ambizioni: la scelta era motivata con la considerazione che "essendo habito proprio della nobiltà, porta seco negli altri ancora gran riputatione" (210).
Per i mercanti forestieri intenzionati a usufruire delle vantaggiose possibilità di integrazione offerte dal mondo mercantile veneziano, la strada della concessione della cittadinanza passava attraverso il parere favorevole dei provveditori di comun ed il voto del senato. Come condizioni preliminari, le leggi e la prassi amministrativa insistevano sia sulla necessità di un lungo periodo di residenza (in genere venticinque anni), sia su una serie di atti idonei a esprimere la volontà di accettare una comunanza di destini con gli altri Veneziani: tali erano il trasferimento assieme ai familiari o la creazione di una famiglia a Venezia, l'acquisto o l'affitto di una casa e, soprattutto, lo svolgimento di attività economiche che avessero comportato il pagamento di dazi e di altre imposizioni fiscali. Inoltre chi avesse conseguito il più ambito privilegio de intus et extra avrebbe avuto non solo il diritto ma anche l'obbligo di presentarsi ovunque come mercante veneziano: infatti le difficili situazioni che potevano presentarsi negli scali mediterranei imponevano agli operatori commerciali il dovere di agire con spirito di cooperazione e con senso di solidarietà verso i compatrioti (211).
Minore importanza era invece attribuita dalle autorità al fatto che l'aspirante provenisse o meno dal dominio veneto. Ciò significava che, quantunque i sudditi di Terraferma si appellassero costantemente ai loro privilegi quattrocenteschi per il conferimento della cittadinanza de intus, non erano poi sostanzialmente favoriti rispetto ai Toscani, ai Genovesi o ai Milanesi, quanto alla partecipazione ai commerci col Levante (212). Questo naturalmente non impediva che gli immigrati dalla Terraferma, soprattutto bergamaschi, rappresentassero uno dei gruppi più numerosi, dove, accanto ai lavoratori dediti ad attività più modeste, emergevano i mercanti, prevalentemente interessati all'industria tessile. Rievochiamo solo due nomi, legati a ben diversi destini: il ricchissimo Bartolomeo Bontempelli del Calice veniva dalla Val Sabbia, in territorio bresciano. Originario di San Vito al Tagliamento, nella Patria del Friuli, era invece il padre di Paolo Sarpi, Francesco: maritato a una cittadina veneziana, "in Venezia essercitò qualche mercanzia, ma con poca prosperità. Fu per traffico anche in Soria, né con miglior fortuna" (213).
Fra i non sudditi, la colonia fiorentina era una delle più antiche ed illustri: nella chiesa dei Frari aveva dal '400 una cappella ed un altare ornato dal San Giovanni Battista di Donatello. Nel '500 la comunità si arricchì di letterati, come Pietro Aretino e Anton Francesco Doni, e di esuli politici come Antonio Brucioli, Donato Giannotti e il savonaroliano Iacopo Nardi, primo governatore di una nuova confraternita fondata nel 1556. Numerosi paiono essere gli artigiani, soprattutto tessitori di lana, come l'ambizioso Stefano Gavazzi, che nel 1589, dopo un lustro di permanenza in laguna, offre alla Signoria la sua consulenza sul miglior modo di difendere la reputazione internazionale della pannina veneziana (214). Di sicuro rilievo è poi il ruolo economico di alcuni grandi mercanti, attivamente presenti sulla piazza di Rialto, da soli o in compagnia con mercanti veneziani: gli Strozzi hanno a Venezia una propria filiale; l'editore Luc'Antonio Giunti commercia non solo in libri, ma in numerosi altri prodotti e reinveste parte degli utili delle sue attività mercantili e finanziarie nell'acquisto di proprietà in Terraferma. In alcuni settori della finanza i Fiorentini, affiancati da un'attiva presenza genovese, esercitano una sorta di monopolio: soprattutto nei primi anni del '600 la Signoria manifestò una certa preoccupazione per la speculazione sui cambi delle monete che essi praticavano con la connivenza di alcuni patrizi (215).
Fra le concessioni di cittadinanza votate dal senato alcune erano destinate a mercanti che noi oggi definiremmo come stranieri: francesi, "alemanni"... Ma il ceto dirigente veneziano, pur riconoscendo la propria appartenenza a un'area culturale italiana, era poi sostanzialmente indifferente alla contrapposizione retorico-letteraria fra Italiani e Oltramontani, nel momento in cui doveva valutare la supplica di un libraio o di un finanziere: qualche complicazione poteva semmai insorgere per motivi confessionali. Così il tipografo di origine francese Vincenzo Valgresi (Vincent Vaugris) stabilitosi a Venezia poco dopo il 1530 e quivi affermatosi come "libraro all'insegna d'Erasmo", poté richiedere nel 1567 il privilegio de intus et extra: i problemi che egli dovette affrontare, prima e dopo d'allora, non furono di carattere etnico, ma religioso, a causa di quella inquietante insegna ed anche per il ripetuto sequestro di libri proibiti nei suoi magazzini (è però da notare che l'autorità religiosa locale, rappresentata dal pievano della contrada, gli manifestò piena solidarietà, attestando davanti all'Inquisizione la sua perfetta ortodossia e l'adesione alle più consuete pratiche di devozione) (216).
Fra i cittadini per privilegio figurano anche dei mercanti fiamminghi, membri eminenti di una comunità che si era di molto accresciuta nell'ultimo quarto del secolo XVI, soprattutto ad opera di mercanti anversani fuggiti a causa della guerra e del blocco della Schelda, messo in atto dalle Province Unite ribelli alla Spagna a partire dal 1585. È difficile un calcolo esatto del loro numero: nel 1596 una supplica della "nazione fiamminga" di Venezia fu firmata da ventuno mercanti, i più autorevoli di un gruppo sicuramente più numeroso (217). L'economia veneziana traeva notevole giovamento dall'afflusso di queste nuove energie mercantili: perciò non ci furono difficoltà per la concessione della cittadinanza per privilegio a Guglielmo Helman, che l'ebbe nel 1579, e a suo fratello Carlo nel 1596; solo tre anni prima l'aveva ottenuta Francesco Urins. Si trattava di mercanti raffinati: l'inventario dei beni trovati in casa dell'Urins alla sua morte comprende fra l'altro quadri di soggetto sacro e profano, ritratti di famiglia, strumenti musicali (218).
Ai mercanti si riconosceva la capacità di coniugare l'utile e l'onore; l'immagine del merciaio si collocava su un piano necessariamente più modesto. Lo scrittore Tommaso Garzoni, autore de La piazza universale di tutte le professioni del mondo, apparsa a Venezia nel 1589, lo sapeva bene; tuttavia esprimeva l'opinione che i merciai - riuniti a Venezia nell'Arte dei "marzeri" - non fossero meno necessari alla città degli stessi mercanti, in considerazione della grande quantità di merci che ponevano in commercio: tele, bottoni, aghi, stringhe, "cordelle"; pelli, pettini, coltelli; sonagli, cembali ecc. (219). Avrebbe dovuto aggiungere al suo elenco prodotti tessili e chincaglierie; articoli di lusso come specchi e profumi; strumenti di precisione come occhiali e bilance (220). Inoltre secondo il Garzoni i merciai introducevano dall'estero varietà di fogge nuove e "mille curiosità dilettevoli". E concludeva con un'esortazione: chi voleva conoscere l'ingegno dei merciai, doveva frequentare la "Merceria" di Venezia.
Felicemente collocate tra la zona portuale della città e la piazza commerciale di Rialto, le Mercerie erano il famoso e celebrato "percorso mercantile urbano" (221) dove, secondo il vanto di Marin Sanudo, si poteva trovare "tutte cosse che si sa et vol dimandar" (222). Nel 1574 il re di Francia Enrico III volle visitarle assieme alle altre meraviglie della città. Negli anni '90 del Cinquecento il dotto servita fra' Paolo Sarpi vi trascorreva molte ore nella bottega alla Nave d'oro, di proprietà di merciai di origine olandese, i Sechini o Zecchini, per ascoltarvi le ultime novità sulle guerre di religione in Francia e i racconti di viaggi di "molti mercanti stranieri [...> ch'erano stati non solo per l'Europa ma nelle Indie Orientali et Occidentali" (223).
Ma, nonostante il fascino delle Mercerie, la posizione sociale dei "marzeri" doveva apparire nel tardo '500 e nel '600 precariamente sospesa fra la nobiltà della mercatura e l'ignobiltà delle arti meccaniche, fra il prestigioso riconoscimento di una loro confraternita come nuova Scuola grande di San Teodoro (nel 1552) e il rischio corso alla fine del '500 che anche gli iscritti alla loro Arte fossero inclusi nei ruoli di quanti potevano essere arruolati come galeotti nella flotta veneziana (224). In parte questa situazione dipendeva dall'estrema differenziazione esistente all'interno dell'Arte, che abbracciava molteplici settori di attività e comprendeva molte ditte modestissime accanto ad altre dai capitali ingenti. Un'inchiesta del 1567 valutò a quasi 500.000 ducati l'investimento complessivo in 446 botteghe di "marzeri". La più ricca era stimata intorno ai 60.000 ducati, mentre, al polo opposto, oltre i due terzi si collocavano al di sotto dei 500 ducati (225).
In ogni caso, nemmeno per i negozianti più ricchi era facile conquistarsi una posizione sociale elevata. Il Garzoni li definì "artefici di grandissimo guadagno"; e questa qualifica di "artefici" ricorre anche nei censimenti seicenteschi, che del resto pongono fra i popolani non solo i "marzeri", ma anche i membri delle Arti degli speziali, che nelle loro botteghe vendevano farmaci ("speziali da medicine") oppure spezie, cera e canditi ("speziali da grosso"). In conseguenza di questa collocazione sociale assai incerta, a partire dalla metà del '500 divenne sempre meno probabile che il rampollo di una famiglia di cittadini originari si avviasse a intraprendere una di queste attività, che rischiavano di gettare una qualche ombra sull'onore del suo casato per almeno tre generazioni.
In compenso, questi commerci connessi alle necessità di vita di una grande città, e particolarmente l'Arte dei "marzeri", potevano raccogliere nuove forze provenienti dal basso, soprattutto immigrati, certo attratti dalle interessanti prospettive di un'attività che poteva produrre profitti elevati anche partendo da un capitale iniziale assai modesto. Perciò ci si provarono in molti (332 nuovi iscritti nel solo biennio 1574-75), che approfittarono della mancanza di una vera politica corporativa di controllo sulle iscrizioni. Naturalmente ci furono anche numerosi fallimenti, a seguito di una congiuntura sfavorevole, come quella che si ebbe nell'ultimo decennio del '500 (226). Altri invece incontrarono un grande successo: in tal caso potevano ostentare un tenore di vita col quale difficilmente avrebbero potuto competere molti fra i membri dei ceti superiori. Potevano inoltre allargare progressivamente i propri interessi ed essere riconosciuti come veri mercanti. Era però certamente eccezionale il fatto che un merciaio ancora in attività venisse lodato in un'opera a stampa non solo per il successo della sua bottega e per la finezza dei broccati multicolori che aveva introdotto a Venezia, ma soprattutto per la sua "incomparabile liberalità e bontà", per la quale "è molto amato dalla nobiltà venetiana e da molti principi d'Italia, et in specie dal Serenissimo Duca di Mantova" (227).
Oggetto di questi elogi era il già ricordato Bartolomeo Bontempelli del Calice. Era giunto a Venezia giovinetto, alla metà del '500, dotato di modestissime risorse: la sua brillante ascesa, realizzata attraverso i commerci, sarebbe stata sanzionata nel 1579 dalla concessione della cittadinanza de intus et extra per deliberazione del senato; in seguito egli avrebbe acquisito prestigio internazionale grazie ad operazioni finanziarie condotte ad altissimo livello: prestiti ai Gonzaga, complessi rapporti d'affari con la Signoria. Di rilevante ampiezza fu la sua opera caritativa, che si svolse soprattutto nell'ambito della Scuola grande di San Rocco di cui fu guardiano grande; fu anche tra i maggiori benefattori dell'Ospedale di San Lazzaro dei Mendicanti, cui destinò tra l'altro un lascito testamentario di 100.000 ducati. Per sé e per la propria famiglia volle erigere un'imponente sepoltura nella chiesa di San Salvador (228).
Meno folgorante, l'ascesa dei Cornovi dalla Vecchia, originari del Bergamasco, si protrasse lungo tutto il '500. Partiti dal commercio del legname, a Venezia divennero "marzeri" in una bottega all'insegna della Vecchia, da cui trassero il nuovo nome di famiglia e il nerbo delle loro ricchezze. In seguito acquistarono un palazzo a Santa Maria dell'Orto e varie proprietà fondiarie. Nel 1585 donarono un sostanzioso lascito alla Scuola di San Rocco per la distribuzione di elemosine ai poveri dei vari sestieri cittadini. All'inizio del '600 combinarono il matrimonio di due figliole rispettivamente con un Marini segretario del senato e con un Rizzo anch'egli di famiglia cancelleresca. I loro sforzi furono infine coronati nel 1618 dall'ascesa di un membro della famiglia al vescovato di Torcello (importante beneficio ecclesiastico, già tenuto dai Grimani) e dall'ammissione di un fratello del vescovo alla "cittadinanza originaria" nel 1627 (229).
E i "marzeri" falliti? Un'accurata ricerca ne ha ritrovati tra i carcerati per debiti, tra i messi delle magistrature veneziane e tra i domestici. Evidente, in questo caso, il loro declino sociale e la ricaduta senza appello nel ceto dei popolani (230).
Quanti erano i popolani? La risposta è resa necessariamente approssimativa dall'incertezza che circonda i dati dei censimenti del '500. Nell'ultima rilevazione precedente alla peste del 1576-77, svoltasi nel 1563, su una popolazione totale di 168.627 residenti erano stati contati 127.746 artigiani, bottegai e loro familiari, cui vanno sommati 12.908 servitori e "massere" per ottenere un totale di 140.654 popolani, ai quali sarebbero poi da aggiungere i 539 mendicanti e i 1.479 poveri degli ospedali. Secondo un recente studio di Paolo Ulvioni, a causa di rilevanti variazioni nei criteri di rilevazione questi dati non sono perfettamente confrontabili con quelli del censimento del 1586, che indicano, dopo la falcidia della peste ed in presenza di una ripresa favorita dall'immigrazione, la cifra di 116.522 membri di famiglie di bottegai e artigiani, 10.013 servitori, 444 mendicanti e 1.111 poveri degli ospedali, su una popolazione complessiva di poco superiore ai 148.000 abitanti. Nel complesso, secondo i calcoli del Beltrami, tra '500 e '600 la percentuale dei popolani sul totale della popolazione sarebbe sempre oscillata intorno al 90% (231).
Le loro attività erano le più varie: il numero delle Arti regolarmente censite superò sempre il centinaio. Solo per un primo orientamento può servire una statistica compilata dal Beltrami raggruppando per settori i mestieri praticati nel 1624 dai capifamiglia popolani dei sestieri di San Marco e di Castello. Il 2,3% era impiegato in qualche modesto ufficio pubblico; gli addetti al settore tessile e dell'abbigliamento erano il 14,2% (ma dati più completi del 1642 indicano per l'intera città la percentuale del 25,3%). Assai importante risultava anche il settore dell'ospitalità e dei servizi annessi, cui seguivano per dimensione quello dell'armamento, il settore delle comunicazioni (inclusi i gondolieri dei traghetti), gli addetti al settore alimentare, quelli impegnati nella vendita o nella lavorazione del legname; e poi ancora, con percentuali inferiori, gli addetti alla lavorazione dei metalli (fra cui molti fabbri di recente immigrazione), quelli del cuoio, dell'industria della carta e della stampa, delle costruzioni, delle lavorazioni artistiche (specchi ecc.) (232).
Da un insieme di mestieri così eterogeneo poteva emergere una visione complessiva del ceto popolare di volta in volta assai diversa. Questa incertezza sembra riverberarsi sulla terminologia dei censimenti, che nel 1509 classificarono i popolani come "abitanti", cioè come residenti contrapposti ai "viandanti"; invece nel 1563 essi furono raccolti principalmente sotto la categoria di bottegai e artigiani, che nel 1607 fu sostituita dalla dizione riassuntiva di "artefici". È chiaro che questa qualifica non va presa alla lettera: come ha ben osservato P. Burke, era solo "una sorta di categoria residuale, in cui bisognava inserire i gondolieri, i maestri, le vedove ecc." (233). Incertezza anche fra gli storici: alcuni hanno cercato di cogliere la funzione economica dei popolani privilegiando le fondamentali attività marittime e mercantili, artigianali e industriali; mentre ad altri è parso più verosimile che in questa città, famosa in Europa per la "grande douceur et liberté de vie" (234), il tono dovesse essere dato da una variopinta folla di "servi, custodi, tuttofare, piccoli commercianti, rigattieri, prostitute, sanseri" (235).
Forse l'elemento caratterizzante del popolo veneziano, o almeno di quella parte di esso che si era più stabilmente identificata con la città, era rappresentato dal suo peculiare modo di porsi di fronte allo Stato marciano. È innegabile che a Venezia governanti e governati fossero separati da secoli da un profondo fossato: sotto questo aspetto la soppressione dell'"arengo", deliberata nel 1423, aveva disperso l'ultima reliquia di un diretto intervento del popolo nell'esercizio della sovranità. Tuttavia il ricordo di una più larga partecipazione alla vita pubblica era in qualche modo sopravvissuto, mantenendo vivo il dialogo con le istituzioni (236). Ciò era del resto assolutamente indispensabile per il mantenimento della quiete politica e della pace sociale, data la sproporzione numerica a favore del popolo: ancora nel '600 un attento osservatore come il Sarpi mostrerà di preoccuparsi delle opinioni del "volgo, senza il quale, nonostante la Republica sia qui di ottimati, non si conchiude nulla" (237).
Certamente il governo non trascurava gli strumenti repressivi, nel solco di una tradizione sviluppatasi a partire dai secoli XIII-XIV; ma il controllo esercitato dalla giustizia vecchia sulle Arti e dal consiglio dei dieci sulle Scuole, cui si aggiunse nel '500 la capillare sorveglianza degli esecutori alla bestemmia su ogni manifestazione di comportamento sociale deviante si rivelarono nel complesso così efficaci nell'opera di prevenzione da rendere superflua l'ulteriore garanzia rappresentata in altre città dall'acquartieramento di soldati. Infatti, anche con una sbirraglia di dimensioni modeste, l'ordine pubblico fu mantenuto senz'affanno, salvo che in occasione dei brevi tumulti di marinai e arsenalotti nel 1509, nel 1569 e nel 1581(238). Si trattò del resto di eventi abbastanza eccezionali, giacché le maestranze dell'Arsenale rappresentavano un gruppo scelto e privilegiato, cui venivano tradizionalmente affidate funzioni di vigilanza in occasioni solenni e altamente simboliche, come l'elezione dogale e le sedute del maggior consiglio. E furono proprio questi stessi arsenalotti a svolgere un ruolo di primo piano in occasione di emergenze come l'incendio di palazzo Ducale (239).
Per ottenere questo eccellente risultato politico il patriziato di governo doveva esercitare la sua egemonia coinvolgendo in qualche modo le forze popolari: perciò la popolazione residente si vedeva riconosciuta una sorta di partecipazione cerimoniale alla vita delle istituzioni in occasione delle solenni processioni e delle maggiori festività, in cui sfilavano con gran pompa le Arti e le Scuole; e sono ben note le tradizionali cerimonie con cui il doge riceveva il gastaldo grande dei "Nicolotti", cioè il capo elettivo dei pescatori abitanti nelle contrade di San Nicolò e dell'Angelo Raffaele (240). Mentre poi nell'esperienza quotidiana il dialogo tra le magistrature ed il popolo era tenuto vivo attraverso il benevolo esame delle suppliche presentate al collegio da singoli individui e famiglie, dalle confraternite e dalle corporazioni: per questa via, con l'oculata distribuzione delle "grazie" (in fondo non diverse dalle nostre "leggine"), si creava e si manteneva in seno al ceto popolare tutta una serie di privilegi sapientemente graduati.
Così il popolo, che già per la sua varia origine era "fatto di tanti membri" (come aveva scritto il da Porto) (241), non pensava affatto di costituire una classe oppressa. In fondo, la Repubblica riusciva a garantire a tutti i residenti a Venezia alcuni elementari vantaggi, certo insufficienti a riscattare l'esclusivismo politico del patriziato agli occhi di ogni moderno democratico, ma allora grandemente apprezzati: tali erano la possibilità di trovare lavoro e la speranza, se non proprio la certezza, di sfuggire al pericolo delle carestie senza nemmeno dover rinunciare il più delle volte al pane bianco, grazie all'efficiente organizzazione della politica annonaria ed alle numerose iniziative caritative e assistenziali (242). A ciò gli apologeti della Repubblica aggiungevano il vanto di un'equa amministrazione della giustizia (243).
Su queste basi poté nascere e mantenersi un sentimento di fedeltà verso lo Stato marciano, che fu notato dai contemporanei, ma incontrò qualche difficoltà ad essere pienamente compreso. In parte ciò dipese dal carattere cosmopolita dell'emporio rialtino, che alterava agli occhi degli osservatori le reali proporzioni della popolazione residente. È vero che i censimenti cercarono di portare un po' d'ordine, distinguendo, fin dal 1509, fra abitanti e forestieri "viandanti". Abbiamo però nei Diarii di Marin Sanudo una sconsolante prova di quanto poco queste statistiche riuscissero a influire sulle opinioni correnti (244). Così in quegli stessi anni il patrizio Girolamo Priuli poteva affermare che il "populo veneto" era composto per la maggior parte di "forestieri". Il vicentino Luigi da Porto riprendeva e ampliava questo concetto, ricordando le "nazioni" presenti a Venezia (Greci, Albanesi, Schiavoni ecc.) e concludeva: "pochissimi sono che abbiano il padre nato in Vinegia", laddove nel '500 il concetto di patria si identificava appunto con quello di paese natio, di luogo d'origine della famiglia (245).
Anche la tradizione classica, in cui l'idea di patria appariva in stretta connessione con quella di libertà politica, non aiutava certo ad accettare l'idea di una sorta di patriottismo popolare, nel momento in cui, sulla base di vari scritti umanistici, prendeva forma il "mito" della costituzione di Venezia e del governo dei patrizi, sotto la cui virtuosa direzione c'era sicuramente posto per il popolo nella vita cittadina, ma non nella politica.
Tuttavia, specialmente dopo la crisi della Lega di Cambrai, anche la devozione e la fedeltà del popolo veneziano rappresentarono un elemento di cui bisognava tener conto. Gasparo Contarini fu tra i primi ad elaborare un tentativo di spiegazione: le sue argomentazioni furono largamente riprese da altri trattatisti del '500 e del primo '600, che giustificarono il favore popolare in termini di benessere materiale, senso di sicurezza e soddisfacimento di modeste ambizioni pubbliche nelle cariche delle corporazioni. È però particolarmente degno di nota, nel clima storico della Contro riforma, l'originale contributo del Botero, che definì i popolani di Venezia come "sudditi naturali" della Signoria, liberandosi così da qualunque molesto richiamo alla tradizione dell'antico "arengo", ma al tempo stesso riconoscendo ai popolani una devozione tradizionale nei confronti del potere dogale, ben diversa dai sentimenti attribuibili (anche con le migliori intenzioni apologetiche) ai sudditi della Terraferma, che erano invece "sudditi d'acquisto" (246).
Tra gli elementi caratteristici della situazione veneziana, che potevano giocare un loro ruolo nel mantenimento della pace sociale, non vanno trascurati i legami che univano i popolani alla nobiltà o a singoli casati. Questi rapporti potevano assumere vari aspetti: i nobili, ad esempio, erano i principali clienti di vari servizi ed attività artigianali ed erano molto spesso i padroni di casa dei popolani. Talora anzi si determinavano situazioni di stretta contiguità abitativa, perché i popolani affittavano botteghe e abitazioni ricavate nel corpo degli stessi palazzi patrizi, oppure abitavano una "corte" di cui era ancora padrona un'antica famiglia patrizia o cittadina, che vi teneva la sua "casa da statio" (247). Sia in queste "corti", sia soprattutto nelle ampie periferie urbane di Castello, Dorsoduro e Cannaregio, nonché in aree degradate come San Giacomo all'Orio esisteva un certo numero di abitazioni (circa 650 nella seconda metà del '500) che venivano concesse in uso gratuito a povera gente, non solo per iniziativa di grandi istituzioni caritative, ma anche ad opera di privati (patrizi, cittadini e qualche popolano benestante) (248).
I nobili e i cittadini erano poi tra i principali datori di lavoro dei popolani, da essi impiegati nell'esercizio di attività mercantili o industriali, oppure nei servizi domestici che nel '5-'600 tennero costantemente impegnato l'8-10% dei membri dell'intero ceto popolare, e dunque una percentuale ben superiore della forza-lavoro. Secondo i dati del censimento del 1563, i servitori erano all'incirca 12.900 (le donne, 8.234, erano quasi il doppio degli uomini). Il 58,6% era al servizio dei patrizi, gli altri dei cittadini. Infatti, anche se a questa data esisteva forse già una modesta presenza di serve nelle case dei popolani più benestanti, per una compiuta documentazione di ciò occorre attendere i censimenti del '600 (249).
Fra questi servitori esisteva una gerarchia di funzioni, evidente soprattutto nelle case patrizie, dove essi potevano essere relativamente numerosi (fino a un massimo di 15-20). I compiti più umili erano affidati alla cuoca e ad altre domestiche, spesso ricordate con affetto nei testamenti dai loro padroni, specie se si trattava di "massare vecchie" di casa (250). L'incarico delicato di accompagnare le gentildonne quando uscivano di casa spettava ad altre serve, decorosamente vestite di nero: "sono ordinariamente donzelle, e perciò fanno anche in casa compagnia alle padrone, essendo o presupponendosi che siano honeste e senza malitia" (251). La letteratura e il teatro chiariscono questa riserva mentale del Vecellio, mostrandoci queste servette intente a trescare con servi e facchini per favorire gli amori delle loro padrone.
Più in generale si deve rilevare che a Venezia, come del resto anche altrove, la posizione della serva giovane era resa delicata dal fatto che essa rischiava di diventare oggetto di sfruttamento sessuale da parte del padrone, non molto diversamente dalle schiave che erano state numerose nei secoli precedenti e non erano ancora del tutto scomparse nel primo '500. Del resto le serve, anche quando erano donne libere, appartenevano pur sempre a un ceto sociale inferiore: la tutela del loro onore risultava perciò abbastanza debole, soprattutto nella prassi dei tribunali (252).
Solo nel clima storico della Controriforma si poté assistere al sorgere di qualche iniziativa volta a contenere il fenomeno, naturalmente in un'ottica tesa non all'emancipazione della donna ma alla prevenzione del peccato. Così gli statuti dell'Ospedale dei Mendicanti di San Lazzaro, eretto intorno al 1600, pur prevedendo il lavoro esterno delle ricoverate in laboratori artigianali o come domestiche, facevano obbligo agli amministratori di verificare due volte l'anno le loro condizioni di vita presso i datori di lavoro; d'altra parte, se una fanciulla fosse stata corrotta dal padrone, il principale provvedimento dell'Ospedale sarebbe consistito nel privarla di ogni assistenza: si sperava così di indurre le giovani a difendere con decisione la propria purezza (253). La lotta contro il vizio era poi dichiaratamente alla base di altre istituzioni, come la Casa delle Zitelle, aperta nella seconda metà del '500 per ospitarvi fanciulle povere che, a causa del malgoverno dei familiari, rischiavano di essere avviate alla prostituzione: gli statuti del 1588 erano chiarissimi nel rivolgere miratamente la loro carità solo alle giovani di bell'aspetto, a quelle, cioè, che andando a servire avrebbero corso i maggiori rischi (254).
C'erano però anche domestiche considerate degne di maggiori riguardi: quelle che custodivano la dispensa e la cantina e, soprattutto, le balie che "per la cura che hanno di lattare e governare i figliuoli sono assai rispettate et accarezzate; e nel mangiare, bere e dormire sono trattate meglio dell'altre" (255).
Anche tra i servitori di sesso maschile vi erano personaggi con una loro dignità sociale: era probabilmente un maggiordomo o un maestro di cerimonie quel Gasparo Dragente, fiammingo del ducato di Brabante, che troviamo intorno al 1575 al servizio di una delle famiglie del patriziato più pomposo e aulico, quella di Marcantonio Barbaro (256). Anche i "camerieri" dovevano godere i vantaggi di un rapporto privilegiato con il padrone, talora attestato da qualche modesto lascito testamentario (257).
Un servitore dalle mansioni particolari era poi il gondoliere: secondo il Vecellio ce ne volevano almeno due per barca, l'uno ("il fante di mezo") destinato anche ad altre occupazioni, l'altro ("il fante di poppa") dedito esclusivamente al governo e alla manutenzione della barca. Alcuni di questi gondolieri erano nel '500 schiavi "mori": ciò era possibile in quanto l'importazione di schiavi di religione musulmana fu praticata almeno fino al '600 (258).
Montaigne, nel suo soggiorno veneziano del 1580, ebbe a disposizione gondola e gondoliere per la ragionevole tariffa di 2 lire al giorno (259). Ovviamente il suo barcaiolo non era fra quelli al servizio di famiglie nobili, ma era probabilmente membro di uno dei numerosi "traghetti", che collegavano i diversi punti della città e che curavano anche i collegamenti con Mestre e Murano, sulla base di un tariffario stabilito dalla giustizia vecchia. La licenza di tenere una barca presso un "traghetto", detta "libertà", apparteneva ad un "patrone", che l'affittava ai barcaioli, quando non fosse barcaiolo egli stesso. Alla fine del '500 questi gondolieri erano forse meno numerosi che in passato: nel 1595 se ne contarono 1.741. La loro struttura corporativa era più decentrata di quella delle maggiori Arti: ogni "traghetto" aveva propri statuti ("mariegole") ed eleggeva il suo "gastaldo", coadiuvato dai "compagni" (260).
Durante le guerre contro i Turchi, lo Stato veneziano si servì largamente dei gondolieri dei "traghetti", così come degli altri barcaioli (burchieri, peateri) per completare i ruoli dei rematori sulle galere. In tempo di pace li incaricò inoltre di cooperare all'applicazione delle misure che con sempre maggiore insistenza vennero emanate per tenere lontani dalla città i vagabondi e i mendicanti forestieri: nel 1528 i barcaioli ricevettero l'ordine di notificare il divieto di mendicare a quanti arrivavano a Venezia sulle loro gondole; successivamente fu loro vietato persino di traghettarli, se non volevano aver a che fare con la giustizia e in particolare coi provveditori alla sanità (261).
Interessanti sono anche i rapporti fra i barcaioli e le principali manifestazioni della religiosità pubblica: se i "burchieri", con le loro imbarcazioni di maggiori dimensioni, ebbero dopo il 1577 l'incarico di "formar il ponte che annualmente si fa sul canale della Zuecca per la festa del Redentore" (262), anche i barcaioli dei "traghetti" avevano le loro forme di devozione organizzate in piccole Scuole o fraglie: facevano erigere e tenevano ornate immagini sacre presso i "traghetti" o in qualche chiesa; la Scuola del traghetto di Mestre e Marghera, con sede a San Giobbe, commissionò all'affermato pittore Paris Bordon una pala per il suo altare, facendovi rappresentare i santi Andrea, Pietro e Nicolò (263). Al pari di altri popolani, alcuni barcaioli erano inoltre membri, assieme ai cittadini e ai patrizi, di una Scuola grande (264).
Lo sforzo implicito nella sorveglianza statale sui barcaioli e nel tentativo di garantire loro un'assistenza socio-religiosa è tanto più notevole ove si consideri che questa categoria godeva di pessima fama: autentici ruffiani, bestemmiatori e vilissima gente, secondo il Garzoni e il Coryat. In effetti i loro nomi ricorrono con una certa frequenza nei processi per stupro; e talvolta gli stessi membri dei "traghetti" dovettero invocare l'aiuto delle autorità contro barcaioli particolarmente violenti (265).
Come già sappiamo, i gondolieri denunciati per comportamenti asociali sarebbero finiti davanti agli esecutori alla bestemmia (266); e a trascinarli davanti al tribunale avrebbero provveduto, con uno zelo proporzionato agli utili che speravano di trarne, il capitano e i tre "fanti" di questa magistratura: anch'essi dei popolani, che però erano riusciti a inserirsi all'interno di un apparato burocratico in espansione, sia pure con mansioni chiaramente subalterne. Possiamo partire proprio da loro - avvalendoci di un'ottima ricerca di Renzo Derosas - per esaminare le modalità della presenza del ceto popolare negli uffici.
Notiamo anzitutto che i loro stipendi nominali non sarebbero stati di per sé molto allettanti; tanto più che non venivano corrisposti con regolarità (267). Perciò i funzionari contavano soprattutto sulle "utilità": riscuotevano direttamente dal condannato, sulla base di appositi tariffari, quanto da lui dovuto per le spese processuali (così il malcapitato pagava anche per essere interrogato sotto tortura) (268).
Data la delicatezza delle funzioni di questa magistratura veneziana, ci si sarebbe potuti aspettare che anche i funzionari inferiori fossero scelti dai magistrati con oculatezza. Invece si concedeva spesso a qualche anziano "ministro" l'assegnazione ereditaria dell'ufficio a vantaggio di un figlio, o anche di una figlia. In quest'ultimo caso si imponeva ovviamente la nomina di un sostituto: si trattava, del resto, di una pratica assai più largamente diffusa, che mascherava l'affitto dell'ufficio. Che poi il personale di polizia reclutato a questo modo risultasse dei migliori, non si può certo dire: frequenti furono infatti i licenziamenti e le denunce per corruzione; mentre in altri casi, per ristabilire la disciplina, i magistrati si trovarono costretti a minacciare i "fanti" di sottoporre anche loro a "tre tratti di corda" (269).
Situazioni analoghe si riscontrano presso altre importanti magistrature, come quella dei provveditori alla sanità (270). Anche nelle dogane il numero dei "ministri" crebbe fino a pregiudicare la funzionalità del servizio: intorno al 1590 erano ben 120. E guai se si cercava di mettere ordine nella selva delle loro "utilità": persino i fanti degli uffici erano lì per una "grazia", e quindi pretendevano che non si riducessero i proventi dell'ufficio loro assegnato (271).
Ma non era solo la redditività della carica a giustificare la generalizzata aspirazione dei Veneziani a un impiego pubblico: vi si aggiungeva il desiderio di sicurezza economica e di un certo prestigio sociale. Questo poteva variare a seconda dell'incarico espletato: i fanti degli esecutori avevano quotidianamente a che fare con bravi, barcaioli e prostitute; i diciotto soprastanti alla sanità sorvegliavano - intascando mance - la qualità dei cibi messi in commercio da "beccheri, pescadori, luganegheri, fruttaroli et altri"; mentre i circa cinquanta "comandadori" o banditori eletti dal doge erano deputati a varie magistrature e partecipavano alle grandi processioni ducali. Vero è che anche per queste cariche è attestato, specie nel '600, l'affitto e il conseguente scadimento (272).
Alcune caratteristiche tipiche degli uffici burocratici minori, come una certa considerazione sociale e la tendenza alla trasmissione ereditaria, si ritrovano anche nell'Arsenale (coi suoi 2.500-4.000 dipendenti) e nella Zecca, cioè là dove un insieme di attività artigianali confluiva per volontà dello Stato in stabilimenti di grandi dimensioni coordinati da magistrati patrizi e da funzionari popolani, che erano sostanzialmente dei tecnici.
Secondo il segretario Milledonne, cariche come quella dell'ammiraglio e dei proti dell'Arsenale (ed anche quelle minori di "portoneri", "guardiani" ecc.) erano tra le più prestigiose che potessero toccare a un popolano. In effetti l'ascesa sociale delle famiglie che si erano inserite nelle più importanti funzioni tecnico-amministrative dell'Arsenale poteva arrivare molto lontano: i Bressan, "che dominarono ininterrottamente in Arsenale per circa un secolo dagli ultimi decenni del '400" (273), riuscirono a collocare uno di loro negli uffici della cancelleria ducale; e anche gli Alberghetti, fonditori in Arsenale e costruttori di artiglierie per tre secoli, ottennero la cittadinanza originaria (274).
Più modesti di loro, altri artigiani dell'Arsenale avevano comunque accumulato un'esperienza tecnica che li rendeva potenziali interlocutori di Galileo, come l'insigne scienziato ricordò in una celebre pagina, in cui ebbe a definirli "peritissimi" (275). Ma le cognizioni di cui il Galilei accreditava i proti dell'Arsenale non erano per lo più il frutto della scuola o di un sapere libresco: scuole e libri rispondevano infatti prevalentemente ad altre finalità. In particolare il sistema scolastico veneziano, anche dopo l'istituzione da parte del senato delle scuole pubbliche di sestiere nel 1551, restava prevalentemente indirizzato alla formazione umanistica dei nobili e dei cittadini. È vero che debbono essere presi in considerazione anche i circa 250 precettori (per oltre il 60% chierici) che in un'inchiesta del 1587 risultano dediti all'insegnamento privato (con un totale di circa 4.500 scolari, quasi tutti maschi). Tuttavia, anche volendo conteggiare gli alunni di questi maestri e quelli delle scuole di Dottrina Cristiana, che impartivano un'istruzione elementare, si può ragionevolmente supporre che solo un terzo dei Veneziani maschi riuscisse a conseguire un certo grado di alfabetizzazione: tra i popolani attendevano agli studi soprattutto quelli che erano destinati dalla famiglia a occuparsi di qualche attività commerciale, come i venti allievi della "scuola de mercadanti da vin", che a San Silvestro imparavano l'abaco e la partita doppia (276). Non erano certamente analfabeti i proti dell'Arsenale (qualcuno di loro ha redatto interessanti brogliacci di appunti, tanto preziosi per gli storici quanto difficili da decifrare); ma lo erano alcuni degli artigiani alle loro dipendenze (277). Inoltre va notato che nessun manuale dell'epoca era concepito in modo tale da poter trasmettere un'adeguata istruzione di carattere tecnico: perciò le maestranze potevano impadronirsi del secolare patrimonio di conoscenze empiriche della cantieristica veneziana (quelle "osservazioni fatte dai loro antecessori" cui alludeva il Galilei) solo mediante un tirocinio condotto sotto gli occhi di "artefici" già esperti (278).
Proprio la volontà di non disperdere queste competenze, bensì anzi di custodirle gelosamente, rappresenta la motivazione razionale delle decisioni assunte dalle autorità veneziane tra il 1601 e il 1629 al fine di riservare l'ammissione al garzonato e quindi anche la successiva carriera nell'Arsenale solo ai figli dei maestri. Ma certo contribuirono a tale scelta le pressioni di questi sperimentati artigiani, prontamente recepite da un patriziato incline a credere che le virtù e le attitudini professionali fossero ereditarie. Il peso del pregiudizio aristocratico si avverte nella curiosa disposizione secondo cui i beneficiari di questo trattamento di favore dovevano dimostrare di essere figli legittimi dei maestri, in analogia a quanto si praticava per i patrizi e i segretari (279).
Altre Arti veneziane non godevano dei privilegi derivanti da una così stretta associazione col governo della Repubblica. È tuttavia possibile indicare anche per esse una sorta di gerarchia, sulla base del prestigio sociale che veniva loro comunemente riconosciuto e che talora otteneva una pubblica sanzione. Un momento particolarmente importante nella storia della discriminazione fra arti nobili ed arti vili e meccaniche si ebbe a Venezia alla fine del '500, quando il collegio della milizia da mar volle mettere ordine nei criteri di reclutamento dei rematori della flotta. In quell'epoca le galere in normale servizio di pattugliamento erano ormai quasi tutte armate coi condannati al remo; ma una legge del 1539 prevedeva che in caso di guerra anche le Arti e le Scuole grandi dovessero fornire dei contingenti di galeotti, al pari delle popolazioni della Terraferma. Per tale ragione nel 1595 fu deliberato un censimento degli iscritti alle Arti, tra i quali sarebbero poi stati sorteggiati i 9.000 uomini da arruolare in caso di necessità. In realtà si sapeva benissimo che i cittadini e i popolani benestanti non sarebbero mai saliti su una galera; infatti avrebbero sempre potuto ricorrere alla pratica perfettamente legale della "sostituzione", presentando al loro posto qualche poveraccio disposto ad arruolarsi in cambio di adeguato compenso. Quindi solo i più poveri, come alcuni fabbri o i barcaioli, rischiavano di dover servire di persona. Tuttavia furono proprio le Arti più ricche e prestigiose quelle che insorsero contro l'umiliante iscrizione dei loro membri nei ruoli dei galeotti ed ottennero abbastanza facilmente di poter patteggiare con la milizia da mar una diversa forma di contribuzione. Significativo l'elenco dei privilegiati: primi fra tutti i mercanti di lana della camera del Purgo, che vantavano nelle loro file molti cittadini e alcuni patrizi; poi i mercanti di seta, i "marzeri" (difficile immaginare i Bontempelli del Calice e i della Vecchia nei ruoli dei galeotti), ed anche gli orefici e i gioiellieri, le cui famose botteghe, concentrate nell'area di Rialto, erano frequentate da mercanti provenienti da tutta l'area mediterranea e rappresentavano uno dei simboli della ricchezza di Venezia (280).
Le altre Arti, forse meno ricche, sicuramente meno prestigiose, non furono in grado di procurare un simile privilegio a tutti i loro iscritti. Non si disconosceva l'evidente importanza di questi mestieri, dai quali la città dipendeva sia sotto il profilo dei rifornimenti alimentari, sia quanto alla fornitura di materie prime (come la legna e i materiali da costruzione), di prodotti finiti e di servizi; ma all'interno di un'ottica rigidamente aristocratica, spinta fino alle sue estreme conseguenze da Francesco Patrizi nella sua opera La città felice (che in fondo idealizzava il modello veneziano), era possibile separare il riconoscimento dell'utilità delle Arti dall'attribuzione ad esse di un'elevata considerazione sociale.
"Abbia dunque da mangiare e da bere la città se desidera vivere ed esser beata", scriveva il Patrizi (per il quale gli "artefici non saranno del numero de' beati, stando essi tutta la vita loro discomodi et occupati, per accomodare e disoccupar altrui" (281); e Francesco Sansovino celebrava con enfasi nella sua Venetia città nobilissima et singolare la relativa autosufficienza delle contrade cittadine, piccole "città separate" che in effetti riuscivano a soddisfare al loro interno alcuni elementari bisogni. L'acqua si attingeva alle cisterne o "pozzi", ma veniva anche condotta in città dalle barche degli acquaroli per l'uso della popolazione e delle varie attività industriali (282). L'approvvigionamento di grano, la confezione e la vendita del pane mobilitavano, sotto la sorveglianza dei provveditori alle biave, diversi mestieri, come mercanti di frumento, crivellatori (suddivisi in pesatori e misuratori) e fornai. Anche questi ultimi si suddividevano in due Arti: alla fine del '500 c'erano 189 "forneri" (maestri, lavoranti e garzoni) che confezionavano il pane con farina altrui per uso dei privati; mentre i 349 "pistori" (anch'essi suddivisi fra maestri e lavoranti) lo vendevano nelle "pistorie" sparse per le contrade, rispettando un calmiere le cui variazioni agivano non sul prezzo ma sul peso del pane. Essi rifornivano anche i rivenditori delle "panatarie", i quali si autodefinivano "semplici servitori dei pistori, e loro salariati" (283).
Il vino, che costituiva un'integrazione indispensabile della dieta per il suo alto apporto calorico, si vendeva nei "magazeni da vin" o bastioni, che occupavano un posto importante nella vita popolare ma erano guardati con sospetto dalla magistratura degli esecutori, che li bollava come ritrovi di oziosi e di bestemmiatori. Il sistema di rifornimento delle contrade si completava con i "fruttaroli" (se ne contavano 438 nel 1595), qualche "luganegher" o salumiere e pochi "galineri" (rispettivamente 209 e 93 alla stessa data (284)). Invece la vendita della carne e del pesce si concentrava nelle beccherie e pescherie di Rialto e sul mercato di Terranova a San Marco (285).
In queste o in altre consimili attività di produzione e di spaccio di generi alimentari, le differenze di reddito e soprattutto la varia collocazione fra i grossisti, i venditori al minuto o gli addetti ad attività manuali finivano coll'incidere profondamente sulla posizione sociale dei singoli. In particolare, la condizione di mercante all'ingrosso e l'onorabilità che le veniva riconosciuta spianarono la strada al conferimento della "cittadinanza originaria" a qualche mercante di vino e a qualche "compravendi pesce". Viceversa i pescatori della contrada di San Nicolò dei Mendicoli, pur legati ai "compravendi pesce" da una comune origine, furono discriminati ed esclusi dagli uffici riservati ai cittadini (286). Ad ogni modo, anche fra i "nicolotti" esistevano distinzioni legate al prestigio: il "Gastaldo Grande" veniva sempre eletto all'interno di una decina di "vecchie famiglie" di "boni" nicolotti originari; analogo discorso vale per gli altri componenti della "banca", che affiancava il gastaldo e che nel '5-'600 tese a gestire la comunità in forme sempre più nettamente oligarchiche, esautorando l'assemblea generale. Del resto, molti dei "nicolotti" erano davvero troppo poveri per poter nutrire ambizioni maggiori di quelle che si esprimevano nella partecipazione al tradizionale combattimento dei Pugni (che li contrapponeva ai popolani del sestiere di Castello) (287).
Una ben più elevata e orgogliosa consapevolezza traspare nella supplica di alcuni "taiapietra" o scalpellini, che nel 1588 presentarono alla Signoria una loro nuova tecnica costruttiva. L'idea era venuta loro "vigilando continuamente all'utile e beneficio sì del publico come del privato"; ed essi miravano a inserirsi nel fervore di iniziative che si manifestava in quegli anni a Venezia col rifacimento in pietra del ponte di Rialto e con l'avvio della fabbrica delle Procuratie nuove ("vedendo che continuamente di giorno in giorno questa illustrissima sua città si va renovando, abbellendo di nuove et importanti fabriche, cercando di più politi modi, nuovi e belli, acciò che affatto si facci pomposa et utile") (288). Il tono alto si giustifica in quanto alle spalle di questi per il resto oscurissimi "Pompeo Bianchi tagliapietra e compagni" stavano un mestiere e un'Arte che avevano contribuito a rinnovare il volto della Venezia cinquecentesca, avendo annoverato nelle proprie file nomi importanti come quello dello Scarpagnino e di altri maestri, in parte anche forestieri. E si trattava di un'Arte significativa per l'economia cittadina: nel 1595 i tagliapietra erano 224, mentre il totale degli addetti all'edilizia si aggirava, secondo gli studi del Rapp e del Sella, intorno ai 1.500 (289).
Fra le altre attività industriali praticate nella Venezia del '5-'600 alcune conobbero una grave e inarrestabile crisi, come la cantieristica privata (concentrata negli "squeri" del sestiere di Castello) negli anni successivi alla guerra di Cipro; mentre altre industrie tradizionalmente presenti a Venezia o nelle isole vicine conservarono a lungo vivacità e prestigio, come le vetrerie di Murano e le saponerie, che nella seconda metà del '500 tendevano a dislocarsi nei sestieri periferici di Cannaregio, Dorsoduro e Santa Croce. Fra le attività industriali di più recente insediamento ebbe un rapido sviluppo l'arte della stampa, legata non solo ai nomi prestigiosi del Manuzio o del Giunti, ma a tutta una folla di editori e tipografi, molti dei quali forestieri (290).
Nessuna di queste attività è tuttavia paragonabile, per il volume delle esportazioni e per la dimensione della manodopera impiegata, al settore tessile, che nella seconda metà del '500 dava lavoro a circa 7.000 addetti, fra cui oltre 2.000 nell'industria della seta e oltre 3.000 in quella della lana (291). Lo sviluppo della produzione laniera fu promosso dai mercanti della camera del Purgo, i cui interessi erano prevalentemente legati alle esportazioni verso il Levante: si trattava dunque di un gruppo relativamente omogeneo rispetto alla élite mercantile veneziana. Le lavorazioni relative a questo settore si concentravano nelle contrade occidentali, dove erano ospitate le "chiovere", cioè gli ampi prati dove i tintori lasciavano asciugare all'aria i panni. In particolare nel sestiere di Santa Croce ebbe sempre sede la camera del Purgo; ed in quel medesimo sestiere si affollavano i tessitori, affittuari poco amati dai proprietari di case perché considerati "mali et sinistri pagadori per esser molto poveri" (292).
Su questi poveri artigiani è gravato a lungo il sospetto di avere indebolito con le loro azioni corporative le capacità di concorrenza della loro industria; ma a un esame più ravvicinato quest'accusa si è rivelata ingenerosa e poco fondata. Infatti certe scelte fatali, come quella di puntare sui prodotti di alta qualità, furono compiute in primo luogo dal governo; quanto poi alle iniziative intraprese in difesa dei salari reali dei membri delle Arti, è stato osservato dal Tucci che esse ebbero esiti modesti per la lentezza e macchinosità di un sistema di contrattazione che prevedeva lunghe trattative fra mercanti e artigiani in vista della mediazione governativa, che infine fissava le tariffe del cottimo. Inoltre le Arti che riunivano gli artigiani del settore tessile furono sempre molto deboli: F.C. Lane ha osservato che esse raggiunsero una certa strutturazione solo nel 1539, cioè in conseguenza della già ricordata iniziativa delle autorità tesa a riorganizzare il reclutamento dei galeotti (293).
La scarsa incisività dell'azione delle corporazioni del settore della lana (tranne naturalmente quella dei mercanti) si giustifica anche col fatto che la produzione si suddivideva in diverse fasi, molte delle quali non richiedevano una perizia particolare e venivano affidate a lavoratori non inquadrati in una propria arte. Ferma restando l'indubbia professionalità di categorie come quelle dei tintori e dei tessitori, molti dei quali immigrati da tradizionali centri dell'industria laniera come Firenze, era per il resto possibile attingere a masse di manodopera non specializzata già da tempo presenti in città o portatevi da una recente immigrazione. Come scrissero coloritamente i "revedini di panni", il loro mestiere, che non era organizzato in un'Arte distinta da quella dei cimatori e garzatori (come invece essi avrebbero voluto), veniva di fatto usurpato da "barcaroli meretrici massare et ogni altra sorte e qualità di persone e di cadauna altra arte et esercitio" (294).
È evidente l'importanza del ruolo esercitato in questo contesto dalla immigrazione di lavoratori dalla Terraferma, che dovette colmare, almeno parzialmente, i vuoti prodotti dalla peste del 1576. Ma cosa accadeva durante le crisi congiunturali? Il fatto che a Venezia non si siano mai manifestati fenomeni di disoccupazione veramente vistosi ha indotto gli studiosi a ipotizzare che in queste contingenze il movimento migratorio invertisse il suo corso. Lo confermerebbe, sia pure in un'ottica troppo angusta per spiegare i meccanismi della crisi, una supplica presentata nel 1587 dagli appaltatori del dazio sulle importazioni di grano a Venezia: avevano sbagliato le loro previsioni sui consumi e ci avevano rimesso, perché in quegli anni segnati dalla carestia (e probabilmente anche per le difficoltà economiche dell'impero turco, principale mercato di sbocco dell'industria veneziana) "molte migliaia di mercanti, artisti e mercenari, per le strettezze de' tempi e per mancarli il modo di lavorare erano usciti della città" (295).
Quanti non intendevano abbandonare Venezia nei periodi di ristagno della produzione o in occasione delle disgrazie di vario genere che potevano abbattersi sulle famiglie artigiane (solitamente molto più fragili di quelle patrizie o cittadine) (296) potevano essere tentati di abbracciare qualche nuovo mestiere scelto fra i molti che non richiedevano un'elevata specializzazione, non erano rigidamente sorvegliati dalle Arti e non comportavano consistenti investimenti di capitale (il caso limite, certo suggestivo, ma di una pittoricità che sovente mascherava la miseria, era quello delle cosiddette "Arti che vanno per strada").
Un certo sostegno alle famiglie in difficoltà poteva venire dai piccoli prestiti su pegno concessi dai banchi ebraici (297). C'erano poi gli aiuti delle confraternite, che a Venezia erano numerosissime e seguivano nella loro attività istituzionale tre principali modelli. Le più capillarmente diffuse erano le confraternite devozionali, o "Scuole piccole", che però non manifestavano una particolare vocazione per l'attività caritativa. L'assistenza ai propri membri era invece una delle principali finalità delle Scuole legate a un'Arte o a un mestiere; ma anche qui le spese per finalità devozionali superavano tutte le altre (298). C'erano infine le già ricordate Scuole grandi, in numero di cinque (cui si aggiunse nel 1552 quella di San Teodoro). Vantavano una significativa presenza patrizia, ma erano dirette dai cittadini e comprendevano altresì una limitata parte dei popolani di Venezia (forse il 2% della popolazione; è vero che per loro tramite gli aiuti potevano raggiungere anche i loro nuclei familiari). Queste Scuole erano sorte a partire dal secolo XIII per rispondere a bisogni non esclusivamente materiali, sulla spinta emozionale del grande moto religioso dei Flagellanti (299).
Nel '500 le Scuole grandi erano ormai in una fase tarda della loro esistenza (300). Ma alcuni aspetti della loro pietà, come l'assistenza ai confratelli malati, l'accompagnamento alla sepoltura e la celebrazione di messe per i defunti erano ancora molto popolari e sentiti, anche se già sollevavano contrasti e obiezioni: l'archetipo di questo conflitto di mentalità lo cogliamo nello stesso Erasmo da Rotterdam, che a Venezia osservò con perplessità le solenni esequie in uso nelle Scuole, da lui poi descritte in uno dei più belli fra i suoi Colloqui, Funus ("Il funerale"), con un tono fra il distaccato e lo scettico. "Mi ha fatto ridere", scrive, "quella loro inutile pompa, quello sfarzo da poveretti", in occasione delle esequie di un qualsiasi ciabattino, accompagnato da seicento confratelli e da alcuni ecclesiastici (301).
La religiosità di Erasmo era profondamente diversa e non mancò di raccogliere adesioni nella stessa Venezia. Ma il problema poteva essere affrontato anche in un'altra ottica: man mano che il secolo avanzava si faceva sempre più grave quel fenomeno della mendicità che lo stesso Erasmo, assieme a Ludovico Vives, era stato tra i primi ad avvertire e a segnalare. In tale contesto doveva farsi più nettamente sentire il contrasto fra la fine terrena di questi artigiani, poveri o potenzialmente poveri, ma ben inseriti nelle plurisecolari istituzioni della vita cittadina, e la squallida fine dei mendicanti che morivano in stato di totale abbandono.
Non tutti coloro che giungevano a Venezia da varie parti d'Italia e d'Europa per farvi fortuna o per vivervi secondo i propri gusti erano poi egualmente desiderosi e capaci di giungere a un pieno inserimento nella vita della società veneziana. L'analisi di questi casi di integrazione mancata dovrebbe essere articolata secondo i ceti e le attività economiche esercitate: per un mercante, specie se proveniente da un Paese cattolico, poteva riuscire abbastanza agevole un primo inserimento nella comunità mercantile, anche se gli occorreva un lungo periodo di residenza per purgarsi del sospetto di aver voluto semplicemente sfruttare i vantaggi dei privilegi commerciali veneziani per poi allontanarsi alla prima occasione. Un artigiano doveva invece confrontarsi con gli statuti (mariegole) di alcune Arti, che, oltre ad imporre un lungo tirocinio, concedevano rilevanti privilegi ai figli dei maestri e cercavano di regolare l'ammissione dei nuovi venuti attraverso la difficoltà delle prove d'ingresso. Tuttavia anche questi ostacoli erano raramente insormontabili, specie in situazioni di scarsità di manodopera come quella prodottasi dopo la peste del 1576 (302).
A volte, però, le resistenze all'integrazione provenivano anche dagli stessi immigrati, per i quali il lavoro trovato a Venezia non era motivo sufficiente per troncare i legami con il luogo d'origine. Il tema è sfiorato da Paolo Paruta in una celebre pagina, che è l'eco aristocratica di un'esperienza quotidianamente osservata al livello delle "persone molto rozze e incolte". Proprio la loro ignoranza ed i loro comportamenti ispirati solo da "istinto di natura" dimostravano secondo il Paruta la naturalità dell'amore di patria, inteso come "affetto" verso il "terreno natio" e quindi come sentimento non legato alla bellezza del luogo o alle comodità e ai vantaggi da esso offerti: "quanti sono quelli che i luoghi alpestri e sterili, ove nati e educati sono, non cangeriano" a nessuna condizione "co' più belli e più fertili del mondo?" (303).
Qui Paruta avrebbe potuto citare, e forse l'aveva in mente, l'esempio dei poveri immigrati delle vallate bergamasche, soprattutto facchini, scesi a Venezia coll'intenzione di guadagnarvi di che vivere per poi tornare al loro paese d'origine: nella Dominante davano vita a comunità quasi esclusivamente maschili, che costituivano "microsocietà non integrate" (304).
C'era poi tutto un colorito ambiente di irregolari, vagabondi, bravi e prostitute, che nella società veneziana cercavano di inserirsi a modo loro, ma venivano respinti e emarginati dagli ambienti più rispettabili. Indubbia, nella maggior parte dei casi, la loro estrazione popolare, che segnava il loro destino. È vero che potremmo citare i casi apparentemente analoghi, di molti patrizi violenti, di rispettabili "cittadine" amiche di nobili influenti e di letterati, ma dedite alla prostituzione (come Veronica Franco), e di patrizi così poveri da doversi raccomandare alla pietà dei fedeli, mentre i loro figli per vivere diventavano essi stessi dei bravacci (305). Ed è vero che anche in questi casi poteva talora scattare il meccanismo dell'emarginazione, della discriminazione, della condanna; ma si ha sempre l'impressione che si trattasse di "casi" imbarazzanti per le stesse autorità, che se ne occupavano al più alto livello, specialmente in consiglio dei dieci, affidando invece la sorte dei popolani agli esecutori alla bestemmia, ai signori di notte, ai provveditori alla sanità e ai funzionari minori di tali magistrature.
Se dunque l'arroganza di molti nobili e la frequenza delle condanne al bando, facilmente infrante, determinavano nella Repubblica e nella stessa Venezia una presenza di "banditi" anche di condizione sociale elevata, era però generalmente percepito un legame tra la miseria e il crimine. Come cioè, a un livello popolare un po' più alto, esisteva una circolazione fra mestieri diversi, così si riteneva che a un livello sociale più basso e degradato non vi fosse poi tanta distanza tra la mendicità, la condizione di bravo e una prassi delittuosa. I decreti del consiglio dei dieci sono espliciti nell'affermare questa identificazione del vagabondo con il bravo, di cui oggi non siamo affatto certi (306). Ma forse qualcosa di vero ci poteva essere: l'esperienza insegnava ai popolani più miseri che la morte sulla forca rientrava nel novero delle disgrazie possibili. Perciò al sursum corda della messa trasalivano e si segnavano devotamente la gola "non per altro salvo perché in lingua italiana il laccio si noma corda" (307).
Sono ben note le energiche misure assunte dalla Repubblica nel '500 per cercare di ristabilire l'ordine pubblico: taglie in denaro, inasprimento delle pene ecc. Questi provvedimenti erano probabilmente necessari; forse rappresentavano un momento di crescita dello Stato, che si faceva parte diligente nel difendere la sicurezza dei sudditi (308). Ma proviamo a considerare la sorte di coloro che, colpevoli o innocenti, incappavano nei rigori della giustizia. Anche quando non finivano sul patibolo, accompagnati e confortati dai confratelli della Scuola di San Fantino o della Buona Morte, o non venivano mandati a remare sulle galere, avevano comunque dovuto scontare una prolungata carcerazione preventiva. In questa fase i detenuti potevano contare, oltre che sulla teorica assistenza degli avvocati dei prigionieri, su qualche concreto aiuto da parte della Compagnia della Carità del Crocifisso, istituita alla fine del '500; in qualche prigione gli stessi reclusi costituivano una Scuola con propri statuti, la cui lettura risulta oggi commovente e patetica. Ma le "suppliche" con cui i guardiani delle prigioni chiedevano un aumento dei loro davvero miseri salari ci riportano al vero clima di queste "Malebolge": frequenti le risse tra sorveglianti e detenuti, con morti e feriti; continue le fatiche dei ministri di giustizia, sia nel "tenir li rei in cepi" per evitare che fuggissero, sia nel fornire la propria collaborazione tecnica agli interrogatori condotti dai magistrati, con "il dar la corda" agli accusati e poi "drizar li braci" che si erano dolorosamente slogati (309). Vista dalle prigioni, la giustizia veneziana rivela drammaticamente l'insufficienza delle sue strutture: si pensi che le carceri, sempre troppo piene e perciò bisognose di essere vuotate con opportune amnistie (310), erano situate all'interno di palazzo Ducale: tra le preoccupazioni dei guardiani doveva dunque esserci anche quella di evitare che i prigionieri, accendendo dei fuochi per riscaldarsi, finissero col danneggiare la soprastante sala del maggior consiglio. Sotto questo aspetto, la costruzione delle nuove prigioni, attuata nel primo '600, fu estremamente provvidenziale (311).
Tra '500 e '600 una consistente maggioranza del patriziato di governo si convinse che anche i mendicanti dovessero essere, se non proprio forzatamente reclusi, almeno allontanati dai "campi" e dalle chiese cittadine dove chiedevano la carità. Fu questo lo sbocco di una complessa evoluzione dell'atteggiamento dei ceti dirigenti nei confronti dei poveri senza fissa dimora, che nel corso del secolo XVI furono sempre più nettamente percepiti come una potenziale minaccia. Di fronte al drammatico afflusso dei bisognosi provenienti dalla Terraferma, specie in occasione di grandi carestie come quella del 1528, si affermò progressivamente anche a Venezia, come nel resto d'Europa, la discriminazione fra i "veri" poveri meritevoli d'aiuto (perché inabili per età o malattia) e coloro che invece avrebbero dovuto guadagnarsi da vivere col loro lavoro. I mendicanti forestieri dovevano essere espulsi: i contravventori di queste norme rischiavano, fra le altre pene, di essere condannati al remo (312). Però ancora alla metà del '500 persistevano dei dubbi sulla possibilità di abolire ogni forma di mendicità: gli stessi provveditori alla sanità, che pure erano all'avanguardia nella lotta contro i vagabondi, rilasciavano ancora delle licenze di accattonaggio, in considerazione dell'insufficienza delle strutture d'accoglienza, spesso gestite da confraternite, come gli "ospedali" (ospizi) (313). Solo nel 1594 si deliberò di riunire gli indigenti privi di domicilio fisso nel nuovo Ospedale di San Lazzaro dei Mendicanti, dove sarebbero stati alloggiati in via stabile o transitoria (in vista di un'eventuale collocazione lavorativa) (314).
Quando anche quest'istituzione fu compiutamente realizzata, Venezia poté contare su qualcosa di simile a una rete assistenziale, che inglobava, in modo tutt'altro che razionale, vecchie e nuove strutture: i più antichi Ospedali dei Santi Giovanni e Paolo e della Carità assistevano i malati, i trovatelli e gli orfani, come il più recente Ospedale dei Derelitti (Ospedaletto), sorto negli anni '30 del Cinquecento e aperto anche ai poveri della Terraferma. Gli Incurabili, a partire dal 1522, accolsero i malati di sifilide; l'Ospedale di Sant'Antonio si specializzò nell'assistenza ai vecchi marinai e rematori. La lotta alla prostituzione fu condotta, oltre che dalle Zitelle, dal Soccorso (che accoglieva le donne allontanate da casa come adultere) e dall'istituzione monastica delle Convertite, aperta alle prostitute redente. Anche l'assistenza ai "poveri vergognosi" fu riorganizzata, sulla base di una delibera dei provveditori alla sanità del 1545, che affidarono alle contrade la raccolta dei fondi e la loro distribuzione: a tale compito doveva provvedere il parroco coadiuvato da sei deputati (due nobili, due cittadini e due artesani) (315).
Malgrado le apparenze, la modernità di queste istituzioni non deve essere troppo enfatizzata: la carità veneziana continuava in larga misura ad appoggiarsi alle istituzioni della città tardo-medievale, come le Scuole grandi e le numerosissime Scuole piccole, tutt'altro che all'avanguardia nella nuova politica dell'assistenza. Deve inoltre far riflettere la viva ammirazione che gli ambasciatori veneti del '600 manifestarono per le realizzazioni del sistema assistenziale olandese e soprattutto per la ben più radicale lotta alla mendicità colà condotta anche per mezzo delle case di lavoro coatto (316).
Rispetto al resto d'Europa, la Venezia del '500 non costituisce interamente un mondo a parte. Vi si ritrovano per esempio molte delle grandi paure collettive delle società di Antico Regime: il timore dei vagabondi e dei bravi, la costante paura della peste, del contagio ereticale e degli infedeli. Anche le terribili guerre del primo '500 avevano lasciato un indelebile ricordo. Però tutti questi timori non potevano saldarsi a Venezia in una generalizzata ostilità verso i forestieri: lo impediva, ad ogni livello sociale, il carattere mercantile e cosmopolita della città; vi ostava, nelle alte sfere governative, la ragion di stato (cioè il criterio mercantesco dell'"utile" applicato alla politica).
Il problema poteva però essere risolto per via burocratica, inquadrando cioè anche i forestieri in una rete di rassicuranti controlli: a partire dal 1583 la sorveglianza sui sudditi esteri giunti a Venezia per qualsiasi motivo fu esercitata in modo capillare dagli esecutori alla bestemmia (317). Erano inoltre possibili ulteriori interventi di altre magistrature, come i provveditori alla sanità, per le materie di loro competenza.
Molto più complessa, anche per la presenza di spinte contraddittorie in seno al ceto dirigente, doveva presentarsi la questione della sorveglianza antiereticale, nelle nuove circostanze determinate dal consolidamento della frattura religiosa nell'Europa della metà del '500. Ci troviamo certamente di fronte a un nodo fondamentale per la comprensione delle situazioni oggettivamente diverse in cui venivano a trovarsi, a seconda della loro confessione religiosa, le varie "nazioni", cioè le comunità etniche (costituite da consistenti nuclei di mercanti, marinai e artigiani residenti a Venezia), che ottenevano dalla Signoria il permesso di organizzarsi in Scuole, e poi affidavano ai loro organi direttivi funzioni di rappresentanza e di tutela degli interessi collettivi. È noto che, anche quando si trattava di comunità prevalentemente protestanti, la Repubblica teneva in alta considerazione la loro funzione economica (e a volte anche politica) e provvedeva a frenare, per il tramite dei savi all'eresia, l'eccessivo e importuno zelo dell'Inquisizione nei loro confronti, purché non dessero scandalo.
Si trattava però di una semplice tolleranza, che conteneva in sé un elemento di discriminazione, latente o conclamata, ai fini di una futura eventuale integrazione nella comunità maggioritaria. Del resto, già prima della Riforma, la questione dell'ortodossia era stata, a giudizio del Thiriet, la vera causa della diversa sorte della "nazione" albanese e della greca: a differenza di quella, questa non si era potuta integrare, nonostante alcuni matrimoni misti (anche il doge da Ponte era di madre greca); poté solo raggiungere un certo modus vivendi con le autorità (318).
Data la delicata posizione geopolitica dello Stato veneziano, quest'intesa coi Greci era assolutamente indispensabile. Ufficialmente, nei rapporti con la Santa Sede, ci si poteva richiamare all'effimera riconciliazione fra Chiesa greca e Chiesa latina, proclamata nel 1439 dal Concilio di Firenze; però i greci dello "Stato da mar" (da cui in netta maggioranza provenivano i membri della "nazione greca" di Venezia, pochissimi essendo invece i sudditi dell'impero turco) non si limitavano a difendere la peculiarità dei loro riti, che avrebbero anche potuto essere tollerati, in ultima istanza, da parte romana; in realtà l'autonomia del loro clero si spingeva fino a un pieno riconoscimento della superiorità gerarchica del patriarca di Costantinopoli (319).
Nel perseguire una prudente politica di mediazione il governo veneziano doveva dunque destreggiarsi fra spinte diverse (non ultima l'intolleranza del clero latino): perciò nel corso del '500 la sua azione non risultò sempre lineare ed il suo atteggiamento apparve relativamente più liberale verso i Greci di Venezia, e meno aperto verso quelli delle isole; anche il problema della residenza di un prelato greco fu risolto con l'insediamento dell'arcivescovo di Filadelfia, Gabriele Severo, nella Dominante e non a Candia "per non venir a qualche scandalo col vescovo latino" dell'isola (320). A Venezia i Greci ebbero la loro "Scuola" (fin dal 1498) e la loro chiesa, iniziata nel 1539 e inaugurata nel 1573: San Giorgio dei Greci costò 15.000 ducati, pagati con una tassa assegnata dai responsabili della Scuola a tutte le navi greche che giungevano in porto. La comunità poteva forse contare, alla fine del '500, circa 4.000 membri; ma era diffusa la convinzione che essi fossero molti di più (Sarpi, ad esempio, parlò di 12.000) (321). Erano soprattutto mercanti e marinai, ultimi continuatori, assieme ai Dalmati, delle tradizioni marinare che i Veneziani stavano ormai abbandonando, attratti da altri più lucrosi mestieri; c'erano anche artigiani e servi, qualche prete, qualche intellettuale e copista di codici. Coerentemente con la loro prevalente vocazione marittima, erano per lo più alloggiati nel sestiere di Castello (322).
I "Tedeschi" residenti a Venezia costituivano una "nazione" solo nel senso medievale del termine, giacché erano un gruppo etnicamente composito. Secondo una stima della nunziatura apostolica di Venezia, nel 1581 erano circa novecento, cui andavano aggiunti gli studenti dell'Università di Padova. In maggioranza erano artigiani: numerosi fornai, tessitori e sarti; qualche oste e qualche serva. Ma il gruppo economicamente più significativo era rappresentato dai circa duecento mercanti che vivevano nel fondaco ad essi destinato, godendovi particolari privilegi. La nunziatura non si illudeva sulle loro convinzioni religiose, ma disperava di poterli inquisire senza l'assenso della Signoria, alla quale essi assicuravano la continuità di quei vitali traffici con la Germania, che sarebbero stati severamente ridimensionati solo dalla crisi della Guerra dei Trent'anni (323).
Nel primo '600 i mercanti olandesi e gli Inglesi, questi ultimi spalleggiati dall'ambasciatore del re Giacomo I, Sir Henry Wotton, avrebbero voluto fare del porto di Venezia la loro principale base mediterranea. Ma, come è più ampiamente spiegato in altra parte del volume, la proposta di concedere loro una piena libertà di navigazione fra Venezia e il Levante (mediante il conferimento con procedura semplificata della cittadinanza de intus et extra) fu lungamente discussa e infine respinta dal senato nel 1610. Certamente il progetto era suggestivo, ma molto audace: se fosse stato accolto, si sarebbe prodotta una clamorosa separazione tra il potere politico-amministrativo, saldamente nelle mani dei tradizionali ceti dirigenti, ed il potere economico di questi mercanti di origine forestiera; e si sarebbe contrapposta alla religione del "Principe" quella dei nuovi cittadini, fra cui molti calvinisti (324).
In realtà, ben pochi tra i sostenitori di questa proposta avrebbero voluto promuovere la diffusione della Riforma a Venezia: ciò che si voleva rinnovare era la vita dell'emporio, introducendovi le fresche energie imprenditoriali degli Olandesi. Ma non c'era forse una qualche correlazione fra l'incipiente spirito capitalistico di questi ultimi e la loro religiosità calvinista? Qualche dubbio al riguardo sembra aver superficialmente sfiorato l'ambasciatore Antonio Donà, che era in genere un convinto ammiratore degli Olandesi, ma non sapeva accettarne la immoderata sete di lucro con cui conducevano gli affari, "l'avidità e l'avarizia" che gli appariva "immensa e inesplicabile", forse perché troppo nettamente in contrasto con le qualità attribuite al nobile mercante dalla trattatistica italiana del '5-'600. Che fosse colpa della loro eresia? L'ipotesi nasce sferzante come un'ingiuria: "né ci è dogma alcuno in Calvino, che refili quest'appetito, che va congionto con una connivenza dell'illecito e dell'ingiusto" (325).
I rapporti con i non cristiani appartenenti alle altre due grandi religioni monoteistiche erano basati su malintesi e fraintendimenti molto più antichi e radicati, anche se continuava pure una sotterranea circolazione di eterodosse tematiche mediterranee (come nella celebre novella dei tre anelli, espunta dall'edizione espurgata del Decameron), veicolo di idee che tra '500 e '600 si inseriscono nel nascente pensiero libertino (326). Ma naturalmente non era questa l'ideologia ufficiale delle magistrature della Repubblica. Qui i Turchi furono sempre troppo pochi per costituire un reale problema sociale; sicché solo nel 1621 ci si decise ad aprire un fondaco anche per loro. Fossero stati di più, il problema della segregazione si sarebbe posto con urgenza, dato che era considerata inconcepibile una loro libera promiscuità coi cristiani. Difatti nelle diocesi venete, nell'elenco dei "casi riservati" che solo il vescovo poteva assolvere in considerazione della loro gravità sociale e religiosa, ce ne era talvolta uno che comprendeva, tutt'assieme, la "sodomia", la bestialità e l'unione carnale con gli infedeli. Del resto, erano peccati riservati anche l'ingresso nelle sinagoghe e la partecipazione a feste e banchetti ebraici (327).
Nel 1516 la creazione del Ghetto - il primo ghetto della storia - è la soluzione adottata dai Veneziani per consentire uno stabile insediamento a Venezia degli Ebrei fuggiti dalla Terraferma durante la crisi di Agnadello. Rispetto a un più antico divieto di risiedere nella Dominante, che peraltro non era stato sempre applicato con eguale rigore, l'istituzione del Ghetto può apparire come un provvedimento profondamente innovativo; tuttavia esso non lascia alcun margine di dubbio circa la volontà di tenere in isolamento e in posizione di subalternità questi Ebrei "tedeschi", dediti prevalentemente al prestito o al commercio di abiti usati.
A partire da questo momento cominciò a svolgersi il lungo, difficile dialogo tra gli organismi della comunità e i magistrati veneziani (in primo luogo gli ufficiali al cattaver) preposti alla loro sorveglianza. In cambio della stipulazione di una "condotta", che autorizzava e regolamentava lo stanziamento degli Ebrei a Venezia e in tutto lo Stato, si richiedeva il pagamento di un'elevata imposta, che gli Ebrei erano in grado di corrispondere soprattutto grazie all'attività dei loro banchi di prestito. Questi vennero però progressivamente soffocati, oltre che dalle più generali difficoltà che travolsero gli altri banchi privati veneziani, anche dall'introduzione di clausole sempre più vessatorie in occasione delle trattative per il periodico rinnovo delle "condotte" (328).
Non si trattava solo di un problema di carattere economico: anche sul piano sociale e culturale la situazione degli Ebrei tendeva a peggiorare intorno alla metà del '500, sia nella Terraferma, sia a Venezia, dove venne applicato a partire dal 1553 il divieto pontificio del libro sacro del Talmud e dove ebbe luogo, nel 1568, un grande sequestro (con il conseguente rogo) di libri ebraici (329). La ricorrente minaccia di una definitiva espulsione parve destinata a realizzarsi nel clima di crociata che accompagnò l'inizio della guerra di Cipro. Il senato votò al riguardo un decreto, la cui applicazione venne però sospesa dopo la fine delle ostilità. La diplomazia interferì certamente in queste vicende: da un lato, infatti, era ben noto come tra i consiglieri del sultano più ostili a Venezia vi fossero autorevoli Ebrei, come Giovanni Michez, duca di Nasso; d'altra parte, fu proprio un medico e mercante ebreo di origine udinese, Salomone Ashkenasi, che d'intesa col gran visir Mehmed Soqolli aiutò il bailo veneziano Marcantonio Barbaro a concludere il trattato di pace (330).
La fine della guerra favorì una generale revisione dei rapporti tra la Repubblica e gli Ebrei. Questi ultimi non dovettero più corrispondere un tributo, ma furono chiamati ad accollarsi l'onere della gestione di alcuni banchi, che praticavano a vantaggio della povera gente il piccolo prestito su pegno con un bassissimo tasso di interesse (il 5%), sicuramente non remunerativo delle spese e dei rischi, né modificabile ad arbitrio degli Ebrei, a causa della severissima sorveglianza governativa. L'accordo poté funzionare, perché la Signoria era interessata a trasformare i banchi ebraici in strumenti di politica sociale capaci di fornire prestazioni non dissimili da quelle dei Monti di Pietà ormai largamente diffusi nella Terraferma e in altre parti d'Italia; in cambio gli Ebrei erano autorizzati ad esercitare il mestiere di "strazzaroli" (occupazione molto più importante e lucrosa di quanto il nome non lasci supporre, se è vero che da essi si rifornivano di addobbi e di abiti le stesse magistrature veneziane e i rettori inviati nel Dominio) e potevano dunque raccogliere, anche con l'aiuto degli Ebrei della Terraferma, i cospicui fondi (50.000 ducati) necessari per la gestione dei banchi (331).
Alla fine del '500, nel Ghetto - quello "nuovo", che in realtà era stato il primo ad essere adibito ad alloggio degli Ebrei, e quello "vecchio", aggiunto negli anni '40 erano ufficialmente presenti, accanto agli Ebrei "tedeschi", anche gli Ebrei "levantini viandanti", sudditi dell'impero turco, e gli Ebrei "ponentini": questi ultimi erano stati prima cacciati dalla Spagna (nel 1492) e poi dal Portogallo, e si erano rifugiati in Italia, soprattutto ad Ancona e Ferrara, donde erano stati infine risospinti verso Venezia. La Repubblica si era mostrata titubante e ostile nei loro confronti intorno alla metà del '500 (fra i motivi di preoccupazione si segnalava il timore che alcuni di questi Ebrei, già convertiti al cristianesimo, ritornassero segretamente al giudaismo, alimentando così il complesso fenomeno del "marranesimo"); ma dopo la guerra di Cipro la Signoria assunse un atteggiamento più liberale: nel 1589 riconobbe ufficialmente la loro presenza nella Dominante e li autorizzò a partecipare al commercio con il Levante, secondo quelli che erano stati gli auspici del grande mercante e imprenditore Daniele Rodriga, promotore delle fortune della "scala" di Spalato. Ne derivò una sempre più intensa collaborazione degli Ebrei "ponentini" e "levantini" all'attività dell'emporio: realtà economica retoricamente celebrata nel 1638 nel Discorso circa il stato degl'Ebrei del rabbino Simone Luzzatto (332). Notiamo che fra le conseguenze della convivenza nel Ghetto e delle norme che regolavano la "condotta" vi fu anche quella di creare più stretti rapporti tra le diverse "nazioni": difatti, a partire dal 1598 anche i mercanti "ponentini" furono chiamati, malgrado le loro proteste, a contribuire all'imposta per il sostegno ai banchi dei pegni (333).
È difficile valutare tutte le implicazioni sociali e culturali di una vicenda così complessa. Indubbiamente la comunità ebraica di Venezia si espanse, tra '500 e '600, passando dalle 1.684 anime del censimento del 1586 alle 2.419 del 1633 (334). Era però sempre costretta a vivere nell'ambiente sovraffollato del Ghetto, limitatamente ampliato da nuove addizioni. Anche altre evidenti discriminazioni colpivano gli Ebrei: la loro libertà di movimento subiva delle limitazioni, giacché non potevano uscire dal Ghetto durante le solenni festività della Pasqua cristiana ed in alcune altre occasioni; dovevano inoltre portare un copricapo giallo che li rendeva immediatamente riconoscibili. Non potevano svolgere numerose attività artigianali, né tenere presso di sé servitori cristiani. E tuttavia sarebbe ingiusto trascurare le tracce di un dialogo culturale che superava le barriere confessionali: le autorità veneziane non vietavano ai cristiani l'ingresso nelle sinagoghe, nonostante le preoccupazioni espresse dal patriarca Lorenzo Priuli; ed intellettuali come il Sarpi erano certamente in contatto con dotti rabbini, assicurando così una qualche continuità a rapporti che erano stati probabilmente più intensi nella prima metà del '500, cioè nell'età di Francesco Zorzi e di Guglielmo Postel. Esisteva inoltre un vivo interesse dei ceti dirigenti veneziani per le prestazioni professionali dei medici ebrei (che potevano anche addottorarsi a Padova). Anche i musici e i ballerini erano molto ricercati: al pari dei medici, venivano talvolta esonerati dalle limitazioni e dagli obblighi imposti ai loro correligionari (335).
È stato altresì rilevato che l'ambiente veneziano poté indirettamente favorire interessanti esperienze di autogoverno nella comunità ebraica. Infatti la Repubblica, che era solita demandare importanti funzioni amministrative a Scuole e confraternite, si comportò allo stesso modo con la Università degli Ebrei, con interessanti conseguenze giurisdizionali. Fra i consultori della Repubblica, il Sarpi negò ogni competenza dell'Inquisizione in materia di Ebrei; ed il suo discepolo frate Fulgenzio Micanzio fu molto deciso nel difendere la delega di poteri amministrativi (e financo di scomunica) accordata dalla Signoria ai capi della comunità (336). Non sapremmo però dire se in questi particolari aspetti del giurisdizionalismo veneto fossero implicite significative modificazioni nell'atteggiamento dei cristiani verso gli Ebrei; in tal caso esse avrebbero rappresentato la cautissima realizzazione sul piano istituzionale delle premesse filosofiche e religiose adombrate nella sconvolgente meditazione dei Pensieri del Sarpi (337). Ad ogni modo, i segnali che da parte cristiana giungevano al Ghetto erano diversi e contrastanti: non tutto il gruppo dei patrizi filosarpiani era attestato sulle posizioni del Micanzio; né al livello ufficiale si riteneva opportuno porre ostacoli all'attività di istituzioni tipicamente controriformistiche come la Casa dei Catecumeni, che promuoveva la conversione degli Ebrei al cristianesimo isolandoli dal loro ambiente d'origine (338). Del resto, non è nemmeno certo che in questa fase storica la comunità ebraica fosse particolarmente stimolata a volgersi verso l'esterno dalle correnti spirituali in essa prevalenti, anche se un atteggiamento di maggiore apertura è evidente nell'opera di personalità importanti come Leon Modena e Simone Luzzatto (339).
Così, se una certa integrazione degli Ebrei nella vita della città progressivamente si realizzò, specie nel '600, ciò non fu tanto il frutto di un preciso orientamento politico-filosofico, quanto piuttosto la naturale conseguenza di complessi fenomeni sociali ed economici. Ormai per molti Ebrei, residenti a Venezia da più generazioni, la città era divenuta, in un certo senso, la patria. Persino sulle loro case, di cui non avevano la proprietà, poterono vedersi attribuita una sorta di possesso, legata ai miglioramenti che vi avevano introdotto e che i tribunali erano pronti a riconoscere (340): la Hazakah o "casacà".
1. Cf. Brian Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia 1500-1620, I, Roma 1982, pp. 12-15; Robert Finlay, La vita politica nella Venezia del Rinascimento, Milano 1982, pp. 69 ss.; Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, p. 143.
2. Sulla trattatistica politica, cf. Angelo Ventura, Scrittori politici e scritture di governo, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, Vicenza 1981, pp. 513 ss. (pp. 513-563); Franco Gaeta, L'idea di Venezia, ibid., pp. 632-641 (pp. 565-641); Id., Venezia da "Stato misto" ad aristocrazia "esemplare", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 437 ss. (pp. 437-494); Piero Del Negro, Forme e istituzioni del discorso politico veneziano, ibid., pp. 407 ss. (pp. 407-436).
3. Cf. il relativo passo delle Historie venete del segretario ducale Gian Giacomo Caroldo (morto nel 1538), citato da Angelo Ventura, Introduzione, a Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di Id., I, Bari 1976, pp. XXX, LXXIII.
4. Cf. Ugo Tucci, Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, pp. 43 ss. (la citazione è a p. 47).
5. Claudio Donati, L'idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari 1988, p. 93.
6. Relazioni degli ambasciatori veneti, a cura di Angelo Ventura, I, Bari 1976, p. 103 (pp. 89-182). Letta nel 1528, la relazione fu probabilmente rielaborata nel 1533-34 (ibid., pp. LI-LVI).
7. Cf. Karl J. Beloch, Bevölkerungsgeschichte Italiens, III, Berlin 1961, p. 22; Daniele Beltrami, Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della Repubblica, Padova 1954, pp. 59-72; James C. Davis, The Decline of the Venetian Nobility as a Ruling Class, Baltimore 1962, pp. 54 ss., 133 ss.
8. Cf. Laura Casella, La casa Savorgnan: considerazioni sul potere della famiglia aristocratica nel XVII secolo, in AA.VV., Strutture di potere e ceti dirigenti in Friuli nel secolo XVII, Udine 1987, pp. 13-32.
9. Frederic C. Lane, L'ampliamento del Maggior Consiglio di Venezia, "Ricerche Venete", 1, 1989, p. 54 (pp. 21-58).
10. Giuseppe Maranini, La costituzione di Venezia dopo la Serrata del Maggior Consiglio, Venezia-Perugia-Firenze 1931 (riprod. anast. Firenze 1974), pp. 45-46.
11. Cf. Gaetano Cozzi, Padri, figli e matrimoni clandestini (metà secolo XVI-metà secolo XVIII), "La Cultura", 14, 1976, pp. 169-213.
12. Cf. Guido Ruggiero, I confini dell'eros. Crimini sessuali e sessualità nella Venezia del Rinascimento, Venezia 1988, pp. 95-96.
13. A.S.V., Avogaria di Comun, b. 109/2, Processi per matrimoni, fasc. 1.
14. Ibid., fasc. 27.
15. "Parte" del consiglio dei dieci del 26 aprile 1526, edita da D. Beltrami, Storia della popolazione, p. 16 n. 6.
16. G. Maranini, La costituzione di Venezia, p. 46.
17. "Parte" del maggior consiglio del 9 marzo 1533, citata da Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della Repubblica, I-III, Bergamo 1927-29 (riprod. anast. Trieste 1981): II, p. 314.
18. Sul trattato parutiano cf. Gaetano Cozzi, La società veneziana del Rinascimento in un'opera di Paolo Paruta: Della perfettione della vita politica, "Atti della Deputazione di Storia Patria per le Venezie", 1961, pp. 13-45; Angelo Baiocchi, Paolo Paruta: ideologia e politica nel Cinquecento veneziano, "Studi Veneziani", 17-18, 1975-76, pp. 157-247; Gino Benzoni, in Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di Gino Benzoni-Tiziano Zanato, Milano-Napoli 1982, pp. 493-504; C. Donati, L'idea di nobiltà, pp. 198 ss.
19. Cf. Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 132-133; Stanley Chojnacki, In Search of the Venetian Patriciate: Families and Factions in the Fourteenth Century, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 62 ss. (pp. 47-90); Giorgio Cracco, Patriziato e oligarchia a Venezia nel Tre-Quattrocento, in Florence and Venice: Comparisons and Relations, a cura di Sergio Bertelli-Nicolai Rubinstein-Craig H. Smyth, I, Firenze 1979, pp. 72-73 (pp. 71-98).
20. Gasparo Contarini, De magistratibus et republica Venetorum libri quinque, Basileae 1547, pp. 184-186 (I ediz. Parisiis 1543). Cf. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 398 ss.; U. Tucci, Mercanti, navi, monete, pp. 201-202.
21. Cf. Frederic C. Lane, I mercanti di Venezia, Torino 1982, pp. 12 ss., 37 ss.
22. Cf. Id., Storia di Venezia, pp. 402-408; G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 88 ss.
23. G. Contarini, De magistratibus, p. 148.
24. Cf. la relazione di Sir Dudley Carleton, ambasciatore a Venezia dal 1610 al 1615, citata da Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, p. 15 n. 2.
25. Marino Sanuto, I diarii, XXXIV, a cura di Federico Stefani - Guglielmo Berchet ‒ Nicolò Barozzi, Venezia 1892, coll. 228-229. Cf. R. Finlay, La vita politica, pp. 112-113.
26. Cf. Gigi Corazzol, Livelli stipulati a Venezia nel 1591, Pisa 1986 (con bibliografia).
27. "La colpa non è nostra, ma dil mondo mudado, che le specie che venivano a Venezia vanno in Portogallo", rispondono le autorità veneziane al re d'Inghilterra, che nel 1531 lamenta di non ricevere più le merci consuete (Marino Sanuto, I diarii, LV, a cura di Guglielmo Berchet - Nicolò Barozzi - Marco Allegri, Venezia 1900, col. 191).
28. U. Tucci, Mercanti, navi, monete, pp. 62-63.
29. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 553 (= 8812), Compendio di me Francesco da Molino de m. Marco delle cose che reputerò degne di tenerne particolar memoria [...>, cc. 9-10.
30. Ibid., c. 11. Sul viaggio del da Molino cf. Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, I, Torino 1976, p. 665.
31. A meno di sedici anni Francesco era salito come "nobile" su una galera armata dal patrizio Giacomo Salamon con rematori di Terraferma (Compendio di me Francesco da Molino, c. 1). Sulla carriera nella flotta, cf. Alberto Tenenti, Cristoforo Da Canal. La marine vénitienne avant Lépante, Paris 1962.
32. Cit. da Brian Pullan, Poverty, Charity and the Reason of State: Some Venetian Examples, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 2, 1960, p. 35 (pp. 17-60).
33. Cf. Gigliola Fragnito, Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della Cristianità, Firenze 1988, p. 159.
34. Cf. Brian Pullan, Service to the Venetian State: Aspects of Myth and Reality in the Early Seventeenth Century, "Studi Secenteschi", 5, 1964, p. 120 (pp. 95-148).
35. Sulle rendite assegnate alle monache, cf. ibid., p. 140. Sui muratori, cf. Id., Wage-earners and the Venetian Economy, 1550-1630, "The Economic History Review", ser. II, 16, 1964, pp. 407-426. Sui segretari, cf. Giuseppe Trebbi, La cancelleria veneta nei secoli XVI-XVII, "Annali della Fondazione Luigi Einaudi", 14, 1980, p. 77 n. 34 (pp. 65-125).
36. Peter Burke, Scene di vita quotidiana nell'Italia moderna, Bari 1988, p. 170. In particolare su Venezia, cf. Piergiovanni Mometto, "Vizi privati, pubbliche virtù". Aspetti e problemi della questione del lusso nella Repubblica di Venezia (secolo XVI), in Crimine, giustizia e società veneta in età moderna, a cura di Luigi Berlinguer-Floriana Colao, Milano 1989, pp. 235-271.
37. Cf. Peter Burke, Venezia e Amsterdam, Ancona-Bologna 1988, pp. 92 ss.
38. Michel de Montaigne, Viaggio in Italia, Roma-Bari 1991, p. 113.
39. Thomas Coryat, Crudezze. Viaggio in Francia e in Italia, 1608, Milano 1975, p. 298.
40. Relazione di Girolamo Lando (1622) in Relazioni degli Stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti del secolo decimosettimo, a cura di Nicolò Barozzi-Guglielmo Berchet, Inghilterra, Venezia 1869, pp. 250-251.
41. Cf. la testimonianza di fine '400 di Marin Sanudo il Giovane, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae ovvero La città di Venezia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, p. 22. Il passo di Cesare Vecellio (1590) è citato da Rosita Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, III, Milano 1966, p. 143.
42. Citato ibid., p. 126. L'opera apparve nel 1566.
43. Giovanni della Casa, Galateo, a cura di Ruggiero Romano, Torino 1975, pp. 68-69.
44. Cf. Gaetano Cozzi, La donna, l'amore e Tiziano, in AA.VV., Tiziano e Venezia, Vicenza 1980, pp. 53 ss. (pp. 47-63); Giovanni Scarabello, Devianze sessuali ed interventi di giustizia nella prima metà del secolo XVI, ibid., pp. 81 ss. (pp. 75-84); Gabriele Martini, Il "vitio nefando" nella Venezia del Seicento. Aspetti sociali e repressione di giustizia, Roma 1988.
45. Per il '300, Cf. Guido Ruggiero, Patrizi e malfattori. La violenza a Venezia nel primo Rinascimento, Bologna 1982, pp. 147 ss. Per la fine del '400 e il primo '500, G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 99, 106-107.
46. Cf. Claudio Povolo, Nella spirale della violenza. Cronologia, intensità e diffusione del banditismo nella Terraferma veneta (1550-1610), in Bande armate, banditi, banditismo e repressione di giustizia negli stati europei di antico regime, a cura di Gherardo Ortalli, Roma 1986, p. 40 (pp. 21-51). Cf. anche Andrea Da Mosto, I bravi di Venezia, Milano 1950.
47. Cf. Pompeo G. Molmenti, I banditi della repubblica veneta, Firenze 1898 (riprod. anast. Vittorio Veneto 1989), pp. 107 ss.; Paolo Ulvioni, Il gran castigo di Dio. Carestia ed epidemie a Venezia e nella Terraferma, 1628-1632, Milano 1989, pp. 107-126.
48. Cf. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, Venezia 1857, pp. 364 ss.
49. Cf. Giuseppe Trebbi, Francesco Barbaro, patrizio veneto e patriarca di Aquileia, Udine 1984, pp. 408-409; C. Donati, L'idea di nobiltà, pp. 189-190 n. 26.
50. Federico Seneca, Il doge Leonardo Donà. La sua vita e la sua preparazione politica prima del dogado, Padova 1959, p. 37.
51. Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento. Religione, scienza, architettura, Torino 1985, p. 285.
52. Testamento in data 2 febbraio 1570 m.v., edito in appendice a Informatione dell'offitio dell'ambasciatore di Marino de Cavalli il vecchio MDL, a cura di Tommaso Bertelé, Firenze-Roma 1935, pp. 95-105.
53. Paolo Paruta, Della perfezione della vita politica, in Id., Opere politiche, a cura di Cirillo Monzani, I, Firenze 1852, p. 338. Su quest'opera, cf. sopra n. 18.
54. Cf. le fondamentali considerazioni di Gaetano Cozzi, Venezia, una Repubblica di principi?, "Studi Veneziani", n. ser., 11, 1986, pp. 139-157.
55. Paolo Sarpi, Venezia, il patriarcato di Aquileia e le "giurisdizioni nelle terre patriarcali del Friuli" (1420-1620), a cura di Corrado Pin, Udine 1985, p. 289.
56. Cf. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 15-17.
57. Cf. Lionello Puppi, Andrea Palladio, II, Milano 1973, pp. 314-318; Id., Per Paolo Veronese architetto: un documento inedito, una firma e uno strano silenzio di Palladio, "Palladio", ser. III, 3, 1980, pp. 53-76.
58. Cf. P. Sarpi, Venezia, il patriarcato, pp. 362-363.
59. Cf. Gaetano Cozzi, Paolo Paruta, Paolo Sarpi e la questione della sovranità su Ceneda, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 4, 1962, pp. 176-237.
60. Cf. Benjamin Arbel, A Royal Family in Republican Venice: the Cypriot Legacy of the Corner della Regina, "Studi Veneziani", n. ser., 15, 1988, pp. 131 ss. (pp. 131-152).
61. Cf. Sergio Zamperetti, Autorità statale, poteri signorili e comunità soggette nello Stato regionale veneto del '700: il caso di Latisana, in Crimine, giustizia e società veneta in età moderna, a cura di Luigi Berlinguer-Floriana Colao, Milano 1989, pp. 165 ss. (pp. 155-184). Sugli Zorzi, cf. ibid., pp. 177-178.
62. Cf. Giuseppe Gullino, I patrizi veneziani di fronte alla proprietà feudale (secoli XVI-XVIII). Materiale per una ricerca, "Quaderni Storici", 43, 1980, pp. 162-193. Ma cf. anche Angelo Ventura, Considerazioni sull'agricoltura veneta e sulla accumulazione originaria del capitale nei secoli XVI e XVII, "Studi Storici", 9, 1968, pp. 674-722.
63. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Comuni, f. 129, scrittura di Giovanni Donà e Lorenzo Gabriel, allegata a ducale del 30 agosto 1577 al Luogotenente della Patria del Friuli. Sul feudo dei Gabriel, cf. G. Cozzi, Venezia, una Repubblica, p. 147.
64. Cf. Gaetano Cozzi, La politica culturale della Repubblica di Venezia nell'età di Giovan Battista Benedetti, in AA.VV., Atti del Convegno internazionale di studio su Giovan Battista Benedetti e il suo tempo, Venezia 1987, pp. 9-27; Federica Ambrosini, Profilo ideologico di un patrizio veneziano del '500, "Studi Veneziani", n. ser., 8, 1984, pp. 77-107.
65. Compendio di me Francesco da Molino, c. 124.
66. Cit. da Aldo Stella, Chiesa e stato nelle relazioni dei nunzi pontifici a Venezia. Ricerche sul giurisdizionalismo veneziano dal XVI al XVIII secolo, Città del Vaticano 1964, p. 7.
67. Sul Soranzo, cf. Compendio di me Francesco da Molino, c. 124. Sul Barbaro, G. Trebbi, Francesco Barbaro, pp. 60 ss. Sul Badoer, G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 124 ss.
68. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 344, nr. 370 (testamento in data 8 marzo 1595). Sulle accuse al Foscarini, cf. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 65-67.
69. Cf. Giulio Bistort, Il magistrato alle Pompe nella Repubblica di Venezia. Studio storico, Venezia 1912 (riprod. anast. Bologna 1969); P. Mometto, "Vizi privati, pubbliche virtù", p. 263.
70. Marino Sanuto, I diarii, LIV, a cura di Guglielmo Berchet - Nicolò Barozzi - Marco Allegri, Venezia 1899, col. 61 (il corsivo è mio).
71. Cf. G. Bistort, Il magistrato, pp. 373-414.
72. Cf. Gaetano Cozzi, Federico Contarini, un antiquario veneziano tra Rinascimento e Controriforma, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, pp. 190-221.
73. Celebre la visita di Enrico III, re di Francia nel 1574. Nel 1579, in onore dell'Arciduca Ferdinando del Tirolo, una splendida festa fu organizzata "per ordine publico" dal ricchissimo Girolamo Corner (Compendio di me Francesco da Molino, c. 98).
74. Cf. R. Levi Pisetzky, Storia del costume, III, p. 271.
75. C. Donati, L'idea di nobiltà, pp. 131-132.
76. Cit. da Ugo Tucci, Carriere popolane e dinastie di mestiere a Venezia, in AA.VV., Gerarchie economiche e gerarchie sociali, secc. XII-XVIII, Firenze 1990, p. 819 (pp. 817-851).
77. Marino Sanuto, I diarii, XXXVII, a cura di Federico Stefani - Guglielmo Berchet - Nicolò Barozzi, Venezia 1893, co1. 578.
78. Cf. Lionello Venturi, Le Compagnie della Calza (sec. XV-XVI), "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 18, II, 1909, p. 215 (pp. 140-233).
79. Jean Bodin, I sei libri della republica tradotti di lingua francese nell'italiana da Lorenzo Conti, Genova 1588, p. 620; Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 709 (= 8403), [Antonio Milledonne>, Ragionamento di doi gentilhuomini, l'uno Romano, l'altro Venetiano. Sopra il governo della Republica Venetiana, fatto alli 15 di gennaro 1580 al modo di Venetia, c. 52v.
80. Cf. C. Donati, L'idea di nobiltà, pp. 131-132.
81. Cf. il questionario per il censimento del 1607, edito da Aldo Contento, Il censimento della popolazione sotto la repubblica veneta, "Nuovo Archivio Veneto", 20, 1900, pp. 222-223 (pp. 5-96; 172-235). Cf. anche P. Burke, Scene di vita quotidiana, pp. 35 ss.
82. A titolo di saggio, ho esaminato i registri dei censimenti del 1624 (Venezia, Museo Correr, Fondo Donà, b. 352) e del 1633 (A.S.V., Provveditori alla Sanità, bb. 568-569). Nella "redecima" del 1581, fra i 59 capifamiglia che dichiararono rendite da immobili superiori ai 2.000 ducati, ben 56 erano patrizi (P. Burke, Venezia e Amsterdam, p. 28). A quella data "il patriziato controlla direttamente poco meno del 70 per cento della rendita proveniente da immobili prodotta in città" (Ennio Concina, Venezia nell'età moderna. Strutture e funzioni, Venezia 1989, p. 19).
83. Fonti archivistiche citate alla nota precedente.
84. Cf. Marino Berengo, La società veneta alla fine del Settecento, Firenze 1956, p. 7. Ma sul ruolo politico-sociale degli strati intermedi del patriziato del '700, cf. ora Piero Del Negro, La distribuzione del potere all'interno del patriziato veneziano del Settecento, in I ceti dirigenti in Italia in età moderna e contemporanea, a cura di Amelio Tagliaferri, Udine 1984, pp. 311-337.
85. Compendio di me Francesco da Molino, cc. 11r, 47r, 79-80, 111. Sulla quarantia, cf. G. Maranini, La Costituzione di Venezia, pp. 144 ss.; B. Pullan, Servite to the Venetian State, pp. 121-122.
86. Cf. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 8-9, 29-30; Innocenzo Cervelli, Intorno alla decadenza di Venezia, "Nuova Rivista Storica", 50, 1966, pp. 612-613 (pp. 596-642).
87. B. Pullan, Poverty, p. 48.
88. Cf. Gaetano Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, Torino 1979, pp. 139 ss.; Sandro De Bernardin, I Riformatori dello Studio. Indirizzi di politica culturale all'Università di Padova, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 74-76 (pp. 61-91).
89. G. Cozzi, Federico Contarini, pp. 197-204.
90. Cit. da Id., Il doge Nicolò Contarini, p. 231 n. 2.
91. Cf. Zvi Ankori, Giacomo Foscarini e gli Ebrei di Creta, "Studi Veneziani", n. ser., 9, 1985, pp. 67-183 (con bibliografia).
92. "Publicò ottime leggi iustissimi ordini e saluberrimi statuti, dimodoché fondatamente si pò dire che sii stato fondator et instruitor di un nuovo regno [...>, ma con tutto ciò al parer mio giudicando con quella poca prudenza che il signor Dio mi ha concesso, essendo queste supreme auttorità pericolose, e riuscendo quasi tutte alfine di pernitie alle Republiche, e massime alla nostra, che aborisce tal maniera di governo deforme a quella degl'antichi nostri e sopramodo odiosa e di mala sodisfation a suditi, dirò al Signor Dio che suplicemente il prego che mai più ci faci veder tal magistrato sopra a nostri sudditi et al governo d'alcuna nostra provincia" (Compendio di me Francesco da Molino, cc. 60-62).
93. Cf. G. Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, p. XII.
94. Sulle riforme costituzionali nella Genova del '500, cf. Rodolfo Savelli, La repubblica oligarchica. Legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento, Milano 1981. Per Venezia si rinvia al contributo di Gaetano Cozzi in questo stesso volume.
95. Sulla corruzione elettorale, cf. Donald E. Queller, Il patriziato veneziano. La realtà contro il mito, Roma 1987, pp. 184 ss. Sulla vendita delle magistrature, cf. Roland Mousnier, Le trafic des offices à Venise, in Id., La plume, la faucille et le marteau. Institutions et société en France du Moyen Age à la Révolution, Paris 1970, pp. 387-401; G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 109-112.
96. Cf. Italo Raulich, Una relazione del marchese di Bedmar sui Veneziani, "Nuovo Archivio Veneto", 16, 1898, p. 30 (pp. 5-32).
97. Giovanni Botero, Relatione della Republica venetiana, Venetia 1605, c. 88v.
98. Compendio di me Francesco da Molino, c. 93. Per la biografia del doge, cf. Giuseppe Gullino, Da Ponte, Nicolò, In Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 723-728.
99. Cf. Frederic C. Lane, Società familiari e imprese a partecipazione congiunta, ora in Id., I mercanti di Venezia, Torino 1982, pp. 237-255; J. C. Davis, The Decline, pp. 26-27; Id., Una famiglia veneziana e la conservazione della ricchezza. I Donà dal '500 al '900, Roma 1980, pp. 30-31; P. Burke, Venezia e Amsterdam, pp. 44-46.
100. Cf. J. C. Davis, Una famiglia veneziana, pp. 111 ss., 121 ss.
101. Cit. ibid., p. 29.
102. Cf. F. C. Lane, Società familiari, p. 238.
103. "Le cose della casa sono in termini tali che per reparare la total ruina non possiamo fugire la divisione, che mi trafige il cuore", scrive il 31 marzo 1597 il patriarca di Aquileia Francesco Barbaro a mons. Giovan Battista Scarsaborsa, suo collaboratore (Udine, Archivio della Curia Arcivescovile, b. Lettere di Francesco Barbaro, 1589-1610, cc. n.n.). Sulla divisione tra i quattro figli di Marcantonio Barbaro, provocata dalle enormi spese del terzogenito Alvise, cf. G. Trebbi, Francesco Barbaro, p. 384.
104. Novissimum Statutorum ac Venetarum legum volumen, Venetiis 1729, c. 175 ("parte" del maggior consiglio del 7 luglio 1619). Cf. Antonio Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell'Impero romano alla Codificazione, I-VI, Torino 1892-98 (riprod. anast. Bologna 1965): III, p. 282.
105. Cf. ibid.
106. In generale cf. Jacques Heers, Il clan familiare nel Medio Evo, Napoli 1976. Per una equilibrata sintesi del dibattito storiografico sulla famiglia veneziana, cf. P. Del Negro, La distribuzione del potere, pp. 313 ss. Del medesimo autore, cf. anche Il patriziato veneziano al calcolatore. Appunti in margine a "Venise au siècle des lumières" di Jean Georgelin, "Rivista Storica Italiana", 93, 1981, pp. 838-848.
107. Marino Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino 1965, p. 32.
108. Cf. E. Concina, Venezia, p. 32. Sui "clan" nel '300 veneziano, cf. Dennis Romano, Patricians and Popolani. The Social Foundations of the Venetian Renaissance State, Baltimore-London 1987, pp. 120-122.
109. Sul concetto di "casa" nel '6-'700 veneziano, cf. P. Del Negro, Il patriziato veneziano, pp. 838 ss.; Id., La distribuzione del potere, p. 316. L'identificazione tra "casa", "ramo di clan" e "fraterna" è suggerita da P. Burke, Venezia e Amsterdam, p. 44.
110. Cf. S. Chojnacki, In Search of the Venetian Patriciate, pp. 49-50; R. Finlay, La vita politica, pp. 127-132, 189 ss.
111. Cf. ibid., pp. 115 ss., 132 ss.
112. Nel 1527 Pietro Contarini (q. Ruggero) dispose per testamento la costruzione di case da cedere in uso gratuito a patrizi "de chà Contarini" caduti in povertà (cit. da Antonio Foscari-Manfredo Tafuri, L'armonia e i conflitti. La chiesa di San Francesco della Vigna nella Venezia del '500, Torino 1983, p. 101 n. 69).
113. Cf. J. C. Davis, Una famiglia veneziana, pp. 42-43.
114. Questa formula, o altre simili, ricorrono nel Sarpi (Venezia, il patriarcato, pp. 219, 259 n. 57), nella relazione del nunzio Bolognetti (cit. da A. Stella, Chiesa e Stato, pp. 116, 172), nel diarista Francesco da Molino (cit. ibid., p. 10) e in altri cronisti.
115. Sui significati politici di quest'"amicizia", cf. Martin J.C. Lowry, The Reform of the Council of X, 1582-3: an Unsettled Problem?, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 304 ss. (pp. 275-310). Sulla scelta del sito della fortezza di Palma, cf. F. Seneca, Il doge, pp. 216 ss. Sul ruolo dei due patrizi nelle scelte urbanistiche, cf. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 248 n. 7, 250, 252 ss.
116. G. Trebbi, Francesco Barbaro, pp. 385-392. Su questi progetti matrimoniali è molto interessante una lettera di Paolo Paruta al patriarca Barbaro in data 29 novembre 1597 (Udine, Archivio della Curia Arcivescovile, b. Lettere di patrizi veneti a Francesco Barbaro, I595-1601, cc. n.n.).
117. Cesare Vecellio, Degli habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo, libri due, Venezia 1590, c. 124v. Il giudizio citato è di Federica Ambrosini, Paesi e mari ignoti. America e colonialismo europeo nella cultura veneziana (secoli XVI-XVIII), Venezia 1982, p. 161.
118. Cf. Gino Benzoni, La fortuna, la vita, l'opera di Enrico Caterino Davila, "Studi Veneziani", 16, 1974, pp. 351-354 (pp. 279-442).
119. Cf. G. Cozzi, La donna, l'amore, pp. 51, 63; Id., Padri, figli e matrimoni clandestini.
120. Francesco Sansovino-Giovanni Stringa, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia 1604, c. 269v. Sui riti nuziali, cf. P. G. Molmenti, La storia di Venezia, II, pp. 329 ss.; Stanley Chojnacki, La posizione della donna a Venezia nel Cinquecento, in AA.VV., Tiziano e Venezia, Vicenza 1980, p. 66 (pp. 65-70). Per un confronto con Firenze è molto utile Christiane Klapisch-Zuber, Zaccaria, o il padre spodestato. I riti nuziali in Toscana tra Giotto e il Concilio di Trento, in Ead., La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Bari 1988, pp. 109-151.
121. G. Bistort, Il magistrato alle Pompe, p. 109 n. 4.
122. F. Sansovino-G. Stringa, Venetia città nobilissima, c. 269v.
123. Ibid.
124. C. Vecellio, Degli habiti, cc. 126v-127r.
125. S. Chojnacki, La posizione della donna, p. 66.
126. Su Bianca Cappello, cf. Gaspare De Caro, Bianca Cappello, in Dizionario Biografico degli Italiani, X, Roma 1968, pp. 15-16 (pp. 15-18). Sulla ribellione alla volontà dei genitori di giovani patrizi del primo '500, cf. P. G. Molmenti, La storia di Venezia, II, pp. 330-331. Nel tardo '500 e nel '600 queste resistenze paiono rarefarsi o sparire. Cf. G. Cozzi, Padri, figli e matrimoni clandestini, pp. 190-191.
127. Cf. G. Scarabello, Devianze sessuali, p. 76.
128. Ibid., p. 81.
129. L'ultimo decreto del consiglio dei dieci contro la sodomia è del 27 settembre 1589 (cf. G. Martini, Il "vitio nefando", p. 54). Ma già nel giugno di quell'anno alcune condanne per pratiche omosessuali sembrano essere scaturite dalla volontà di smentire le voci su una presunta tolleranza veneziana (Compendio di me Francesco da Molino, c. 149).
130. M. de Montaigne, Viaggio in Italia, pp. 110, 113. Cf. Giovanni Scarabello, Le "signore" della Repubblica, in AA.VV., Il gioco dell'amore. Le cortigiane di Venezia dal Trecento al Settecento, Milano 1990, pp. 11-35.
131. Cf. più oltre, nn. 173 ss.
132. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 344, nr. 370 (testamento in data 8 marzo 1595).
133. Cf. G. Bistort, Il magistrato alle Pompe, pp. 113 ss., 167-168, 184 ss., 201 ss.; S. Chojnacki, La posizione della donna, pp. 67-68.
134. Ibid., p. 68 e n. 27, cf. anche P. G. Molmenti, La storia di Venezia, II, p. 327.
135. Cf. B. Pullan, Service to the Venetian State, pp. 135 ss.; Alexander Cowan, Rich and Poor among the Patriciate in Early Modern Europe, "Studi Veneziani", n. ser., 6, 1982, pp. 147-160.
136. Cf. Marco Ferro, Dizionario del diritto comune e veneto, I-X, Venezia 1778-81: IV, pp. 380-398 (alla voce "dote"); VIII, pp. 92-99 ("pagamento" della dote); X, pp. 191-207 ("successione"); A. Pertile, Storia del diritto italiano, III, pp. 320 ss.; IV, pp. 91 ss.; Nino Tamassia, La famiglia italiana nei secoli decimoquinto e decimosesto, Milano 1911, pp. 266 ss.; Stanley Chojnacki, Patrician Women in Early Renaissance Venice, "Studies in the Renaissance", 21, 1974, pp. 176-203, segnatamente pp. 181 ss.; Id., La posizione della donna, p. 69; G. Corazzol, Livelli stipulati a Venezia, pp. 68-70.
137. P. G. Molmenti, La storia di Venezia, II, pp. 324-325.
138. Ibid., I, pp. 454-455.
139. Cf. B. Pullan, Service to the Venetian State, pp. 135-136. Per analogie con Firenze, cf. Christiane Klapisch-Zuber, La "madre crudele". Maternità, vedovanza e dote nella Firenze dei secoli XIV-XV, in Ead., La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, Bari 1988, pp. 285-303.
140. G. Corazzol, Livelli stipulati a Venezia, pp. 68-70.
141. G. Bistort, Il magistrato alle Pompe, pp. 252 ss.; B. Pullan, Service to the Venetian State, pp. 139 ss.
142. Cf. G. Scarabello, Devianze sessuali, pp. 78-79.
143. Ibid. Cf. anche A. Stella, Chiesa e Stato, pp. 175 ss.
144. J. C. Davis, Una famiglia veneziana, p. 94.
145. Ibid., pp. 111 ss. Cf. anche Ernesto Garino, Insidie familiari. Il retroscena della successione testamentaria a Venezia alla fine del XVIII secolo, in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, II, Roma 1985, pp. 301-378, segnatamente pp. 339 ss.
146. La pratica del matrimonio ristretto fu osservata e descritta alla fine del '500 dal viaggiatore inglese Fynes Moryson e nella seconda metà del '600 dal veneziano Gian Antonio Muazzo. Cf. J. C. Davis, Una famiglia veneziana, pp. 133 ss.; E. Garino, Insidie familiari, p. 363.
147. J. C. Davis, The Decline, pp. 54 ss.
148. Cf. F. Braudel, civiltà e imperi del Mediterraneo, pp. 766 ss.
149. Alexander Cowan, New Families in the Venetian Patriciate, 1646-1718, "Ateneo Veneto", n. ser., 23, 1985, pp. 55-75
150. G. Trebbi, La cancelleria veneta, pp. 123-124.
151. Cf. Salvatore F. Romano, Le classi sociali in Italia dal Medioevo all'età contemporanea, Torino 19773, p. 71.
152. Cf. James S. Amelang, Il borghese, in L'uomo barocco, a cura di Rosario Villari, Bari 1991, pp. 355-378, segnatamente p. 357.
153. Cf. U. Tucci, Carriere popolane, pp. 830-831.
154. Cf. K. J. Beloch, Bevölkerungsgeschichte Italiens, III, p. 22; D. Beltrami, Storia della popolazione, pp. 72-73, 78. L'ipotesi di oltre 10.000 cittadini nel 1624 è frutto di una mia estrapolazione sui dati parziali del censimento di quell'anno, pubblicati dal Beltrami.
155. Cf. Karl J. Beloch, La popolazione di Venezia nei secoli XVI e XVII, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 5, 1902, pp. 5-49, segnatamente p. 28; Paolo Ulvioni, Il gran castigo di Dio. Carestia ed epidemie a Venezia e nella terraferma 1628-1632, Milano 1989, pp. 9 ss.
156. Cf. Gaetano Cozzi, Politica, società, istituzioni, in Id. - Michael Knapton, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII, 1), pp. 133-140 (pp. 1-271).
157. A.S.V., Senato, Terra, reg. 28, cc. 92v-94v.
158. Ibid., f. 109, cc. n.n., "parte" del 20 gennaio 1588 m.v.
159. Cit. da A. Contento, Il censimento, pp. 222-223. Cf. P. Burke, Scene di vita quotidiana, p. 42.
160. A.S.V., Provveditori alla Sanità, bb. 568-569. La famiglia di pittori ascritta nel 1583 alla cittadinanza originaria è quella dei Pizzoni (ivi, Avogaria di Comun, Cittadinanza originaria, b. 365/5, nr. 90).
161. Ivi, Provveditori alla Sanità, b. 568, sestiere di Castello, contrada di San Severo. Si tratta di Clemente Rodela, "librer alla Salamandra".
162. Ibid., b. 568, sestiere di Castello, contrada di San Pietro (Mian Miani, "armiraglio" del porto); b. 569, sestiere di San Marco, contrada di San Basso (Paolo Rinaldin, capitano grande del consiglio dei dieci). Ma cf. A. Milledonne, Ragionamento, cc. 52v-53v.; G. Botero, Relatione della Republica venetiana, c. 42v.
163. Vettor Sandi, Principi di storia civile della Repubblica di Venezia, I-IX, Venezia 1755-72: pt. II, I, pp. 345-346.
164. In questa parte riprendo parzialmente quanto già esposto nei miei articoli La cancelleria veneta, e Il segretario veneziano, "Archivio Storico Italiano", 144, 1986, pp. 35-73, cui rinvio per i riferimenti alle fonti e alla bibliografia.
165. Id., La cancelleria veneta, pp. 66-69; John E. Law, Lo Stato veneziano e le castellanie di Verona, in Dentro lo "Stado Italico". Venezia e la Terraferma fra Quattrocento e Seicento, a cura di Giorgio Cracco-Michael Knapton, Trento 1984, pp. 117-138.
166. A.S.V., Compilazione delle leggi, b. 134, c. 391, 5 marzo 1508.
167. Cf. G. Trebbi, La cancelleria veneta, p. 70.
168. Cf. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 145-146.
169. Cf. G. Trebbi, La cancelleria veneta, pp. 70-71.
170. Cit. da P.G. Molmenti, La storia di Venezia, II, p. 314 e n. 3 ("parte" del senato del 30 giugno 1589).
171. Arthur Livingston, La vita veneziana nell'opera di Gian Francesco Busenello, Venezia 1913, p. 286.
172. Le "parti" del senato del 5 ottobre 1612 e del 12 gennaio 1612 m.v. sono edite in Codice feudale della Serenissima Repubblica di Venezia, Venezia 1780 (riprod. anast. Bologna 1970), pp. 62-63. Sulla genesi del provvedimento, cf. Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Milano-Napoli, 1969, pp. 562 ss. Cf. inoltre M. Ferro, Dizionario, VI, pp. 375-388; VII, pp. 291-297 (alle voci "legittimazione" e "naturale"); A. Pertile, Storia del diritto italiano, III, pp. 386 ss.; P. G. Molmenti, La storia di Venezia, II, pp. 319-321.
173. Nell'agosto 1573 il nobile Andrea Bernardo q. Sebastiano testimoniò in favore del figlio Fortunato; il 30 novembre 1578 il nobile Marcantonio Boldù q. Francesco chiese la cittadinanza per il figlio Francesco; il 5 gennaio 1578 m.v. (= 1579) fu la volta del nobile Piero Emo q. Giovanni per il figlio Giovanni (A.S.V., Avogaria di Comun, Cittadinanza originaria, b. 364/4, nr. 73; ibid., nr. 94; b. 365/5, nr. 4).
174. Alla metà del '500, Vincenzo Cappello, figlio naturale dell'omonimo procuratore di San Marco, fu nominato "universal herede de tutta la sua facultà" (ibid., b. 366/6, nr. 22). Nella seconda metà del '500, il nobile Andrea Valier q. Bernardo lasciò la metà dei beni al figlio naturale Marco; l'altra metà andò al nipote Federico Valier, nobile (ibid., b. 361/1, nr. 85, "prove" di Marco Valier, 25 febbraio 1573 m.v.). Marco e Domenico Basadonna, figli naturali del nobile Nicolò, q. Alessandro, ereditarono tutti i beni paterni (ibid., b. 366/6, nr. 53 o 57, "prove" del 2 ottobre-14 dicembre 1603).
175. Amplissima documentazione in ibid., b. 361/1 e seguenti. Il cancelliere che accompagnò un fratellastro nel suo rettorato di Tino, e forse anche a Rovigo, fu Fantino Paruta, figlio naturale di Marcantonio Paruta q. Nicolò (ibid., b. 365/5, nr. 62, "prove" del gennaio 1573 m.v.).
176. Orationi civili di Pietro Badoaro, già del clarissimo signor Daniele nobile vinitiano, Venetia 1590. Il titolo occulta con abilità i natali illegittimi del Badoer, su cui cf. Giammaria Mazzucchelli, Gli scrittori d'Italia, cioè notizie storiche e critiche intorno alla vita e agli scritti dei letterati italiani, II, 1, Brescia 1758, p. 35. Sulle Orationi civili, cf. G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 218-219.
177. Cf. G. Trebbi, La cancelleria veneta, pp. 72-74.
178. Cf. Ugo Tucci, Lettres d'un marchand vénitien. Andrea Berengo (1553-1556), Paris 1957, pp. 4, 322.
179. Cf. Id., Mercanti, navi, monete, pp. 71-72.
180. Simone Luzzatto, Discorso circa il stato degl'Hebrei et in particolar dimoranti nell'inclita città di Venetia, Venetia 1638 (riprod. anast. Bologna 1976), c. 10r-10v. Cf. Benjamin C. I. Ravid, Economics and Toleration in Seventeenth Century Venice: the Background and Context of the "Discorso" of Simone Luzzatto, Jerusalem 1978.
181. Cf. G. Trebbi, La cancelleria veneta, pp. 73 n. 19, 124-125 e nn. 172, 174.
182. Cf. U. Tucci, Mercanti, navi, monete, pp. 74 ss.; B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 114 ss.
183. Cf. G. Trebbi, La cancelleria veneta, pp. 106-107 e n. 127. Sugli Abbioso, cf. le "prove" della cittadinanza di Girolamo Abbioso, q. Agostino, q. Bartolomeo, approvate il 30 aprile 1590. L'avo Bartolomeo era stato "due volte prior del collegio delli medici in questa città" (A.S.V., Avogaria di Comun, Cittadinanza originaria, b. 361/1, nr. 97).
184. Cf. Antonio Stella, Grazie, pensioni ed elemosine sotto la Repubblica veneta, in AA.VV., Monografie edite in onore di Fabio Besta nel XL anniversario del suo insegnamento, I, Milano 1912, pp. 715-785; R. Mousnier, Le trafic des offices; G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 109 ss.; Paolo Frasson, Tra volgare e latino: aspetti della ricerca di una propria identità da parte di magistrature e cancelleria a Venezia, in Stato società e giustizia nella repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 603-605 (pp. 577-615).
185. Sul declino di molte famiglie cittadine, cf. U. Tucci, Carriere popolane, pp. 825-827. Nel 1633 fu segnalata al senato "la diminutione ch'ogni giorno si fa maggiore delle case honorevoli della cittadinanza, parte estinte, altre ridotte a vivere ne' villaggi, et alcune trasportato havendo domicilio in altre città dello Stato" (A.S.V., Senato Terra, f. 347, scrittura allegata a "parte" del 9 marzo 1633). Utili indicazioni sulle vicende delle proprietà immobiliari possono trarsi da un anonimo erudito del '700 (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 341 (= 8623), Storia delle famiglie cittadinesche di Venezia).
186. A. Milledonne, Ragionamento, c. 51r. Sull'Antelmi, cf. Aldo Stella, Antelmi, Bonifacio, in Dizionario Biografico degli Italiani, III, Roma 1961, pp. 441-442; G. Trebbi, Il segretario veneziano, pp. 44-45.
187. Traggo questa indicazione dalla bella relazione di Andrea Zannini, Un ceto di funzionari: i cittadini originari (1559-1720), presentata al Seminario su "Personale e strutture di governo nell'Italia medievale e moderna: ῾officiali', ῾cancellieri', ῾segretari', ῾togati'" (Venezia, Fondazione Giorgio Citi, 20-22 maggio 1991).
188. Da una satira di Bartolomeo Dotti, cit. da A. Livingston, La vita veneziana, p. 24.
189. Sugli esami, cf. G. Trebbi, La cancelleria veneta, pp. 87 ss.; P. Frasson, Tra volgare e latino, pp. 597 ss. Sulle ammissioni "per parte", cf. G. Trebbi, Il segretario veneziano, e la citata relazione di A. Zannini.
190. Cf. Vittorio Baldo, Alunni, maestri e scuole in Venezia alla fine del XVI secolo, Como 1977; Paul F. Grendler, La scuola nel Rinascimento italiano, Roma-Bari 1991, pp. 49-79.
191. Cf. G. Trebbi, La cancelleria veneta, pp. 91-92; Id., Il segretario veneziano, pp. 60-65. Ma cf. anche P. Frasson, Tra volgare e latino, pp. 605 ss.
192. Cf. G. Trebbi, La cancelleria veneta, p. 108 e n. 129.
193. Ibid., pp. 103 ss.
194. Ibid., pp. 102-103.
195. Cf. ibid., pp. 121-122. Sul celebre discorso dello Zeno, cf. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 264 ss.; Angelo Ventura, Politica del diritto e amministrazione della giustizia nella Repubblica veneta, "Rivista Storica Italiana", 94, 1982, pp. 596-597 (pp. 589-608); Claudio Povolo, Aspetti e problemi dell'amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 249-251 (pp. 153-258); Renzo Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel '5-'600. Gli Esecutori contro la bestemmia, ibid., pp. 525-528 (pp. 431-528).
196. Cf. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, p. 266 n. 1.
197. Cf. A. Ventura, Introduzione, a Relazioni degli ambasciatori veneti, I, pp. XXVIII-XXXIII.
198. Cf. G. Trebbi, La cancelleria veneta, pp. 71 ss.
199. Si veda l'anonima Storia delle famiglie cittadinesche di Venezia, già citata alla n. 185
200. Cf. G. Trebbi, La cancelleria veneta, p. 90 ss.; R. Derosas, Moralità e giustizia, pp. 508-510.
201. Basso numero di delitti: cf. G. Scarabello, Devianze sessuali, pp. 77-78 (si tratta di una situazione già rilevabile nei secoli XIV-XV; cf. G. Ruggiero, Patrizi e malfattori, pp. 179 ss.). Su La bella e dotta difesa delle donne di Alvise Dardani, pubblicata a Venezia nel 1554, cf. Paola De Peppo, "Memorie di veneti cittadini": Alvise Dardani, cancellier grande, "Studi Veneziani", n. ser., 8, 1984, pp. 448 ss. (pp. 413-453).
202. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 6 (= 8181), Alonso de La Cueva, Marchese di Bedmar, Relazione su Venezia al re da Spagna.
203. Cf. Giuseppe Gallucci, La vita del clarissimo signor Iacomo Ragazzoni conte di S. Odorico, Venetia 1610; [Pietro Darduin>, Vita di Antonio Milledonne secretario del Conseglio di Dieci, da altro secretario scritta, s.n.t. (ma databile intorno al 1618); Marco Trevisan, L'immortalità di Gio. Battista Ballarino cavaliere, della serenissima repubblica di Venezia gran cancelliere, Venezia 1671.
204. Nel marzo 1531 il Sanudo registrò la morte di Lunardo Masser, che era "portonaro a l'audientia", cioè "a la porta del Collegio" con uno stipendio nominale di 140 ducati; era "homo molto superbo e stimava poco zentilhomeni" (Marino Sanuto, I diarii, LIV, a cura di Guglielmo Berchet - Nicolò Allegri, Venezia 1899, coll. 333, 348).
205. Scrittura del segretario del consiglio dei dieci Francesco Gerardo candidato a cancellier grande nel 1595. Cit. da G. Trebbi, La cancelleria veneta, p. 118.
206. Cf. ibid., pp. 117-118; R. Derosas, Moralità e giustizia, p. 526 n. 267; G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 172-173.
207. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 709 (= 8403), A. Milledonne, Ragionamento, cc. 46v-47v; ibid., Dialogo de Antonio Milledonne con uno amico suo. Che la repulsa dalli honori non sia cosa mala, cc. 55r-65r. Cf. [P. Darduin>, Vita di Antonio Milledonne, pp. 25 ss., 39 ss.
208. G. Gallucci, La vita del clarissimo signor Iacomo Ragazzoni, p. 1 (il corsivo è mio).
209. Nicolò Crasso, Annotationi sopra i libri della Republica venetiana di Donato Giannotti fiorentino e di Gasparo Contarini cardinale, Venetia 1678, p. 393. L'opera era apparsa in latino a Leida nel 1631. Cf. Claudio Povolo, Crasso, Nicolò, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXX, Roma 1984, pp. 573-577.
210. C. Vecellio, Degli habiti antichi et moderni, c. 106.
211. Sulla legislazione in materia di cittadinanza, cf. M. Ferro, Dizionario, III, pp. 187-193. I1 testo di numerose deliberazioni dei consigli veneziani è raccolto in A.S.V., Compilazione delle leggi, b. 134. Per i secoli XIV-XV, cf. Stephen R. Ell, Citizenship and Immigration in Venice, 1305 to 1500, Ph.D. Dissertation, Chicago (Illinois), 1976. Per il '5-'600, cf. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 115-118; U. Tucci, Mercanti, navi, monete, pp. 74 ss.; G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 133-140.
212. Cf. ibid., p. 137.
213. Fulgenzio Micanzio, Vita del padre Paolo dell'ordine de servi e teologo della serenissima republica di Venezia, Leida 1646 (io però cito dall'edizione a cura di Corrado Vivanti, in Paolo Sarpi, Istoria del Concilio tridentino, II, Torino 1974, p. 1275). Sugli immigrati bergamaschi, cf. Gino Benzoni, Venezia e Bergamo: implicazioni di un dominio, "Studi Veneziani", n. ser., 20, 1990, pp. 15-58. Sul Bontempelli, cf. più oltre nel testo.
214. A.S.V., Collegio, Suppliche di dentro, b. 9, c. 24, supplica di Stefano Gavazzi, q. Filippo, 9 febbraio 1588 m.v. Sulla colonia fiorentina, cf. Renzo Pecchioli, Uomini d'affari fiorentini a Venezia nella seconda metà del Cinquecento: prime ricerche, in Id., Dal "mito" di Venezia all'"ideologia americana". Itinerari e modelli della storiografia nel repubblicanesimo dell'età moderna, Venezia 1983, pp. 74-79 (pp. 74-90).
215. Cf. Fernand Braudel, La vita economica di Venezia nel XVI secolo, ora in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, II, Firenze 1979, pp. 259-269. Per una vivace testimonianza contemporanea, cf. Nicolò Contarini, Historie veneziane, in G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, p. 352.
216. Cf. Paul F. Grendler, L'inquisizione romana e l'editoria a Venezia 1540-1605, Roma 1983, pp. 235-237; Silvana Seidel Menchi, Erasmo in Italia 1520-1580, Torino 1987, pp. 344 ss.; U. Tucci, Mercanti, navi, monete, p. 75.
217. Cf. Wilfrid Brulez, Marchands flamandes à Venise, I, 1568-1605, Bruxelles-Rome 1965, pp. XIX ss.
218. Cf. U. Tucci, Mercanti, navi, monete, pp. 64-65, 86-87.
219. Tommaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni del mondo, Venetia 1589, pp. 550-551. Il Garzoni non vedeva grandi differenze tra "merciari" e mercanti, "salvo che par che i mercanti facciano la mercantia più in grosso, et essi un poco più bassamente et sottilmente" (ibid.). Evidentemente "merciaio" significava allora commerciante, negoziante, rivenditore senza una precisa limitazione al commercio degli articoli per cucito e sartoria, come risulta anche dagli esempi riportati nel Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, X, Torino 1978, s.v. Marzer o marcer è voce del dialetto veneto che significa appunto merciaio (cf. Giuseppe Boerio, Dizionario del dialetto veneziano, Venezia 18562, p. 397).
220. Cf. Richard Mackenney, Tradesmen and Traders. The World of the Guilds in Venice and Europe, c. 1520-c. 1650, Totowa (New Jersey) 1987, pp. 90 ss.
221. E. Concina, Venezia, p. 38.
222. M. Sanudo, De origine, p. 25.
223. F. Micanzio, Vita del padre Paolo, p. 1036.
224. Cf. Rodolfo Gallo, La Scuola Grande di San Teodoro di Venezia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti. Classe di scienze morali e lettere", 120, 1961-62, pp. 461-495; M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 31-32. Sull'arruolamento dei galeotti, cf. Richard T. Rapp, Industria e decadenza economica a Venezia nel XVII secolo, Roma 1986, pp. 78 ss.; Richard Mackenney, Arti e stato a Venezia tra tardo Medio Evo e '600, "Studi Veneziani", n. ser., 5, 1981, pp. 127-143; Id., Tradesmen, pp. 219 ss.
225. Cf. ibid., pp. 94 ss.
226. Cf. ibid., pp. 97 ss.
227. C. Vecellio, Degli habiti antichi et moderni, c. 139r.
228. Cf. Ugo Tucci, Bontempelli (Bontempello) dal Calice (Casalese), Bartolomeo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XII, Roma 1970, pp. 426-427; G. Corazzol, Livelli, pp. 85-86; R. Mackenney, Tradesmen, pp. 110- 111.
229. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 341 (= 8623), Storia delle famiglie cittadinesche di Venezia, cc. 193-198. Cf. Giuseppe Tassini, Curiosità veneziane ovvero Origini delle denominazioni stradali di Venezia, a cura di Lino Moretti, Venezia 19708, p. 677.
230. Cf. R. Mackenney, Tradesmen, p. 96.
231. K.J. Beloch, Bevölkerungsgeschichte Italiens, III, p. 22; D. Beltrami, Storia della popolazione, pp. 72-73; P. Ulvioni, Il gran castigo di Dio, pp. 9 ss.
232. Cf. D. Beltrami, Storia della popolazione, p. 208. Sui fabbri, cf. R. Mackenney, Tradesmen, pp. 111-113.
233. P. Burke, Scene di vita quotidiana, p. 42.
234. Così Jean Bodin. Cit. da Gino Benzoni, Venezia nell'età della Controriforma, Milano 1973, p. 23.
235. Brian Pullan, recensione a Frederic C. Lane, Venice. A Maritime Republic, Baltimore 1975, "Rivista Storica Italiana", 88, 1976, p. 576.
236. Cf. Giovanni Scarabello, Carcerati e carceri a Venezia nell'età moderna, Roma 1979, pp. 32 ss.
237. Così dichiarò nel colloquio con Christoph von Dohna, edito da Boris Ulianich, Il principe Christian von Anhalt e Paolo Sarpi: dalla missione veneziana del Dohna alla relazione Diodati (1608), "Annuarium Historiae Conciliorum", 8, 1976, p. 493 (pp. 429-506).
238. B. Pullan, La politica sociale, I, p. 14; R. Finlay, La vita politica, pp. 74-75.
239. Cf. F. C. Lane, Storia di Venezia, pp. 416-421.
240. Cf. Edward Muir, Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984, pp. 217 ss.; Roberto Zago, I Nicolotti. Storia di una comunità di pescatori a Venezia nell'età moderna, Abano Terme 1982.
241. Luigi da Porto, Lettere storiche, a cura di Bartolomeo Bressan, Firenze 1857, p. 128.
242. Cf. Maurice Aymard, Venise, Raguse et le commerce du blé pendant la seconde moitié du XVIe siécle, Paris 1966; Ivo Mattozzi - Francesco Bolelli - Carmen Chiasera - Daniela Sabbioni, Il politico e il pane a Venezia (1570-1650): calmieri e governo della sussistenza, "Società e Storia", 20, 1983, pp. 271-303; Ivo Mattozzi, Il politico e il pane a Venezia (1570-1650). Le tariffe dei calmieri: semplici prontuari contabili o strumenti di politica annonaria?, "Studi Veneziani", n. ser., 7, 1983, pp. 197-220. Sulle carestie cf. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 260 ss.; P. Ulvioni, Il gran castigo di Dio, pp. 25 Ss.
243. G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 218-219 (cita passi dalle Orazioni civili di Pietro Badoer); G. Botero, Relatione, cc. 3r, 78 ss.; Traiano Boccalini, Ragguagli di Parnaso e Pietra del paragone politico, a cura di Giuseppe Rua, I, Bari 1910, pp. 29-30 (centuria prima, ragguaglio V).
244. Il Sanudo attribuì a Venezia una popolazione di 300.000 abitanti nel 1509. Cf. K. J. Beloch, Bevölkerungsgeschichte Italiens, III, pp. 6-7.
245. Cf. L. da Porto, Lettere storiche, p. 128. Le riflessioni di Gerolamo Priuli e Philippe de Commynes sono citate e commentate da G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 148-151. Sul concetto di patria, cf. Federico Chabod, L'idea di nazione, Bari 19673, pp. 116 ss., 175 ss.
246. G. Botero, Relatione, c. 42v.
247. E. Concina, Venezia, pp. 128 ss.
248. Cf. ibid., pp. 18, 85 ss., 134.
249. K.J. Beloch, La popolazione di Venezia, p. 14; Id., Bevölkerungsgeschichte Italiens, III, p. 22; D. Beltrami, Storia della popolazione, p. 213; P. Ulvioni, Il gran castigo di Dio, pp. 11-12.
250. Cf. E. Concina, Venezia, p. 86.
251. C. Vecellio, Degli habiti antichi et moderni, c. 149 bis [recte 150>.
252. G. Ruggiero, I confini dell'eros, pp. 68 ss., 164-165, 178-179; G. Scarabello, Devianze sessuali, pp. 76-77. Non dissimile la situazione fiorentina: cf. C. Klapisch-Zuber, La famiglia e le donne, pp. 275 ss.
253. Cf. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 397-399.
254. Cf. ibid., pp. 416-424. Il regolamento del 1588 servì da modello per l'analoga istituzione udinese (G. Trebbi, Francesco Barbaro, p. 186 e n. 14).
255. C. Vecellio, Degli habiti antichi et moderni, c. 149 bis. Analoga situazione a Firenze (C. Klapisch-Zuber, La famiglia e le donne, pp. 275, 278, 282-283). La nutrice in casa, ben pagata e rispettata, evitava ai fanciulli i rischi spesso mortali della messa a balia in campagna. Cf. Jean-Louis Flandrin, Familles. Parenté, maison, sexualité dans l'ancienne société, Paris 1984, pp. 195 ss.
256. W. Brulez, Marchands flamands, I, doc. nr. 9.
257. Così il procuratore di San Marco Giacomo Foscarini lascia a Giovanni da Salò suo "camarier" 15 ducati, e a Bartolomeo Feltrino 10 ducati (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 344, nr. 370, testamento dell'8 marzo 1595).
258. Cf. Vincenzo Lazari, Del traffico e delle condizioni degli schiavi in Venezia nei tempi di mezzo, in AA.VV., Miscellanea di storia italiana, I, Torino 1862, pp. 1-39 dell'estratto; P. G. Molmenti, La storia di Venezia, II, pp. 58, 458, 499-500; F. C. Lane, Storia di Venezia, pp. 384-385.
259. M. de Montaigne, Viaggio in Italia, p. 113.
260. Emanuele A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, VI, Venezia 1853, pp. 515, 699; G. Tassini, Curiosità veneziane, pp. 665-666; P. G. Molmenti, La storia di Venezia, II, pp. 58-60; R. T. Rapp, Industria e decadenza economica, p. 90.
261. Cf. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 267, 321, 326. Sui barcaioli nella flotta, cf. Frederic C. Lane, Salari e reclutamento dei galeotti veneziani, 1470-1580, in Id., Le navi di Venezia fra i secoli XIII e XVI, Torino 1983, pp. 195-200.
262. A.S.V., Collegio, Suppliche di dentro, b. 8, c. 31, supplica dei burchieri in data 24 luglio 1585.
263. Cf. P. G. Molmenti, La storia di Venezia, II, p. 58 n. 7. Un'altra scuola di barcaioli, nella chiesa di San Giovanni in Laterano, distribuiva annualmente pane e candele (R. Mackenney, Tradesmen, p. 61). I barcaioli del traghetto di Marano chiesero al collegio una sovvenzione per illuminare un'immagine della Madonna e per far celebrare delle messe (A.S.V., Collegio, Suppliche di dentro, b. 19, 2 aprile 1628).
264. Erano distribuiti in modo ineguale: nella Scuola di San Marco erano molto più numerosi che in quella di San Rocco (B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 106-107).
265. Cf. T. Coryat, Crudezze, pp. 206-207; P. G. Molmenti, La storia di Venezia, II, p. 59; G. Scarabello, Devianze sessuali, p. 77; R. T. Rapp, Industria e decadenza economica, p. 63.
266. Cf. R. Derosas, Moralità e giustizia, pp. 459, 474.
267. Ibid., pp. 495 ss.
268. Ibid., pp. 501 ss.
269. Ibid., pp. 480 ss., 512 ss. e segnatamente p. 517 n. 221.
270. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 33, Vicus, cc. 149v-150r, "parte" del 26 settembre 1606 sugli abusi dei 18 soprastanti dell'officio della sanità, che esercitano l'ufficio mediante sostituti "per il più sgheri e vagabondi".
271. Ivi, Collegio, Suppliche di dentro, b. 8, c. 254, supplica di 24 "bastasi" (facchini) della "Doana da Mar" in data 28 luglio 1587; seguono il 31 luglio le analoghe proteste degli 8 "fanti" e il 25 ottobre quelle di 28 "bastasi" della "Doana da Terra" (ibid., cc. 255, 282). Cf. U. Tucci, Carriere popolane, pp. 822-823.
272. Sui "comandadori", cf. C. Vecellio, Degli habiti antichi et moderni, c. 117r-117v. Il divieto di affitti e sostituzioni fu emanato il 4 gennaio 1606 (1605 m.v.): A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 33, cc. 129v-130r.
273. Cf. U. Tucci, Carriere popolane, pp. 838-839.
274. Cf. ibid., p. 841.
275. Cf. Manlio Pastore Stocchi, Il periodo veneto di Galileo Galilei, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 37-66, e segnatamente p. 47.
276. Cf. V. Baldo, Alunni; P. F. Grendler, La scuola, pp. 49 ss.
277. A.S.V., Collegio, Suppliche di dentro, b. 19, 28 marzo 1628, supplica di Cristoforo di Zordan calafato all'Arsenale. Dichiara di non sapere né leggere né scrivere.
278. Cf. U. Tucci, Carriere popolane, pp. 840, 849-850; F. C. Lane, Le navi di Venezia, pp. 284 ss.
279. Cf. U. Tucci, Carriere popolane, pp. 837 ss. Nel 1628 i marangoni Annibale Ricciadei e Zuanne di Piero ricordano di non aver potuto essere iscritti come "fanti" all'Arsenale "per non essere figliolo di maestranza" (A.S.V., Collegio, Suppliche di dentro, b. 19, 20 dicembre 1628 e 23 febbraio 1628 m.v.).
280. A.S.V., Arti, b. 314, Marzeri: parti 1591-1608, c. 67v, 21 gennaio 1596 m.v. Cf. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 159-170; R. T. Rapp, Industria e decadenza economica, pp. 77 ss.; R. Mackenney, Tradesmen, pp. 219 ss.
281. Francesco Patrizi, La città felice, in Scrittori politici del '500 e '600, a cura di Bruno Widmar, Milano 1964, pp. 68, 81. La prima edizione è del 1553.
282. Sui rifornimenti alimentari, cf. E. Concina, Venezia, pp. 163 ss. Gli acquaioli erano riuniti in un'Arte, che nel 1595 comprendeva 56 membri. Cf. G. Tassini, Curiosità veneziane, p. 5; R. T. Rapp, Industria e decadenza economica, p. 86.
283. A.S.V., Collegio, Suppliche di dentro, b. 8, c. 187, 9 gennaio 1586 m.v. Sui fornai, cf. R. T. Rapp, Industria e decadenza economica, pp. 87, 89; I. Mattozzi - F. Bolelli - C. Chiasera - D. Sabbioni, Il politico e il pane, pp. 277-278; R. Mackenney, Tradesmen, pp. 63-64.
284. R. T. Rapp, Industria e decadenza economica, pp. 87-88.
285. Cf. E. Concina, Venezia, pp. 168-169.
286. Il 20 novembre 1590, d. Marco Marciliano dichiarò agli avogadori di essere stato eletto nel 1567 dalla quarantia criminale "nodaro al Collegio di Dodici per anni quattro". E aggiunse: "mi aricordo che si volse provar uno che descendeva da quelli da San Nicolò e non fo provato perché dissero che erano pescadori" (A.S.V., Avogaria di Comun, Cittadinanza originaria, b. 362/2, nr. 1 "prove" di Angelo Padavino).
287. Cf. R. Zago, I Nicolotti. Talora i pescatori "scampano via senza pagar il fitto" (E. Concina, Venezia, p. 17).
288. A.S.V., Collegio, Suppliche di dentro, b. 8, c. 347, 27 giugno 1588.
289. Cf. R. T. Rapp, Industria e decadenza economica, pp. 90, 125; ed il contributo di Sella in questo volume. Sull'attività edilizia a Venezia nel '500, cf. E. Concina, Venezia, pp. 112 ss., 150 ss. Sui capimastri di origine forestiera, cf. ibid., p. 186.
290. Cf. P. F. Grendler, L'inquisizione romana; P. Ulvioni, Stampatori e librai.
291. Cf. R. T. Rapp, Industria e decadenza economica, pp. 131.
292. Cit. da E. Concina, Venezia, p. 17. Sulla localizzazione delle varie lavorazioni, cf. ibid., pp. 66-67.
293. Cf. R. T. Rapp, Industria e decadenza economica, pp. 147 ss.; R. Mackenney, Tradesmen, pp. 78 ss.; Ugo Tucci, Venezia nel Cinquecento: una città industriale?, in Crisi e rinnovamenti nell'autunno del Rinascimento a Venezia, a cura di Vittore Branca - Carlo Ossola, Firenze 1991, pp. 73-74 (pp. 61-83); F. C. Lane, Storia di Venezia, pp. 360 ss.
294. A.S.V., Collegio, Suppliche di dentro, b. 8, c. 219, supplica in data 13 aprile 1587. R. T. Rapp, Industria e decadenza economica, p. 103. Sull'impiego di manodopera non specializzata, cf. U. Tucci, Venezia nel Cinquecento, pp. 72 ss.
295. A.S.V., Collegio, Suppliche di dentro, b. 8, c. 232, suppliche in data 31 maggio e 2 giugno 1587. In generale, cf. U. Tucci, Carriere popolane, p. 832.
296. Cf. ibid., p. 851. Ricerche relative alla Lombardia e alla Toscana del '5-'600 confermano la estrema fragilità delle famiglie artigiane. Cf. Giorgio Politi, Introduzione, a Maura Fantarelli, L'istituzione dell'Ospedale di S. Alessio dei poveri mendicanti in Cremona (1569-1600). Note e documenti, Cremona 1981, pp. XVI-XVII (pp. I-XXV); Daniela Lombardi, Povertà maschile, povertà femminile. L'Ospedale dei mendicanti nella Firenze dei Medici, Bologna 1988, pp. 79 ss.
297. Cf. B. Pullan, La politica sociale, II, pp. 605 ss., 621 ss. Sulla collocazione dei banchi all'interno del Ghetto, cf. Ennio Concina - Ugo Camerino - Donatella Calabi, La città degli Ebrei. Il ghetto di Venezia: architettura e urbanistica, Venezia 1991.
298. Cf. R. Mackenney, Tradesmen, pp. 5-7, 49 ss., 61-62.
299. Cf. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 39 ss. Ma cf. anche Reinhold C. Mueller, Charitable Institutions, the Jewish Community, and Venetian Society. A Discussion of the Recent Volume by Brian Pullan, "Studi Veneziani", 14, 1972, p. 78 (pp. 37-82).
300. A Venezia, nel '500, coloro che si flagellavano nelle solenni processioni lo facevano dietro corresponsione di un'elemosina. Cf. B. Pullan, La politica sociale, I, p. 57. Carlo Borromeo cercò di restaurare lo spirito originario di questa pratica di devozione a Milano; ma a Roma, nel 1580, M. de Montaigne constatò una situazione analoga a quella veneziana (Viaggio in Italia, pp. 205-206; Saggi, libro I, XIV).
301. Erasmo da Rotterdam, I colloqui, Milano 1967, p. 293.
302. U. Tucci, Carriere popolane, pp. 832 ss.
303. P. Paruta, Della perfezione della vita politica, p. 217.
304. G. Corazzol, Livelli, pp. 76-78. Cf. G. Benzoni, Venezia e Bergamo, pp. 23 ss.
305. Su Veronica Franco, cf. G. Scarabello, Le "signore" della Repubblica, pp. 21 ss. (con bibliografia). Sui patrizi poveri, cf. la relazione del marchese di Bedmar citata, nelle sue due redazioni, alle nn. 96 e 202.
306. Cf. Francesca Meneghetti Casarin, I vagabondi, la società e lo Stato nella Repubblica veneta alla fine del '700, Roma 1984, pp. 22 ss. Cf. anche A. Da Mosto, I Bravi di Venezia.
307. P. Sarpi, Opere, pp. 302-303. Si tratta delle note del Sarpi alla Relazione dello stato della religione, di Sir Edwin Sandys, apparsa in traduzione italiana a Ginevra nel 1625.
308. Cf. Enrico Basaglia, Giustizia criminale e organizzazione dell'autorità centrale. La Repubblica di Venezia e la questione delle taglie in denaro, in Stato società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, II, Roma 1985, pp. 191-220.
309. A.S.V., Collegio, Suppliche di dentro, b. 8, c. 42, 30 agosto 1585, supplica dei sei guardiani dei "camerotti" dei Signori di Notte. Sull'assistenza ai condannati a morte, cf. Giuseppe Pavanello, La Scuola di S. Fantin ora Ateneo, "Ateneo Veneto", 37, 1914, pp. 9-100. Assistenza ai detenuti: cf. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 427-434; Giovanni Scarabello, La pena del carcere. Aspetti della condizione carceraria a Venezia nei secoli XVI-XVIII: l'assistenza e l'associazionismo, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 324 ss. (pp. 317-376).
310. A.S.V., Collegio, Suppliche di dentro, b. 19, cc. n.n., supplica di Marco Contarini avvocato dei prigionieri, in data 18 aprile 1628.
311. Ibid., b. 8, c. 17, supplica dei guardiani delle "camere del tormento", in data 24 maggio 1585. Sulla costruzione delle Prigioni Nuove, cf. G. Scarabello, Carcerati e carceri, pp. 55 ss.
312. Cf. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 259 ss.
313. Cf. ibid., pp. 322-323.
314. Cf. ibid., pp. 389 ss.
315. Cf. ibid., pp. 322 ss.
316. Cf. Giovanni Scarabello, Strutture assistenziali a Venezia nella prima metà del '500 e avvii europei della riforma dell'assistenza, in "Renovatio Urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-38), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984, pp. 119-133.
317. R. Derosas, Moralità e giustizia, pp. 450 ss.
318. Cf. Freddy Thiriet, Sur les communautés grecque et albanaise à Venise, in Venezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi, a cura di Hans G. Beck - Manoussos Manoussacas - Agostino Pertusi, I, Firenze 1977, pp. 217-231.
319. Cf. Giuseppe Alberigo, L'unità dei Cristiani alla luce del Concilio di Ferrara-Firenze. Fallimento e speranze, "Cristianesimo nella Storia", 11, 1990, pp. 61-82; Giorgio Fedalto, Ricerche storiche sulla posizione giuridica ed ecclesiastica dei greci a Venezia nei secoli XV e XVI, Firenze 1967; Id., Stranieri a Venezia e Padova, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 499 ss. (pp. 499-535); Manoussos Manoussacas, La comunità greca di Venezia e gli arcivescovi di Filadelfia, in AA.VV., La Chiesa greca in Italia dall'VIII al XVI secolo, I, Padova 1973, pp. 45-87; Vittorio Peri, L'"incredibile risguardo" e l'"incredibile destrezza". La resistenza di Venezia alle iniziative postridentine della Santa Sede per i greci dei suoi domini, in Venezia centro di mediazione tra Oriente e Occidente (secoli XV-XVI). Aspetti e problemi, a cura di Hans G. Beck - Manoussos Manoussacas - Agostino Pertusi, II, Firenze 1977, pp. 599-625; Gino Benzoni, Venezia e la Grecia, "Il Veltro", 27, 1983, pp. 421-438.
320. A.S.V., Collegio, Suppliche di dentro, b. 8, c. 329, supplica di Gabriele Severo in data 22 marzo 1588. Cf. M. Manoussacas, La comunità greca.
321. Cf. B. Ulianich, Il principe Christian von Anhalt, p. 492.
322. Cf. Giorgio Plumidis, Considerazioni sulla popolazione greca a Venezia nella seconda metà del '500, "Studi Veneziani", 14, 1972, pp. 219-226.
323. Cf. A. Stella, Chiesa e Stato, pp. 276-285; Giorgio Fedalto, Stranieri a Venezia e a Padova. 1550-1700, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 264 ss. (pp. 251-279).
324. Cf. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 139 ss.; Id., Politica, società, istituzioni, pp. 139-140.
325. Dispaccio di Antonio Donà al senato, Flessinga (Vlissingen), 26 ottobre 1618, in Relazioni veneziane, Venetiaansche Berichten over de Vereenigde Nederlanden van 1600-1795, a cura di Pieter J. Blok, 'S-Gravenhage 1909, p. 121.
326. Cf. Carlo Ginzburg, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del '500, Torino 1976, pp. 59-60, 165 n. 36, 170 n. 59; Brian Pullan, Gli Ebrei d'Europa e l'Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670, Roma 1985, pp. 249-251. Ritroviamo idee analoghe nel già ricordato patrizio Melchiorre Michiel.
327. Cf. Joseph Grisar, Die Reform der "Reservatio casuum" unter Papst Clemens VIII, in AA.VV., Saggi storici intorno al papato, Roma 1959, pp. 305-385, segnatamente p. 367; G. Trebbi, Francesco Barbaro, pp. 314-318. Sull'equiparazione dell'unione carnale con infedeli alla sodomia, cf. G. Martini, Il "vitio nefando", pp. 39 ss. Sulle relazioni coi Turchi è fondamentale Paolo Preto, Venezia e i Turchi, Firenze 1975, pp. 93 ss.
328. Cf. B. Pullan, La politica sociale, II, pp. 525 ss., 563 ss.; Id., Jewish Moneylending in Venice: from Private Enterprise lo Public Service, in Gli Ebrei e Venezia, secoli XIV-XVIII, a cura di Gaetano Cozzi, Milano 1987, pp. 671 ss. (pp. 671-686); Benjamin C. I. Ravid, The Religious, Economic and Social Background and Context of the Establishment of the Ghetto of Venice, ibid., pp. 221-259; Ennio Concina, "Parva Jerusalem", in Id. - Ugo Camerino - Donatella Calasi, La città degli Ebrei. Il ghetto di Venezia: architettura e urbanistica, Venezia 1991, pp. 9 ss. (pp. 9-155).
329. Cf. P. F. Grendler, L'inquisizione romana, pp. 134 ss., 201 ss.; B. Pullan, Gli Ebrei d'Europa, pp. 134-137.
330. Cf. Benjamin Arbel, Venezia, gli ebrei e l'attività di Salomone Ashkenasi nella guerra di Cipro, in Gli Ebrei e Venezia, secoli XIV-XVIII, a cura di Gaetano Cozzi, Milano 1987, pp. 163-190; Id., Salomone Ashkenazi: mercante e armatore, in Il mondo ebraico. Gli ebrei tra Italia nord-orientale e Impero asburgico dal Medioevo all'Età contemporanea, a cura di Giacomo Todeschini - Pier Cesare Ioly Zorattini, Pordenone 1991, pp. 109-128.
331. Cf. B. Pullan, La politica sociale, II, pp. 605 ss.; Id., Jewish Moneylending.
332. Cf. Id., La politica sociale, II, pp. 624 ss.; Id., Gli Ebrei d'Europa, pp. 267 ss.; B. C. I. Ravid, Economics and Toleration.
333. Cf. Gaetano Cozzi, Società veneziana, società ebraica, in Gli Ebrei e Venezia, secoli XIV-XVIII, a cura di Id., Milano 1987, pp. 343-344 (pp. 333-374).
334. P. Ulv1oni, Il gran castigo di Dio, p. 14. È possibile che prima della peste del 1630 nel Ghetto ci fossero quasi 3.000 persone (Sergio Della Pergola, Aspetti e problemi della demografia degli ebrei nell'epoca preindustriale, in Gli Ebrei e Venezia, secoli XIV-XVIII, a cura di Gaetano Cozzi, Milano 1987, pp. 201-210).
335. Cf. B. Pullan, Gli Ebrei d'Europa, pp. 231 ss.; Pier Cesare Ioly Zorattini, Gli Ebrei a Venezia, Padova e Verona, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 537-576; Id., Gli Ebrei nel Veneto dal secondo Cinquecento a tutto il Seicento, ibid., 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 281-312. Le loro conclusioni sono sostanzialmente confermate dal contributo di Donatella Calabi, in Ennio Concina - Ugo Camerino - Donatella Calabi, La città degli Ebrei. Il Ghetto di Venezia: architettura e urbanistica, Venezia 1991. Sugli interessi cabalistici dello Zorzi, cf. Cesare Vasoli, Profezia e ragione. Studi sulla cultura del Cinquecento e del Seicento, Napoli 1974, pp. 129-403. Su Postel e gli Ebrei, cf. Marion Leathers Kuntz, Guillaume Postel, Prophet of the Restitution of All Things. His Life and Thought, The Hague-Boston-London 1981, pp. 130 ss.; Ead., Marcantonio Giustiniani, Venetian Patrician and Printer of Hebrew Books, and His Gift to Guillaume Postel: Quid Pro Quo?, "Studi Veneziani", n. ser., 17, 1989, pp. 51-63. Su Sarpi e gli Ebrei, cf. G. Cozzi, Società veneziana, pp. 346-348.
336. Cf. ibid., pp. 358 ss.
337. Fra i contributi più recenti, cf. Luisa Cozzi, I Pensieri di frà Paolo Sarpi, in Atti del convegno di studi Frà Paolo Sarpi dei Servi di Maria, Venezia, 28-29-30 ottobre 1983, a cura di Pacifico Branchesi-Corrado Pin, Venezia 1986. pp. 129-151; Gaetano e Luisa Cozzi, Paolo Sarpi, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 1-36; Vittorio Frajese, Sarpi interprete del "De la sagesse" di Pierre Charron: i Pensieri sulla Religione, "Studi Veneziani", n. ser., 20, 1990, pp. 59-85.
338. Cf. B. Pullan, Gli Ebrei d'Europa, pp. 379 ss. Sul prudente parere del Sarpi, cf. ibid., pp. 428-429; G. Cozzi, Società veneziana, pp. 355-356. Sull'antisemitismo del filosarpiano Simone Contarini, cf. ibid., p. 351.
339. Insiste sulla chiusura e sulla autosufficienza spirituale della comunità ebraica Roberto Bonfil, Cultura e mistica a Venezia nel Cinquecento, in Gli Ebrei e Venezia nei secoli XIV-XVIII, a cura di Gaetano Cozzi, Milano 1987, pp. 469-506. Sugli intendimenti dell'autore, cf. Id., Gli Ebrei in Italia nell'epoca del Rinascimento, Firenze 1991, pp. 3 ss.
339. Cf. E. Concina, "Parva Jerusalem", pp. 51 ss.