La società
Il 19 gennaio 1239, in una sala della sede episcopale castellana, il vescovo Pietro Pino stabiliva, a conclusione di una breve inchiesta, che il veneziano Daniele, figlio di Leonardo "de Arbe" (Darpo), entrato nel monastero di S. Andrea di Lido e rimastovi per qualche tempo, senza compiere la professione religiosa, non era effettivamente vincolato alla regola colà praticata. Daniele aveva ammesso di essersi rivolto alla vita monastica, ben presto sembratagli troppo rigida, non per un sicuro proponimento, ma per l'ira suscitata in lui dalla dura riprovazione del padre, a causa della perdita di alcuni suoi beni, in un viaggio mercantile (1).
Altri affanni legati all'esercizio del commercio assillavano il nobile Vido da Canal, un mercante impegnato contemporaneamente a svolgere le funzioni di giudice: nell'estate del 1288 le sue occupazioni d'affari erano divenute così pesanti e numerose che il maggior consiglio deliberò di accordargli l'esonero dall'ufficio, cui non era più in grado di dedicarsi in maniera soddisfacente (2). Due vicende, fra molte, significative dell'importanza attribuita dai Veneziani del '200, dal punto di vista privato come da quello pubblico, all'attività mercantile. A Venezia infatti, osservava un cronista di quell'epoca, "le merci scorrono [...> come l'acqua dalle sorgenti" e "da ogni luogo giungono merci e mercanti, che comperano le merci come preferiscono e le fanno portare al loro paese" (3).
Nell'epoca del consolidamento della città come centro degli scambi fra Oriente ed Occidente, del suo predominio nell'Adriatico e della grande, seppure contrastata, espansione coloniale nell'Est mediterraneo, le esigenze e le opportunità dei traffici erano invero prioritarie e determinanti, sia per le scelte dello stato, avviato a rafforzarsi e ad acquisire un assetto durevole, che per gli orientamenti della società, singolarmente animata da nuove aperture e molteplici occasioni.
La storia di quest'ultima, almeno per quanto si riferisce agli elementi fondamentali ed agli aspetti più evidenti, è in buona parte conosciuta. Ne parlano anzitutto, con attenzione, prospettive e metodi diversi, le opere generali sulla Repubblica veneta (4). Considerazioni più approfondite si trovano naturalmente in contributi specifici sull'età medievale o relativi a determinate componenti della popolazione cittadina (nobili e popolari, mercanti ed artigiani, con particolare riguardo verso il ceto dirigente) (5). È invece appena all'inizio l'indagine sull'articolazione ed il ruolo sociale di singole famiglie: oltre ai Gisi ed ai Badoer, sono stati finora adeguatamente studiati soltanto gli Ziani, oggetto di speciale interesse per la loro straordinaria ricchezza e fama (6).
Nell'insieme, le informazioni raccolte e le conoscenze acquisite, per quanto numerose e varie, non sembrano tuttavia ancora tali da permettere una ricostruzione esauriente, per ampiezza di dati e solidità di collegamenti, della struttura e dell'andamento della società, nell'intenso periodo compreso fra la conquista di Costantinopoli e la cosiddetta "serrata" del maggior consiglio.
Ricostruzione che si presenta impegnativa e di non breve durata, ma possibile, per la disponibilità di una base documentaria vastissima, nonostante discontinuità e lacune anche notevoli. Molte delle fonti più significative, dalle deliberazioni del maggior consiglio alle Estoires de Venise, la cronaca di Martin da Canal, dagli statuti alle promissioni ducali, dai capitolari delle arti a varie attestazioni di carattere commerciale, sono edite ed utilizzate da tempo. Ma innumerevoli altre, di diversa origine e natura - testamenti ed atti di commissarie, compravendite e locazioni d'immobili, divisioni patrimoniali e quietanze, documenti giudiziari ed amministrativi, e così via - sono rimaste, per lo più, lungamente ignote o trascurate, sia per la loro importanza circoscritta e poco evidente, sia per la non facile reperibilità, essendo in genere distribuite (o disperse) in svariati fondi archivistici. All'individuazione e allo studio di un così ampio complesso di testimonianze è stato assicurato un apporto determinante, a partire dagli anni intorno alla metà di questo secolo, dalla grande raccolta di regesti promossa e curata da Luigi Lanfranchi, la quale costituisce ormai uno strumento imprescindibile per qualunque ricerca sulla storia veneziana del secolo XIII (7).
Un lavoro considerevole resta dunque ancora da compiere: per approfondire le conoscenze e valutare le interpretazioni su argomenti e problemi già affrontati (connotazioni dei ceti dominanti e loro rapporto con il potere), per incrementare filoni di indagine ancora esigui (gruppi familiari, relazioni parentali e clientelari), per mettere in luce settori della società fino ad ora piuttosto trascurati (donne di qualsiasi condizione, lavoratori delle arti, ecclesiastici, forestieri, emarginati).
"In quella bella città", nella quale "non osano dimorare" né eretici né usurai né malfattori, "potete trovare gentiluomini in grande quantità, vecchi e adulti e giovinetti, la cui nobiltà merita grande elogio; con loro, mercanti che vendono e comperano, e cambiavalute e cittadini d'ogni arte; marinai d'ogni specie [...> belle dame e damigelle e fanciulle in abbondanza, abbigliate molto riccamente". Ecco la popolazione urbana, ancora attraverso le parole compiaciute di Martin da Canal (8). Presentazione efficace, per quanto elogiativa e non completa, di un mondo composito, attivo e mutevole come in nessun altro secolo del Medioevo.
Come appunto indicano le parole del cronista, la posizione più elevata, in quel mondo, spettava alla nobiltà. Ma quale era, nella Venezia duecentesca, il significato di un termine tanto diffuso e tanto variamente applicato presso le società medievali dell'Occidente (9)? Il rilievo del quesito aumenta, considerando la notevole fluidità della popolazione e l'assenza di partizioni rigidamente definite al suo interno, nel secolo antecedente alla "serrata". Qualunque sia, infatti, l'interpretazione da dare ai provvedimenti presi nel 1297 per regolamentare l'accesso al maggior consiglio, è indubbio che soltanto in conseguenza di essi "la classe dominante" venne "giuridicamente determinata, e fissata nel tempo" (10), essendo ridisegnata "la linea di separazione fra nobili e popolani [...> e l'ammissione di nuove famiglie in seno alla classe di governo [...> resa per il futuro più difficile" (11).
Prima dunque che l'essere nobile equivalesse semplicemente a godere del diritto (acquisito per via ereditaria o conferito per motivi eccezionali) di far parte del maggior consiglio, chi poteva vantarsi di un simile titolo, e per quali ragioni e, inoltre, quali prerogative e quali elementi di distinzione comportava l'esserne forniti? L'argomento è stato affrontato più volte, con diversi intenti ed esiti: sono perciò disponibili numerose e valide indicazioni per rispondere, anche se in modo non proprio definitivo, data la quantità dei documenti ancora da esaminare con attenzione specifica.
Ai contemporanei la nobiltà doveva apparire come un dato di fatto, generalmente riconoscibile e riconosciuto con facilità, sulla base della sola notorietà che accompagnava famiglie e persone (la "publica fama") (12): dato spesso, ma non necessariamente, registrato dalle fonti, in particolare dagli atti emessi da pubblici organismi ed autorità. Troviamo, ad esempio, espressioni quali: "nobilibus et sapientibus viris Angelo Mauroceno et eius consiliariis"; "nobili viro Marino Iustiniano et nobili mulieri Marie Çorço"; "illis nobilibus de ca' Belligno"; ".ij. nobles Veneciens [...> mesire Piere Badouer et [...> mesire Nicolau Navajos" (13).
Di norma, gli individui derivavano la propria nobiltà dall'appartenenza ad una famiglia, ad un lignaggio che, da tempi più o meno lontani, occupava una posizione autorevole e privilegiata. La preminenza di alcuni casati, rilevabile anzitutto dalla partecipazione di loro esponenti alla vita pubblica - a livelli diversi, dalla carica ducale alla semplice sottoscrizione di documenti ufficiali, in qualità di testi - risaliva, per quanto è possibile accertare, al secolo X, se non addirittura al precedente. Altre stirpi avevano compiuto la propria ascesa in seguito, specialmente nell'età anteriore ed in quella di poco successiva alla formazione del comune (che prese avvio negli anni '40 del secolo XII). La ricchezza acquisita in concomitanza con l'espansione commerciale della città aveva loro consentito di trovare spazio al vertice della società, raggiungendo al potere quanti lo detenevano per lunga tradizione. Per ricordare solo qualche celebre esempio di famiglie ducali, gli Ziani emersero all'interno del ceto dirigente nel secolo XII, quando ormai da tempo si erano affermati i Badoer, Contarini, Falier, Michiel, Morosini e, in epoca più vicina, i Polani (14).
Al nucleo delle famiglie di antichissima ed antica nobiltà, quelle che nel '200 si potevano considerare di "alto lignaggio" (15), nucleo destinato a conservarsi, in parte notevole, anche molto oltre la "serrata", se ne sarebbero aggregate, nel corso di tale secolo, altre di fortuna recente, cui sarebbe riuscito, attraverso il conseguimento di incarichi politico-amministrativi e l'introduzione nel maggior consiglio, di ottenere lo status di nobili, mantenendolo poi durevolmente: il caso più significativo è quello dei Tiepolo.
Il momento e le circostanze in cui per loro, come per altre, meno celebri stirpi di origine popolare, si attuò il passaggio di ceto non sembrano determinabili con precisione. Il processo dovette comunque generalmente arrivare a compimento intorno alla metà del secolo (16) e va posto in relazione da un lato con il grande sviluppo della potenza politica ed economica di Venezia dopo la quarta crociata (17), che comportò per molti un decisivo miglioramento di condizioni, dall'altro con l'intensa e piuttosto rapida "elaborazione dell'ordinamento generale dello stato", le cui strutture (consilia ed officia), sempre più numerose ed articolate, richiedevano l'impiego di una crescente moltitudine di cittadini (18).
Dunque, per buona parte del '200, la nobiltà realtina appare come un ceto in via di formazione, relativamente aperto e composito, di cui meriterà approfondire la conoscenza, finora delineata in modo generale e schematico, attraverso lo studio ed il confronto delle situazioni specifiche di un numero abbastanza ampio di famiglie, a partire almeno dal secolo precedente. I gruppi parentali costituivano infatti la base imprescindibile dell'affermazione economica, sociale, politica degli individui (19) e l'importanza dei legami di solidarietà familiare (20) era riconosciuta a tal punto da preoccupare - per certi aspetti - chi governava lo stato (21). Sarebbe anzi interessante, al riguardo, determinare l'esistenza o meno (e quindi eventualmente la portata) di vincoli fra i rami, a volte anche numerosi, nei quali si dividevano alcune stirpi, quali ad esempio i Contarini o i Morosini (22).
La partecipazione al potere era naturalmente la prerogativa fondamentale di cui i nobili godevano, a livello appunto familiare, di norma, più che non personale, date le caratteristiche del sistema costituzionale veneziano, basato sulla molteplicità degli organismi ed il costante ricambio degli incarichi (solo il dogado e l'ufficio dei procuratori di S. Marco erano conferiti a vita). L'arco delle possibilità comprendeva le cariche, differenti per impegno e prestigio, nei numerosi settori del dominio o delle zone d'influenza veneziana: dai centri minori della laguna alle località adriatiche, della Romània, d'Oltremare (23); anche le ambascerie e i comandi militari, della flotta e dell'esercito, venivano generalmente affidati ad esponenti della nobiltà (24). Si aggiungevano poi, al di fuori del diretto controllo dello stato, gli uffici podestarili spesso offerti da varie città del Veneto e dell'Italia centro-settentrionale (25).
La posizione di predominio del ceto nobiliare era resa evidente e ribadita da alcuni elementi di distinzione. A tale proposito, viene spesso citato un documento ducale del settembre 1211, in cui si determina l'attribuzione di possedimenti nell'isola di Creta a colonizzatori veneziani (26), divisi - secondo una partizione tradizionale e generalmente diffusa - in "milites" e "pedites" (equiparati da fonti successive rispettivamente ai nobili ed ai popolari).
Tuttavia le connessioni fra il concetto di nobiltà e l'impegno militare o, più specificamente, l'attività e la dignità cavalleresche (27) dovevano sembrare, a Venezia, molto più sfumate ed imprecise che altrove (28). Non mancano certo le indicazioni di personaggi insigniti del titolo di "cavalier", come un Marino Gradenigo, che figura tra gli eletti al maggior consiglio per il 1278-1279(29), o desiderosi di ottenerlo, come Marco Ziani, figlio del doge Pietro, il quale "amò molto l'ordine di cavalleria", e morì "nello stesso anno in cui doveva divenir cavaliere" (1254), secondo quanto riferisce Martin da Canal, che sulla diffusione del costume cavalleresco in ambito realtino presenta le maggiori testimonianze (30). Ma in effetti appunto di un costume, dai risvolti talora anche spettacolari e giocosi, sembra si possa propriamente parlare (31), più che di una condizione rilevante dal punto di vista politico, sociale o giuridico.
Segni di distinzione più concreti ed evidenti erano semmai gli emblemi che, tenuti nelle abitazioni o effigiati su armi ed altri oggetti, manifestavano chiaramente l'esistenza di gruppi familiari con le rispettive clientele. Il valore ad essi attribuito poteva addirittura farne, in momenti di particolare tensione interna, oggetto di preoccupata considerazione da parte del maggior consiglio, in quanto indicatori del temuto costituirsi di fazioni attorno a potenti personaggi: una deliberazione del 20 ottobre 1266, nel periodo dei disordini suscitati dalla rivalità fra i Dandolo e i Tiepolo, proibì infatti a chiunque, "parvus vel magnus", di adottare le insegne "alicuius magni hominis de Veneciis" (32).
Nella sostanza, ciò che generalmente qualificava, rispetto al resto della società, i componenti del ceto nobiliare (per cui, negli ultimi decenni del secolo, invalse l'uso dei titoli di messer, ser) (33) erano il tenore e lo stile di vita, strettamente connessi con la situazione patrimoniale e le disponibilità finanziarie. Per quanto l'una e le altre potessero variare, secondo le fortune degli individui e dello stato medesimo, la posizione economica di una parte rilevante, almeno, della nobiltà era caratterizzata dalla contemporanea presenza "di proprietà fondiaria e di ricchezza mobile, di attività agricola, usuraria e commerciale" (34).
Le proprietà fondiarie potevano trovarsi in ambiti geografici molto diversi: anzitutto nel centro realtino e nell'area lagunare, poi nella terraferma veneta e nella pianura padana (in special modo nei territori padovano, trevigiano e ferrarese, per i quali andò crescendo l'interesse con l'avanzare del secolo) (35), ed ancora nelle numerose località adriatiche e mediterranee più o meno direttamente controllate da Venezia (36) (con qualche caso eccezionale, come il feudo posseduto dai Badoer nel Regno di Sicilia) (37).
Vario era anche il genere dei beni posseduti. In città si trattava spesso di abitazioni, botteghe o altre particolari costruzioni, tenute per proprio uso - il prestigio della dimora specialmente manifestava sempre più l'importanza della famiglia - oppure date in affitto (38), come ad esempio il blocco di quattordici "staciones" sito nella contrada di S. Giovanni di Rialto, "in ruga de Gradonicis", di cui abbiamo notizia da una quietanza rilasciata collettivamente ai locatari dal proprietario Domenico Gradenigo di S. Procolo (marzo 1238) (39). Ma c'erano pure appezzamenti coltivati (vigne, orti, giardini) ed aree incolte, talvolta paludose, dentro ed ai margini del nucleo abitato, del resto in via di progressiva espansione (40).
In ambito lagunare, ed in specie nella zona di Chioggia, oltre alle terre ed alle case, le possibilità di investimento comprendevano le saline - fra il 1170 ed il 1254 gli Ziani ne possedettero, più o meno durevolmente, 180 circa (41) - ed i tratti d'acqua, utili per la pesca e la caccia, o per l'impianto e lo sfruttamento di mulini (42).
Oltre i non ampi confini del dogado, le terre, a qualunque uso destinate, erano naturalmente il possesso più ambito. La rendita agraria, in genere abbastanza sicura e relativamente elevata, attirava in misura crescente le famiglie nobili, alcune delle quali per altro già da tempo detenevano patrimoni rurali nell'entroterra (si pensi ai beni conferiti a titolo feudale, nel secolo precedente, in varie località padane dai vescovi ferraresi ai Moro, ai Falier, ai Corner) (43). La "spinta verso la campagna", determinata da diversi fattori - fra cui la scarsità dei terreni disponibili in area lagunare, in rapporto all'abbondanza dei capitali da investire, e l'opportunità di collocare al sicuro "una parte della rendita mercantile" (44) -, cominciò anzi, proprio con il '200, ad esercitare un notevole influsso sugli orientamenti non solo economici, ma anche politici e mentali di una porzione significativa del ceto dominante.
V'era poi la facoltà di acquisire beni immobili nel Levante: facoltà - legata all'andamento della presenza politico-militare di Venezia in quel settore - che, per molti, fu causa di scelte radicali, come il definitivo abbandono della città d'origine, o quanto meno occasione di temporanei trasferimenti. Pensiamo ai fratelli Geremia ed Andrea di Marco Gisi di S. Geremia, conquistatori e quindi signori dell'Arcipelago, in seguito alla quarta crociata (45), oppure a Marco Navager di S. Giacomo dell'Orio, nipote del vescovo di Torcello Enrico Contarini che, accingendosi a partire per la Romània, faceva redigere il suo testamento, dal quale appunto si apprende che egli possedeva colà "beni mobili ed immobili", comprendenti una casa a Negroponte (21 giugno 1284) (46).
È da ritenere che il Navager fosse occupato in operazioni mercantili, come lo furono a loro volta i Gisi (i quali, pur "divenendo signori feudali, non avevano smesso di essere mercanti") (47) e, sebbene in modi diversi, moltissimi esponenti della nobiltà. Per alcuni si trattò di impegno personale, che implicava viaggi anche frequenti e prolungate assenze da Venezia: un tipo di attività - e di esistenza - di cui ci si può rendere conto attraverso i documenti raccolti nell'archivio privato della famiglia Venier dei SS. Apostoli, relativi a numerosi negozi, legami d'affari con parenti ed estranei, spostamenti e soggiorni in vari centri commerciali del Mediterraneo di uno Stefano Venier e dei suoi discendenti, nonché alle attività della congiunta famiglia di Niola, originaria forse della Francia (48). Naturalmente, oltre che mercanti-viaggiatori, i nobili potevano essere proprietari (patroni) di navi, o parti di esse, e responsabili quindi della loro conduzione (49).
Nel contempo, per molti, il coinvolgimento nei traffici fu anche in certa misura indiretto, mentre per altri divenne esclusivamente tale, con l'avanzare dell'età o il crescere delle occupazioni e degli incarichi pubblici. In questi casi, lo strumento al quale si faceva normalmente ricorso era il contratto di colleganza, che permetteva di utilizzare denaro liquido - attraverso il finanziamento parziale di diverse spedizioni commerciali - in modo non esente da rischi ma, specie in confronto con l'altra principale opportunità di impiego, "l'acquisto di titoli del debito pubblico", con "il vantaggio di una più rapida smobilitazione e la possibilità di profitti assai più alti" (50). È ad esempio significativo che il doge Ranieri Zeno, alla fine della sua vita, nel 1268, fosse in possesso di 132 carte di colleganza, per una somma di 22.935 lire, cioè poco meno, presumibilmente, della metà del suo intero patrimonio (51).
Può essere questa una buona prova dell'accentuata, anzi spesso preminente, partecipazione alla mercatura, che viene riconosciuta come carattere peculiare della nobiltà veneziana, ad ogni livello (52). In tal senso, alle indicazioni contenute nel testamento dello Zeno merita accostare una testimonianza di altro genere, l'elogio che l'anonimo autore dell'Historia ducum Veneticorum rivolgeva al doge Pietro Ziani, scrivendo forse poco dopo la sua morte (1229): uno dei suoi meriti sarebbe stato quello di aver soccorso molti nobili che si trovavano in povertà, soprattutto concedendo loro denaro da investire nel commercio ("pecuniam ad lucrandum"), così "da farli giungere, dal nulla, agli onori e alla ricchezza" (53). A quali condizioni il facoltoso personaggio mettesse a disposizione il proprio denaro in simili circostanze esattamente non si può dire, ma una clausola del suo testamento (settembre 1228), dove si precisano le modalità per il recupero delle somme non ancora restituite dai debitori, assicura - con altre attestazioni - che egli praticò pure un'altra delle attività comuni al suo ceto, quella di prestatore (54).
Alcuni nobili, poi, si affermarono come banchieri a Rialto: una speciale autorevolezza in tale ambito acquisirono "quelli di ca' Bollani", citati in una deliberazione del maggior consiglio (8 aprile 1285), con l'avvertimento di uniformarsi, per un prestito richiesto in occasione di un'ambasciata, alle condizioni praticate nella loro "statio" (55). Le posizioni economiche di Renier Zeno, di Pietro Ziani, della sua famiglia e di quella congiunta dei Badoer sono finora le uniche esaminate a fondo. Si tratta però di casi eccezionali, ben lontani, specie sotto il profilo quantitativo, da quelli riguardanti la maggioranza degli appartenenti alla nobiltà. Le situazioni dei quali sono a volte note per qualche aspetto o momento, ma spesso appaiono soltanto intuibili sulla base di considerazioni generali o di sporadiche notizie indicative, e dovranno perciò essere meglio determinate attraverso sistematiche analisi del materiale documentario, soprattutto dei testamenti, disponibili, con l'avanzare del secolo, in numero crescente.
Certo nobiltà e ricchezza non sempre coincidevano, come si può intendere dall'accenno ai nobili impoveriti che si legge nel passo appena ricordato dell'Historia ducum o da altre, meno generiche informazioni, quali il riferimento all'esonero dagli imprestiti, concesso "per povertà" ad un Marco Sanudo (56), oppure una disposizione a favore dei "parenti poveri", contenuta nel testamento di Giacomina, vedova di Marino Gradenigo, di S. Maria Formosa (13 luglio 1260) (57).
Proprio il carattere aleatorio dei traffici, nei quali tanti impiegavano energie e risorse, poteva determinare disparità, anche accentuate, di situazioni economiche sia tra i vari gruppi familiari, sia all'interno, talvolta, di ciascuno di essi. E, di norma, a diversi livelli di ricchezza si associavano conseguentemente diversi gradi di prestigio sociale e diverse opportunità di partecipazione alla vita pubblica e di controllo del potere politico (nonché, spesso, come vedremo più avanti, di quello ecclesiastico).
In effetti dall'insieme della nobiltà andò emergendo nel corso del Duecento una limitata cerchia di famiglie, che ottennero costantemente una rappresentanza nei fondamentali organismi dello stato e dalle quali uscirono personalità fornite di specifiche competenze di governo, acquistate svolgendo, in Venezia e fuori, molteplici incarichi; così Giacomo Tiepolo, che fu duca di Creta, podestà di Costantinopoli, inviato alla Curia pontificia, podestà di Treviso ed infine doge (58). Per le altre, più deboli componenti del ceto si offrivano ruoli meno importanti nell'amministrazione e presenze meno assidue nei corpi rappresentativi (stando almeno a quanto permettono di constatare le serie, cospicue ma parziali, dei dati disponibili, in primo luogo gli elenchi di elettori ed eletti del maggior consiglio, conservati, ma non senza estese lacune, a partire dal 1261) (59).
Naturalmente la preminenza di alcune stirpi derivava dalla loro stessa antichità, ma altre, di origini meno prestigiose, ebbero modo, specie nei primi decenni, di raggiungerle ed affiancarle nelle più elevate posizioni dello stato e della società, attraverso un processo di assimilazione (60), avvenuto in tempi abbastanza brevi, più che non di contrapposizioni violente. Per la prima parte del secolo, la nobiltà era dunque un ceto ancora piuttosto eterogeneo e permeabile; progressivamente, la sua configurazione si sarebbe assestata, precisandosi entro contorni ben definiti.
Le famiglie di recente aggregazione alla nobiltà provenivano dall'altra fondamentale componente del mondo urbano nel periodo comunale, il popolo. Un termine, questo, tanto generalmente diffuso, quanto variamente impiegato e significativo - secondo le situazioni peculiari di ogni città - e diversamente interpretato dagli storici: ora come classe o ceto sociale (la "borghesia", contrapposta alla nobiltà), ora come raggruppamento, fazione o parte politica (non escludente l'adesione di elementi nobiliari), tesa al controllo degli organismi comunali, ora come espressione di forze sociali e di posizioni politiche nel contempo (61). Alla conformazione ed al ruolo del popolo a Venezia nel '200 si è finora prestata un'attenzione molto inferiore a quella rivolta alla nobiltà (nonché ai "popoli" di altri centri urbani): comprensibilmente, del resto, dato il peso preponderante assunto da quest'ultima non solo in tale secolo, ma anche nei successivi della storia della Repubblica (62).
Per il momento, in attesa di analisi più dettagliate, cerchiamo di vedere con quali connotazioni si presentasse il popolo in ambito realtino. Nelle fonti dell'epoca il sostantivo non ha un'accezione costante (63): può significare talvolta, in modo generico, complesso della popolazione, gente (64), oppure, in correlazione a clero, indicare l'insieme dei laici (65), ma anche, più di preciso, designare una parte relativamente circoscritta della popolazione laica appunto, affiancata per lo più, in tal caso, alla nobiltà, e tuttavia da essa distinta. Nell'ultimo senso, la parola ("peuple") viene spesso impiegata nella cronaca di Martin da Canal, dove, ad esempio, si racconta che durante le cerimonie per l'elezione ducale di Renier Zeno, "messere il doge intervenne, alla loggia della chiesa di messer san Marco, e con lui la nobiltà di Venezia; e il popolo veneziano stava nella piazza"; oppure, si dichiara l'intento di scrivere "la pura verità", "per onore di messere il doge [...>, della nobiltà che vive ora a Venezia e [...> con essa, del popolo" (66). Un significato più preciso, di carattere istituzionale, è riscontrabile inoltre in particolare nei documenti ufficiali, dove "populus" equivale ad assemblea popolare (concio, arengo), come nell'espressione "collaudatio populi Veneciarum", che compare nella formula di giuramento, al termine delle promissioni della maggior parte dei dogi di questo secolo (67), o nella frase "Venecie populus in concione plena viva voce laudavit", contenuta in atti emessi dall'autorità ducale (68).
Secondo il valore meno generale, sebbene ancora piuttosto ampio, del termine - al quale conviene fare qui riferimento - il popolo comprendeva dunque i Veneziani non nobili, ma economicamente e socialmente attivi, partecipi in qualche modo, per quanto su di un piano secondario rispetto alla nobiltà, delle vicende politiche cittadine. Un insieme non privo, comunque, di partizioni e distinzioni interne. Che alcuni popolari godessero di una posizione privilegiata, più forte ed autorevole riguardo agli altri, è avvertibile con immediatezza nuovamente da certi passi di Martin da Canal, il quale ad esempio accenna ai "preudomes" del popolo che, per la festa dell'Ascensione, siedono a tavola con il doge, o ricorda, segnalandoli per nome, i 41 rappresentanti della nobiltà e del "nobile popolo veneziano", convocati per l'elezione ducale del 1268, allorché fu designato Lorenzo Tiepolo (69).
Appunto a quell'epoca stava invero per arrestarsi, in ambito realtino, il movimento di ascesa, già avviato nel secolo XII e generalmente riscontrabile nelle città dell'Italia centro-settentrionale (70), che aveva condotto non pochi esponenti del popolo ad emergere sul proprio ceto, per disponibilità economiche e prestigio sociale. Costoro, designati come populares veteres, antiqui o antiquiores dalla storiografia (così il cronista Andrea Dandolo usa, intorno alla metà del Trecento, l'espressione "antiqui populares" (71), avrebbero in diversi casi ottenuto - lo si è visto - l'inserimento nella nobiltà: un gruppo a metà strada, dunque, almeno per qualche tempo, fra un ceto e l'altro (72).
Qualunque dovesse essere, in definitiva, la loro riuscita, nel periodo conclusivo dell'evoluzione che interessò la società veneziana fra il secolo XII ed il XIII, molti dei popolari erano, come buona parte dei nobili, occupati nel mondo degli affari, del commercio e della finanza. Talvolta, dai documenti notarili, emerge con evidenza il profilo di alcuni di essi o l'andamento dei loro negozi.
All'inizio del secolo troviamo ad esempio in piena operosità Zaccaria Staniario (73) di S. Giovanni Evangelista, figlio di Pancrazio, pure lungamente dedito ai traffici, e nipote di Dobramiro, uno schiavo di origine croata o dalmata che, secondo l'uso, aveva assunto il cognome del padrone dal quale era stato affrancato e, conseguita la libertà, aveva intrapreso il mestiere del mercante, dando l'avvio all'ascesa della sua famiglia. Zaccaria fu uno degli uomini d'affari, già operanti nell'ambito dell'Impero bizantino, che trassero grandi vantaggi dalla sua conquista ad opera degli Occidentali, dopo la quarta crociata. A Costantinopoli, dove si recava frequentemente e possedeva degli immobili, egli svolse anche l'incarico di consigliere del podestà veneziano. Personalmente impegnato nei viaggi commerciali, per cui gli venivano consegnate somme rilevanti, impiegava a sua volta il proprio denaro, tramite contratti di colleganza, in spedizioni condotte da altri. I suoi interessi erano inoltre rivolti alla proprietà fondiaria: disponeva infatti di terre nel Padovano che, con altri beni immobili siti in Venezia, completavano il suo patrimonio.
Ad una generazione successiva appartenne Lazzaro Mercadante di S. Polo, poi di S. Simeone Profeta, attivo nei decenni centrali del secolo. La sua partecipazione ai traffici, riguardanti anche la terraferma, fu notevole per intensità, durata e varietà di forme; egli operò infatti (nel campo del commercio all'ingrosso di bestiame, generi alimentari, spezie) sia per proprio conto, sia nel contesto di una società, citata appunto come "societas Lazari Mercadantis", nella quale dovette "avere la quota maggiore"; ma, analogamente allo Staniario, affidò più volte "una parte dei suoi capitali liquidi in colleganza ad altri mercanti". Possedette anche qualche immobile in città, per quanto "di reddito modestissimo, e alcune terre nel Padovano", né mancò di concedere prestiti su pegno (74).
È evidente come, dal punto di vista economico, vi fossero analogie considerevoli fra molti nobili ed i popolari di condizione più elevata (75), cui si potrebbero per questo aspetto adattare varie indicazioni già fornite riguardo ai primi, compresa l'attenzione verso la proprietà rurale in terraferma (significativamente manifestata da entrambi i personaggi scelti ad esempio). Era proprio l'esercizio della mercatura - con i suoi ritmi, le sue esigenze, le sue opportunità ad avvicinare gli uni agli altri.
Ma condizione stessa del mercante doveva impedire a molti dei popolari - uomini di fortuna recente, privi, per lo più, di altre cospicue fonti di reddito e quindi obbligati a non compromettere con dannose interruzioni la loro attività - di partecipare in maniera assidua alla vita pubblica. Mancava inoltre a costoro il sostegno di un gruppo familiare, forte di legami e clientele ed anche di una prestigiosa autorevolezza, più o meno anticamente acquisita. In effetti, nel corso di buona parte del '200, sembra che per i componenti del popolo non fosse difficile tanto raggiungere alcuni incarichi - anzitutto quello di consiglieri nella maggiore assemblea rappresentativa del comune, per la quale non esistevano ancora, nei loro confronti, preclusioni di carattere - quanto riuscire ad occuparli con sufficiente continuità. Nelle residue liste di appartenenti al maggior consiglio, almeno, si trovano diversi nomi "nuovi ", ma ciascuno figura in modo isolato o saltuario (76).
Oltre al gruppo, dai contorni per così dire in movimento, degli "antiqui populares", vicini per situazioni economiche e facoltà politiche ai nobili ed avviati, in molti casi, a divenirlo essi stessi, ed oltre a quello degli altri, originariamente loro simili (mercanti, in prevalenza), cui non riuscì di compiere l'ascesa sociale, il popolo comprendeva, ad un livello inferiore, le categorie dei venditori al minuto e degli artigiani, categorie al loro interno assai composite, anzi frammentate, ma nell'insieme chiaramente distinte rispetto ai mercanti di ogni condizione.
Martin da Canal, in pagine divenute famosissime per la brillante vivacità delle immagini evocate, non meno che per la singolare considerazione rivolta al mondo dei lavoratori ed il risalto con cui esso viene fatto apparire, ricorda, nel descrivere i festeggiamenti per l'elezione a doge di Lorenzo Tiepolo, le compagnie dei fabbri, dei pellicciai (detti dell'opera selvatica, dell'opera vecchia e degli agnellini), i tessitori, i sarti, i maestri che fanno i drappi di lana e quelli che fanno i fustagni di cotone ed ancora le coltri e le giubbe, i drappi intessuti d'oro, quindi ancora i calzolai, i merciai, i venditori di carne salata e formaggio, di uccelli di palude e pesci, i barbieri, i vetrai, i pettinai ed infine gli orefici (77).
Ma i mestieri esercitati, e generalmente via via ordinati in corporazioni, erano molti di più: a circa una cinquantina assommavano soltanto quelli di cui trattano i capitolari esistenti, progressivamente redatti o riformati dall'ufficio della giustizia (poi della giustizia vecchia), sino ai primi decenni del '300, senza contare le ulteriori suddivisioni interne di alcune arti (78).
Nell'insieme, sebbene non in tutti i settori la quantità degli addetti fosse elevata, una parte cospicua della popolazione residente era occupata nelle più diverse specializzazioni della produzione e della vendita al dettaglio, nonché in talune professioni e particolari mansioni. Inoltre, anche fra gli artigiani, parecchi furono quelli che, alla ricerca di un miglioramento della propria situazione, si trasferirono in Oriente (79), dove è plausibile raggiungessero un certo benessere (come si può ritenere di un maestro Giovanni calzolaio, abitante a Costantinopoli, il quale, nel settembre 1223, faceva dono alla figlia di una schiava) (80). Le forme organizzative e lo svolgimento delle singole attività sono bene conosciute, grazie appunto soprattutto alle ordinanze che in modo sempre più meticoloso e pressante vennero imposte dalle autorità statali, mentre, per vari aspetti, rimane ancora da definire la realtà sociale dei lavoratori, la cui presenza nelle fonti non normative è piuttosto esigua e discontinua, talvolta anche difficilmente individuabile.
Le condizioni degli appartenenti alle arti differivano naturalmente, secondo il grado di prestigio e di importanza economica loro proprio: dagli orefici ai rivenditori di roba vecchia, dai "fioleri", o lavoratori del vetro, ai numeratori e trasportatori di tegoli, dai medici ai renaioli. Ciascuna arte aveva poi una sua struttura, ora molto semplice, ora relativamente composita, in conformità alle caratteristiche o alle esigenze dell'opera svolta: i maestri si distinguevano normalmente dagli apprendisti e dagli operai salariati, ed a volte anche dai proprietari delle botteghe o degli opifici (81). La proprietà degli ambienti di lavoro poteva infatti spettare a privati, forniti di capitali da investire, ma estranei al mestiere (quali i padroni delle fornaci per la produzione del vetro) (82), ad enti ecclesiastici (il monastero di S. Giorgio Maggiore, in specie, possedeva numerose stationes, come fra poco vedremo), o al comune stesso (nel caso dell'Arsenale).
Per quanto notevoli fossero comunque le disparità individuali e di categoria - i maestri delle arti più modeste entravano ormai a far parte, con i lavoratori subordinati, del popolo minuto -, la posizione sociale ed il tenore di vita di questo strato del ceto popolare erano generalmente mediocri. Il carattere per lo più intrinsecamente debole delle attività legate all'elaborazione dei prodotti, al piccolo mercato cittadino, ai servizi, e l'ambito ristretto in cui esse erano mantenute, da un lato, e la "posizione di assoluto predominio" del commercio internazionale, con le sue molteplici implicazioni d'ordine politico ed economico (83), dall'altro, non consentivano invero la formazione di grandi ricchezze, né il raggiungimento di ruoli sociali eminenti (84).
Lo sfarzo ostentato dagli artigiani, che - nel ricordo del cronista - si recarono con "abiti nuovi" e preziosi ornamenti a salutare il doge appena eletto e la dogaressa, era una manifestazione eccezionale di festa, per celebrare uno speciale avvenimento: così si poteva anche spiegare la presenza, entro il gruppo di una delle arti, di "cavalieri erranti", disposti ad una sfida, secondo la compagnia nobiliare (85).
Più difficili realtà quotidiane vengono prospettate da altri documenti, come l'ingiunzione di sgombero, notificata il 31 maggio 1267 da due monaci di S. Giorgio Maggiore, appunto, in rappresentanza dell'abate e dell'intera comunità, ad un consistente gruppo di persone, fra cui molti lavoratori di diversi mestieri che avrebbero dovuto (non viene spiegato per quale motivo) liberare le abitazioni e le botteghe, o altri locali, di proprietà del monastero, da loro occupati nel campo "Rusulo", a S. Giuliano, a Rialto ed a S. Martino (86).
Gli artigiani citati specificamente in questo atto come tali per inciso, con il nome personale seguito dalla sola indicazione del rispettivo mestiere, ad esempio "Iacobo samitario [...> Thoma cristalerio [...> Marcho petenario", senza il cognome, il cui uso dunque non era ancora generalmente applicato ai livelli inferiori della società (87) - costituivano, per quanto numerosi, appena un'esigua parte del loro ceto. Tuttavia, dato l'interesse costante dei nobili e dei ricchi popolani per l'acquisizione di beni immobili nel centro urbano, è da ritenere che, analogamente, molti altri artigiani non fossero proprietari della bottega (officina, laboratorio), o dell'abitazione, o addirittura di entrambe.
Ma le situazioni economiche prospettate dai documenti notarili non sono uniformi: in qualche caso risultano anche buone, o discrete. Così nel testamento di Armano di S. Geminiano, calzolaio, è manifestato il possesso di una certa quantità di denaro e di titoli di prestito del comune, mentre la proprietà della bottega appare come presumibile (10 febbraio 1299) (88); in quello di un fabbricante di suole, Domenico Prevedello, di S. Polo, si fa tra l'altro riferimento alla proprietà di un terreno, nella diocesi di Treviso, ed al reddito che ne proveniva (21 agosto 1294) (89). A "terre e case" proprie accenna il pellicciaio Paolo Cassuglia, di S. Agostino, nell'impegnarsi verso un creditore alla restituzione, entro una determinata scadenza, della somma dovutagli (aprile 1236) (90). Si tratta, naturalmente, di indicazioni: significative ma ancora isolate, cui altre dovranno aggiungersi, per un'adeguata valutazione.
Ai "cittadini d'ogni arte" Martin da Canal fa seguire, nella presentazione della società del suo tempo, i "marinai d'ogni specie", additando, insieme con loro, le "navi per trasportare in ogni dove e galee per recar danno ai nemici" (91). In effetti, l'esistenza dei marinai (92) era, in buona parte, tanto svincolata dall'ambiente urbano, quanto vi era legata quella degli artigiani: per lunghi, a volte lunghissimi periodi (ad esempio il normale svolgimento dei viaggi commerciali in Levante, organizzati secondo il sistema delle mude, implicava la lontananza da Venezia per molti mesi all'anno) la società cui essi propriamente appartenevano era quella, ristretta e vincolante, che si costituiva a bordo.
Numerosi - la conduzione delle navi richiedeva ingenti equipaggi - ed armati - la possibilità di scontri era costante, anche per le spedizioni mercantili - i marinai costituivano una categoria fondamentale per il benessere della popolazione e la forza dello stato.
Perciò la loro posizione, per quanto secondaria e sottoposta, era considerata in modo positivo (solo con il secolo seguente avrebbe cominciato a subire un declassamento, determinato da varie ragioni), al punto che i proprietari stessi delle imbarcazioni trovavano opportuno assumerla.
Le condizioni di vita dei "marinai ordinari", regolate per tutto ciò che si riferiva alla navigazione da un'attenta normativa, dovevano essere piuttosto instabili durante i periodi trascorsi a terra, assimilandosi allora per lo più a quelle dei lavoratori della pesca e dell'artigianato, di cui avranno di solito condiviso le situazioni economiche e, temporaneamente, anche le occupazioni (93).
Una percentuale non determinabile, ma certo assai elevata, degli uni e degli altri formava lo strato inferiore del popolo, il popolo minuto, come generalmente si definisce, o la "gente minuta", come scrive il consueto cronista, accennando per esempio ai "ricoveri" ad essa destinati nella piazza di S. Marco (94).
Gente di condizioni modeste, talora difficili che, disponendo soprattutto, se non esclusivamente, del proprio lavoro, partecipava con questo alla produzione ed ai traffici, costituiva la base degli eserciti (95), per mare e per terra, ma era esclusa dalla possibilità di accedere alle cariche pubbliche e di determinare l'andamento della vita politica.
"Parvi", dunque, secondo il linguaggio di una deliberazione, già ricordata, del maggior consiglio, che li contrappone con realistica semplicità ai "magni", indicando una divisione senza sfumature della società cittadina, quale doveva essere avvertita nella generale consapevolezza del momento (96). Del resto anche nelle più pacate clausole delle promissioni ducali dell'intero secolo ricorre la formula "maiores et minores", a significare l'insieme dei Veneziani: così già nel testo giurato da Pietro Ziani (1205) si legge l'impegno all'equità verso "omnes homines Venecie maiores et minores" (97). La linea di separazione, chiara agli occhi dei contemporanei, di volta in volta, fu tuttavia soggetta, si è visto, a ridisegnarsi progressivamente, per vari decenni.
4. Altre componenti della società
"Grandi" e "piccoli", nobili e popolari non erano le sole componenti della società: ne costituivano piuttosto, nel loro insieme, la struttura portante. Fra le altre categorie, o gli altri gruppi di persone, che variamente prendevano parte alla vita sociale, una posizione particolare era occupata dagli ecclesiastici. Nel centro urbano e nelle località del Ducato il clero era presente in diverse forme, con un numero molto elevato di esponenti: preti distribuiti entro la densa rete delle parrocchie, canonici, monaci e monache di molteplici ordini e congregazioni, ai quali si aggiunsero, a partire dal terzo decennio del secolo, i frati e le suore dei nuovi ordini mendicanti (98).
Una peculiare tradizione, ma soprattutto la solidità e la crescente funzionalità delle istituzioni comunali, insieme con la sostanziale stabilità del ceto dirigente, preclusero alla chiesa locale la possibilità di condizionare gli organismi dello stato o di influire sul suo sviluppo politico (99) (ad essa competeva piuttosto il ruolo di solennizzare alcuni significativi momenti della vita pubblica attraverso le cerimonie religiose o la partecipazione alle processioni) (100): anzi fu proprio lo stato che riuscì ad esercitare un controllo sulle persone, le attività, i patrimoni degli ecclesiastici (101).
Con la società, invece, pur nei limiti fissati dagli ordinamenti civili, il clero ebbe forti ed estesi legami. I suoi componenti, qualunque fosse la loro appartenenza e la loro posizione gerarchica, provenivano in larga maggioranza da famiglie veneziane: i nobili occupavano in genere le cariche più autorevoli - raggiunte di raro da personaggi di mediocre estrazione, come nel caso di alcuni titolari della sede episcopale castellana - ma affollavano anche i livelli inferiori, dove naturalmente era pure cospicua la presenza di popolari. Solo la diffusione degli ordini mendicanti - alcuni esponenti dei quali nella seconda metà del secolo governarono a tratti i vertici delle chiese lagunari - comportò un discreto afflusso di religiosi dall'esterno (102).
Alla propria parentela gli ecclesiastici continuavano spesso ad essere uniti da vincoli di affetto, di fiducia, di interesse. Così Bartolomeo I Querini, vescovo di Castello, ricordava nel suo testamento (15 febbraio 1291) un considerevole numero di familiari, più o meno vicini per grado, laici o appartenenti a loro volta al clero, mettendo in luce un vasto intreccio di relazioni, di carattere molto vario. Fra le clausole più significative in tal senso è la remissione ai nipoti Bartolomeo e Andrea delle somme date in prestito al loro padre Matteo, allorché questi (fratello del testatore) si trovava come podestà a Padova ed a Treviso, e quando si era recato "in Apulia" (103).
Oltre la cerchia familiare, molti ecclesiastici erano collegati alla popolazione laica, veneziana e non, da una fitta rete di rapporti, di natura sia istituzionale che personale. Per i regolari inseriti negli ordini tradizionali si trattava prevalentemente di legami connessi alla gestione dei patrimoni immobiliari (in area lagunare, nella terraferma o in altre regioni ancora) dei rispettivi enti: patrimoni di consistenza a volte assai ingente, come nel caso di S. Giorgio Maggiore (b04) o del monastero femminile di S. Zaccaria (105).
Per i secolari, specie per i preti distribuiti nelle parrocchie, e per i frati mendicanti, che sempre più incisivamente, sul piano collettivo e individuale, si dedicarono alla cura delle anime, i contatti con la società erano determinati in primo luogo dall'adempimento dei compiti pastorali. Gli uni e gli altri, poi, avevano la possibilità di instaurare, in special modo svolgendo il ruolo di padrini, vincoli più diretti e costanti con i fedeli, di qualsiasi condizione, seguendoli e consigliandoli presumibilmente su questioni anche non religiose, e quindi influendo sul loro comportamento e le loro decisioni, ad esempio in occasione della stesura del testamento (106).
D'altronde il rapporto fiduciario che poteva stabilirsi fra laici ed ecclesiastici si traduceva talora nella domanda di favori o nell'attribuzione di incarichi, come l'arbitrato richiesto al vescovo di Castello per una controversia fra Bertaldino Trevisan ed i suoi figli, di S. Salvatore, ed il ricordato Lazzaro Mercadante; oppure il mandato di Omobono Barbo a Pietro, prete di S. Pantaleone, per riscuotere una somma di denaro da un antico debitore (107); o ancora la designazione, nel testamento dettato da Rinaldo Longo di S. Vito, prima di un viaggio d'affari, dello zio Pasquale Moro, priore di S. Giorgio in Alga, a fedecommissario (108).
I due ultimi documenti, in entrambi i quali fra i sottoscrittori, in qualità di testimoni, figurano dei diaconi, furono redatti l'uno da Donato di S. Stefano Confessore, prete, pievano e notaio, l'altro da Marco Semitecolo, diacono e notaio: due appena tra gli innumerevoli esempi possibili della fortissima, anche se non esclusiva, presenza del clero secolare nel notariato veneziano (109). Nella figura del prete-notaio sembra manifestarsi il grado più elevato di partecipazione degli ecclesiastici, su di un piano non religioso, alla vita della società: in tale ruolo, controllati dallo stato e responsabili nei suoi riguardi, essi conferivano infatti la necessaria validità alle più diverse iniziative, decisioni ed esigenze della popolazione realtina (110), come pure di quella residente, o di passaggio, nei centri del dominio mediterraneo di Venezia (111).
D'altra parte anche le autorità pubbliche ricorrevano, seppure non troppo frequentemente, all'opera di esponenti del clero, affidando loro particolari compiti: da quello, molto importante, di membro della commissione delegata alla stesura del nuovo corpus statutario, attribuito dal doge Giacomo Tiepolo a Pantaleone Giustinian, pievano della chiesa di S. Polo (112), al pur notevole incarico di cancelliere ducale, ricoperto da Nicolò Girardo, pievano di S. Moisè e naturalmente notaio (113), alle più modeste mansioni di scrivani presso l'ufficio della giustizia vecchia, in cui furono occupati Domenico Firiolo pievano di S. Vito e Iacopo prete di S. Canciano (114).
Da un punto di vista privato e personale, poi, non pochi tra i chierici compivano azioni o assumevano comportamenti tali da assimilare, più o meno palesemente, il loro modo di vivere a quello proprio, di norma, dei laici. Qualcuno aveva un sua famiglia, come Marino Boldù, canonico castellano, nel testamento del quale (5 novembre 1299) le clausole che manifestano la condizione ecclesiastica si alternano con quelle dove si esprime la preoccupazione per il futuro di figli e nipoti (115). Altri praticavano attività mercantili: ad esempio Angelo, prete di S. Leone Papa, cui Gabriele Marignoni di S. Maria Formosa consegnava del denaro per commerciare "per terram et per aquam" (settembre 1235) (116). Altri ancora - secondo le accuse formulate in alcune deliberazioni del maggior consiglio - esercitavano traffici illegali, ordivano frodi testamentarie, compivano aggressioni (117).
Se è presumibile che i "mali clerici" (118) di tal genere non fossero troppo numerosi, la "secolarizzazione" del clero veneziano fu comunque in genere molto accentuata (119): tanto più evidente dovette sembrare, almeno per un certo periodo, la novità rappresentata dagli ordini mendicanti che, con diversi atteggiamenti e metodi, riuscirono ad inserirsi a loro volta profondamente nel mondo cittadino. Del quale il ceto ecclesiastico, nella molteplicità delle sue articolazioni interne e dei ruoli svolti dai suoi componenti, era, più che complemento, parte essenziale.
Anche le donne, soprattutto e naturalmente quelle che rimanevano allo stato laico, avevano la facoltà di partecipare attivamente alla vita sociale. È facile comprendere come, in una situazione caratterizzata da frequenti e prolungate assenze di buona parte della popolazione maschile, spettasse appunto alle donne assumerne in maniera diretta compiti, prerogative e responsabilità, anche oltre l'ambito familiare.
Alle necessità di fatto corrispondeva il riconoscimento delle capacità giuridiche: "l'importanza [...> dell'elemento femminile nell'ambito del diritto privato" emerge in modo evidente da una documentazione già notevole per i secoli XI e soprattutto XII (120). Oltre a godere della piena disponibilità dei beni, di qualsiasi genere, loro personalmente spettanti, le donne veneziane avevano riconosciute numerose facoltà: potevano, fra l'altro, essere investite della tutela di minori ed incapaci (121), svolgere l'incarico di fedecommissario, finanziare imprese commerciali, operare su altrui mandato, prestare giuramento e, in determinate circostanze, rendere testimonianza. Perciò, una volta raggiunta la maggiore età, ossia l'idoneità ad agire "nei giudizi e nei contratti", che gli statuti tiepoleschi del 1242 fissavano comunemente per maschi e femmine a dodici anni (122), esse erano libere di stipulare per proprio conto pressoché ogni tipo di atto: dalle compravendite alle locazioni, dalle donazioni ai mutui; inoltre erano in grado di rilasciare quietanze, di ricevere procure, di fare testamento (123).
Innumerevoli le situazioni concrete alle quali potersi riferire. Di particolare rilievo, fra le iniziative o le attività cui dava adito un'autonomia tanto estesa, era la partecipazione agli affari mercantili (per lo più sotto forma di prestiti concessi "ad negociandum "): vi furono impegnate, anche se in modo spesso solo occasionale, donne di varia condizione, ma di norma appartenenti a famiglie dei ceti medio-alti: da Maria, moglie di Pietro Ziani, "inclita Venecie dukissa" (124), alla più modesta Giacomina Zantani, di S. Giovanni Decollato (125), una delle tante vedove che si incontrano nei documenti commerciali. Qualche volta entrambe le parti contraenti erano personaggi femminili: così nell'agosto 1255 Smeralda Pagan, di S. Stefano di Murano, riceveva da Redolica Gradenigo di S. Bartolomeo una somma che i suoi figli avrebbero impiegato nei traffici (126).
In tale ambito le donne agivano anche frequentemente su sollecitazione dei propri familiari, a loro favore o in loro nome: ad esempio un'altra Gradenigo, Agnese, di S. Angelo, prestò a vario titolo denaro al figlio Domenico e fu a sua volta, insieme con la nuora, delegata da lui ad ottenere la restituzione dei suoi crediti (127). Ancora, poteva succedere che un padre vendesse alla figlia metà di una nave: un contratto del genere, avente per oggetto un'imbarcazione completamente approntata, fu concluso tra Pietro Cavallerio di S. Agnese e Maria, vedova di Biagio Bollani, sua figlia appunto, il 16 agosto 1268 (128).
Ma la partecipazione alla vita sociale ed economica della città avveniva anche ad altri livelli ed in altri modi. Le donne di estrazione popolare mediocre e minuta lavoravano nel commercio al dettaglio ed in alcune produzioni artigianali, specie nel settore tessile e in quello dell'abbigliamento (come del resto si verificava allora frequentemente) (129). Espliciti riferimenti all'occupazione femminile in questi campi sono contenuti in qualche capitolare: ad esempio in quelli dell'arte dei merciai (1271), dove non solo si parla di "qualsiasi merciaio, uomo o donna", ma si indica l'esistenza di maestre e discepole; dei rivenditori di panni e roba vecchia (1233), in cui sin dal titolo è annunciata la presenza di "revendicule"; oppure dei giubbettieri (addizioni, forse del 1281) e dei filacanape (1233), nei quali vengono menzionate lavoranti donne e, nel secondo, per mansioni semplici, anche fanciulle (130).
Connotazioni diverse aveva il lavoro domestico servile, affidato a persone libere, oltre che, come vedremo, alla schiavitù: vi era impiegato un numero certo cospicuo di donne, che più o meno durevolmente entravano a far parte delle comunità familiari. Un documento del 12 febbraio 1268, che merita segnalare se non altro per la rarità del suo genere, rinvia a situazioni da ritenere invece assai diffuse: accingendosi ad entrare alle dipendenze di Odorico Belli di S. Angelo per un periodo di otto anni, Petris del fu Matteo "de Goliça" si impegnava ad un servizio ininterrotto, in cambio di "victum et vestitum" e, alla conclusione, di una somma di denaro (131).
Il ruolo sociale più importante attribuito alle donne si esplicava comunque sempre nel matrimonio, la cui funzione assumeva un rilievo via via maggiore dai ceti inferiori a quelli più elevati. Presso la nobiltà e la parte in ascesa del popolo l'acquisizione di nuovi vincoli parentali doveva infatti rispondere ad esigenze di prestigio familiare, di rafforzamento economico e, in taluni casi, anche di orientamento politico. Tuttavia, per la mancanza di adeguate ricostruzioni genealogiche, non è possibile delineare precise tendenze (132): ad esempio non si può dire se, ed in quale misura, i gruppi emergenti sostenessero la loro avanzata con apposite strategie matrimoniali. Sono note soltanto le scelte di alcune grandi famiglie, spesso rivolte, per altro, alla ricerca di influenti parentele non veneziane (così Pietro Ziani sposò in seconde nozze Costanza, figlia di Tancredi da Lecce) (133): un comportamento, questo, considerato ad un certo punto con preoccupazione dai dirigenti dello stato, tanto che nelle promissioni ducali, a partire dal 1275, fu inserita una clausola limitatrice delle possibilità di matrimoni con persone forestiere per il doge ed i suoi discendenti (134).
Sostegno fondamentale per le donne di qualsiasi ceto, avviate al matrimonio, era la dote (repromissa), cui normalmente provvedeva la famiglia d'origine (135), mentre le giovani orfane e povere erano alle volte aiutate dalla beneficenza di qualche testatore (136). E una dote, di importo non sempre inferiore, serviva anche per l'ingresso in uno dei tanti monasteri, diversi per tradizione e per configurazione sociale, esistenti da tempo o fondati proprio nel corso del secolo in città e nel Ducato (ma le connotazioni assunte a Venezia dal "movimento religioso femminile", così rilevante nell'Europa del tempo (137), sono ancora da mettere in luce).
"Maritari vel monachari": una scelta che - per quanto finora consente di intravedere la documentazione testamentaria, particolarmente fitta di indicazioni al riguardo - non parrebbe essere stata sempre duramente imposta dalle famiglie, e nemmeno priva di alternative, sebbene secondarie, quali il vivere sì in monastero, ma solo da converse, o anche lo "stare in mundo sine marito" (soluzioni parimenti prospettate da Maria, moglie di Ranieri Migliani di S. Vitale, per una delle proprie figlie) (138).
La posizione delle donne veneziane, per certi aspetti dunque favorita, o quanto meno resa piuttosto indipendente sia dal dinamismo della situazione ambientale, sia dallo sviluppo dell'ordinamento giuridico, appare anche, in alcune contingenze, tutelata dallo stato con specifici provvedimenti. In tal senso il maggior consiglio deliberava fra l'altro una norma sulla forma di pagamento delle doti (16 ottobre 1291); oppure stabiliva - con la quarantia - le punizioni per chi, avendo già una moglie altrove, contraesse in Venezia un nuovo matrimonio, fatto che, si precisa, avveniva molto frequentemente (27 settembre 1288) (139).
Simili inganni erano operati apprendiamo dalla medesima fonte - soprattutto da "forenses". La presenza degli stranieri, costante nella sua intrinseca mutevolezza numerica e qualitativa, era un elemento essenziale della realtà cittadina. Si trattava in primo luogo, naturalmente, di mercanti, che arrivavano da molteplici località, per lo più italiane e transalpine (140): di alcuni è anche possibile conoscere il nome, la provenienza o la destinazione, il tipo di commercio svolto, talora persino qualche vicenda della loro sosta realtina.
Un particolare rilievo ebbe l'attività dei Tedeschi, fra i quali emerse, dalla fine del secolo XII (prima che il comune esercitasse, attraverso l'istituzione del fondaco, avviato negli anni '20 ed amministrato "come officium" dal 1268 (141), uno specifico controllo, oltre che una forma di assistenza, nei loro riguardi) un personaggio conosciuto come Bernardo Teutonico. Questi, originario forse della Baviera, operò sul piano commerciale e finanziario, in collegamento soprattutto con i paesi dell'area alpina orientale (si ritiene avesse ottenuto "il monopolio delle forniture di argento", proveniente appunto dalle regioni dell'Europa centro-orientale, a Venezia); si stabilì nella contrada di S. Bartolomeo, dove fu proprietario di una casa, divenendo uno degli uomini più ricchi della città, tanto che dal suo ingente patrimonio poté essere prelevato un prestito di 15.000 lire, concesso nel 1215 al doge Pietro Ziani, per il comune (142).
L'afflusso degli artigiani fu con ogni probabilità più modesto: pure dovette assumere una certa frequenza, se nei capitolari delle arti, a partire da quello dei barbieri (1270) compare normalmente qualche disposizione per l'inserimento nelle rispettive scuole dei "forinseci" intenzionati ad esercitare un mestiere a Venezia (143), La provenienza di qualcuno era anche piuttosto remota: come nel caso di Rao, "batiargento Anglicus", residente a S. Polo, che riceveva nel novembre 1240 da Nycolota moglie di Filippo Maurisin da S. Salvatore un mutuo per svolgere la propria attività (144).
Fra quanti ancora giungevano in città per ragioni di lavoro una speciale considerazione ricevevano gli appartenenti ad alcune categorie di professionisti: medici, notai e scrivani. I medici erano talora chiamati e comunque spesso stipendiati dal comune, alle condizioni fissate di volta in volta dal maggior consiglio; dei molti di cui rimane notizia va ricordato Taddeo Alderotti, che si decise di far venire da Bologna "ad medicandum" il 4 giugno 1293, prescrivendogli tra l'altro di condurre con sé due "scolares" per curare gratuitamente i poveri ("pauperes Christi") (145). Analogamente, notai e scrivani potevano essere impiegati presso uffici pubblici, come il notaio Marco da Padova, all'Arsenale (19 dicembre 1223) o Faraldino, scrivano novarese, alla curia ducale (settembre 1224) (146).
Oltre che centro di richiamo per le attività economiche e le possibilità di lavoro che presentava, Venezia era luogo di transito per crociati e viaggiatori diretti oltremare, pellegrini, ambasciatori. Offriva anche asilo, più o meno temporaneo, a persone costrette a rimanere lontane dalla propria terra per motivi politici: da Stefano, figlio di Andrea II d'Ungheria, di cui è noto il matrimonio con Tomasina, sorella di Albertino Morosini (147), ad Alberto, vescovo di Treviso, rifugiatosi come numerosi altri oppositori dei da Romano, negli anni '50 (148).
Molti dei forestieri trovavano modo di inserirsi stabilmente, diventando così, sotto il profilo giuridico, da forinseci, habitatores, ed essendo come tali pressoché "equiparati, almeno nel campo privatistico, ai cittadini". E cives, a volte di pieno diritto, a volte con qualche limitazione, era possibile normalmente divenire, dopo un decennio di residenza (149). All'emigrazione dei Veneziani nei territori di Levante faceva dunque riscontro un afflusso cospicuo e vario di elementi dall'esterno, destinati in parte ad assimilarsi al nucleo originario della popolazione (150) e comunque a svolgere, nei confronti di questa, un ruolo attivo, sul piano economico e sociale.
Una percentuale sicuramente notevole degli stranieri presenti a Venezia in modo stabile era formata da schiavi (di provenienza per lo più orientale). Il loro commercio e la loro utilizzazione per diverse esigenze lavorative, particolarmente in ambito domestico, erano praticati da lungo tempo: di manodopera servile potevano disporre con facilità non solo i laici, come provano frequenti attestazioni documentarie, ma anche gli. ecclesiastici (151).
Di schiavi e schiave si trova soprattutto menzione nei testamenti: al momento di decidere l'assegnazione dei propri beni, i padroni destinavano loro qualche lascito e spesso concedevano addirittura la libertà. Così, fra molti, Giacomo Tiepolo di Marocco liberava, a vantaggio della sua anima, "tutti i servi e le ancelle" a lui appartenenti, attribuendo poi in particolare ad una schiava del denaro per il matrimonio o il monastero e ad uno schiavo una "taberna" (27 dicembre 1294) (152).
Certo non sempre chi viveva in servitù avrà potuto contare sulla prospettiva dell'affrancamento o comunque si sarà adattato alla situazione impostagli: in effetti gli "schiavi fuggitivi" non dovevano essere tanto rari, se il maggior consiglio si occupò di loro e di quanti contribuissero ad allontanarli dalle case dei proprietari o li accogliessero (153). Tuttavia non sembra che la condizione servile fosse, in genere, troppo grave; almeno, dal punto di vista giuridico, erano riconosciute agli schiavi diverse facoltà, tra le quali avere "nozze legittime e famiglia propria, [...> contrattare e possedere, [...> curare gli interessi del padrone" (154). Per quanti venissero poi liberati, e per i loro discendenti, era possibile, specie nei primi decenni del secolo, un buon inserimento nella società cittadina (si pensi al caso, pure eccezionale, di Zaccaria Staniario e dei suoi ascendenti).
Meno chiaramente determinabile, per la scarsità delle fonti che vi si riferiscono, è la presenza degli Ebrei, il cui ruolo nella vita economica, e soprattutto finanziaria, di Venezia appare fino alla metà del secolo XIV poco rilevante (155). È significativo, al riguardo, che una deliberazione del maggior consiglio (16 maggio 1281), volta "ad impedire l'attività usuraria [...> di [...> prestatori di professione, i quali, non potendo risiedere a Venezia, si erano stabiliti a Mestre" non nomini esplicitamente gli Ebrei, ma solo "toscani ed altri che danno ad usura" (156). Non manca qualche riferimento plausibile, come la dichiarazione di un debito verso Isacco di S. Bartolomeo, contenuta nel testamento di Marco de Bernardo, della stessa contrada (aprile 1221) (157), ma è ancora poco: la stessa rarità delle indicazioni disponibili non consente quindi nemmeno di prospettare eventuali forme di emarginazione degli Ebrei dalla società realtina, per quanto essi dovessero occupare una posizione a sé stante (158).
L'isolamento riguardava piuttosto, in vari modi, altri elementi della popolazione, considerati temibili per l'insieme di questa, a causa delle loro trasgressioni o della pericolosità delle loro malattie, fisiche e mentali. Per i ladri ed altri tipi di malfattori (spesso di origine forestiera) l'emarginazione poteva ovviamente coincidere con l'imprigionamento (159), ma nei periodi di libertà era segnata dalla "cattiva fama" che di solito li accompagnava, o dalle vistose impronte (marchi e mutilazioni) lasciate nel loro aspetto dalle condanne già subite (160).
La condizione degli ammalati per mali contagiosi o ripugnanti, in primo luogo la lebbra, e quella, in molti casi ad essa collegata, degli indigenti, hanno finora suscitato scarso interesse e sono perciò conosciute solo in maniera approssimativa (161). Infermi e miserabili erano accolti ed assistiti, almeno in parte, dalle istituzioni ospedaliere, così frequentemente beneficate dai testatori. In particolare l'ospedale di S. Lazzaro - cui, fra gli altri, già nel 1210 Pietro Ziani concedeva quattro delle sue saline - raccoglieva i lebbrosi (162), in una segregazione non proprio assoluta: vi erano per esempio dei barbieri che andavano "ad raddendum ad Sanctum Laçarum", come indica una norma del capitolare dell'arte (nella redazione del 1270) (163).
È presumibile che il numero, e conseguentemente la pericolosità sociale delle persone colpite dalla lebbra e da altre "abominevoli infermità" andassero aumentando sul finire del secolo: emblematicamente, all'aprirsi del successivo, segnato dalle pestilenze, una deliberazione del maggior consiglio (23 aprile 1300) presenta le chiese, i ponti, le vie pubbliche attristate da quella gente che ammorbava l'aria e sconvolgeva "le viscere degli uomini", per la quale si decretava il raggruppamento presso gli ospedali, o l'espulsione dalla città (164).
Ad un diverso genere di preoccupazioni inducevano i mente alienati, specie se appartenenti a famiglie di un certo livello sociale ed economico: per loro l'isolamento si attuava soprattutto sul piano giuridico, secondo le dettagliate disposizioni degli statuti, in cui si manifesta per tale materia una notevole attenzione (165).
5. Elementi di coesione e situazioni di conflitto
Una presentazione entro limiti così ridotti può essere appena indicativa di una realtà che la grande ampiezza, la varietà e la suggestione delle fonti consentirebbero di rievocare in modo ben più largo e definito. Le connotazioni essenziali di tale realtà appaiono comunque abbastanza evidenti. In primo luogo la grande mobilità di buona parte della popolazione. L'attitudine agli spostamenti, normale per uomini di mare e dediti ai traffici, venne enfatizzata dalla conquista dei territori bizantini: merita ad esempio ricordare che fra i "mercanti di Costantinopoli" incontrati a Kiev, alla metà degli anni '40, da Giovanni di Pian del Carpine (166), legato papale presso i Mongoli, si trovava un Emanuele da Venezia. Ma dalla città, per periodi più o meno lunghi, si allontanavano anche rappresentanti del comune nei numerosi centri del dominio, componenti di spedizioni militari, ambasciatori, podestà, ecclesiastici, lavoratori.
Lo stesso ambiente urbano, il cui assetto fondamentale andò configurandosi proprio nel corso di questo secolo, era caratterizzato da una considerevole - e variamente attestata - mobilità interna: la progressiva bonifica di zone ancora ricoperte dall'acqua, l'avvio di nuovi insediamenti abitativi e religiosi, la definizione di aree produttive e commerciali determinarono non pochi trasferimenti di singoli nuclei familiari o di interi gruppi di abitanti (167).
Un secondo importante aspetto è individuabile nella discreta flessibilità delle divisioni sociali: non era precluso ad elementi popolari di assimilarsi ai nobili, agli stranieri di ottenere la cittadinanza veneziana, agli schiavi di essere liberati ed entrare a far parte del popolo, sia pure del popolo minuto. Ma la tendenza all'apertura ed al rinnovamento, avviata dal secolo precedente, si sarebbe via via esaurita - come abbiamo visto - negli ultimi decenni del '200 (fra le esplicite attestazioni dell'orientamento contrario potrebbe valere la dichiarazione di non ammissibilità degli illegittimi al maggior consiglio, votata il 27 ottobre 1277) (168).
Inoltre è da sottolineare l'esistenza di alcuni fattori di coesione tra esponenti di ceti diversi. Uno dei più notevoli era la partecipazione alle medesime attività economiche e specialmente commerciali (le carte di colleganza possono fornire indicazioni precise dei legami che si instauravano, nel contesto di operazioni mercantili, fra persone di condizioni anche eterogenee) (169). Ad altri, più complessi vincoli - di conoscenza, di solidarietà, d'interesse - induceva non di rado la vicinanza degli abitanti, variamente distribuiti nei confinia (contrade-parrocchie) (170), che costituivano la base dell'ordinamento cittadino, in ambito sia civile, finanziario e militare, sia ecclesiastico (171). Ancora, particolari forme di solidarietà si attuavano sul piano religioso, ad esempio entro le scuole di devozione, in cui potevano confluire membri di provenienza sociale differente (172).
A volte si manifestavano anche legami più decisi, di tipo clientelare, fra grandi famiglie e loro aderenti di ceto inferiore, legami all'origine di aggregazioni armate e disposte all'uso della violenza, come successe durante i tumulti del 1266 (173), mentre sono meno chiaramente individuabili i collegamenti fra gli uomini accusati di complotto ("de facto comilitatis") e condannati al bando perpetuo nel 1275, fra 7 ed 8 luglio (da una parte Simeone Steno, detentore di una cavalleria a Creta - toltagli appunto in seguito a tale vicenda - e dall'altra un gruppo di sei persone, due delle quali sicuramente artigiani: "Carletus Bellotus samitarius, Floca aurifex") (174).
I caratteri inquieti e conflittuali della società, che d'altra parte questi avvenimenti mettono in luce, sono ribaditi da numerose testimonianze, sebbene la discontinuità o la concisione delle fonti, riguardo a tale aspetto, non permettano di valutare compiutamente, per l'intero secolo (175), la consistenza e l'andamento della violenza sociale, nelle sue diverse espressioni, individuali, di gruppo o collettive.
Nell'insieme, le tensioni sembrano essere state più gravi e frequenti nel periodo che seguì la caduta dell'Impero latino d'Oriente (176). Sono attestati episodi di varia natura. Secondo Andrea Dandolo, nel 1266, oltre agli scontri fra i gruppi dei Tiepolo e dei Dandolo, si sarebbe avuta anche una sollevazione popolare, suscitata dalla minaccia di inasprimenti fiscali: la "plebs" si sarebbe dapprima rivolta contro il doge Ranieri Zeno, poi avrebbe invaso e depredato le case di alcuni nobili (177), manifestando, a quanto pare, nel contempo, una protesta verso le istituzioni ed uno sfogo di ostilità nei confronti di una parte almeno del ceto più potente.
Per il 1278 si ha notizia di un'altra congiura, a causa della quale fu condannato al bando perpetuo Giovanni Saraceno (178). Ancora, in una deliberazione del maggior consiglio del 21 ottobre 1285 si fa riferimento ad un'aggressione compiuta da Francesco, figlio di Giovanni, entrambi cimatori, contro il nobile Nicolò Querini (179). E si potrebbero elencare, su di un piano diverso, altri fatti violenti, di cui tuttavia sfuggono le connotazioni precise, come, ad esempio, quelli indicati in una lista di contumaci, o banditi dalla città fra il 1289 ed il 1292, dove si leggono parecchi nomi di artigiani, oltre che di ecclesiastici: presumibilmente storie prodotte da un intrico di disagio sociale e di criminalità comune (180).
La preoccupazione dei governanti per il contenimento della violenza, di qualsiasi tipo, e la difesa dell'ordine civile è manifestata da vari provvedimenti del maggior consiglio, alcuni dei quali specialmente volti a limitare l'uso delle armi ("di giorno e di notte", si precisa in una deliberazione del 5 luglio 1269) (181). In particolare si temeva che l'uso della forza venisse attuato contro le istituzioni del comune, o all'interno di esse: così il 30 agosto 1276 fu vietato di introdurre "armi proibite" a palazzo durante le riunioni del maggior consiglio, dei rogati e dei quaranta (182).
Al medesimo orientamento rispondevano, con differenti accentuazioni dettate dalle esigenze del momento in cui furono stabilite, altre deliberazioni consiliari, norme inserite nei capitolari delle arti, clausole delle promissioni ducali: divieti, repressioni e condanne colpivano le varie prevedibili forme di ribellione: dal rifiuto del giuramento di obbedienza da prestare nell'ambito della contrada (183), alle "comilitates" e "conspirationes", cioè le associazioni sediziose "contra honorem comunis Veneciarum" (184), fino ai deprecati tumulti di piazza (185).
Non mancarono dunque a Venezia (come in tanti altri centri urbani), specie nella seconda metà del secolo, i conflitti interni, sia sfociati in dimostrazioni palesi, sia fermati allo stadio di tentativi di protesta o progetti di sovversione: ostilità di parti o gruppi legati ai potenti ed attriti sociali, con le relative contingenti interazioni cd implicazioni politiche. Tuttavia né la vita della società, né le strutture dello stato furono segnate da tali contrasti in maniera così profonda quanto lo fu generalmente il mondo comunale italiano del '200: Venezia non fu città di torri, né di societates nobiliari e popolari formalmente costituite e contrapposte, né, quindi, di dualismi o di gravi instabilità istituzionali (186).
Questa situazione fu determinata in parte dalle peculiari connotazioni della società e dello stato medesimi, plasmati soprattutto dalle esigenze mercantili, in parte dalla grande apertura internazionale realizzatasi all'inizio del secolo e conservata anche in seguito, nonostante le restrizioni territoriali e le difficoltà politico-militari nel Mediterraneo, per la caduta dell'Impero latino (187). Quindi il comune non subì mutamenti radicali ed improvvisi: piuttosto andò accentuando, nei confronti della società, il proprio carattere statuale (fra i tanti segni di questo sviluppo si può ricordare una risoluzione della quarantia, datata 5 ottobre 1276, per cui da allora, nelle sedute del maggior consiglio, la trattazione dei "fatti del comune" avrebbe avuto la precedenza sulle questioni private) (188). Sempre più si ampliarono le sue articolazioni, competenze ed occasioni d'intervento, fino ad orientare e, almeno tendenzialmente, disciplinare pressoché ogni aspetto della vita collettiva ed individuale (189).
Naturalmente non mancarono, da parte dei cittadini, resistenze e trasgressioni di vario genere, anche a prescindere dalle proteste violente. Ad esempio "il frequente rifiuto" di assumere incarichi pubblici scomodi o poco vantaggiosi, un atteggiamento che ripetute sanzioni, già dalla fine del secolo XII, non riuscirono ad eliminare (190); oppure l'evasione fiscale (in un provvedimento del 21 luglio 1287 si rilevava come molti ricchi contribuissero ai prestiti forzosi solo per modesti importi) (191); o ancora la frode, praticata ai danni del patrimonio pubblico ("de havere comunis") a volte dagli stessi titolari degli uffici (192). Né forse i medesimi esponenti del ceto dirigente si saranno attenuti molto spesso al precetto che nel 1279 si volle aggiunto al capitolare del maggior consiglio e letto "in cathedra [...> ut homines sint memores", in occasione delle elezioni: cioè di scegliere i migliori ed i più adatti per il comune, senza disonestamente favorire gli amici, o danneggiare i nemici (193).
Tuttavia, nell'insieme, prevalsero gli elementi di coesione, o di presa delle istituzioni sulla società: tanto sul piano individuale - basti pensare all'efficienza dell'ufficio dei procuratori di S. Marco nello svolgere i suoi molteplici compiti ed alla fiducia con cui i cittadini ne richiedevano l'intervento, per diverse, personali esigenze (194) quanto sul piano collettivo; per cui è immediato il ricordo di cerimonie e riti, religiosi e civili nel contempo, nei quali alla festosità allegra o solenne si univa il sentimento della tradizione e della potenza (195).
* Per i documenti citati, la data cronica è riferita all'uso attuale, la data topica, se non indicata, s'intende Rialto o Venezia.
1. A.S.V., Procuratori di S. Marco, de ultra, b. 116, commissaria Darpo Ranieri, notaio Antolino Pagano.
2. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, III, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1934, pp. 208-209, nr. 68; cf. Ugo Tucci, La navigazione veneziana nel Duecento e nel primo Trecento e la sua evoluzione tecnica, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I, 2, Firenze 1973, p. 828 (pp. 821-841).
3. Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, pp. 4-5.
4. Fra le più notevoli sono da ricordare Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, II, Venezia 19733; Heinrich Kretschmayr, Geschichte von Venedig, II, Gotha 1920 (riprod. anast. Aalen 1964); Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata. Dalle origini alla caduta della repubblica, I, La grandezza, Bergamo 19277 (riprod. anast. Trieste 1973); Giuseppe Maranini, La costituzione di Venezia, I, Dalle origini alla serrata del Maggior Consiglio, Venezia 1927 (riprod. anast. Firenze 1974); Roberto Cessi, Storia della repubblica di Venezia, Milano-Messina 19682 (riprod. anast. Firenze 1981); Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978.
5. Si vedano soprattutto le ricerche (alle quali verrà fatto più avanti riferimento) di M. Merores, G. Luzzatto, F.C. Lane, G. Cracco, G. Zordan, G. Rösch, E. Crouzet-Pavan.
6. Cf. le successive nn. 45, 37, 41.
7. Al riguardo cf. Luigi Lanfranchi, Per un codice diplomatico veneziano del secolo XIII, in Viridarium floridum. Studi di storia veneta offerti dagli allievi a Paolo Sambin, a cura di Maria Chiara Billanovich - Giorgio Cracco - Antonio Rigon, Padova 1984, pp. 355-363.
8. M. Da Canal, Les estoires, pp. 2-7.
9. Per una presentazione d'insieme cf. Renato Bordone, L'aristocrazia: ricambi e convergenze ai vertici della scala sociale, in La storia. I grandi problemi dal Medioevo all'età contemporanea, diretta da Nicola Tranfaglia - Massimo Firpo, I, Il Medioevo, 1, I quadri generali, Torino 1988, pp. 145-175.
10. G. Maranini, La costituzione di Venezia, I, p. 348.
11. F.C. Lane, Storia di Venezia, p. 134. Sull'evento e le sue conseguenze esiste una considerevole bibliografia: in particolare cf. Margarete Merores, Der große Rat von Venedig und die sogenannte Serrata vom Jahre 1297, "Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte", 21, 1928, pp. 33-113; Frederic C. Lane, L'ampliamento del Maggior Consiglio di Venezia, "Ricerche Venete", 1, 1989, pp. 21-58; Stanley Chojnacki, In Search of the Venetian Patriciate: Families and Factions in the Fourteenth Century, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 47-90; Gerhard Rösch, Der venezianische Adel bis zur Schließung des Großen Rats. Zur Genese einer Führungsschicht, Sigmaringen 1989, pp. 168-184.
12. Così anche Margarete Merores, Der venezianische Adel (Ein Beitrag zur Sozialgeschichte), "Vierteljahrschrift für Sozial- und Wirtschaftsgeschichte", 19, 1926, p. 224 (pp. 193-237). Per una conferma del valore probatorio riconosciuto alla "publica fama" e per il significato da attribuire alla locuzione, v. Roberto Cessi, Gli statuti veneziani di Jacopo Tiepolo del 1242 e le loro glosse, Venezia 1938, pp. 38 e 11 (glossa 29). Si tratta del resto di un atteggiamento comune: cf., ad esempio, Giovanni Tabacco, Nobili e cavalieri a Bologna e a Firenze fra XII e XIII secolo, "Studi Medievali", ser. III, 17, 1976, p. 48 (pp. 41-79).
13. Per le citazioni si vedano: Vittorio Lazzarini, Lettere ducali veneziane del secolo XIII ("Litterae clausae") (in AA.VV., Scritti di paleografia e diplomatica in onore di Vincenzo Federici, Firenze 1944) ristampa in Id., Scritti di paleografia e diplomatica, Padova 19692, p. 188 (pp. 183-194); Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1931, p. 161, nr. 101 e p. 156, nr. 75; M. da Canai., Les estoires, pp. 266-267 (le date delle prime tre attestazioni sono 1247, 1274, 1272; l'opera di M. da Canal fu composta negli anni 1267-1275). L'impiego dei termini "nobiltà", "nobile" e di altri affini nelle fonti veneziane duecentesche meriterebbe una specifica analisi: per ulteriori riferimenti rinvio, fra l'altro, a Giorgio Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967, pp. 108-109 e ad Alberto Limentani, Introduzione a M. da Canal, Les estoires, pp. CCXXXIV-CCXLIII.
14. Per i caratteri della nobiltà prima del '200 v. soprattutto M. Merores, Der venezianische Adel; G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 17-111; Andrea Castagnetti, Famiglie e affermazione politica, in Storia di Venezia, I, Origini - Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini - Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1992, pp. 613-644.
15. Per qualche esempio dell'uso di tale espressione v. A. Lin1eni'ani, Introduzione, p. CCLVI.
16. Su tale evoluzione cf. M. Merores, Der große Rat, pp. 56-71 e G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 112-150.
17. Sulle conseguenze della crociata per i Veneziani cf. Freddy Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Âge. Le développement et l'exploitation du domaine colonial vénitien (XIIe-XVe siècles), Paris 1959, pp. 74-139; Giorgio Cracco, Un "altro mondo". Venezia nel Medioevo dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986, pp. 63-68.
18. La configurazione del sistema istituzionale è descritta da Roberto Cessi, Venezia nel Duecento: tra Oriente e Occidente, Venezia 1985, pp. 1-18 (p. 7 per la citazione); Id., Storia della repubblica, pp. 271-275; Giorgio Zordan, L'ordinamento giuridico veneziano. Lezioni di storia del diritto veneziano con una noia bibliografica, Padova 1980, pp. 68-90. La connessione fra appartenenza alla nobiltà ed esercizio di uffici pubblici, nella seconda metà del secolo, è bene espressa da una deliberazione del maggior consiglio del 10 aprile 1264, in cui si attribuisce "illis tribus nobilibus, qui sunt super imprestitis" la risoluzione di tutte le questioni relative appunto agli imprestiti (Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 273-274, nr. 7).
19. Mancano per Venezia lavori d'insieme sulle strutture familiari ed il loro funzionamento negli ultimi secoli del Medioevo. Per alcuni aspetti cf. Elisabeth Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse". Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du Moyen Âge, I, Roma 1992, pp. 373-462.
20. Fra i molti e diversi esempi del manifestarsi di tale solidarietà si può ricordare la fideiussione prestata al doge - per il comune - nell'ambito di una controversia riguardante l'episcopato castellano, da alcuni componenti della famiglia Querini (Domenico di S. Giovanni Nuovo, Paolo di S. Polo, Giovanni di S. Giuliano, Marco del fu Giovanni, Marco di Pancrazio, Nicolò del fu Matteo di S. Matteo) in favore del loro congiunto Leonardo, pievano di S. Polo (Deliberazioni del Maggior Consiglio, a cura di Roberto Cessi, I, Bologna 1950, p. 102, nr. 182, del 17 maggio 1226).
21. Così, fra l'altro, venne stabilito che nella quarantia dovesse entrare un solo esponente "de una parentella" (12 dicembre 1274); che del consiglio dei rogati non potessero far parte più di tre "de una sciata" (16 gennaio 1280); che i procuratori di S. Marco non avessero fra loro vincoli "de sclata nec de alia parentella" (9 ottobre 1268), e l'elenco potrebbe continuare (Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 94, nr. 32; p. 88, nr. 2; p. 240, nr. 4. Cf. anche M. Merores, Der große Rat, p. 87).
22. L'aumento di popolazione che interessò durante questo secolo il centro realtino (v. Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 38-40) comportò la proliferazione di molte famiglie, le quali divennero "vere e proprie gentes suddivise in rami maggiori e minori, spesso di grado sociale diverso, e sparse in diversi sestieri"; da ciò la pratica di aggiungere al nome di famiglia "un patronimico o una determinazione topografica [...> oppure un supernomen personale": Gianfranco Folena, Gli antichi nomi di persona e la storia civile di Venezia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", classe di scienze morali, lettere ed arti, 129, 1970-1971, pp. 457-458 (pp. 445-484) (ma anche ripubblicato in Id., Culture e lingue nel Veneto medievale, Padova 1990, pp. 175-209); e cf. n. 20.
23. Per un quadro complessivo di tali cariche e delle relative competenze v. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 315-361, oltre a G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 113-118 (e pp. 135-141, dove si fa rilevare la distribuzione sistematica dei più importanti uffici del dominio tra le maggiori famiglie).
24. A tale aspetto non si è finora prestata molta attenzione: per qualche riferimento v. G. Rösch, Der venezianische Adel, p. 120.
25. Cf. specialmente Marco Pozza, Podestà e funzionari veneziani a Treviso e nella Marca in età comunale, in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secoli XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci. Atti del convegno. Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 291-303.
26. Il testo della concessione - che meriterebbe un più accurato esame - è edito da Gottlieb L.Fr. Tafel-Georg M. Thomas, Urkunden zur dlteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig mit besonderer Beziehung auf Byzanz und die Levante, II, (1205-1255), Wien 1856 (riprod. anast. Amsterdam 1964), pp. 129-136. Fra quanti se ne sono occupati, cf. da ultimo G. Rösch, Der venezianische Adel, p. 123 n. 66.
27. Per tali aspetti v. Stefano Gasparri, I milites cittadini. Studi sulla cavalleria in Italia, Roma 1992.
28. Ricordo le osservazioni di M. Merores, Der großfe Rat, p. 95.
29. Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, p. 308; cf. anche G. Folena, Gli antichi nomi, p. 475, per qualche altro esempio.
30. M. da Canal, Les estoires, pp. 130-131.
31. In proposito v. le annotazioni di A. Limentani, Introduzione, p. CCLXXXVIII, che anzi indica "la sostanziale estraneità di quel costume all'ambiente veneziano".
32. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 212, nr. 10: cf. Vittorio Lazzarini, Le insegne antiche dei Quirini e dei Tiepolo ("Nuovo Archivio Veneto", 9, 1895) ristampato in Id., Scritti di paleografia, pp. 245, 250 (pp. 245-252). Va ricordato Jacques Heers, Il clan familiare nel Medioevo. Studi sulle strutture politiche e sociali degli ambienti urbani, Napoli 1976, particolarmente pp. 138-142.
33. Meriterebbe speciale considerazione anche l'uso di tali denominazioni, in rapporto alle vicende politiche ed ai mutamenti sociali; ad esempio la stabile adozione di ser (per altro variamente impiegato, come dominus) quale titolo dei componenti il maggior consiglio parrebbe doversi collocare all'epoca del dogado di Giacomo Contarini (1275-1280): v. M. Merores, Der große Rat, pp. 88-89 e A. Limentani, Introduzione, pp. CLXVII-CLXIX, CCXXXV.
34. Così sostiene Gino Luzzatto, Les activités économiques du Patriciat vénitien (Xe-XIVe siècles) (originariamente in "Annales d'Histoire Économique et Sociale", 9, 1937), ristampato in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, p. 126 (pp. 125-165).
35. Per una sintetica esposizione del fenomeno v. Gerhard Rösch, La nobiltà veneziana nel Duecento: tra Venezia e la Marca, in Istituzioni, società e potere, nella Marca trevigiana e veronese (secoli XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci. Atti del convegno. Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 263-270; ibid. cf. anche Lesley A. Ling, La presenza fondiaria veneziana nel Padovano (secoli XIII-XIV), pp. 305-320.
36. Cf., tra l'altro, Silvano Borsari, Studi sulle colonie veneziane in Romania nel XIII secolo, Napoli 1966; Id., Il dominio veneziano a Creta nel XIII secolo, Napoli 1963; inoltre, alcuni dei contributi raccolti in Venezia e il Levante.
37. Marco Pozza, I Badoer. Una famiglia veneziana dal X al XIII secolo, Abano Terme 1982, pp. 63-64.
38. Sui caratteri dell'edilizia privata veneziana si vedano, per quanto prevalentemente dedicate ai secoli XIV e XV, le pagine di E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 463-526.
39. Edita da Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, II, Torino 1940, pp. 240-242.
40. Per le trasformazioni dell'ambiente urbano negli ultimi secoli del Medioevo, cf. ancora E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse".
41. Se ne occupa dettagliatamente Irmgard Fees, Reichtum und Macht im mittelalterlichen Venedig. Die Familie ,Ziani, Tübingen 1988, pp. 103-115.
42. Ad esempio il nobile Filippo Corner ottenne dal comune, per sé ed i suoi successori, un'"acqua" dove costruire un mulino, con l'impegno al versamento di un canone annuo (15 settembre 1282: Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 8, nr. 36).
43. Vittorio Lazzarini, Possessi e feudi veneziani nel Ferrarese (in AA.VV., Miscellanea in onore di Roberto Cessi, I, Roma 1958) ristampato in Id., Proprietà e feudi, offizi, garzoni, carcerati in antiche leggi veneziane. Saggi seguiti da una notizia biografica e dalla bibliografia dell'autore, Roma 1960, pp. 31-48; v. inoltre G. Luzzatto, Les activités économiques, pp. 138-141; Sante Bortolami, L'agricoltura, in Storia di Venezia, I, Origini - Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini - Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma 1992, pp. 461-489.
44. G. Rösch, La nobiltà veneziana, pp. 265-267.
45. Cf. Raymond Joseph Loenertz, Les Ghisi, dynastes vénitiens dans l'Archipel, 1207-1390, Firenze 1975, pp. 25-43.
46. Mi riferisco alla trascrizione di Maria Cristina Bellato, Aspetti di vita veneziana del XIII secolo (sulla base di 26 testamenti trascritti e pubblicati), tesi di laurea, Università di Padova, Facoltà di Magistero, a.a. 1976-1977, pp. 323-328.
47. R.J. Loenertz, Les Ghisi, p. 33.
48. Cf. Luigi Lanfranchi, Famiglie mediterranee: i Venier dei Santi Apostoli, in AA.VV., I ceti dirigenti del Veneto durante il Medioevo. Atti del convegno di studi. Venezia, 14 novembre 1981, s.n.t., pp. 65-68.
49. Ad esempio cf., nel Liber Comunis, l'annotazione relativa a Giuliano Acotanto di S. Basilio, proprietario di una nave "chiamata S. Savino" (Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, pp. 106-107, nr. 195, del 20 luglio 1226); oppure la cessione della quarta parte della nave S. Maria, accordata da Giovanni Badoer di S. Stefano Confessore a Nicola Badoer dello stesso confinio ed a Michele Emo di S. Leonardo, per commerciare ovunque (giugno 1225, in R. Morozzo Della Rocca - A. Lombardo, Documenti del commercio, pp. 160-161). Sui patroni si veda Giovanni I. Cassandro, La formazione del diritto marittimo veneziano, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I, 1, Firenze 1973, pp. 194-195 (pp. 185-218).
50. Gino Luzzatto, La commenda nella vita economica dei secoli XIII e XIV con particolare riguardo a Venezia, in Id., Studi di storia economica, pp. 66-67 (pp. 59-79) (già in AA.VV., Atti della mostra bibliografica e convegno internazionale di studi storici del diritto marittimo medioevale, I, Napoli (1943).
51. Id., Il patrimonio privato di un doge del secolo XIII ("Ateneo Veneto", 47, 1924) ristampalo in Id., Studi di storia economica, pp. 81-87.
52. V. ad esempio Philip Jones, Economia e società nell'Italia medievale: la leggenda della borghesia (in AA.VV., Storia d'Italia, Annali, I, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino 1978) ristampato in Id., Economia e società nell'Italia medievale, Torino 19812, p. 60 (pp. 3-189).
53. Historia ducum l'enclicorum, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H... Scriptores, XIV, 1883 (riprod. anast. Stuttgart-New York 1963), pp. 96-97.
54. Il testamento è pubblicato da Silvano Borsari, Una famiglia veneziana del Medioevo: gli Ziani, "Archivio Veneto", ser. V, 110, 1978, pp. 62-63 (pp. 27-72). Sul comportamento dello Ziani in qualità di prestatore di denaro cf. I. Fees, Reichtum und Macht, pp. 60-75, 99-101. Più in generale: Frederic C. Lane, Investimento e usura, in Id., I mercanti di Venezia, Torino 1982, pp. 205-217.
55. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 102, nr. 39.
56. Ibid., II, p. 387 (nelle rubriche, al 28 febbraio 1267).
57. Cf. M.C. Bellato, Aspetti di vita, pp. 240-241.
58. Cf. G. Rösch, Der venezianische Adel, p. 123; G. Cracco, Un "altro mondo", p. 64.
59. Tali elenchi sono pubblicati in Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, pp. 269-362 (fino al 1296-1297); v. inoltre G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 125-146.
60. "Verschmelzung" è il termine usato da M. Merores (Der große Rat, p. 61), secondo la quale si tratta della realtà più importante per la storia sociale veneziana del secolo XIII.
61. La bibliografia al riguardo è naturalmente molto numerosa: mi limito a segnalare John Koenig, Il "popolo" dell'Italia del Nord nel XIII secolo, Bologna 1986.
62. Per tale aspetto cf. ad esempio Giorgio Cracco, Patriziato e oligarchia a Venezia nel Tre-Quattrocento, in AA.VV., Florence and Venice: Comparisons and Relations. Acts of Two Conferences at Villa I Tatti in 1976-1977, I, Quattrocento, Florence 1979, pp. 71-98; Donald E. Queller, Il patriziato veneziano. La realtà contro il mito, Roma 1987.
63. Sui diversi significati attribuibili (e non sempre con certezza di scelta) al termine "popolo" cf. le osservazioni di A. Limentani, Introduzione, pp. CCXXXIX-CCXL.
64. Così nella formula: "promittentes promittimus vobis universo populo Venetiarum", che si legge nelle promissioni ducali del secolo, a cominciare da quella di Giacomo Tiepolo: v. Le promissioni del doge di Venezia dalle origini alla fine del Duecento, a cura di Gisella Graziato, Venezia 1986, ad esempio p. 11.
65. Cf. un altro brano della promissione di Giacomo Tiepolo, dove, a proposito dell'elezione del patriarca gradense, si sostiene: "in universo cetu cleri nostri et populi permaneat" (ibid., p. 12).
66. M. da Canal, Les estoires, rispettivamente pp. 128-129 e 154-157.
67. Ancora a partire dal testo giurato da Giacomo Tiepolo (v. Le promissioni del doge, p. 19).
68. Cf. ad esempio un documento dell'ottobre 1237, relativo ad una vendita di immobili alla badessa di S. Zaccaria (in Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, pp. 264-265).
69. M. da Canal, Les estoires, pp. 250-251 e 276-279.
70. Per operare un confronto fra la situazione veneziana e quella di altre città comunali italiane si vedano, tra l'altro, Giovanni Tabacco, La storia politica e sociale (in AA.VV., Storia d'Italia, II, 1, Dalla caduta dell'impero romano al secolo XVIII, Torino 1974) ripubblicato in Id., Egemonie sociali e strutture del potere nel Medioevo italiano, Torino 1979, pp. 275-292, 330-363; Renato Bordone, La società urbana nell'Italia comunale (secoli XI-XIV), Torino 1984; Enrico Artifoni, Tensioni sociali e istituzioni nel mondo comunale, in AA.VV., La storia, II, Il Medioevo, 2, Popoli e strutture politiche, Torino 1986, pp. 461-491, con le rispettive bibliografie.
71. Andrea Danduli Chronica per extensum descripta a. 46-1280 d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, ad esempio p. 304.
72. Cf. anche M. Merores, Der venezianische Adel, pp. 223-224.
73. Desumo tutte le informazioni riguardanti questo personaggio da Silvano Borsari, Venezia e Bisanzio nel XII secolo. I rapporti economici, Venezia 1988, pp. 109-116 e 139-145, cui rinvio per una presentazione più approfondita.
74. Cf. G. Luzzatto, La commenda nella vita economica, pp. 61-68. L'attività e la situazione economica del Mercadante e di altri membri della famiglia sono bene attestate da una serie di documenti conservati presso 1'A.S.V., Procuratori di S. Marco, de ultra, b. 188 (editi in parte da R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti del commercio).
75. Nello stesso senso v. F.C. Lane, L'ampliamento del Maggior Consiglio, p. 37.
76. Per tali constatazioni v. specialmente M. Merores, Der große Rat, pp. 68-69 e G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 131-133
77. M. da Canal, Les estoires, pp. 284-305.
78. Sono al riguardo fondamentali I Capitolari delle Arti Veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, I-II, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1896-1905; III, a cura di Enrico Besta, Roma 1914. Ma cf., anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, il contributo, in questo vol., di Giorgetta Bonfiglio Dosio.
79. Cf. Freddy Thiriet, Recherches sur le nombre des "Latins" immigrés en Romanie gréco-vénitienne aux Xiiie--Xive siècles, in AA.VV., Byzance et les Slaves. Études de civilisation. Mélanges Ivan Dujčev, Paris s.a., p. 429 (pp. 421-436).
80. In R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti del commercio, pp. 147-148.
81. Per tali aspetti v. anche Antonio Ivan Pini, Le arti in processione. Professioni, prestigio e potere nelle città-stato dell'Italia padana medievale (in AA.VV., Lavorare nel Medio Evo. Rappresentazioni ed esempi dall'Italia dei sett. X-XVI, Todi 1983) ristampato in Id., città, comuni e corporazioni nel Medioevo italiano, Bologna 1986, pp. 259-291.
82. "Ai padroni di fornace era probabilmente riservata la funzione commerciale" (G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, p. 69).
83. Cf. ibid., pp. 72-73.
84. Va tenuto presente Richard Mackenney, Tradesmen and Traders. The World of the Guilds in Venice and Europe, c. 1250 - c. 1650, Totowa 1987, pp. 3-36.
85. M. da Canal, Les estoires, pp. 293, 299-301, con le osservazioni di A. Limentani, Introduzione, p. CCLXXXVIII.
86. A.S.V., S. Giorgio Maggiore, b. 44, Processo nr. 52, Case a S. Zulian, II (notaio Grisopolo de la Fante). In quegli anni la società cittadina era percorsa da forti tensioni: cf. G. Cracco, Società e stato, pp. 211-243.
87. Una differente osservazione è espressa da G. Folena, Gli antichi nomi, p. 457.
88. Per il documento cf. Francesca Arbitrio, Aspetti della società veneziana del XIII secolo (sulla base di 37 testamenti trascritti e pubblicati), tesi di laurea, Università di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1979-1980, pp. 232-236.
89. Ibid., pp. 168-171.
90. In R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti del commercio, pp. 234-235.
91. M. da Canal, Les estoires, pp. 4-7.
92. Sull'argomento cf. U. Tucci, La navigazione veneziana; G.I. Cassandro, La formazione del diritto; Frederic C. Lane, I marinai veneziani e la rivoluzione nautica del Medioevo e La balestra nella rivoluzione nautica del Medioevo, in Id., Le navi di Venezia fra i secoli XIII e XIV, Torino 1983, pp. 150-169, 240-250.
93. Cf. Id., Storia di Venezia, pp. 198-204 (dove pure si ricorda come per i marinai non esistesse "alcuna organizzazione corporativa", p. 198).
94. M. Da Canal, Les estoires, pp. 128-129.
95. Sui caratteri dell'arruolamento v. Gino Belloni - Marco Pozza, Sei testi veneti antichi, Roma 1987, pp. 77-93.
96. Cf. sopra, n. 32. È da rilevare che Andrea Dandolo, riferendo il tenore del provvedimento, usa invece i termini "popularis" e "nobilis" (A. Danduli Chronica, p. 3 14).
97. In Le promissioni del doge, p. 5.
98. La storia religiosa della città nel '200 non è ancora bene conosciuta; per un primo orientamento cf. La chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988.
99. Cf. Giorgio Zordan, Le persone nella storia del diritto veneziano prestatutario, Padova 1973, pp. 214-260. Per la situazione nei secoli precedenti: Daniela Rando, Le istituzioni ecclesiastiche veneziane nei secoli VI-XII. Il dinamismo di una Chiesa di frontiera, Trento 1990.
100. Per qualche esempio v. ibid., pp. 270-271, e qui più avanti, n. 195.
101. Ulteriori considerazioni svolge Giorgio Cracco, Chiesa e istituzioni civili nel secolo della quarta crociata, in La chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988, pp. 11-30.
102. Dati più precisi si possono trovare in G. Rösch, Der venezianische Adel, pp. 185-203.
103. Cf. la trascrizione di F. Arbitrio, Aspetti della società, pp. 83-109 (particolarmente p. 98) e, per la figura del vescovo, Antonio Rigon, I vescovi veneziani nella svolta pastorale dei secoli XII e XIII, in La chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988, pp. 41-44 (pp. 31-51).
104. Su questo monastero mancano lavori specifici per il '200: ma il relativo fondo, presso l'A.S.V., contiene un'ampia documentazione. Cf. anche S. Giorgio Maggiore, II, Documenti (982-1159) e III, Documenti (1160-1199), a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1967-1968.
105. Cf. Karol Modzelewski, Le vicende della "pars dominica" nei beni fondiari del monastero di San Zaccaria di Venezia (sec. X-XIV), "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 4, 1962, pp. 42-79; ibid., 5-6, 1963-1964, pp. 15-64.
106. Varie indicazioni al riguardo in M.C. Bellato, Aspetti di vita, pp. 144-146; F. Arbitrio, Aspetti della società, pp. 117-119; v. inoltre, in questo vol., il contributo di Giuseppina De Sandre.
107. In R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti del commercio, rispettivamente pp. 322-323, 6 [maggio> 1250, e pp. 269-270, novembre 1241.
108. Cf. Nuovi documenti del commercio veneto dei sec. XI-XIII, a cura di Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, Venezia 1953, pp. 86-87 (luglio 1222).
109. Cf. Attilio Bartoli Langeli, Documentazione e notariato, in Storia di Venezia, I, Origini-Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini - Massimiliano Pavan e Giorgio Cracco - Gherardo Ortalli, Roma, 1992, pp. 847-864.
110. Numerose disposizioni relative all'attività notarile sono contenute fra le Deliberazioni del Maggior Consiglio, in particolare II, pp. 225-228. Clausole sui notai figurano anche nelle promissioni ducali (Le promissioni del doge, p. 48, per esempio).
111. Cf. tra i vari casi che si potrebbero segnalare, quello di Nicolò Giusto, prete e notaio a Costantinopoli nel 1235 (Nuovi documenti del commercio, pp. 100-101).
112. R. Cessi, Gli statuti veneziani, p. 4.
113. A lui si rivolse Pietro Ziani per la stesura del proprio testamento (in S. Borsari, Una famiglia veneziana, p. 54).
114. Li segnala (con riferimento agli anni '70) Giovanni Monticolo, Prefazione a I capitolari delle arti, I, p. XXXI.
115. Trascrizione di F. Arbitrio, Aspetti della società, pp. 269-274.
116. In R. Morozzo Della Rocca - A. Lombardo, Documenti del commercio, pp. 233-234.
117. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, rispettivamente p. 76, nr. 95 (23 luglio 1284); p. 86, nr. 154 (18 ottobre 1284); p. 205, nr. 42 (27 luglio 1288).
118. L'espressione "malus clericus" è attribuita ad uno dei protagonisti di un altro episodio violento (ibid., III, pp. 203-204, nr. 32, 29 aprile 1288).
119. G. Zordan, Le persone nella storia, p. 245; cf. inoltre G. Cracco, Società e staio, pp. 29-31.
120. V. ancora G. Zordan, Le persone nella storia, pp. 271-316 (in particolare p. 279).
121. Alle riserve circa l'effettiva "possibilità per una donna di essere tutrice (o curatrice) di un mentecaplus" (ibid., p. 298 n. 112) può dare risposta un atto del 28 agosto 1264, con cui il doge Ranieri Zeno nominava Maria Bembo di S. Maria Maddalena tutrice del fratello Angelo Navigaioso, della medesima contrada, appunto mentecaptus (A.S.V., Procuratori di S. Marco, de ultra, b. 210, commissaria Marino Navigaioso, notaio Angelo Beaqua). Per un esempio di affidamento della tutela di minori cf. ivi., Cancelleria inferiore, Notai, b. 106, nr. 19, notaio Marco di S. Giminiano (documento del 9 maggio 1257, riguardante Maria vedova di Marino Nigro di S. Giuliano e le loro figlie).
122. Cf. R. Cessi, Gli statuti veneziani, p. 102.
123. I testamenti sinora conservati (per la prima metà del '200) di donne veneziane sono editi da Laura Zaniboni, Testamenti di donne a Venezia (1206-1250), tesi di laurea, Università di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1992-1993.
124. V. in particolare la ricevuta di un prestito a Tommaso Viadro di S. Maurizio nel febbraio 1209 (in Nuovi documenti del commercio, pp. 80-81); cf. inoltre I. Fees, Reichtum und Macht, pp. 358-359.
125. Cf. R. Morozzo Della Rocca - A. Lombardo, Documenti del commercio, pp. 332-333 (ricevuta del luglio 1251).
126. Ibid., p. 356.
127. Ibid., pp. 92-94 e 128-129 (documenti dell'agosto 1213 e dell'aprile 1220). In merito v. le osservazioni di F.C. Lane, Investimento e usura, p. 212.
128. A.S.V., Procuratori di S. Marco, de ultra, b. 49, commissaria privata Bollani Biagio, notaio Marco di S. Giovanni Crisostomo.
129. Cf. ad esempio Guy Fourquin, Storia economica dell'Occidente medievale, Bologna 1987, pp. 294-297.
130. In I capitolari delle arti, II, 1, p. 312; I, pp. 135, 28, 30, 98.
131. A.S.V., Procuratori di S. Marco, de ultra, b. 37, commissaria Odorico Belli, nr. 73, notaio Benedetto Manfredo di S. Polo. Un documento simile, ma riferito ad un uomo, dell'agosto 1170 è preso in considerazione da G. Zordan, Le persone nella storia, pp. 37-38.
132. Per qualche indicazione cf. Bianca Betto, Linee di politica matrimoniale nella nobiltà veneziana fino al XV secolo. Alcune note genealogiche e l'esempio della famiglia Mocenigo, "Archivio Storico Italiano", 139, 1981, pp. 3-64.
133. I. Fees, Reichtum und Macht, pp. 27-28.
134. Le promissioni del doge, pp. 103, 128, 156.
135. Su questo ed altri aspetti della posizione femminile nell'ambito della famiglia v., per quanto non si riferiscano specificamente al '200, P.G. Molmenti, La storia di Venezia, I, pp. 435-468; Stanley Chojnacki, Dowries and Kinsmen in Early Renaissance Venice, "Journal of Interdisciplinary History", 5, 1975, pp. 571-600; E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, pp. 447-458.
136. Ricordiamo ad esempio Francesca, del fu Marco Naticher di S. Simeone Profeta, che rilasciava il 13 luglio 1268 ai commissari di Biagio Bollani quietanza per la sua parte di un lascito che Domenico, padre di costui, aveva destinato a cinque orfane "in subsidio maritandi" (A.S.V., Procuratori di S. Marco, de ultra, b. 49, commissaria privata Bollani Biagio, notaio Giovanni de Raynerio).
137. Della vasta bibliografia al riguardo v. Anna Benvenuti Papi, "In castro poenitentiae". Santità e società femminile nell'Italia meridionale, Roma 1990.
138. Testamento (11 settembre 1285) trascritto Da M.C. Bellato, Aspetti di vita, p. 343.
139. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, rispettivamente p. 307, nr. 103 e pp. 220-221, nr. 142 (con una rettifica del 19 agosto 1292, p. 322, nr. 51).
140. Cf. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 40, 58-60; Giorgio Zordan, I Visdomini di Venezia nel sec. XIII (Ricerche su un'antica magistratura finanziaria), Padova 1971, specialmente pp. 126-150, 167-186.
141. Cf. Karl-Ernst Lupprian, Il Fondaco dei Tedeschi e la sua funzione di controllo del commercio tedesco a Venezia, Venezia 1978 (particolarmente p. 7) e Gerhard Rösch, Venezia e l'Impero 962-1250. I rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985, pp. 134-158.
142. Una documentata biografia del personaggio si deve a Wolfgang von Stromer, Bernardus Teotonicus e i rapporti commerciali tra la Germania meridionale e Venezia prima della istituzione del Fondaco dei Tedeschi, Venezia 1978 (in particolare p. 15).
143. I capitolari delle arti, II, 1, p. 41.
144. A.S.V., S. Giovanni Evangelista di Torcello, b. 3 Perg. (1235-1275), nr. 37, notaio Pietro da Fano.
145. Un'ampia documentazione sui medici forestieri a Venezia è raccolta e commentata da G. Monticolo, in I capitolari delle arti, I, pp. 267-287 (pp. 282-283 per Taddeo Alderotti).
146. Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, rispettivamente p. 52, nr. 20 e p. 68, nr. 80.
147. Ne parla S. Romanin, Storia documentata, II, pp. 232-233.
148. Cf. Daniela Rando, La classe dirigente trevisana durante la dominazione di Alberico da Romano (1239-1259). Primi contributi, in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secoli XIII-XV). Sulle tracce di G.B. Verci. Atti del convegno. Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 163-164 (pp. 157-178); Elisabetta Barile, Tra l'aristocrazia della Marca trevigiana alla caduta di Ezzelino: una sentenza di frate Alberto vescovo di Treviso (19 novembre 1257), "Le Venezie Francescane", n. ser., 1, 1984, pp. 11-40.
149. G. Zordan, Le persone nella storia, pp. 125 e 119-148.
150. Un caso di mancato inserimento è riscontrabile in una deliberazione del maggior consiglio (4 luglio 1271), che accordava il permesso di lasciare Venezia ad alcuni Greci, vissuti per molto tempo in città (Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 153, nr. 60).
151. Cf. Charles Verlinden, L'esclavage dans l'Europe médiévale, II, Italie - Colonies italiennes du Levant Levant latin Empire byzantin, Gent 1977, pp. 550-554; G. Zordan, Le persone nella storia, pp. 23-54.
152. Dalla trascrizione di F. Arbitrio, Aspetti della società, p. 189.
153. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 60, nr. 61 (31 dicembre 1270) e p. 217, nr. 27 (5 aprile 1278); v. anche C. Verlinden, L'esclavage dans l'Europe, II, pp. 666-668.
154. G. Zordan, Le persone nella storia, p. 31.
155. Reinhold C. Mueller, Les prêteurs juifs de Venise au Moyen Âge, "Annales E.S.C.", 30, 1975, p. 1278 (pp. 1277-1302).
156. Gino Luzzatto, Tasso d'interesse e usura a Venezia nei secoli XIII-XV, in AA.VV., Miscellanea in onore di Roberto Cessi, I, Roma 1958, p. 195 (pp. 191-202); Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 224, nr. 10.
157. In R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti del commercio, pp. 134-135; cf. inoltre le notizie e le osservazioni esposte da G. Zordan, Le persone nella storia, pp. 92-115.
158. Merita anche segnalare un privilegio concesso dal doge Lorenzo Tiepolo, nel 1268, a favore di un ebreo di Negroponte, Davide: v. Eliahu Ashtor, Ebrei cittadini di Venezia?, "Studi Veneziani", 17-18, 1975-1976, pp. 145-146, 155-156 (pp. 145-156).
159. Va ricordato l'ordine di indagine sui detenuti "in carceribus seu cameris palacii" ed i motivi della loro carcerazione stabiliti dal maggior consiglio il 4 novembre 1287 (Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 188, nr. 132). Naturalmente fra i carcerati potevano esservi anche prigionieri di guerra: cf. ad esempio M. da Canal, Les estoires, pp. 216-217.
16o. Cf. la ricerca di Stefano Piasentini, "Alla luce della luna". I furti a Venezia (1270-1403), Venezia 1992, particolarmente pp. 28-50.
161. Così rileva anche Gian Maria Varanini, L'iniziativa pubblica e privata (parte I di Id. - Giuseppina De Sandre Gasparini, Gli ospedali dei "malsani" nella società veneta del XII-XIII secolo. Tra assistenza e disciplinamento urbano), in AA.VV., Città e servizi sociali nell'Italia dei secoli XII-XV. Pistoia, 9-12 ottobre 1987, Pistoia 1990, pp. 149- 150 n. 20 (pp. 141-165). Per una informazione generale v. Frani Oise Bériac, Histoire des lepreux au Moyen Age. Une société d'exclus, Paris 1988.
162. I. Fees, Reichtum und Macht, pp. 221-224, 360. L'ospedale di S. Lazzaro "de leprosis" è ricordato anche nel testamento del doge (S. Borsari, Una famiglia veneziana, p. 58).
163. I capitolari delle arti, II, 1, p. 41. Sui contatti dei sani con i lebbrosi v. Giuseppina De Sandre Gasparini, Lebbrosi e lebbrosari tra misericordia e assistenza nei secoli XII-XIII, in AA.VV., La conversione alla povertà nell'Italia dei secoli XII-XIV. Atti del XXVII convegno storico internazionale. Todi, 14-17 ottobre 1990, Spoleto 1991, pp. 264-268 (pp. 239-268).
164. A.S.V., Maggior Consiglio, Deliberazioni, 8, Magnus et Capricornus, 1299-1308, c. 6v (numerazione recente).
165. Cf. Gli statuti civili di Venezia anteriori al 1242, editi per la prima volta a cura di Enrico Besta - Riccardo Predelli, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 1, 1901, pp. 297-300 (pp. 205-300); R. Cessi, Gli statuti veneziani, pp. 105-119.
166. Giovanni di Pian di Carpine, Storia dei mongoli, a cura di Enrico Menestò - Maria Cristiana Lungarotti - Paolo Daffinà - Luciano Petech - Claudio Leonardi, Spoleto 1989, pp. 332, 399.
167. La situazione era quella di "une vielle en mouvement", come la presenta E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", I, p. 57.
168. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 87, nr. 35.
169. Per qualche esempio v. G. Luzzatto, La commenda nella vita economica, pp. 64-65.
170. I legami fra persone di condizioni differenti, in ambito parrocchiale, potevano attenuare "le tensioni di classe a livello civico": lo rileva, con altri, Dennis Romano, Patricians and Popolani. The Social Foundations of the Venetian Renaissance State, Baltimore-London 1987, p. 8. Per un preciso riferimento si può segnalare la disposizione di Giacomina Gradenigo che una parte dei redditi di certe sue proprietà fosse distribuita fra i poveri della contrada di S. Maria Formosa, dove viveva (testamento cit. sopra, alla n. 57).
171. Cf. R. Cessi, Storia della repubblica, p. 170; F.C. Lane, Storia di Venezia, p. 118.
172. Per tale aspetto, v. le osservazioni nel saggio di Giuseppina De Sandre Gasparini, in questo vol.; inoltre Giovanni Monticolo, Prefazione a I capitolari delle arti, II, 1, pp. CIV-CVII.
173. V. sopra n. 32.
174. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 162, nr. 107, p. 122, nr. 8, e vari regesti di deliberazioni votate nel 1274: due il 12 giugno (riguardo a una condanna di Simeone Steno, già castellano di S. Alberto), ed ancora nei giorni 14 (due), 16, 17 ottobre, 25 novembre (rispettivamente pp. 416, 427, 430). Inoltre cf. A. Danduli Chronica, p. 321.
175. La documentazione relativa alla prima metà del '200 è infatti esigua. Qualche indizio, per gli anni '20, si può rintracciare nel Liber Comunis qui vulgo nuncupatur "Plegiorum", un'annotazione del 27 marzo 1228 Si riferisce ad esempio a Matteo Belli di S. Agata, che "con un coltello aveva colpito un bisognoso" (in Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, p. 155, nr. 82).
176. Per la situazione negli ultimi decenni del secolo cf. R. Cessi, Storia della repubblica, pp. 247-266; G. Cracco, Società e stato, pp. 211-265, 290-350.
177. A. Danduli Chronica, p. 314. Un altro momento di agitazioni si ebbe per la scelta del doge successore di Giovanni Dandolo, nel 1289 (cf. G. Cracco, Società e stato, pp. 335-338).
178. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 122-123, nr. 9 (21 maggio 1278); A. Danduli Chronica, p. 325.
179. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 126, nr. 187.
180. Cf. Melchiorre Roberti, Studi e documenti di storia veneziana, III, Di un "Liber forbannitorum" della fine del dugento. Note intorno alla criminalità nel sec. XIII, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 19, 1910, pp. 145-158.
181. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 213, nr. 11; ma v. ancora, fra l'altro, p. 215, nr. 22 (23 dicembre 1274); p. 216, nr. 26 (10 gennaio 1277).
182. Ibid., II, p. 216, nr. 25; cf. anche p. 259, nr. 8 (15 maggio 1269): sanzioni contro chiunque ricorresse alle armi "nella chiesa di San Marco ed in tutto il palazzo, o nella corte del palazzo", oltre che "nel brolo di San Marco ed in tutta l'isola di Rialto".
183. Cf. Le promissioni del doge, pp. 35-36, 55-56, 75-76, 97, 121-122, 149-150.
184. Ad esempio cf. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 65, nr. 82 (6 dicembre 1274); I capitolari delle arti, II, 1, p. 122 (anche per la citazione); Le promissioni del doge, pp. 79, 101, 125-126, 154.
185. Ibid., pp. 104, 129, 157 (la clausola figura nelle promissioni dell'ultimo quarto del secolo).
186. Cf., oltre alla bibliografia indicata alla n. 70, Gina Fasoli, Oligarchia e ceti popolari nelle città padane fra il XIII e il XIV secolo, in Aristocrazia cittadina e ceti popolari nel tardo Medioevo in Italia e in Germania, a cura di Reinhard Elze - Gina Fasoli, Bologna 1984, pp. 11-39.
187. Al riguardo v., tra l'altro, F. Thiriet, La Romanie vénitienne, pp. 141-155; Julian Ulian Chrysostomides, Venetian Commercial Privileges under the Palaeologi, "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 267-356.
188. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 86, nr. 33.
189. L'atteggiamento nei confronti degli artigiani fornisce un rilevante esempio di come venisse attuato "un principio di statalizzazione progressiva" (G. Cracco, Società e stato, pp. 220-221).
190. Cf. Vittorio Lazzarini, Obbligo di assumere pubblici uffici nelle antiche leggi veneziane ("Archivio Veneto", ser. V, 19, 1936) ristampato in Id., Proprietà e feudi, pp. 49-60; D.E. Queller, Il patriziato veneziano, pp. 203-300.
191. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 176, nr. 60, p. 244, nr. 97 (6 settembre 1289).
192. Ibid., III, p. 385, nr. 68 (30 agosto 1295); II, p. 127, nr. 3 (16 maggio 1278: vi si segnala la falsificazione di un registro del comune, ad opera del nobile Lorenzo Zulian; cf. D.E. Queller, Il patriziato veneziano, pp. 347-348).
193. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 87, nr. 39, (22 agosto).
194. Cf. Reinhold C. Mueller, The Procuratori di San Marco and the Venetian Credit Market, New York 1977, pp. 1-157. Merita rilevare l'eccezionalità, in ambito non solo italiano, ma europeo, dell'opera prestata dai procuratori, specialmente in qualità di esecutori testamentari e fedecommissari, a partire circa dalla metà del '200, ai cittadini che ne facessero richiesta. Ringrazio Reinhold C. Mueller per questa ed altre cortesi precisazioni.
195. Il racconto di "tutto quel che si fa a Venezia nelle feste solenni" si legge in M. da Canal, Les estoires, soprattutto pp. 246-263.