La stampa, la circolazione del libro
Nel secolo XVII, irto di conflitti e di difficoltà, anche la stampa veneziana aveva attraversato momenti di crisi.
Nella seconda metà del Seicento, tuttavia, la situazione era andata progressivamente migliorando. Strumento della ripresa era stato ancora una volta il libro religioso, su cui avevano costruito la loro fortuna, in passato, i Giunti e tanti altri stampatori, e che si confermava fonte inesauribile di guadagno (1). Il mercato per tali libri era amplissimo, coincidendo con l'orbe cattolico: peraltro i mercati tedeschi erano perduti da tempo (dopo il 1630 la presenza veneziana alla Fiera di Francoforte è minima), la Francia con i suoi grandi centri editoriali di Parigi e di Lione era ormai ampiamente autosufficiente; rimanevano aperti i mercati italiani e iberici. Per questi ultimi, in cui non si era mai sviluppata un'industria tipografica nazionale di dimensioni adeguate, bisognava battere la concorrenza di Lione e di Anversa, ove la casa editrice dei Plantin era assurta a grande potenza, sino ad ottenere da Filippo II, nel 1571, il monopolio per la vendita del libro liturgico in tutti i domini iberici e americani della corona spagnola. Per circa un secolo la situazione era apparsa irrimediabile, ma nel secondo Seicento i Veneziani avevano incominciato a recuperare le posizioni perdute: l'enorme richiesta di libri soprattutto sacri (ma anche scolastici, di medicina, di giurisprudenza) da parte del mondo iberico non poteva essere soddisfatta interamente dall'azienda dei Plantin-Moretus, per quanto grande essa fosse, e vi erano quindi spazi per la concorrenza; d'altro canto gli stampatori di Lione, che si erano bene inseriti nel mercato spagnolo, apparivano in netto declino, sia per il pesante regime fiscale che li penalizzava sia per la concorrenza di Parigi e di Ginevra (2).
Anche in Italia la stampa veneziana migliorò il proprio inserimento non solo sui mercati dei regni di Napoli e di Sicilia, dove non esisteva una produzione locale adeguata ai bisogni, ma anche negli altri stati; la qualità delle edizioni, il prezzo conveniente, la rete commerciale (che nel Napoletano si fondava su rapporti di vecchia data) rendevano il libro veneziano particolarmente richiesto.
Nella produzione del libro liturgico (messali, breviari, libri per il culto: i cosiddetti "rossi e neri" per l'alternarsi sulla pagina dei due inchiostri, il nero riservato al testo, il rosso alle istruzioni sul modo di dire l'officio o la messa o di amministrare i sacramenti) si specializzarono le case dei Baglioni e dei Pezzana (3). Si trattava di libri molto costosi: la composizione era complessa e la carta doveva essere della migliore qualità, dovendo subire quattro o cinque passaggi sotto il torchio. Il prezzo elevato che se ne chiedeva consentiva larghi margini di guadagno: così larghi che la casa Baglioni poté accumulare utili tali da poter offrire, senza danno per l'attività aziendale, la formidabile somma di 100.000 ducati all'erario, ottenendo quindi, nel 1716, l'ammissione al maggior consiglio per Giambattista Baglioni e i suoi discendenti. Fu questo l'unico caso di uno stampatore divenuto, grazie agli utili della sua azienda, membro a pieno diritto della classe dirigente veneziana. La casa continuò ad operare sino alla fine della Repubblica senza che la condizione nobiliare acquisita dai proprietari costituisse un ostacolo alla prosecuzione dell'attività.
Al secondo posto dopo i Baglioni, nel campo dei "rossi e neri", venivano i Pezzana, discendenti di quel Niccolò che nel 1657 aveva rilevato l'azienda dei Giunti, presso la quale aveva lavorato per molti anni, ereditandone le grandi tradizioni e i legami commerciali europei. Baglioni e Pezzana pagano la "tansa" maggiore nella prima metà del secolo e hanno il maggior numero di torchi: rispettivamente dodici e otto (nel 1735). A lunga distanza, con due torchi, veniva Andrea Poletti, mentre la casa Ciera, che nel Seicento aveva occupato una posizione di primo piano, dopo un rapido declino chiudeva definitivamente nel 1706. Nell'anno 1700 Giovanni Manfré, un giovane e valente libraio, aveva concluso un accordo con la Tipografia del Seminario di Padova, fondata nel 1680 dal vescovo Gregorio Barbarigo, per l'apertura di un negozio in Venezia, allo scopo di commercializzare i prodotti della stamperia patavina; nel negozio, che presto cominciò a fornire ottimi utili, il Manfré vendeva anche i "rossi e neri" che, grazie ai permessi ottenuti dal vescovo, si producevano a Padova: privilegio invero eccezionale, dato che la lucrosa produzione era di regola riservata a Venezia (4). Nel 1735 lo troviamo peraltro in possesso di quattro torchi a Venezia (5): forse per resistere alle pressioni dell'Arte veneziana, che nel 1742 finì con l'ottenere dai riformatori che si ribadisse il divieto di stampare "rossi e neri" al di fuori della capitale. Divieto che venne applicato anche a danno del Seminario patavino, che nel 1762 lo eluderà affidando, almeno formalmente, la stampa dei preziosi volumi al tipografo veneziano Valvasense.
Pochissimi insomma erano gli stampatori attrezzati per la produzione dei libri liturgici, mentre alla vendita e all'esportazione di essi partecipavano certamente anche numerosi altri librai, con generale beneficio per l'Arte. Di gran lunga più ampia invece era la rosa degli stampatori che si dedicavano alla produzione del libro religioso non liturgico. Entro tale categoria si comprendevano prodotti editoriali molto diversi: libri di scarsa qualità e impegno, come quelli contenenti prediche, orazioni, istruzioni ai parroci e ai confessori, catechismi, vite di santi, testi devozionali di vario genere; e opere di grande mole, spesso in più volumi, contenenti trattati di teologia, di storia ecclesiastica, di diritto canonico. Di gran lunga più redditizi i libri della seconda categoria: se in latino si vendevano in tutto il mondo cattolico, al pari dei libri liturgici, se in italiano trovavano un vasto mercato presso monasteri, conventi, scuole religiose, seminari, dotti ecclesiastici (non va dimenticato che la cultura è ancora quasi monopolio di monaci e "abati").
Anche se abbondano i libri religiosi del primo tipo, i migliori stampatori veneziani si dedicano di preferenza al secondo. Sembra che in generale essi puntino su opere di grande mole, di forte impegno economico e di alto prezzo, siano esse di erudizione ecclesiastica o anche - seppure in minor numero - di argomento laico. Si succedono infatti, a ritmo crescente, edizioni di opere di carattere storico, in particolare di storia antica, di dimensioni imponenti e di elevata qualità. Si tratta in genere di ristampe: di opere recenti e non recenti, in latino ma anche in italiano o in francese. E soprattutto la grande erudizione francese, rinnovata dal Mabillon e dal Montfaucon, che fornisce i titoli migliori, talvolta tradotti, talaltra lasciati nell'originale. E evidente il vantaggio di stampare in latino o in francese: non occorre pagare il traduttore, il libro è già bell'e pronto, basta comporlo. Non vi è ostacolo all'operazione: non esistono accordi internazionali che tutelino l'editore e tanto meno l'autore, si può ristampare un'opera straniera quando e come si vuole, anche modificandola. D'altro canto il successo editoriale di un'opera già accreditata e diffusa è sicuro, basta che la qualità della ristampa sia alta e la rete di distribuzione ben funzionante.
Non manca in vari casi lo sforzo di fornire un'edizione più completa, più corretta, più aggiornata della precedente; ma è soprattutto sull'eleganza della stampa, sulla bontà della carta, sulla bellezza delle incisioni che si punta, anche di riflesso al successo che sta ottenendo, come si accennerà, il libro illustrato. Già all'inizio del secolo, nel 1704, Lorenzo Baseggio e Antonio Tivani incominciano la ristampa degli Annales ecclesiastici del Baronio: nel 1712 l'opera completa consisterà di dodici volumi in folio. Nel 1717 Sebastiano Coleti intraprende la ristampa accresciuta dell'Italia Sacra di Ferdinando Ughelli: editore dotto, egli è assistito dall'ancor più dotto fratello, l'abate e dottore Nicolò, che si avvale anche del consiglio e delle biblioteche manoscritte di Bernardo Trevisan e di Apostolo Zeno. Una volta portata a compimento, nel 1722, l'opera conterà dodici imponenti volumi. Nel 1718 Baglioni ripubblica il Lexicon antiquitatum romanarum di Samuel Pitiscus, in tre volumi. Nel 1721 Giovanni Malachino ristampa le opere del cardinal Bellarmino, basandosi sull'edizione della Societas Minima del 1599 in quattro tomi e aggiungendo un quinto volume a completamento (un sesto sarà aggiunto da Francesco Zane nel 1726): lo Zeno dichiara l'edizione "la più accresciuta, la più nobile, la più magnifica" (6).
Nel 1724 incomincia la stampa degli scritti di padre Cristiano Lupo (Christian Wolff), ad opera di Giovan Battista Albrizzi e Sebastiano Coleti: usciranno entro il 1729 dodici volumi. Nel 1726 Angelo Pasinelli intraprende la ristampa delle opere di s. Bernardo, basata sull'edizione parigina del 1719: nel 1727 esce il quarto volume.
Tra il 1727 e il 1728 viene stampata da Albrizzi e Coleti l'imponente silloge dei Sacrosanta Concilia, dovuta ai padri Philippe Labbe e Gabriel Cossart: ventitré volumi in folio, di cui così scrive Giovan Francesco Pivati, divenuto, come si dirà, soprintendente alle stampe: "negli Atti di Lipsia, quei letterati che giudicano così francamente delle opere e stampe in Italia, parlando di questa alla p. 51 del mese di febbraio 1729 lodano la sontuosità dèlla carta, la sua bianchezza, e caratteri, dicendo nulla mancarle per renderla superiore alle altre edizioni fatte già di questo corpo dal P. Labbe stesso, da P. Arduino, dalla Regia Società di Parigi" (7). Dello stesso parere anche lo Zeno, che dice la raccolta."assai migliorata, più copiosa, e più corretta" (8).
Tra il 1701 e il 1709 erano apparsi i primi sette volumi di una vasta compilazione, analoga per la mole ma distinta, in quanto del tutto originale, dal filone delle grandi ristampe: la Biblioteca universale di Vincenzo Coronelli, che nelle intenzioni dell'infaticabile frate avrebbe dovuto in quaranta tomi abbracciare l'intero sapere, anticipando quindi le ben più celebri e fortunate iniziative d'Oltralpe. Trattata con sufficienza dagli intellettuali più accreditati, legata nelle sue concezioni all'erudizione secentesca, l'opera pur ammirevole per l'arditezza e l'indipendenza di giudizio si arrestò alla voce Caque (9).
Nel contempo la stampa veneziana perseguiva un'altra direttrice di sviluppo, destinata a straordinario successo: quella dell'editoria illustrata. Apriva la via all'inizio del secolo la raccolta di centoquattro acqueforti dell'artista friulano Luca Carlevariis, Le fabbriche e vedute di Venezia, stampata "appresso Gio. Battista Finazzi a San Giovanni Grisostomo" (10): un capolavoro artistico e tipografico, il cui successo incoraggiò la geniale e multiforme intraprendenza del frate Vincenzo Coronelli a tentare il lancio di una propria raccolta di vedute. Nel 1708 -1709 escono due suoi imponenti volumi intitolati Singolarità di Venezia: chiese, palazzi, monasteri, conventi e altri luoghi di Venezia sono raffigurati in oltre seicento incisioni, di qualità grafica modesta ma di grande interesse documentario. L'aspirazione enciclopedica che anima lo straordinario cosmografo fornisce uno strumento prezioso per chi voglia conoscere la città nei più vari aspetti (11).
Sulla scia delle due precedenti raccolte, alcuni patrizi, riuniti attorno al cancellier grande Giovan Battista Nicolosi, fondarono un'accademia allo scopo di riprodurre le bellezze della città incomparabile in una serie di incisioni; ma poi preferirono cedere l'iniziativa a un editore professionista, Domenico Lovisa, che lanciò all'uopo una sottoscrizione nel 1715. Nel 1717 uscivano due volumi contenenti centoventi incisioni, col titolo Il gran teatro di Venezia, ovvero raccolta delle principali vedute e pitture che in essa si contengono diviso in due torni. Alla prima edizione fece seguito una seconda nel 1720 (12). L'editore prescelto, il Lovisa, aveva dimostrato una particolare sensibilità per il libro inciso: nel 1710 aveva ristampato il trattato di architettura di Jacopo Barozzi da Vignola, nel 1711 i Quattro libri di architettura del Palladio, "con l'aggiunta di un quinto che tratta dell'antichità di Roma", nel 1715 il trattato Della laguna di Venezia del dotto patrizio Bernardo Trevisan, corredato di tre tavole, nel 1713 un Orlando Furioso in cui "ogni canto ha la sua figurina assai gentile in rame" (13).
Al Lovisa, stampatore di buon gusto ed evidentemente gradito al patriziato, toccò un onore particolare: gli venne affidata la stampa della collana degli Istorici delle cose veneziane che hanno scritto per pubblico decreto, una raccolta di grande prestigio, il cui primo titolo, contenente l'opera del Sabellico, uscì nel 1718. Si tratta di un volume in 4° grande, ornato da incisioni, elegante. L'anno stesso uscì il secondo tomo, con l'opera del Bembo, seguirono nel 1719 le storie di Paolo Paruta e di Andrea Morosini, sinché nel 1722 Si giunse, con l'opera di Michele Morosini, al decimo e ultimo torno.
Sempre al Lovisa fu affidata nel 1724 da due eminenti patrizi la stampa di un'opera che era il raffinato frutto della loro collaborazione: la parafrasi poetica dei Salmi di Davide scritta da Girolamo Ascanio Giustinian e messa in musica da Benedetto Marcello. Uscirono in tre anni otto torni e l'opera si chiuse nel 1727 con l'ottavo, anche se non tutti i salmi erano parafrasati e musicati: "l'opera con tale perfezione di caratteri e con tale maestria si è lavorata nella stamperia di questo Lovisa che certamente nessuna stampa musicale finora è comparsa con uguale vaghezza e maestria", scrive entusiasta il "Giornale de' Letterati d'Italia" (14).
Nel filone delle raccolte di incisioni aventi ad oggetto le opere d'arte cittadine aperto dal Carlevariis e dal Lovisa si inseriva felicemente nel 1726 Antonio Visentini, che faceva incidere da padre Vincenzo Mariotti una serie di disegni da lui eseguiti, riguardanti la chiesa di S. Marco: la raccolta, col titolo di Iconografia della Ducal Basilica, si vendeva a casa del Visentini, "in Campiel di Ca' Zen in Biri" (15).
La stampa veneziana si era ormai incamminata risolutamente nella direzione dell'eleganza e della raffinatezza. Quando, attorno al 1730, i due grandi filoni, quello dell'editoria illustrata e quello delle opere di grande mole e impegno, si fusero, la stampa veneziana toccò il suo culmine qualitativo e giunse al massimo del suo successo.
La già ricordata memoria stesa dal soprintendente Pivati attorno al 1737, che indica con gusto sicuro le edizioni migliori e più importanti degli anni immediatamente antecedenti, ci è di guida nell'individuare i capolavori editoriali di quel glorioso periodo, che erano nel contempo i maggiori successi finanziari (16). Bortolo Giavarina stampa nel 1728 in cinque volumi le opere del gesuita Jacques Sirmond e l'anno dopo l'intero Corpus Byzantinae Historiae, uscito in precedenza a Parigi tra il 1649 e il 1687. Francesco Hertzhauser stampa nel 1729, "con somma diligenza e decoro", a dire del Pivati, le opere del Bembo in quattro volumi in folio, e nel 1733 "con molta magnificenza" la storia del Davila, con belle iniziali incise da Giovanni Cattini.
Francesco Pitteri ristampa nel 1728 assieme ad Antonio Groppo le opere di s. Cecilio Cipriano nella recensio di Etienne Baluze e poi da solo, nel 1732, i Mémoires pour servir à l'histoire ecclésiastique di Louis Sébastien Le Nain de Tillemont, in ventuno volumi in 4°, indi nel 1735 il Traité de l'opinion di Gilbert Charles Le Gendre in due volumi in folio e nel 1737 le opere di s. Paolino di Aquileia, in folio.
Giovan Battista Ragozza ristampa in diciotto volumi l'intera opera di s. Giovanni Crisostomo, in greco e latino: "non si può se non lodare al maggior segno l'esatta e bella edizione", nota il Pivati. Bassaglia e Hertz stampano lussuosamente nel 1737 le poesie del professore padovano Domenico Lazzarini, in greco e latino.
Elogi entusiastici il Pivati dedica alle edizioni di due stampatori di straordinario livello e importanza, cui accenneremo anche oltre: Giovan Battista Pasquali e Giovan Battista Albrizzi. Il primo ristampa il Thesaurus antiquitatum graecarum et romanarum del Grevio e del Gronovio in trentatré volumi: edizione "magnifica, dispendiosissima", a dire del Pivati, migliore e più corretta di quella d'Olanda. L'iniziativa era peraltro dovuta a Bortolo Giavarina, che nel 1732 aveva stampato i primi cinque volumi della serie greca e i primi sei della romana; i successivi uscirono, ad opera del Pasquali, tra il 1735 e il 1737.
L'Albrizzi stampa assieme a Sebastiano Coleti due opere di grande erudizione e mole: i già ricordati Sacrosanta Concilia del Labbe e gli Acta sanctorum dei Bollandisti (di cui otto usciti al momento in cui scrive il Pivati; ma altri trentadue erano previsti); da solo produce tra il 1729 e il 1735 il s. Agostino in quattordici volumi, "la cui edizione per la bellezza e sontuosità paragonata colla celebre reale di Parigi se la lascia addietro di gran lunga", e nel 1736 incomincia la stampa, in francese, delle opere di Bossuet (la serie di dieci volumi in 4° sarà completata solo nel 1758 "avec beaucoup de corrections, de figures et de vignettes qui ne se trouvent pas dans l'édition de Paris": edizione "assai particolare e magnifica", ornata da varie incisioni su disegno del Piazzetta).
Il Pivati, dinanzi a un panorama così ricco, non cela la sua soddisfazione. "Queste edizioni tutte ed altre ancora da me giusta l'abito mio esaminate" - scrive il Pivati - "sono uscite ed escono attualmente con ogni sontuosità e diligenza". Si trattava di edizioni protette dal privilegio del senato, riservato come noto alle opere più impegnative e lussuose; ma anche fra le altre, "che hanno solamente il privilegio dell'Arte", ottenuto a norma del decreto del 1603 con l'iscrizione nel registro tenuto dal priore, "trovansi pure alcune opere diligenti e bene stampate". Fra queste il Pivati segnala le opere mediche del Ballonio (Guillaume de Baillon), uscite in quattro volumi in 4° presso Angelo Geremia, il Glossarium latinitatis di Charles du Cange du Fresnes, stampato in sei volumi da Sebastiano Coleti, le opere del Chiabrera in sei volumi stampate nel 1730-1731 dal Geremia, la Storia antica di Charles Rollin, stampata in quindici volumi in 16° dall'Albrizzi nel 1732, e la raccolta dei poeti latini con note, di cui era uscito presso il Pasquali il primo volume (ma ne erano previsti sessanta). E si potrebbe aggiungere anche la Storia romana di Franwois Catrou e Pierre Julien Rouillé, stampata in traduzione italiana da Giuseppe Corona tra il 1730 e il 1737, in sedici volumi in 4°.
Dalla sua analisi il Pivati traeva conclusioni estremamente positive: "le ristampe sono copiose di ogni sorta, ogni giorno si moltiplicano le botteghe di librai ed il negozio della stampa per lo traffico è in fiore al presente". Tanta fioritura era dovuta in misura determinante alle edizioni "belle e voluminose insieme" ch'egli aveva ricordato; ma anche quelle "gregarie" gli apparivano nel complesso "migliorate", e certamente concorrevano alla prosperità generale. Il favorevole andamento era confermato anche dal numero dei torchi attivi: nel 1735 erano novantaquattro, mentre nel secolo precedente il loro numero oscillava tra i venti e i trenta (17).
In un crescendo di edizioni pregiate e di grande impegno si era dunque giunti all'apogeo della stampa veneziana settecentesca: anzi, forse all'apogeo in assoluto. Chi lo afferma è una fonte non sospetta: l'Arte stessa degli stampatori e libreri, che in una memoria del 10 settembre 1730, rivolta ai riformatori dello Studio di Padova, dichiara, circa la stampa veneziana: "rallegrare si possono le EE.VV. che ai giorni nostri a tale grado sia giunta a quale col mezzo d'Aldo o di Giunta giammai non pervenne". "Ampiezza dei corpi", "bellezza dei caratteri e della carta", "correzione" delle edizioni erano le qualità che avevano portato i libri veneziani a tale livello di perfezione. "Bellezza ed esattezza: due allettamenti che con piacevolezza invitano gli studiosi e le altre genti ancora a farne acquisto", ribadiscono i librai, le cui dichiarazioni appaiono tanto più significative se si considera il tono usualmente lamentoso con cui l'Arte era solita dipingere la propria situazione (18).
Era dunque l'alta qualità delle edizioni veneziane che, a giudizio degli stampatori stessi, aveva conquistato i mercati esteri e rilanciato l'Arte. Secondo i membri della corporazione, i libri stampati nella città si distinguevano in tre categorie. La prima, cominciando dal basso, è quella dei libri "minuti ed eziandio alcuni grossi a partito", vale a dire quelli affidati per la stampa a tipografie sprovviste di bottega, che su di essi "vivono stentatamente". Tali libri vengono stampati su carta di poco valore, da lire 41/2 -5 la risma. La seconda è quella dei libri che "si stampano in carta mezzana da lire 6 o 61/2, e sono il maggior numero dei libri che stampa l'arte nostra", e si vendono ai librai di Napoli, Roma, Firenze, Bologna, nonché della Spagna e della Germania: libri "spirituali, legali, medici, di teologia morale e di speculativa", di prediche e altri simili. La terza è quella dei grandi volumi che si stampano "a società" e altri analoghi, che meritano "d'essere con molta cura e diligenza in ottima carta stampati e a prezzi adeguati alla spesa si vendono". I libri della prima classe non sono protetti da privilegio; quelli della seconda sono tutelati dal privilegio dell'Arte, che si ottiene, come si è detto, con l'annotazione nel libro dell'Arte stessa; per quelli della terza "s'impetrano per lo più i privilegi dell'Ecc.mo Senato". Sui libri "comunali", vale a dire quelli scolastici, i classici e in generale quelli ritenuti di pubblico dominio e inclusi in elenchi compilati dall'Arte, e altresì sui "rossi e neri" "non cade alcuna sorta di privilegio". Appare evidente che la prosperità della stampa veneziana si fondava, secondo i librai, sulla seconda e terza categoria.
Quale fosse la natura dell'editoria minore o "gregaria", come si esprime il Pivati, si può ricavare, almeno per gli anni 1710-1728, dalle "novelle letterarie" pubblicate sul "Giornale de' Letterati d'Italia" di Apostolo Zeno: brevi ma succose segnalazioni delle novità di maggior interesse. Abbiamo rilevato, limitandoci ai primi dieci anni, che, su duecentosedici opere segnalate, settanta sono di argomento religioso (prediche, sermoni, istruzioni ai parroci o ai confessori, vite di santi, opere devozionali e di edificazione), quarantadue scientifiche e mediche, trentanove storiche, undici poetiche, undici edizioni di classici, cinque opere giuridiche, tredici di altri argomenti (dizionari, viaggi, testi musicali, opere d'occasione). Vengono menzionate nel "Giornale" solo le opere di qualche rilievo, per cui la presenza degli scritti religiosi, pur elevata (35%), non corrisponde se non ad una piccola parte della massa circolante di tali opere od operette, destinate ad un pubblico di modesta levatura ma largamente vendute ed esportate.
Si nota una massiccia presenza delle traduzioni dal francese, segno della preponderanza culturale del regno d'Oltralpe (19): presenza peraltro anche più pervasiva nelle opere di grande mole sopraricordate. Il giornalista segnala solo alcuni "di tanti libri spirituali e divoti che tutto giorno vengono tradotti dalla francese all'italiana favella" (20): sceglie Bossuet, Bourdaloue, Antoine Massoulié, scrittori di vaglia; ma ve n'erano molti altri non menzionati nel "Giornale". Anche le edizioni dei classici "ad usum Delphini" vengono tradotte: Tacito, Virgilio, Cicerone, Livio, quest'ultimo stampato in bella veste ornata di incisioni nel 1713-1714 da Carlo Buonarrigo. Vengono stampati anche dei Pensieri scelti di Boileau, i Costumi degli israeliti e dei cristiani del Fleury, nella traduzione di Selvaggio Caturani (traduttore attivissimo, il cui vero nome, come precisa il "Giornale" anni dopo, è Arcangelo Agostini, carmelitano) (21), il Tesoro della dottrina cristiana di Nicholas Turlot, gli Elementi della storia del Vallemont (stampati da Girolamo Albrizzi nel 1714 ma "con molti errori").
Numerose le ristampe di opere italiane: Redi, Segneri, Bartoli, Tasso (il Goffredo stampato nel 1722 da Carlo Buonarrigo, l'Aminta nel 1705 da Giovanni Gabriele Hertz), il trattato di Scipione Maffei, Della scienza cavalleresca, un successo editoriale che Luigi Pavino si assicura ("non è uscito in Italia libro di maggior fortuna", annota il "Giornale") (22), le opere mediche di Luca Tozzi in cinque tomi, l'erbario di Pier Andrea Mattioli (Nicolò Pezzana, 1712) e molti altri titoli.
In materia di diritto esce nel 1704 una raccolta di costituzioni pontificie e di decisioni delle congregazioni romane, curata dal sacerdote Giambattista Pittoni e stampata dal di lui zio, Leonardo Pittoni. L'opera, continuamente aggiornata dal religioso, godrà di numerose ristampe.
Non mancano peraltro opere nuove. Fra quelle storiche alcune riguardano fatti recenti o recentissimi, come quelle del patrizio Camillo Contarini, che nel 1710 stampa presso Michele Hertz e Antonio Bortoli la sua Istoria della guerra di Leopoldo I contro il Turco e nel 1720-1722 presso Sebastiano Coleti e Giovanni Malachini gli Annali delle guerre d'Europa, aggiornati sino al 1719; o quella di Pietro Garzoni, pubblicata nel 1716 dal Manfré, che giunge al 1714: un successo, dato che l'anno dopo se ne fa una seconda edizione; o quella di Marc'Antonio Vertova, Lo stato della Francia, stampata nel 1715 da Biagio Maldura, in cui si discutono le condizioni attuali di quel grande paese, al centro dell'attenzione dell'Europa. Una novità assoluta, nel 1713, la stampa del poema nazionale cretese, l'Erotocrito (23). Di notevole impegno la ristampa presso l'Albrizzi dell'opera di Antonio Foresti, Del mappamondo istorico, con una continuazione curata da vari studiosi, fra cui Apostolo Zeno (24).
Originale anche l'opera filosofica del patrizio Bernardo Trevisan, che affida ai torchi di Hertz le sue Meditazioni nel 1704; un secondo e terzo tomo verranno stampati dal Lovisa nel 1710. Ma le maggiori novità sono nel campo scientifico: compaiono numerosi testi di Antonio Vallisnieri in materia di scienza naturale, del dotto speziale di S. Fosca Giangirolamo Zannichelli su temi di chimica, di Stefano Pace su argomenti di fisica (25). Vi sono vari scritti di matematica e numerosi di medicina: un nutrito gruppo riguarda le malattie dei bovini, in evidente relazione al risveglio delle scienze agrarie. E quindi in questa editoria meno sontuosa e meno redditizia, ma vivace e attenta a quanto di nuovo si produce a Venezia e altrove, che si devono cercare le testimonianze della vitalità culturale della città.
L'attento recensore del "Giornale" esclude deliberatamente una categoria importante per la vita cittadina : i drammi per musica (un settore in cui eccelle lo stampatore Marino Rossetti, seguito da Antonio Bortoli). Di quest'abbondante produzione, di cui il principale redattore del "Giornale", Apostolo Zeno, si intendeva a fondo, sia come autore sia come collezionista di libretti, vi è una sola segnalazione, nel 1725. L'eccezione è fatta per l'Agide re di Sparta di Luisa Bergalli, che scrive "con facilità, con chiarezza, e dolcezza di versi, e con elevatezza e verità di sentire e di pensiero"(26).
Ma torniamo all'editoria maggiore, di cui abbiamo visto il positivo quadro dipinto alla fine del quarto decennio del secolo dal soprintendente Pivati. Sotto il blando governo di questi lo straordinario rigoglio continua. La fioritura dell'editoria illustrata diviene addirittura strepitosa. Eccellono l'Albrizzi e il Pasquali. L'Albrizzi è figlio di Girolamo, attivo sin dall'ultimo Seicento nel campo dei giornali sia di attualità belliche sia letterari (27). L'attività fu continuata dai figli. Il primogenito, Almorò, geniale e stravagante, aveva nutrito vaste ambizioni: oltre a continuare nell'attività giornalistica, aveva fondato nel 1726 una sorta di accademia, denominata Società Albrizziana, per sostenere e propagandare i propri programmi editoriali; dopo un esordio promettente e una vita tempestosa, la Società, già in dissoluzione nel 1734, cessò una decina di anni dopo, travolgendo anche l'Albrizzi, che preferì trasferirsi a Roma. A gestire il negozio in Merceria e l'attività editoriale rimase il fratello minore Giovan Battista, che non solo si cimentò con successo nell'attività giornalistica fondando nel 1729 le fortunate "Novelle della Repubblica delle Lettere", che continuò sino al 1740, ma anche e soprattutto curò una serie di edizioni di crescente pregio e importanza, molte delle quali si sono già incontrate. Dopo la memoria del Pivati uscirono dai suoi torchi Lo stato presente di tutti i paesi del mondo di Thomas Salmon, in ventisei volumi (1739-1756), con eleganti antiporte e numerosissime tavole molte delle quali dovute a Francesco Zucchi, nel 1740 l'Atlante novissimo di Guillaume de l'Isle, in due volumi con settantotto tavole, nello stesso anno il Forestiero illuminato, fortunata guida di Venezia, illustrata in parte da Francesco Zucchi, che conoscerà numerosissime ristampe, e il Teatro delle fabbriche più cospicue [...] di Venezia, contenente ottanta vedute della città dovute per la maggior parte a Francesco Zucchi e in minor numero a Giuseppe Filosi. Fra lo Zucchi e l'Albrizzi si era stabilito un rapporto di collaborazione analogo a quello che univa allo stampatore un altro e ancor più valente artista, Giovan Battista Piazzetta. Questi aveva collaborato nel 1724 con lo stampatore Recurti, fornendogli il disegno di un'incisione (eseguita come al solito dal Pitteri: tra il pittore e l'incisore si era già stabilita quella perfetta simbiosi che durò tutta la vita); con l'Albrizzi l'incontro aveva avuto luogo nel 1736, quando l'artista aveva fornito i disegni per i rami del Bossuet. Nacque da allora un rapporto continuo e fecondo: tra il 1735 e il 1750 il Piazzetta fornì all'Albrizzi disegni che andarono a illustrare più di sessanta opere (28). Il frutto più straordinario di questa collaborazione fu la magnifica Gerusalemme liberata del 1745: vi abbondano le incisioni a piena pagina, le cornici, le iniziali parlanti, sì da farne, secondo molti, il capolavoro dell'editoria veneziana del secolo (29). Nel 1747 usciva un libro di medicina con il controfrontespizio disegnato anch'esso dal Piazzetta, le Institutiones chirurgiae rationalis, e nel 1751 un'altra raffinata edizione, le Dissertationes di Benedetto XIV.
L'altro maestro dell'editoria illustrata è Giovan Battista Pasquali, o piuttosto, si dovrebbe dire, il console inglese Joseph Smith (30). Questo straordinario personaggio, mercante, imprenditore, speculatore, collezionista, scopritore ed esportatore di talenti, scelse il giovane Pasquali, che lavorava alle dipendenze degli stampatori Giavarina, come proprio agente, prestanome (in quanto matricolato) e soprintendente alla stamperia ch'egli stesso aveva concepita, finanziata e fondata. Dal momento dell'accordo con lo Smith, il Pasquali si trasformò in uno dei primi stampatori di Venezia. Nel 1735 lo Smith aveva già stampato in proprio, senza la collaborazione del Pasquali, una magnifica raccolta di tavole: diciassette vedute di Venezia incise dal Visentini, che aveva tradotto in rame alcuni quadri del Canaletto di proprietà del console. Dopo tale esperimento lo Smith aveva evidentemente ritenuto che lo schermo e la cooperazione tecnica di un matricolato presentassero dei vantaggi é aveva arruolato il Pasquali, con cui stabilì un sodalizio che durò fino al 1760. Nel 1738 uscì la Storia d'Italia del Guicciardini, illustrata da venti squisite vedute lagunari dovute ad Antonio Visentini, nel 1740 il raffinatissimo Officium della Vergine illustrato dal Piazzetta, nel 1742 una raccolta di trentotto vedute di Venezia, incise dal Visentini e tratte dal Canaletto, analoga a quella edita dal console nel 1735 ma più ampia: essa verrà ristampata nel 1751 e nel 1754.
È il momento delle raccolte di vedute: Michele Marieschi incide e stampa nel 1741 a proprie spese una serie di ventuno acqueforti di soggetto veneziano e le vende a casa sua a S. Luca. Gian Francesco Costa disegna e incide all'acquaforte centoquaranta vedute e le stampa in due riprese, col titolo Delle delicie del fiume Brenta espresse ne' palazzi e casini situati sopra le sue sponde, dalla sboccatura nella laguna di Venezia fino alla città di Padova: il primo volume di settanta tavole esce "appresso l'autore" nel 1750, il secondo nel 1756. Grande importanza per la diffusione a Venezia di spirito e tecniche moderne ebbe la bottega di Giuseppe Wagner, un artista svizzero-tedesco che aveva studiato disegno e pittura presso Jacopo Amigoni e appreso la "bella maniera d'intagliare in rame con acquaforte e bulino" a Parigi, da Lorenzo de Cars, e poi a Roma e a Bologna. La calcografia del Wagner, aperta nel 1739 nella Merceria di S. Zulian e destinata ad operare sino al 1835, contribuì ad immettere l'arte incisoria veneziana nel circuito europeo, grazie alla conoscenza dello style moderne ch'egli aveva acquisita a Parigi. Watteau e gli Audran gli erano familiari, e il suo maestro, Amigoni, era di casa a Parigi come a Londra, a Dresda come a Madrid. Alla scuola del Wagner si formarono Antonio Baratti, Giuseppe Volpato, Giuseppe Flipart, Francesco Bartolozzi, Giovan Battista Piranesi (31).
Il gusto squisito di artisti, committenti e stampatori si esprimeva nelle numerose, raffinatissime pubblicazioni d'occasione: per nozze, ingressi in procuratia e nel cancellierato, monacazioni. (Più splendide le prime due categorie, più sobria l'ultima, al pari dei non frequenti elogi funebri) (32). Vi era spazio per iniziative private di grande respiro: i due cugini Zanetti (collezionista e conoscitore d'arte il più anziano, custode della Libreria di S. Marco il secondo) realizzarono, grazie a una sottoscrizione, la stampa della magnifica opera Delle statue greche e romane che nell'Antisala della Libreria di San Marco e in altri luoghi pubblici di Venezia si trovano, in due volumi, con antiporta e cento incisioni, usciti nel 1741-1742. Lo stampatore fu certamente l'Albrizzi (33).
A fianco del filone dell'editoria illustrata, in cui l'arte tipografica veneziana raggiunge i suoi vertici, viene coltivato con successo quello delle opere enciclopediche, di grande mole e in più volumi. Sebastiano Coleti ristampa varie volte il Dictionnaire historique, critique [...] de la Bible di Augustin Calmet. Francesco Pitteri ristampa tra il 1743 e il 1749 Le grand dictionnaire historique di Louis Moreri, basandosi sull'edizione di Amsterdam del 1740. Il soprintendente Pivati in persona cura nel 1746 la pubblicazione del Nuovo dizionario scientifico e curioso sacro profano presso lo stampatore Milocco, con il sostegno del libraio Gasparo Baseggio (34). Anche in questo campo è attivissima la coppia Pasquali-Smith: nel 1737 esce presso il Pasquali il grande Dictionnaire géographique di Antoine Bruzen de la Martinière e nel 1748-1749, in nove volumi, la traduzione della Cyclopedia di Ephraim Chambers, col titolo Dizionario universale delle arti e delle scienze. La scelta dell'opera era dovuta con ogni evidenza allo Smith, al corrente della produzione britannica; la traduzione pose molti problemi, perché pochissimi a Venezia conoscevano l'inglese. Nel tentativo di migliorarne la diffusione il Pasquali pubblicò anche un dizionario italiano-inglese e una grammatica inglese(35).
Al Pasquali e allo Smith (anzi con ogni probabilità a quest'ultimo, che per l'educazione protestante e i legami internazionali era informato circa le novità culturali), si deve inoltre la stampa di opere importanti dell'illuminismo: nel 1737 il Newtonianismo per le dame dell'Algarotti, nel 1740 il Congresso notturno delle lammie del Tartarotti, gli Annali d'Italia (1749) e molte altre opere del Muratori. Più tardi, come si accennerà, anche il Verri, il Carli, il Giannone, il Genovesi saranno editi dal Pasquali (36).
A fianco dunque dell'editoria a carattere religioso (i libri liturgici di Baglioni, Pezzana, Manfré continuavano ad andare a gonfie vele, al pari delle grandi opere e raccolte di argomento religioso ed ecclesiastico, stampate e ristampate, come gli Annales del Baronio, che vedono un'editio novissima in dodici volumi nel 1738-1742) si affermava pienamente un'editoria del tutto laica, di argomento non religioso o addirittura critico e razionalistico, da cui le stamperie veneziane traevano utili non meno soddisfacenti.
A tanto rigoglio concorrevano, oltre agli stampatori, i librai. La distinzione fra le due categorie, netta in teoria, era più difficile nella pratica: i maggiori stampatori avevano anche un negozio per le vendite dei libri loro e altrui, mentre molti librai, che non avevano torchi propri, si facevano promotori di edizioni, finanziando la stampa di opere di loro scelta presso altri stampatori. Baglioni, Pezzana, Albrizzi, Pasquali, Hertz, Manfré, Pitteri, Ragozza, Bettinelli, Tommasini, Tramontin, Poletti, più tardi Remondini e Zatta, tutti avevano un negozio proprio. Molti negozi si addensavano nelle Mercerie, divenute - a dire di Pietro Gradenigo - "un accademico liceo": era una vecchia tradizione, librai e cartolari erano numerosi in quella via, e in particolare sul ponte dei Bareteri, sin dal Quattrocento, ma ora la presenza dei librai era divenuta dominante (37).
Mentre per i Baglioni, con i loro dodici torchi (nel 1735) che diverranno quattordici nel 1765, e per i Pezzana, con i loro otto torchi, l'attività tipografica era preponderante, per altri stampatori-librai era prevalente invece l'attività commerciale. È questo il caso di Gian Giacomo Hertz e dei suoi figli Giovanni Gabriele e Michele: essi disponevano di due torchi e stampavano edizioni di non trascurabile importanza (in preferenza di argomento medico-scientifico, come varie opere del Vallisnieri, ma anche classici, i Viaggi di Niccolò Madrisio, la Historia fiorentina di Poggio curata dal dotto patrizio Recanati, le lezioni di Bernardo Trevisan riassunte da Giovan Maria Bertolli), ma erano soprattutto mercanti: alla morte di Michele, nel 1721, si trovarono in due magazzini dodicimila titoli per un totale complessivo di varie decine di migliaia di volumi. Grandi librai, gli Hertz, che mantenevano stretti legami con il mondo germanico, importavano ingenti quantità di opere straniere, dando così un importante contributo ai rapporti fra la cultura veneziana e quella europea. Stimati negli ambienti della migliore erudizione, stamparono anche il "Giornale de' Letterati d'Italia" di Apostolo Zeno. Morto Michele, l'azienda passò al figlio Gian Giacomo, che però preferì cedere l'attività nel 1729. Nel negozio subentrò Giuseppe Bertella, già agente della ditta (38).
Vi erano poi i librai senza torchi propri, molti dei quali in floride condizioni economiche: cospicuo ad esempio il magazzino di Giacomo Turrini all'inizio del secolo, ricco e intraprendente sin dagli anni Quaranta Simone Occhi. Quasi tutti i maggiori librai, a cominciare dall'Occhi, commissionavano a tipografi la stampa di uno o più libri, assumendo così la figura di editori. Pietro Bassaglia, Tommaso Bettinelli, Giambattista Recurti, Angelo Geremia, Angelo Pasinello, e più tardi Antonio Graziosi, Paolo Colombani, Alvise Pavini e molti altri si fecero promotori di importanti iniziative editoriali. Al lavoro di stampa provvedevano i tipografi senza negozio proprio; di questi ultimi alcuni, i meno fortunati, lavoravano esclusivamente su commissione dei librai o di altri stampatori e guadagnavano quindi assai poco, non partecipando agli utili dell'edizione, mentre altri invece stampavano per sé, magari accettando anche commissioni altrui: è il caso di Antonio Bortoli, che stampa sia per altri sia per sé, anche in greco e armeno (come scrive il "Giornale de' Letterati d'Italia", il Bortoli "nella sua stamperia tiene a dovizia più sorte di caratteri greci e d'altri idiomi" (39)), e di Modesto Fenzo, che lavora per Baglioni e per altri ma stampa anche opere importanti per sé come il Dizionario del Griselini, cui accenneremo. Francesco Pitteri, uno dei maggiori stampatori-librai, dopo la metà del secolo preferì dedicarsi all'attività commerciale e affidare a tipografi le sue edizioni: segno che questa forma di investimento appariva più redditizia.
Tra gli stampatori e i librai vi era chi operava con capitali propri, come gli Hertz, Giovan Battista Albrizzi, Simone Occhi, e chi invece veniva finanziato in tutto o in parte da altri. L'importanza dei "capitalisti", alcuni dei quali certamente appartenenti al patriziato, ma proprio per questo più difficili da identificare, in quanto proclivi a non comparire, era senza dubbio rilevante. Alle spalle del Pitteri vi era una società, di cui facevano parte patrizi dell'importanza di Francesco Loredan, futuro doge, e Giovanni Antonio Ruzzini, erede del doge Carlo. La stamperia del Pasquali, come si è detto, apparteneva in realtà al console Smith. Dietro ad Antonio Zatta, vi era, probabilmente, come si dirà, il mercante e collezionista Amedeo Svajer. È probabile che altri casi simili vi fossero: Mario Infelise ipotizza che alle spalle di Antonio Graziosi, che stampa varie opere importanti di indirizzo giurisdizionalista nella seconda metà del secolo, vi fosse qualche patrizio di area anticuriale, forse lo stesso Andrea Tron. Le scelte editoriali degli stampatori erano quindi influenzate, o addirittura determinate, da finanziatori spesso non identificati o non identificabili.
Vi erano poi casi frequenti in cui una singola edizione veniva finanziata da un privato: il bellissimo Beatae Mariae Virginis Officium edito dal Pasquali nel 1740 venne finanziato dal mercante Caime, devotissimo alla Madonna; per l'edizione di s. Giovanni Crisostomo del 1734 lo stampatore Giovan Battista Ragozza aveva ricevuto dal prete Francesco Albertini più di 5.000 ducati (40). Per l'edizione della Bibliotheca Sanctorum Patrum curata da Andrea Galland, dopo l'uscita del primo tomo l'editore Giovan Battista Albrizzi aveva costituito il 22 febbraio 1766 una compagnia col patrizio Francesco Foscari "per eguale metà di spese e così pure di rispettivo rimborso, e divisione di utilità"; due anni dopo, il 25 maggio 1768, un terzo socio entrava nella compagnia alle stesse condizioni: si trattava del procuratore di S. Marco e futuro doge Ludovico Manin (41). È probabile che simili casi fossero frequenti: la stampa, come ogni attività redditizia, attirava investitori appartenenti ad ogni categoria sociale, anche all'élite del patriziato (che del resto sin dalle origini aveva finanziato largamente la stampa e che si impegnava volentieri in ogni sorta di attività produttive); inoltre, per la sua particolare natura, essa attraeva i capitali di chi voleva servirsene per motivi di propaganda ideologica o politica.
Un'altra via per finanziare un'edizione costosa era la sottoscrizione (42). Si pubblicizzava un manifesto, a stampa, che veniva diffuso tra i presunti interessati e si raccoglievano così adesioni: gli associati si impegnavano ad acquistare tutti i volumi dell'opera (se, come spesso si trattava, l'opera era in più tomi) e talvolta sborsavano già un anticipo. In questo modo l'edizione era già coperta in partenza.
Un manifesto per raccogliere associati precedette l'edizione del Gran Teatro del Lovisa, nel 1715: aderirono in molti, tutti veneziani. Vi fu una sottoscrizione aperta da Sebastiano Coleti per la riedizione dell'Italia Sacra dell'Ughelli, nel 1716, e nel 1723 ne furono lanciate tre: per le opere di Cristiano Lupo, per i Salmi di Davide parafrasati in poesia da Girolamo Ascanio Giustinian e musicati da Benedetto Marcello, e per la riproduzione dei marmi dell'Antisala. Il primo dei tre manifesti proveniva da Giovan Battista Albrizzi e Sebastiano Coleti, il secondo dal Lovisa, il terzo dai fratelli Zucchi, Andrea, Carlo e Francesco, noti incisori, che nel 1719 avevano fondato assieme ad Alessandro dalla Via, Giuseppe Baroni e Giovanni Antonio Bosio, l'Arte degli incisori e stampatori in rame (43). Mentre le due prime opere in sottoscrizione, quelle del Lupo e i Salmi, uscirono entro breve tempo, la terza dovette attendere molto: i due volumi uscirono nel 1741-1743. Ideatori dell'iniziativa erano stati, come si è accennato, i cugini Zanetti: essi dovevano fornire i disegni delle statue da cui sarebbero state tratte le incisioni, mentre Apostolo Zeno doveva curare il commento erudito. La cosa si trascinò troppo a lungo: lo Zeno si disamorò, anche gli Zucchi uscirono di scena e subentrò Giovanni Antonio Faldoni, che litigò ferocemente con Anton Maria Zanetti di Alessandro al punto di tentare "iniquamente di levare la vita" al dotto custode, colpevole di aver associato altri incisori all'impresa (44). Un'altra sottoscrizione venne lanciata nel 1727 dal Lovisa per l'edizione delle opere complete del carmelitano Silveira (45). Un'importante sottoscrizione precedette la stampa della Gerusalemme liberata dell'Albrizzi: fra gli aderenti, l'Algarotti, Adolf Hasse, Metastasio, il maresciallo Schulenburg, il conte di Caylus, Giuseppe Arconati, Federico Borromeo, Rosalba Carriera, numerosi patrizi veneti fra cui il doge regnante Pietro Grimani, varie biblioteche.
Per l'opera Bibliotheca Sanctorum Patrum curata dal Galland, l'editore Albrizzi aprì una sottoscrizione a cui nel 1771 aderivano persone e istituzioni appartenenti alla Repubblica, ma anche a vari stati italiani e all'Impero germanico: cardinali, vescovi, conventi, biblioteche, librai, privati di Vienna, Lubiana, Mantova, Parma, Modena; a Bologna i sottoscrittori erano due, sei a Roma, due a Salisburgo, tre a Praga, tre in Ungheria (46).
Un altro mezzo per ottenere sostegni finanziari e propagandare un'edizione di prestigio era quello di dedicarla a un regnante: l'opera degli Zanetti sulle statue dell'Antisala venne dedicata al re Cristiano IV di Danimarca, che ricompensò gli Zanetti con due medaglie d'oro e diamanti, "per un valore forse di duemila zecchini" (47). La Gerusalemme dell'Albrizzi è dedicata a Maria Teresa d'Austria; inoltre ad ogni canto vi è una dedica ad un personaggio illustre (cardinali, vescovi, nobili in prevalenza italiani e dell'Impero germanico), che era così obbligato a comperarne almeno una copia.
Vi era poi un'altra strada, più complessa, per procurarsi capitali per la stampa: la fondazione di un'accademia i cui soci si impegnavano a sostenere un'edizione o un programma editoriale. Si è accennato all'accademia di giovani nobili che voleva stampare una raccolta di vedute della città, poi realizzata dal Lovisa. L'Accademia degli Argonauti fu fondata dal Coronelli anche allo scopo di dare la più ampia diffusione alle infinite opere da lui infaticabilmente composte e date alle stampe (48). Un ambizioso tentativo fu quello, a cui già si è accennato, di Almorò Albrizzi, che fondò nel luglio 1724 la Società Albrizziana. I soci, oltre a convenire in solenni riunioni accademiche, dovevano finanziare per via di vari marchingegni le stampe dell'Albrizzi: erano previste tasse d'iscrizione, biglietti da lire 10 che potevano essere acquistati dai soci ai quali sarebbero stati rimborsati dopo un anno con un interesse del 10%, naturalmente contributi volontari e infine l'impegno di comperare tutte le opere stampate dalla Società, cioè dall'Albrizzi stesso (49). Infaticabile, l'Albrizzi riuscì a convincere settecento personalità, tra cui il doge regnante (per statuto "protettore" della Società), il papa Benedetto XIV, vari cardinali, principi, patrizi, letterati e scienziati di primo piano come Maffei, Metastasio, Muratori, Vallisnieri, Morgagni. Vi erano poi più di trenta "colonie", o sezioni dell'Accademia, in varie città d'Italia, in Francia e forse in altri paesi. Ma proprio sul piano editoriale l'Albrizzi fallì: tra il 1725 e il 1727 uscirono alcune opere di scarso interesse, che delusero gli accademici: tre soli di essi affidarono all'Albrizzi tra il 1729 e il 1730 un loro testo da pubblicare. Nel 1734 l'Accademia era in netta decadenza, anche se nel 1737 l'Albrizzi riuscì a stampare una bella edizione dei Commentarii di Cesare. Nel 1745 il senato, che aveva concesso nel 1726 il "sovrano patrocinio" all'Accademia, lo ritirò, segnando così il definitivo crollo dell'iniziativa.
Con i più vari accorgimenti si attiravano quindi mezzi finanziari a sostegno dell'attività tipografica, alla cui prosperità dava infine un non trascurabile impulso il governo della Repubblica: da un lato con una legislazione fortemente protettiva nei confronti dell'estero attraverso il sistema dei privilegi (un'edizione forestiera che fosse in concorrenza con un'edizione veneziana privilegiata non poteva avere ingresso né smercio nel territorio della Repubblica) e altresì nei confronti della Terraferma (la concessione di un privilegio di stampa a stamperie di Terraferma era cosa del tutto eccezionale), dall'altro con una blanda e benevola interpretazione delle norme sulla censura, a cui si accennerà oltre. Il fondamentale decreto del 1603, che disciplinava tutta la materia della stampa, rimaneva in vigore, e ad esso risalivano le disposizioni protettive di cui si è detto. Un'ampia terminazione dei riformatori, emessa nel 1726 per riordinare la legislazione in materia di stampa, ne ribadiva la validità.
I riformatori dello Studio di Padova, l'autorevole magistratura a cui era demandato tutto ciò che concerneva la stampa, seguirono sempre la materia con molta attenzione; peraltro, non potendo esercitare una sorveglianza quotidiana, riesumarono nel 1735 la carica di soprintendente alle stampe, istituita nel primo Seicento a beneficio dell'erudito Giovanni Sozomeno e poi dimenticata, chiamando all'ufficio l'avvocato padovano Giovan Francesco Pivati, studioso di letteratura e di scienze naturali (50); a lui spettava "di invigilare all'esecuzione delle leggi in vari tempi emanate". L'Arte gradì assai poco la nomina, sia perché era posta a carico dell'Arte stessa la remunerazione del soprintendente, quantificata in 100 ducati, sia perché temeva "nuove rigorose ispezioni", di cui non vedeva l'utilità, quando all'osservanza delle norme provvedevano già il priore e la banca della corporazione.
Le proteste degli stampatori ottennero un risultato: lo stipendio del soprintendente venne posto a carico della Cassa dei Grammatici dell'Università di Padova. Ma la carica non venne soppressa: il Pivati rimase in servizio sino al 1764, affiancato dal Gozzi negli ultimi due anni, e sotto la sua blanda sorveglianza la stampa veneziana continuò indisturbata a crescere e prosperare. I suoi successori, Gasparo Gozzi e poi Antonio Prata, misero nella loro azione ben altro impegno, dando un apporto non indifferente alla soluzione dei problemi che l'Arte si trovò ad affrontare in tempi, come diremo, meno felici.
Una delle grandi preoccupazioni dei governanti veneziani era stata la correttezza delle edizioni, da cui si faceva dipendere il successo economico e il prestigio dell'arte tipografica: minuziose disposizioni nel citato decreto del 1726 disciplinavano la procedura da seguire affinché le stampe veneziane fossero immuni da errori. Assicurare la perfezione delle edizioni era compito primario del soprintendente alle stampe. E difatti il Pivati, nella più volte citata memoria, forse stesa nel 1737, asserisce che la sua azione in materia era stata decisiva: al momento della sua nomina era in corso di stampa la Storia bizantina del Giavarina, che peraltro presentava molte scorrettezze; egli le aveva fatte eliminare e "il buon effetto" prodotto dal suo intervento "eccitò una lodevole emulazione negli altri librai", dando l'avvio all'uscita di una serie di edizioni sempre più perfette, sino all'apogeo ch'egli andava descrivendo. Più tardi, nel 1765, con il Gozzi soprintendente, si decise di istituire una carica specifica: quella di correttore generale, nominando alla carica Cosimo Mei, già revisore alle stampe (51).
Anche gli inquisitori di stato, se necessario, si adoperavano per proteggere la stampa: così nel 1772 Giacomo Casanova si offrì loro come intermediario segreto per far fallire l'iniziativa di alcuni monaci armeni, del convento di S. Lazzaro, che progettavano di impiantare una tipografia armena a Trieste; e con abili manovre riuscì nell'intento (52).
L'intera città quindi, dall'augusta magistratura dei riformatori e dal senato, che ne ratificava le deliberazioni, sino ai semplici sottoscrittori delle edizioni, dava un qualche contributo alla straordinaria fioritura dell'editoria veneziana.
Lo slancio dell'editoria continua nel sesto decennio del secolo. A fianco delle vecchie aziende altre si affermano. Il ricco libraio Simone Occhi produce importanti trattati teologici; sono a lui uniti in "società occulta" Giuseppe e Tommaso Bettinelli, il primo dei quali stampa tra il 1750 e il 1755 in sette tomi le commedie di Carlo Goldoni. È nota la spiacevole controversia che contrappose il Goldoni all'editore, che - non esistendo un'adeguata tutela del diritto d'autore - trattò direttamente con il capocomico Medebac e stampò le commedie traendole dai copioni, mentre il Goldoni, giustamente offeso, si accordava con l'editore Paperini di Firenze per una stampa da lui personalmente curata. Il che non impedì al Bettinelli di ottenere un buon successo, dato che il privilegio da lui ottenuto impediva l'ingresso nello stato veneto dell'edizione fiorentina. Il Bettinelli stampò nel 1755-1758 anche le opere dell'abate Chiari (53).
Sorge in questi anni l'astro di Antonio Zatta, un giovane stampatore che aveva cercato invano di far fortuna all'estero: nel 1752 voleva emigrare a Rovereto, ma il soprintendente Pivati non glielo aveva permesso. Dopo poco tempo egli era riuscito ad affermarsi nella capitale, legandosi ai Gesuiti e a casa Rezzonico; è probabile peraltro che la sua alleanza più fortunata fosse quella con il ricco mercante e collezionista Amedeo Svajer, di cui egli stampò nel 1759 l'unica opera nota, una biografia di Federico II di Prussia (54). Grazie ai capitali dello Svajer lo Zatta poteva cimentarsi nella stampa di opere di grande pregio, come il Petrarca del 1756, riccamente illustrato (preceduto da un'altra raffinata edizione, del 1752), e il Dante del 1757, in tre bei volumi in 4°, ricco di tavole e di ornamenti. Egli stampava anche in greco e nel 1759 intraprese la riedizione della grandiosa raccolta dei Concilia del Labbe, nella revisione di Domenico Mansi: usciranno trentadue volumi, l'ultimo dei quali nel 1798.
Tanta ricchezza d'iniziative trova riscontro nel numero delle licenze richieste: duemilaquarantasette tra il 1751 e il 1760, con un incremento del 33% sul decennio precedente. Le tipografie attive, una quarantina, danno lavoro a centinaia di persone: si stima che un migliaio di famiglie tragga dall'attività editoriale il suo sostentamento (55). L'espansione sembra inarrestabile.
Eppure vi erano ormai, latenti, gravi motivi di crisi. Anzitutto, una sfida proveniva dalla Terraferma. Tra il 165o e il 1657 il mercante Giovanni Antonio Remondini si era trasferito da Padova a Bassano e qui aveva aperto un lanificio e una tipografia con annessa calcografia per la stampa di incisioni su rame (56). Egli evitò di proposito ogni conflitto con la potente Arte veneziana e si specializzò nella produzione di libretti religiosi a buon mercato e di scarsa qualità e di fogli sciolti di rozza fattura, raffiguranti santi e scene religiose. Si trattava di una merce molto richiesta da persone di modeste pretese, in particolare nelle campagne, e le vendite andavano a gonfie vele. Per lo smercio nei luoghi più remoti la casa Remondini si serviva (e continuò a servirsi per secoli) della gente di Val Tesino, dedita da secoli al commercio ambulante: costoro partivano con la gerla carica di stampe e stavano in viaggio per anni, giungendo persino in Russia, in Cina e in America. I paesi slavi del Sud erano invece percorsi dagli ambulanti di S. Pietro al Natisone. Nel 1725 gli eredi di Giovanni Antonio si divisero la sostanza: a Francesco toccò il lanificio, a Giuseppe la stamperia, con una cartiera che il padre aveva affittato a Oliero. Giuseppe aumentò la produzione e portò i torchi della tipografia a sei, quelli della calcografia a dodici e a tre le cartiere. Alla sua morte, nel 1742, subentrò nella direzione dell'azienda il figlio Giambattista. Questi diede all'attività un impulso formidabile: in breve tempo venne a disporre di diciotto torchi tipografici, trentadue torchi calcografici, quattro cartiere, di cui una, la maggiore, in proprietà (dotata di impianti modernissimi, capaci di produrre carte d'ogni tipo, anche dorate, disegnate, pregiate), laboratori per l'incisione e la miniatura e persino, dal 1766, una "gitteria" o fonderia di caratteri. Alla metà del secolo l'azienda Remondini era ormai un colosso che dava lavoro a un migliaio di operai, reclutati in una zona povera come la campagna vicentina e remunerati assai poco, in quanto non protetti dall'organizzazione corporativa. Con questo gigante, gestito con criteri capitalistici, doveva ormai misurarsi la stampa veneziana.
La coesistenza pacifica era stata possibile fino a che i Remondini si erano riservati un campo di produzione diverso da quello delle stamperie veneziane; ma nel 1750 Giambattista decise di entrare direttamente in concorrenza con le aziende della capitale.
Nella classe dirigente veneziana molti lo guardavano con simpatia, per la capacità e l'intraprendenza che giovavano allo stato; Paolo Renier, futuro doge, Flaminio Corner, Gabriele Marcello, eminenti senatori, gli erano amici. L'Arte veneziana era tutt'altro che compatta, dilaniata com'era dal contrasto fra ricchi e poveri, come si accennerà. Gli fu così possibile, nel 1750, ottenere l'immatricolazione nell'Arte, con una spesa di appena 300 ducati e la promessa, ovviamente mai mantenuta, di trasferire i torchi nella Dominante. Non appena accolto nell'Arte, il Remondini aprì un negozio in Merceria, all'insegna di S. Bassiano, e cominciò a fare una concorrenza spietata agli stampatori veneziani avvalendosi spregiudicatamente del meccanismo dei privilegi.
Il privilegio di stampa era stato disciplinato dalla legge fondamentale del 1603. Se si trattava di opere pubblicate per la prima volta, esso durava vent'anni; se si trattava di ristampa di opera già stampata in precedenza fuori Venezia, la durata era di dieci anni. Se si trattava di opera stampata a Venezia e uscita di privilegio da vent'anni, si otteneva un privilegio decennale; se erano passati solo dieci anni, il privilegio era di cinque. Esisteva peraltro un tacito accordo per cui gli stampatori maggiori evitavano di impadronirsi subito del titolo di un collega uscito di privilegio: ciò poteva recare grave danno a chi avesse ancora molte copie da esitare, il che avveniva di frequente per le opere di grande mole. La regola era spesso violata da stampatori minori, che si affrettavano a ristampare a minor prezzo e con minor cura l'opera divenuta "libera"; ma si trattava di casi singoli, non di una politica su vasta scala. Fu proprio questa invece l'operazione che deliberatamente intraprese il Remondini, che si diede al sistematico saccheggio dei cataloghi veneziani, stampando tutti i titoli che trovava, al ritmo di ventiquattro-venticinque l'anno; grazie agli strumenti di cui disponeva (carta e caratteri di sua produzione, mano d'opera a buon mercato) egli poteva stampare a prezzi imbattibili. Per di più egli non teneva in alcun conto la qualità delle edizioni, mirando solo a un rapido e lucroso smercio.
La reazione dell'Arte veneziana non poteva tardare. Ma fu meno rapida ed efficace di quanto sarebbe stato logico attendersi, data la posta in gioco; e ciò a causa delle divisioni esistenti in essa. Se i grandi editori, Baglioni, Pezzana, Manfré, Occhi, Bettinelli, erano concordi nell'opporsi allo spregiudicato concorrente, non così i piccoli stampatori e commercianti, che il Remondini seppe legare a sé con numerose commesse e che temevano la supremazia delle maggiori aziende veneziane più di quella dell'industria bassanese. Solo il 29 luglio 1767 i riformatori intervenivano sul regime dei privilegi, aumentandone la durata, a protezione della stampa veneziana, da venti a trenta anni per i libri nuovi e da dieci a quindici per le ristampe di libri esteri. Ma si trattava di poca cosa: per fermare il Remondini ci voleva ben altro. Finalmente, nel 1780, il 30 luglio, si giunse a una misura più decisa: si decretò la perpetuità dei privilegi. I riformatori, cedendo alle pressioni dei Baglioni e dei loro colleghi delle case tipografiche "vecchie", disponevano "che il primo respettivo posseditore privilegiato possa egli solo, e non altri, ottenere la nuova licenza".
Ma il provvedimento non diede i risultati sperati. Molti matricolati anche importanti ne rimasero danneggiati, non essendosi assicurati privilegi in numero adeguato; altri invece rimasero in possesso di un numero di privilegi eccessivo rispetto alle loro capacità. Edizioni molto richieste non venivano prodotte perché protette dal privilegio di cui godevano ditte che non erano in grado di avvalersene, sicché si avvantaggiava la concorrenza straniera. D'altro canto Remondini aveva già accumulato privilegi più che sufficienti a continuare la produzione, sicché non risentì alcun danno dal blocco. Si giunse così a un provvedimento di segno opposto: il 1° maggio 1789 le disposizioni del 1767 e del 1780 furono abrogate e si tornò al regime del 1603.
Nel frattempo peraltro l'aggressività dell'azienda bassanese si era attenuata. Nel 1773 era morto Giambattista e il figlio Giuseppe, subentrato nella proprietà, era di tempra diversa dai predecessori: benché abile e competente, perseguiva scopi diversi dal puro guadagno, aspirava a uno status sociale adeguato alla sua ricchezza, coltivava interessi eruditi. Pago delle posizioni raggiunte, preferì convivere senza lotta con gli antichi avversari: la sua azienda raggiunse il culmine produttivo e qualitativo, sotto la spinta impressa dai predecessori, ma poi si avviò, secondo una parabola ricorrente nelle aziende protocapitalistiche, ad un lento ma inesorabile declino.
Ma il conflitto con il potente complesso bassanese non era stato il solo motivo di crisi nel mondo della stampa veneziana. Durissimo, come si è accennato, fu il conflitto tra matricolati ricchi e poveri, aggravato dal fatto che la persistente espansione nel settore aveva indotto molti, pur privi di esperienza e di capitali, ad improvvisarsi editori o librai, col miraggio di rapide fortune. Ne era conseguito l'affollamento dell'Arte e lo scadimento del livello qualitativo della stampa: errori, tagli, traduzioni incomprensibili erano il frutto della mancanza di mezzi e della spietata concorrenza, che armava gli stampatori non solo contro la casa bassanese, ma anche l'uno contro l'altro.
Nel campo specifico del commercio librario, i librai poveri per sopravvivere erano obbligati a praticare prezzi bassissimi. Attorno al 1725 Giovanni Manfré aveva escogitato il sistema del cambio, o baratto, per cui ogni stampatore o libraio poteva procurarsi l'intero catalogo degli altri, dando in pagamento anziché denaro altri libri. Il sistema consentiva a tutti i librai di disporre dell'intera produzione veneziana; si presupponeva ovviamente che le vendite avvenissero ovunque agli stessi prezzi. Spinti dal bisogno, i librai poveri si misero invece a praticare massicce riduzioni agli acquirenti esteri, addirittura dell'ordine del 60%, con danno evidente per l'intera Arte veneziana. I maggiori matricolati, capitanati da Baglioni, Pezzana, Manfré, Occhi e Bettinelli, reagirono, e nel 1761 comunicarono la decisione di non aderire più al metodo del baratto: d'ora innanzi avrebbero accettato solo contante. Con loro si schieravano tutte le case maggiori, con l'eccezione dello Zatta, legato al Remondini da rapporti di affari, e con l'astensione di Pasquali e Albrizzi. Con i matricolati poveri si univa invece il Remondini, che aveva in loro il naturale alleato contro i grandi dell'Arte, suoi maggiori rivali, e che beneficiava largamente del baratto. La lotta si protrasse a lungo, ma i poveri finirono col soccombere; nel 1780 i provveditori di comun decretavano la divisione dell'Arte in due categorie: della prima facevano parte i librai con un capitale di negozio superiore ai 20o ducati e gli stampatori forniti di attrezzature valutate più di 500 ducati (valori in verità non molto elevati). Quelli della seconda, dotati di capitali inferiori, erano esclusi del tutto dall'elettorato attivo e passivo, e quindi privati di ogni effettiva ingerenza nella vita dell'Arte.
La lunga guerra tra Venezia e Bassano e dei matricolati tra loro non avrebbe forse raggiunto la stessa asprezza di toni se non vi fosse stato un fattore di crisi più profondo, di gravità tale da sfuggire del tutto alle possibilità di controllo veneziane. Il mondo culturale stava cambiando, si facevano strada nuove idee, e gli stampatori veneziani ne erano ben consapevoli: molte opere della nuova cultura vennero stampate con successo a Venezia, come si accennerà, sotto l'occhio benevolo della censura. Ma vi era un altro aspetto. La fonte maggiore di guadagno degli stampatori veneziani, dopo i libri liturgici, era costituita dai libri religiosi: opere devozionali, ascetiche, teologiche; tra queste particolarmente lucrose erano quelle in latino, che si potevano ristampare, se prodotte all'estero, senza nemmeno la fatica di tradurle, e che trovavano sicuro smercio in tutto il mondo cattolico: conventi e monasteri, seminari, collegi religiosi ne facevano costante acquisto. La tipografia veneziana si fondava sulle ristampe, non essendovi a Venezia autori in numero sufficiente per alimentare con opere nuove un'industria così vasta: e tra le ristampe, come si è detto, quelle di argomento religioso in latino erano le più redditizie.
Ma proprio questo mercato, tra tutti il più sicuro, viene messo a repentaglio dalle nuove idee. Il primo colpo, durissimo e imprevedibile, venne dal Portogallo: nel 1759 il marchese di Pombal, mosso dalla cupidigia di impadronirsi delle missioni americane della Compagnia di Gesù, scatenava una dura persecuzione contro i Padri e ne decretava l'espulsione. La ricchezza dei Gesuiti faceva gola ai governi e la loro potenza temporale assurgeva a simbolo dell'ingerenza ecclesiastica nelle cose di stato, ripugnante alle idee giurisdizionaliste ormai largamente diffuse: gli stati borbonici seguirono l'uno dopo l'altro l'esempio del Portogallo sino a che, nel 1773, il papa abbandonava i suoi più fedeli servitori e decretava la soppressione della Compagnia (57). Le conseguenze per la stampa veneziana furono drammatiche, dato che i Gesuiti erano gli autori di gran lunga più fecondi in materia teologica: già nel 1767 il Gozzi nota come "l'opere de' padri gesuiti, cioè quasi un terzo delle teologiche ed ascetiche, componenti la massa più esitabile del veneto commercio, sieno da' due regni di Portogallo e Spagna affatto escluse: anzi dal primo sbanditi fino i libri scolastici, che portano in fronte il nome d'autore della detta Compagnia" (58). Quando poi la soppressione fu generale, una massa ingente di libri rimase invenduta e invendibile; per di più la possibilità di continuare nella stampa e nel commercio di quel tipo di opere, anche se non dovute ai Gesuiti, appariva ormai sempre più ridotta, per il diminuire di monasteri e conventi, travolti dalla bufera giurisdizionalistica che investiva ormai l'intera Europa, ma anche per il mutamento diffuso del gusto e della sensibilità culturale. Quelle opere su cui la stampa veneziana aveva fondato in parte almeno la propria prosperità erano divenute ormai dei "rancidumi" (59).
Al centro degli eventi, in questi anni cruciali, sino al 1780 fu lo scrittore Gasparo Gozzi, chiamato nel 1762 alla carica di soprintendente alle stampe a fianco del Pivati, vecchio e malato, che nel 1764 moriva, lasciandolo solo ad esercitare il suo mandato. Egli aveva pensato ad una sinecura, come era stato per il Pivati; ma si trattò invece di un impegno a tempo pieno, date le difficoltà del momento e la complessità dei problemi da affrontare. Egli prese l'incarico molto seriamente: lo testimoniano le numerose memorie, relazioni, scritture d'ufficio da lui redatte, sempre solidamente documentate e profondamente meditate, stese in uno stile a lui insolito, "tutto cose e tutto fatti, pieno di un semplice e combattivo buon senso, provvisto di una logica precisa e diretta che, nelle pagine dell' Osservatore e nelle altre sue innumerevoli, è dissimulata e quasi schernita" (60). Non vi fu provvedimento dei riformatori che non fosse da lui ispirato; né problema per cui egli non si sforzasse di trovare una soluzione. Grazie alle sue limpide pagine possediamo una conoscenza approfondita delle vicende e disponiamo anche di un'attenta analisi dei fatti.
Egli era perfettamente consapevole dell'irrimediabile obsolescenza di tutta o quasi la produzione di carattere religioso, e per vivificare la stampa egli vedeva la necessità di uno svecchiamento dei cataloghi, di un completo rinnovamento dei programmi editoriali. Una delle debolezze della stampa veneziana era la mancanza di autori nazionali in numero sufficiente ad alimentare un'ampia produzione: egli pensò quindi ad incentivi per chi creasse "testi d'ingegno", opere originali. In questo campo nulla si fece, mentre trovarono qualche attuazione altri suoi suggerimenti, come la traduzione di testi scientifici e la riedizione di classici italiani. A lui e ad Antonio Prata, in carica come soprintendente alle stampe dal 1780, prima a fianco dello zio Gasparo Gozzi poi, dal 1786, da solo, i librai veneziani non apparivano abbastanza pronti a rinnovarsi, troppo attaccati ai loro titoli invecchiati. Tuttavia la stampa veneziana seppe reagire.
Già all'indomani dell'espulsione dei Gesuiti dal Portogallo, Giuseppe Bettinelli si lanciò nella pubblicazione di opuscoli antigesuitici, mentre Antonio Zatta, fedele alle sue alleanze, ne prese le difese (61). Fu un breve, ma intenso periodo di ardenti polemiche, di cui la stampa veneziana si fece attivo strumento, mostrando la propria capacità di cogliere le occasioni per inserirsi con profitto nelle questioni più attuali.
Un grande filone in cui gli stampatori trovarono un vantaggioso inserimento fu quello delle opere dell'illuminismo, che - salvo eccezioni - la censura veneziana consentiva di pubblicare. In questo campo ebbe una posizione preminente Giovan Battista Pasquali, certo anche grazie all'intelligenza del suo finanziatore, il console Smith. Già nel 1739, come si è detto, il Pasquali aveva stampato il Newtonianismo per le dame dell'Algarotti; nel 1748 il trattato del Tartarotti sulla stregoneria; nel 1751 aveva progettato la ristampa dell'Encyclopédie (che si fece invece a Lucca e poi di nuovo a Livorno); nel 1753 aveva pubblicato l'opera di Giuseppe Bergantini, Fra Paolo Sarpi giustificato; nel 1756 altre opere dell'Algarotti, nonché nel corso di tutto il decennio molte opere di Muratori. Nel 1760 la società col console si ruppe, ma ormai il Pasquali era in grado di continuare da solo in quel campo: nel 1764 stampa il Mattino e il Mezzogiorno del Parini, nel 1766-1767 la Istoria civile del Regno di Napoli del Giannone, nel 1767 chiede la licenza per 1'Esprit des lois del Montesquieu, che però non pubblica, nel 1768-1769 stampa le opere del Machiavelli, nel 1770 la traduzione, dovuta al Gozzi, dell'Histoire ecclésiastique di Claude Fleury, invisa a Roma per il suo gallicanesimo (per questa impresa è in società con altri), nel 1771 le Meditazioni sull'economia politica di Pietro Verri con le note di Gian Rinaldo Carli.
Attivissimo nello stesso campo, come già ricordato, Antonio Graziosi (62): nel 1764 egli stampa il De statu ecclesiae del Febronio, pietra miliare del giurisdizionalismo, uscito appena un anno prima a Francoforte; nel 1773 mette a segno un altro colpo fortunato, assicurandosi l'Esprit des lois del Montesquieu, uno dei capolavori dei lumi. In campo giurisdizionalistico è attivo anche il facoltoso libraio Simone Occhi.
Vicino allo scrittore Francesco Griselini (63), uno degli spiriti più moderni della Venezia settecentesca, è lo stampatore Modesto Fenzo, cui il Griselini affida il suo Dizionario delle arti e de' mestieri; illustrato da incisioni in buona parte dovute al Griselini stesso, il Dizionario esce nel 1768 in diciassette volumi. L'opera fa il punto sulla situazione attuale, ma anche mira a farsi promotrice di trasformazione e rinnovamento. Anche Giovan Maria Bassaglia è vicino al Griselini, di cui pubblica le Memorie anedote sulla vita di Paolo Sarpi. (Il padre del Bassaglia, Pietro, è invece informatore degli inquisitori di stato). Il Settecento riscopre il Sarpi, che fornisce armi alla battaglia giurisdizionalistica: le opere del grande servita, già ristampate dal Pitteri nel 1739, sono ancora ristampate nel 1762 da Bortolo Baronchelli, un modesto tipografo che funge probabilmente da prestanome di illustri finanziatori. Nel 1781 un geniale letterato, romanziere e avventuriero, il piacentino Vincenzo Formaleoni, stampò per primo a Venezia il celebre trattato del Beccaria, Dei delitti e delle pene. Nel 1786 egli intraprese anche la ristampa in francese della Bibliothèque amusante, una raccolta di quarantasette romanzi francesi in centosette volumetti, fra cui il Candide di Voltaire; ma dopo l'uscita del ventunesimo volumetto la censura, divenuta negli ultimi anni della Repubblica più rigorosa, bloccò l'iniziativa, sicché il Candide si fermò alla prima parte, già uscita (64). Di Voltaire erano già apparse peraltro varie opere, nel 1760, nella traduzione del Donadoni. Le aveva fatte stampare una singolare figura di gentiluomo letterato, Zaccaria Seriman, autore del romanzo satirico I viaggi di Enrico Wanton (65). Dopo aver gestito per anni una libreria, nel 1753 egli aveva acquistato la tipografia di Pietro Valvasense, rimasto nell'azienda come direttore e poi nel 1758 sostituito: qui egli fece stampare il periodico da lui finanziato, le "Memorie per servire all'istoria letteraria", curate dal celebre camaldolese Angelo Calogerà e da Girolamo Zanetti, e appunto le Opere scelte di Voltaire.
Notevole successo riscuotevano le opere geografiche e di viaggio come l'imponente Compendio della storia generale dei viaggi di Jean Fran9ois La Harpe, stampato in quarantadue volumi a partire dal 1781 dal Formaleoni; e grande popolarità cominciavano ad avere i romanzi, soprattutto in traduzione dal francese (66).
Si continuava altresì nella stampa di opere di raffinata fattura, riccamente illustrate. I due grandi della metà del secolo, Albrizzi e Pasquali, appaiono dopo il 1760 in declino: il primo, in difficoltà finanziarie, non stampa più nulla di importante dopo gli squisiti Studii di pittura del Piazzetta, del 1760; il secondo, dopo la rottura con lo Smith, abbandona quasi del tutto, forse per mancanza di mezzi, quel filone in cui aveva raggiunto vette così alte: dopo il 1760 tre opere di grande pregio che escono dai suoi torchi (i due volumi del Gori sulla raccolta di gemme del console, il trattato di architettura del Gallacini e il Palladio del 1770) sono forse ancora il frutto degli investimenti dello Smith (67). Dopo i diciassette volumi delle opere del Goldoni, illustrate da Pietro Antonio Novelli (1760-1764), il Pasquali si dedica di preferenza alle opere della cultura moderna. Chi invece realizza una serie di edizioni magnifiche è Antonio Zatta, che si afferma come il più moderno e dinamico degli editori veneziani (non a caso è a fianco del Remondini contro i "vecchi", Baglioni e Pezzana; sull'esempio della casa bassanese egli si procura una capillare rete di vendita e apre anche una calcografia). Attento anche alle novità culturali (nel 1765 stampa opere del Verri e dell'illuminista trentino Carlo Antonio Pilati, nel 1774 progetta un'edizione dell'enciclopedia francese) egli dà alla luce, dopo il Petrarca e il Dante degli anni Cinquanta, una serie di volumi di straordinaria eleganza, grazie anche alla collaborazione con il pittore Novelli, con cui si stabilisce un rapporto analogo a quello che aveva unito il Piazzetta all'Albrizzi: dopo la sontuosa Augusta Ducale Basilica di San Marco, dedicata al procuratore e futuro doge Marco Foscarini e illustrata con i vecchi rami del Visentini (1761) (68), si succedono l'Aminta del Tasso (1762), l'Ariosto (1772-1774), i diciassette volumi del Metastasio (1781-1784), i cinquantasei volumi del Parnaso Italiano (I 783- 1791), i quarantasette volumi del Goldoni (1778-1795), quasi tutti ornati da incisioni su disegno del Novelli. Si trattava di opere di grande impegno (per quella di Goldoni l'investimento fu di 43.100 ducati), ma anche di grande successo: per il Metastasio i sottoscrittori furono tremilacinquecento (69). Nel contempo una fortunata produzione cartografica (magnifico l'Atlante Novissimo del 1779-1785) usciva dal laboratorio annesso alla calcografia. Nel 1782 lo Zatta concepiva l'idea di ristampare 1'Encyclopédie méthodique: un'opera immensa intrapresa dall'editore francese Charles Joseph Panckoucke con l'ambizione di superare quella di Diderot e d'Alembert, organizzata non in ordine alfabetico ma per materie; ma poi vi rinunziò. Vi rinunziò anche il Formaleoni, che aveva pensato di stamparne una versione italiana. Se l'assicurò la Tipografia del Seminario di Padova, che vi lavorò sino al 1812, nei primi anni con grande successo, giungendo a stampare ben duecentotrentasette volumi. Poi l'opera, mastodontica e irrimediabilmente invecchiata, fu abbandonata (70).
Continuava poi la fioritura delle pubblicazioni d'occasione, un campo in cui stampatori grandi e piccoli gareggiavano nel produrre edizioni di raffinatezza squisita, illustrate da incisioni dovute ai migliori artisti. Per riuscire a tenere il passo con quel che di nuovo si produceva all'estero, in modo da esserne tempestivamente informati per procedere, se del caso, a traduzioni o ristampe, alcuni stampatori si specializzano: Alvise Milocco e Giovanni Antonio Perlini traducono opere straniere e stampano quelle venete in materia di agraria, Pietro Savioni si occupa di medicina, Domenico Lovisa, nipote dell'omonimo stampatore della prima metà del secolo, di diritto (71).
Traduzioni e ristampe si succedono a ritmo febbrile, per battere la concorrenza estera. Si distinguono Giovanni Gatti e i figli, Pietro e Silvestro, che stampano la traduzione dell'imponente opera del Gibbon sulla decadenza dell'Impero romano, nonché quella della History of America di William Robertson (72), e Gasparo Storti, con i figli Giacomo e Francesco, impegnati nella stampa di traduzioni dall'inglese.
Prospera la stampa in caratteri diversi dai latini. A fianco della casa Glikis, che sotto il governo di Nikolaos (1742-1788) ha un periodo di grande sviluppo (cinque torchi e venti dipendenti), si afferma quella di Demetrio Teodosio, un collaboratore della casa Glikis che nel 1755 fonda una propria azienda stampando libri in greco, ma anche in caratteri slavi e armeni. Ogni anno da venti a trentamila libri greci si avviavano direttamente verso il Levante; e altri vi giungevano attraverso la Dalmazia. Si tratta di libri in gran parte liturgici e religiosi; ma nella seconda metà del secolo aumenta il numero delle opere laiche, come lessici, grammatiche, testi di letteratura neogreca (73). L'ellenismo si sta ridestando, ha bisogno di un alimento intellettuale che le terre greche non possono fornire, per l'opposizione turca all'installazione di tipografie; vi provvedono quindi le stamperie veneziane, il cui contributo al risveglio della coscienza nazionale greca è di primaria importanza. Un impulso in tale direzione viene impresso dal ricco mercante e autorevole diplomatico Pano Maruzzi, che con ogni probabilità sostiene finanziariamente la stamperia di Teodosio (74).
Anche la stampa in caratteri cirillici che il Teodosio intraprende rientra probabilmente nei disegni del Maruzzi, sostenitore dell'impegno russo nel Mediterraneo e di un'alleanza veneto-russa in funzione antiturca. Escono testi religiosi, grammatiche, lessici, ma anche opere storiche e persino un periodico di carattere letterario destinato agli Slavi del Sud.
Il Teodosio stampò anche in armeno: dal 1772 al 1782 uscirono ventitré sue edizioni e una carta geografica. Ma l'editoria in armeno era riservata, in forza di un privilegio del 1718, ad Antonio Bortoli, cui succedette il figlio Girolamo: ad essi è dovuta la grande maggioranza delle edizioni armene sino al 1780. Dopo tale data i Padri Armeni preferirono stampare direttamente nella loro tipografia, sita nell'isola ad essi concessa dalla Repubblica, e al Bortoli rimasero funzioni di semplice prestanome. L'editoria veneziana in armeno, cui concorsero anche altri tipografi in misura molto inferiore, ebbe enorme importanza per tener viva la cultura e lo spirito nazionale di quel popolo perseguitato. Si continuava a stampare anche in ebraico (75). Si stampava infine anche in turco: il Teodosio produsse alcuni libri in tale lingua, ma usando caratteri greci. Grazie agli storici legami con il Levante la tipografia veneta aveva quindi conservato il suo carattere cosmopolita, come nell'aureo Cinquecento.
Attorno al 1770 rifiorì, dopo un lungo periodo di stasi, la stampa musicale, in cui ebbe una posizione di rilievo Antonio Zatta: la sezione specializzata della stamperia, denominata Calcografia filarmonica, fu attiva dal 1783 al 1798 (76).
All'atmosfera di vivacità intellettuale della città e alla vitalità delle stamperie contribuivano poi i numerosi periodici (77). Nella prima metà del secolo essi avevano carattere prevalentemente erudito; nella seconda metà gli argomenti sono i più vari; dal giornalismo letterario a quello moralistico, da quello di attualità politica a quello di costume, è tutta una fioritura di iniziative di letterati, di mecenati, di gazzettieri, che danno vita quasi a una fioritura di testate di varia importanza, durata, diffusione (si va dalle duecento copie alle duemila), in cui si riflettono con immediatezza le molteplici componenti della società veneziana. Vi sono anche giornali scientifici, di medicina, di agricoltura, come quello diretto dal Griselini. Vi si cimentano personalità di prim'ordine, da Gasparo Gozzi a Giuseppe Baretti, che stampa a Venezia la sua "Frusta letteraria", da Angelo Calogerà a Anton Francesco Zaccaria. Alla fine del secolo si affermano personalità specifiche al mondo giornalistico, come Antonio Piazza, che cura l'uscita bisettimanale della "Gazzetta Urbana Veneta", contenente un'efficace informazione cittadina non politica, Elisabetta Caminer, aperta alla cultura illuministica europea, Giuseppe Compagnoni, che a partire dal 1789 fornisce nelle pagine delle "Notizie del Mondo" un'informazione critica e moderna che prima mancava.
Per fondare un giornale non erano necessari grandi mezzi: l'iniziativa poteva venire presto abbandonata oppure dare utili anche considerevoli. Vi si cimentavano soprattutto gli stampatori minori, come Paolo Colombani, Modesto Fenzo, Antonio Graziosi, Gaspare e Giacomo Storti.
La stampa veneziana anche in questi anni difficili dava insomma prova di grande vitalità, benché la sua capacità di rinnovamento apparisse a Gozzi e Prata inferiore a quella che avrebbero desiderato. Tuttavia il crollo del mercato del libro religioso era ben difficilmente compensabile. Altro era produrre un libro teologico di grande mole, la cui preparazione occupava più torchi per mesi, altro stampare un romanzo; il primo aveva un prezzo adeguato e si vendeva in tutto il mondo cattolico, il secondo costava poco, garantiva quindi guadagni modesti e si vendeva solo in Italia.
Il mercato cui si rivolgevano traduzioni e ristampe era infatti tutto italiano. Ma anche in Italia le vendite non erano più così facili come prima. Le maggiori città avevano ormai le loro stamperie, che si affrettavano, protette da privilegi analoghi a quelli che tutelavano la stampa veneziana, a ristampare a loro volta i libri prodotti a Venezia. Ristampare un libro ameno non richiedeva tecnologie sofisticate o investimenti di rilievo, era alla portata di tutti gli stampatori esteri, che potevano poi ottenere dalle loro dogane il blocco al confine del libro veneziano. L'unico modo per vendere era far presto, battere la concorrenza sul tempo: e così gli editori veneziani "s'impadroniscono delle opere francesi, inglesi e tedesche appena uscite, le traducono, le ristampano, e di carriera le immettono all'esportazione" (78). È un ritmo di produzione febbrile quello che le stamperie veneziane debbono sostenere per sopravvivere. Molte vi riescono; ma certo gli utili non sono più quelli di un tempo, i rischi maggiori. Nonostante gli sforzi, le esportazioni subiscono una drastica diminuzione, dell'ordine del 30% verso lo Stato Pontificio, del 60% verso Napoli, del 66% verso la Spagna.
Tuttavia evidentemente rimangono ancora dei margini di guadagno, e il lavoro, anche se meno redditizio di un tempo, non manca.
Ne è prova il numero delle tipografie attive: dalle quaranta del 1759 si passa alle trentaquattro del 1765 e alle ventinove del 1770, per poi risalire alle trentacinque del 1780 e alle trentotto del 1793. Molte certo vivono stentatamente, limitandosi a stampare "a partito", ossia su commissione; alcune, dette "da bagagie", si dedicano solo alla stampa di avvisi e atti legali, o di opuscoli di scarsa importanza. Tuttavia tutte le stamperie campano, e alcune assai bene. E anche il numero dei torchi attivi, che nel 1754 erano settantasei su centoventi esistenti nella città, si mantiene su livelli elevati: nel 1765 sono sessantanove; nel 1770 scendono a cinquantotto; nel 1780 risalgono a sessantacinque e nel 1793 a ottantotto (79).
Attorno al 1770 s tocca dunque il punto più basso; poi si avvia una ripresa, che appare in atto nell'ultimo decennio del secolo. Non solo alcune vecchie case tipografiche sembrano dare segni di maggiore vitalità (persino i Baglioni, ormai in declino da molti anni, aumentano i torchi attivi nel 1793 da quattro a sei) ma anche ne sorgono di nuove, come quella già ricordata degli Storti, quella di Francesco Andreola e, negli ultimi anni della Repubblica, quella del conte e patrizio veneto Alessandro Pepoli e di Antonio Fortunato Stella. Il Pepoli, di illustre famiglia bolognese, un ramo della quale aveva ottenuto anche il patriziato, era personaggio eccentrico e geniale; lo Stella un letterato a lui molto legato. Nel 1792 essi decidevano di lanciarsi nel mondo editoriale; rilevata la piccola azienda di Antonio Curti, commissionavano al Bodoni nuove bellissime serie di caratteri e acquistavano otto torchi moderni, con un programma editoriale grandioso: opere scientifiche, matematiche, teatrali, storiche, mediche di grande mole e impegno erano previste, assieme alle Memorie della Royal Society di Londra condensate in diciotto volumi. Lo Stella ottenne l'immatricolazione con l'esborso di 600 ducati; ma poco tempo dopo sorsero gravi screzi con il Pepoli, finanziatore dell'intera operazione; questi estromise lo Stella e decise di impegnarsi di persona, ottenendo a sua volta l'immatricolazione: caso veramente singolare per un personaggio del suo rango. L'iniziativa, intrapresa con tanto entusiasmo e tanti mezzi, si arenò peraltro assai presto per la morte del patrizio, sopravvenuta nel 1796 (80).
Mancavano ormai pochi mesi alla caduta della Repubblica. Con la brusca fine dell'antico stato, anche la stampa veneziana si spense. La distruzione delle strutture protettive, l'immensa fuoriuscita di denaro per le requisizioni del vincitore, la degradazione della capitale a città di provincia, tutto ciò determinò in pochissimo tempo il crollo di quasi tutte le aziende maggiori e il gramo sopravvivere di qualcuna. La terribile miseria degli anni della seconda dominazione francese fece il resto. Alcuni tentarono fortuna altrove: vi riuscì solo il socio del conte Pepoli, lo Stella, che divenne un editore importante nella città in cui Napoleone aveva voluto concentrare l'amministrazione, le ricchezze, le opere d'arte dell'Italia da lui conquistata: Milano.
Le norme fondamentali in materia di censura cui le autorità venete si attenevano erano quelle poste dalla legge fondamentale del 1603, modificata nel 1653: per ottenere la licenza di stampa, rilasciata dai riformatori, era necessario ottenere due fedi, una del revisore pubblico, nominato dai riformatori, l'altra del padre inquisitore del S. Uffizio di Venezia; il primo doveva accertarsi che nell'opera da stampare nulla vi fosse di contrario a "l'interesse de' prencipi e buoni costumi", l'altro che non vi si contenesse alcunché di contrario alla fede cattolica. Con le due fedi lo stampatore si recava dal segretario dei riformatori; questi presentava le fedi ai riformatori, almeno due dei quali sottoscrivevano la licenza. Salvo rarissime eccezioni la licenza, se le fedi erano favorevoli, veniva concessa, sicché la firma dei riformatori si riduceva a una formalità, che veniva anche sbrigata in breve tempo.
Quello che contava veramente era il parere del revisore. La carica era dunque importantissima; e i riformatori vi preposero sempre persone di prim'ordine e di notevole levatura. Dal 1723 al 1742 fu revisore padre Carlo Lodoli; al suo fianco operava Giovan Francesco Pivati; un altro revisore era il combattivo ed erudito monaco Angelo Calogerà (dal 1730 al 1766). Nel 1762 fu nominato soprintendente alle stampe e insieme censore Gasparo Gozzi, coadiuvato da vari personaggi di rilievo nel mondo intellettuale: Antonio Contin, teatino, campione del movimento anticuriale, Giovan Francesco Scottoni, spirito bizzarro e geniale, fautore del rinnovamento dell'agricoltura, il poeta Angelo Maria Barbaro, il giornalista e naturalista Alberto Fortis.
Con simili personaggi la stampa non trovava ostacoli al suo sviluppo. Per aggirare l'altro parere necessario, quello dell'inquisitore, venne ripristinato a partire dal 1729 un istituto a cui si era fatto qualche ricorso già nei secoli precedenti, ma di cui ora si cominciò a fare un uso sistematico: quello del luogo di stampa falso (81). Si autorizzava la stampa, ma con falsa data topica: la licenza, che veniva regolarmente registrata, non necessitava più della fede dell'inquisitore. Con questo meccanismo furono stampate opere del giurisdizionalismo e dell'illuminismo che non sarebbero mai potute passare attraverso il vaglio ecclesiastico. Così si evitava anche il conflitto con la Chiesa, che sarebbe scoppiato nel caso in cui la stampa fosse ufficialmente risultata veneziana.
La data topica falsa veniva poi usata nel caso opposto: quello di opere palesemente contrarie alla sovranità dello stato, come quelle di stretta ispirazione curiale, che in tutto sostenevano le ragioni della Chiesa, magari anche rievocando in luce negativa la vicenda dell'Interdetto: stamparle con la pubblica approvazione sarebbe stato lesivo della dignità della Repubblica, vietarle avrebbe danneggiato gli stampatori. Con la falsa data si sistemava ogni cosa.
Nel 1765 si ebbe poi un importante cambiamento: nel clima giurisdizionalistico ovunque imperante, il partito anticuriale, il cui maggior esponente era Andrea Tron, decideva non già di sopprimere la revisione inquisitoriale, come proponeva il segretario Pietro Franceschi, ma di affiancare l'inquisitore con un revisore di nomina statale. Occorreva un "ecclesiastico dotto, probo e fedele": venne nominato Natale dalle Laste, "uomo pio, dotto e prudente", che peraltro poteva operare con libertà e apertura ben maggiori degli esponenti del S. Uffizio. Da allora bastava che gli stampatori si rivolgessero a lui per ottenere permessi che mai avrebbero altrimenti ottenuto; la sua fede infatti sostituiva in tutto e per tutto quella dell'inquisitore, cui peraltro era ancora possibile rivolgersi, per chi lo volesse.
Da quel momento la possibilità di stampare opere non strettamente ortodosse fu ancor maggiore di prima. Solo negli ultimi anni, dopo che la Rivoluzione francese ebbe mostrato il suo volto feroce e aggressivo, vennero adottati criteri più restrittivi, nella speranza, ormai vana, di allontanare la tempesta dalla Repubblica.
Naturalmente tanta apertura aveva dei limiti: non si poteva pubblicare alcunché contro il governo, com'era ovvio ovunque nell'Ancien Régime, e vi erano anche testi la cui ristampa o traduzione era chiaramente improponibile anche ai più benevoli revisori, come quelli che sostenevano apertamente il materialismo o l'ateismo e in generale tutta quella letteratura che mescolando l'osceno e il filosofico mieteva tanti successi Oltralpe (82).
I Veneziani avevano dunque a disposizione un'ampia messe di opere moderne e "illuminate" di cui potevano rifornirsi nei negozi: se è vero che l'80% circa della produzione veneziana era destinato all'esportazione, il 20% restava in città e veniva acquistato dai cittadini (83).
Ma questi potevano poi trovare nei negozi, o acquistare direttamente, libri prodotti all'estero. Su di essi vigilava il revisore alle dogane, il cui compito era duplice: da un lato doveva impedire che si introducessero libri stampati all'estero che avessero lo stesso titolo o contenuto di libri stampati a Venezia e protetti da privilegio; dall'altro controllare che nei libri introdotti non vi fosse nulla contro la legge, "i diritti de' principi" e i buoni costumi. Sul primo punto il controllo era strettissimo, dato che vi collaboravano attivamente i librai; sul secondo assai meno.
Il meccanismo era disciplinato dal decreto del senato del 1653, che introduceva importanti modifiche a quello fondamentale del 1603. Il "deputato all'estrazione de libri forastieri", o più tardi revisore alle dogane, doveva esser presente in dogana all'apertura dei pacchi di libri; doveva controllare che i libri corrispondessero alle note che i librai cui erano diretti avevano precedentemente presentato; indi doveva entrare nel merito, "licenziare" quelli la cui importazione appariva lecita e "fermare" gli altri. Sulla scorta della fede da lui rilasciata, i librai dovevano recarsi dal segretario dei riformatori, che stendeva un mandato di autorizzazione alla vendita, che andava poi sottoscritto da almeno due riformatori.
In realtà la prassi era diversa. Apprendiamo dal Lodoli, nominato anche revisore alle dogane il 30 agosto 1726, che sotto il predecessore, canonico Vincenzo Todeschini, era invalso un sistema abusivo: si era inserito l'inquisitore del S. Uffizio, che rilasciava una sorta di autorizzazione con la formula "introducentur", e tanto bastava al segretario dei riformatori. Contro tale metodo reagisce giustamente il Lodoli, tanto più che il padre inquisitore si atteneva, nel determinare le esclusioni, non all'Indice dei libri proibiti accolto dal concordato del 1596, ma agli Indici successivi, con palese violazione degli accordi con la Chiesa. All'opposto invece sino al 1712 non vi era alcuna dogana al Fontego dei Tedeschi, per cui di lì poteva transitare liberamente ogni genere di libri: solo in quell'anno si era stabilito che si estendessero anche al Fontego "tutte le diligenze le quali dal pubblico deputato si pratticano per le due dogane". A seguito delle proteste del Lodoli, l'inquisitore fu escluso dal procedimento (84).
Nelle sue funzioni il Lodoli fu certo più diligente dei predecessori; tuttavia difficilmente poté controllare da solo la massa ingente dei libri che venivano dall'estero; inoltre il segretario dei riformatori non sempre curava la compilazione dei mandati, sicché di fatto la procedura finì con l'essere semplificata. D'altro canto il Lodoli esercitò certo le sue funzioni con la stessa apertura che mostrava svolgendo quelle di revisore per la "proibizione de libri". Se poi qualche titolo veniva respinto, c'era sempre modo di procurarselo in altro modo. Anzitutto, i pacchi diretti ai privati, se di piccola mole, non transitavano per le dogane, sicché chiunque lo volesse poteva ordinare senza pericolo anche il titolo più sulfureo. Ma anche per i librai valeva lo stesso principio: "li piccoli fagotti sotto lire 50 di peso" come esenti da dazi venivano inviati direttamente anche ai librai. Era una facile via di evasione alla legge, contro la quale protesta Marziale Reghellini, successo nel 1743 al Lodoli, in una sua memoria del 31 gennaio 1747 (85). Altri provvedimenti da questi suggeriti rivelano alcune normali vie d'evasione: bisognava che le balle di libri una volta giunte in dogana fossero subito "marcate con il Bollo di San Marco, perché alli bastaggi o altre servili persone non sia aperta la strada di consegnare al libraio o altro proprietario la balla capitata ponendone altra consimile"; bisognava altresì "che alli padroni di barca che conducono le balle alle dogane fosse dato ordine penale di non fare tenere in alcun modo alli libreri le balle dei libri, ponendone altre di simil peso a tutela del dazio". In una successiva memoria egli parlava anche dei lazzaretti, ove i libri si fermavano assieme alle persone senza poi passare in dogana; e della Terraferma, ove le regole erano più elastiche (86). Ma i riformatori nulla fecero, sicché si poté continuare a importare praticamente ogni libro. Né le proteste del successore del Reghellini, Anton Maria Donadoni, ottennero migliori effetti.
Tuttavia il lavoro di controllo alle dogane veniva svolto seriamente dai revisori, che per lo più "licenziavano", ma talvolta fermavano, i libri pericolosi. Ma si trattava di casi rari: secondo i calcoli di Franco Piva, dal 1769 al 1790 durante il governo del Donadoni (uomo aperto alle nuove idee, traduttore di Voltaire) furono effettuati in tutto novanta fermi per trecentoventi titoli, su trentaquattro-trentacinquemila titoli arrivati alle dogane: meno dell' 1%. Per di più dei trecentoventi titoli centosettantanove erano opere introdotte in spregio ai privilegi dei librai veneziani, diciotto erano libri di argomento giansenistico e solo centoquattordici libri francesi portatori di idee illuministiche: sicché i fermi per motivi ideologici erano veramente in numero esiguo (87). Più tardi, dal 1790 alla caduta della Repubblica, il nuovo revisore, Jacopo Morelli, custode della Libreria di S. Marco, si mostrò un po' più severo, sia per il suo rigoroso carattere sia perché i fatti di Francia avevano reso i riformatori più preoccupati e timorosi degli effetti che la stampa straniera poteva produrre in circostanze così drammatiche come quelle che stava vivendo l'Europa (88).
Tra gli autori fermati, quello che compare più volte è Rousseau: seguono Voltaire, d'Holbach, Raynal, Helvétius, d'Argens e via via molti dei maggiori illuministi; ma la condanna non colpiva tutta l'opera, solo alcuni scritti, mentre altri transitavano; e talvolta lo stesso testo prima vietato veniva poi ammesso, e viceversa. Non vi era un rigido criterio da applicare; i revisori facevano ciò che potevano, nell'indifferenza dei riformatori, che evidentemente pensavano più a salvare la forma, soprattutto nei confronti della Chiesa, che a impedire il libero ingresso nello stato della cultura europea. Ciò che esasperava i revisori era la loro impotenza rispetto al commercio clandestino, che vanificava i loro tentativi di selezionare il materiale in arrivo. Nel 1772 il Donadoni otteneva finalmente dai riformatori un ordine, affisso il 9 maggio a S. Marco e a Rialto, in cui si vietava la vendita di alcuni libri elencati in calce da consegnarsi alle fiamme, mentre ai librai trasgressori si comminavano, oltre alla perdita dei libri, "altri forti castighi" non determinati. I libri proibiti consistevano in alcuni titoli di Voltaire, di La Mettrie, di Helvétius, di d'Holbach, del marchese d'Argens, individuati dal Donadoni. Un altro elenco di libri osceni, che il Donadoni voleva bandire, non fu riportato nel decreto (89).
Si trattava di opere largamente note e circolanti a Venezia. Per estirparle i riformatori avrebbero dovuto mettere in moto una massiccia azione di polizia, che non si sognarono di svolgere. Tuttavia qualche conseguenza vi fu: la vittima più illustre del decreto fu la bella e colta amica e futura sposa di Andrea Tron, Caterina Dolfin, che aveva consentito ad occultare in casa sua alcuni libri di cui il libraio Antonio Locatelli, suo abituale fornitore di opere francesi, temeva la confisca in base alle nuove norme. I libri furono sequestrati, nel maggio, dopo un'ispezione, ma non vi fu alcun seguito, tranne l'imbarazzo e il fastidio per la sgradevole pubblicità. L'episodio peraltro aveva poco a vedere con una volontà censoria del governo; si trattava di un attacco obliquo al Tron, mosso da chi avversava la sua politica giurisdizionalista, con la complicità probabilmente dei parenti di Marc'Antonio Tiepolo, con cui la dama aveva contratto un matrimonio dichiarato nullo qualche giorno prima, il 10 aprile (90). Qualche sequestro di libri proibiti ebbe peraltro luogo: nel novembre 1773 ai danni del libraio Graziosi, e altresì del libraio Giuseppe Rondi di Bergamo, nell'aprile successivo contro Bartolomeo Occhi e Giovan Battista Pasquali (91). Poi le acque si quietarono.
Che i riformatori non avessero alcuna intenzione di impegnarsi sulla via della repressione è confermato anche dalla sorte riservata ai libri sequestrati in dogana, la cui destinazione doveva venire stabilita dai riformatori: sui duecentosettantacinque libri francesi fermati alle dogane a partire dal 1769, soltanto sessantanove furono bruciati in Piazzetta; sessantotto furono rimandati indietro; sessantuno furono assegnati alla Libreria di S. Marco e, se in più copie, anche a quella di Padova; trentanove furono consegnati ai riformatori senza che si conosca la loro sorte successiva; trentotto furono restituiti ai proprietari (92).
Se si esaminano i nomi degli acquirenti dei libri sequestrati, si comprende come non vi potesse essere una vera resistenza all'ingresso dei libri portatori delle nuove idee. Tra i fermi del 1772 le opere di Bayle erano del patrizio Sebastiano Zen; quelle di Rousseau, la Nouvelle Académie des Dames e un'opera di Raynal appartenevano al procuratore Tron, il più autorevole uomo politico della Repubblica; un altro libro era stato comprato da Francesco Pesaro, procuratore di S. Marco e più volte riformatore; un lotto contenente Voltaire, Helvétius, d'Holbach era diretto al convento dei Domenicani alle Zattere. Altri libri fermati in altri periodi avevano acquirenti meno illustri: un "negoziante di droghe", uno speziale (ma è Vincenzo Dandolo, destinato a un grande avvenire), uno spedizioniere, persino una ballerina. In tutte le classi sociali vi sono acquirenti di libri "illuministi"; e soprattutto li compra e li legge la classe dirigente della Repubblica. L'opera dei revisori alle dogane è di mera facciata: nella sostanza non vi è ostacolo alla circolazione della cultura moderna.
Lo conferma ad abundantiam un elenco di libri "empi, sediziosi ed osceni" che il Donadoni compila nel 1778 ad uso dei riformatori: erano libri che, a sua conoscenza, erano penetrati negli stati veneti e che venivano "con tanta avidità, e a sì caro prezzo da ogni grado di persone comperati e letti". Esso comprende in pratica tutte le opere più ardite, rivoluzionarie, scandalose ed eversive della letteratura illuministica (93). Le leggevano tutti: lo dichiara il Donadoni e lo conferma la "referta" del più straordinario dei "confidenti" degli inquisitori di stato, Giacomo Casanova (94). Gli inquisitori, che volevano essere al corrente di tutto, avevano pensato che il Casanova, bene introdotto nei circoli alla moda, potesse essere l'uomo giusto per fornire informazioni sul commercio librario clandestino e sulla diffusione dei libri proibiti. E Casanova non li deluse: riferì con precisione che le opere di Voltaire "si trovavano tra le mani di tutti", anche le più "empie produzioni"; che tutti leggevano Rousseau, Helvétius, Marmontel, Freret, La Mettrie, Raynal, Fleury e ogni sorta di libri "licenziosi". L'Histoire philosophique di Raynal era stata "portata a Venezia da Vienna dall'Ecc.mo cavalier ambasciator ritornato" (Niccolò Foscarini) (95); "una di simile" l'aveva il patrizio Angelo Zorzi; altre opere analoghe si trovavano presso Angelo Querini, il "Kav." Giustinian, Giancarlo Grimani, il "Kav." Emo: l'élite della classe di governo. Altrettanto diffusi i libri "sfacciatissimi nel libertinaggio": si trovavano "in gran quantità tra le mani di molti in accurata raccolta".
Naturalmente i "tutti", i "molti" che leggevano queste opere erano pur sempre un'élite intellettuale, numericamente una minoranza: quelli che facevano la pubblica opinione. Quanti fossero è difficile dire. Secondo padre Fachinei, di spirito conservatore, "si trovavano dentro Venezia tre o quattromila scienziati ed altrettanti perlomeno nelle provincie che sapevano tutti o quasi a mente le opere di Montesquieu, Russò, e il libro Dei delitti e delle pene" (96); secondo l'Ortes i libri che hanno "più corso fra il popolo" sono Goldoni, Gozzi, Metastasio: letture facili cui l'Ortes contrappone "il Volterre, l'Elvezio, il Russò", che la Francia "dà a leggere alle nostre dame", mentre le opere veneziane sopra ricordate trattengono, a suo dire, "il volgo nella sua mediocrità di sapere senza avanzarne le cognizioni". Le dame dunque leggevano le opere moderne, ma non "il volgo" (97).
Di alcune di queste dame conosciamo le letture. Cecilia, vedova del procuratore Girardo Sagredo, l'erede delle sostanze e della raccolta di Zaccaria, possedeva varie opere di philosophes eterodossi, a cominciare da Voltaire; una sezione della biblioteca si componeva di libri inglesi, "fra i quali trovavano posto anche scritti dai titoli molto sospetti come Papacy and Tiranny e Reply to Jesuit Fisher" (98). Non mancavano i periodici, anch'essi di analoga ispirazione, e la cultura italiana più moderna era ben rappresentata, da Algarotti e Muratori.
La figlia Cattarina, nata nel 1739, nel 1759 possedeva all'incirca gli stessi autori preferiti dalla madre (99). Nel 1792 la sua biblioteca era di molto cresciuta (100): comprendeva ormai millesettecentonovantuno titoli a stampa e una sezione manoscritta. I libri a stampa sono tutti moderni e sono in netta prevalenza in francese e, cosa assai meno frequente, in inglese: e rivelano un interesse attento e vivace per ogni aspetto della cultura e della vita contemporanea. Nel "camerino vicino al mezzà dell'arcova ove scrive Sua Ecc.za Padrona" ci sono settantasei libri, quelli che teneva a portata di mano per un uso frequente: dizionari, libri di storia, commedie inglesi e francesi, almanacchi e riviste (cinque inglesi, sei francesi, uno milanese e due veneziani, il "Diario Veneto" e l'"Europa Letteraria"), libri di pittura, l'Histoire de don Quichotte, libri di viaggi. Solo dieci titoli sono in italiano. I libri "esistenti nel camerino vicino all'arcova. Guarda sopra l'intrada" sono centoquarantaquattro: ci sono Dante, Petrarca, ma anche il Candide e altre opere di Voltaire, varie opere di Rousseau, 1'Esprit di Helvétius, gli scandalosi Mémoires pour servir à l'histoire de Madame de Maintenon e L'histoire de madame la marquise de Pompadour. Ci sono vari classici (Omero, Ovidio) tradotti in francese, altri in italiano. Nel "mezzà delli stucchi" c'è la vera "libreria", che il catalogo divide in "dalla parte di ca' Corner" e "dalla parte della Doana": qui i libri sono trecentodiciotto, di storia, di viaggi, di agronomia, classici tradotti in francese e in italiano (come un Ovidio dedicato, nel XVI secolo, dal traduttore in rima, Giovanni Andrea dell'Anguillara, alla propria padrona di casa), romanzi: c'è Montesquieu, Muratori, ancora Rousseau, Pope, Francis Bacon (The Philosophical Works in tre tomi), Machiavelli in inglese, il Dictionnaire di Pierre Bayle e l'Encyclopédie. Vi sono vari periodici inglesi in più tomi, compreso il celebre "Spectator"; e c'è anche qualche testo piccante, come le Lettres de Ninon de Lanclos. Di Voltaire la dama possiede non solo le opere storiche e drammatiche, ma anche quelle filosofiche, del tutto eterodosse, come il Traité sur la tolérance e il Dictionnaire philosophique, di Rousseau ha il Discours sur l'origine de l'inégalité des hommes, il Contrat social, l'Emile, la Nouvelle Héloise, le Lettres dizerses. Possiede opere di Mirabeau, di Morelly, di Boulanger, e dell'eversivo trattato di Helvétius, De l'esprit, ha addirittura due edizioni.
Più tradizionale il contenuto di una "camera detta ora libreria": millecentosessantanove volumi, di stbria e di politica, molti in francese e in inglese: forse qui la presenza del defunto consorte Gregorio Barbarigo si fa più sentire. In un armadio i manoscritti e l'archivio: cronache, storie, lettere, relazioni, in tutto circa trecento pezzi. Manca la Istoria del Concilio Tridentino dettata dal Sarpi e con sue note autografe, che Piero Barbarigo aveva ceduto nel 1773 alla Libreria di S. Marco. Non dissimili gusti aveva la sorella di Cattarina, Marina Sagredo, nata nel 1741, sposa di Almorò 2° Andrea Pisani del grande ramo di S. Vidal. Nel 1774 possedeva circa novanta titoli, italiani e francesi, fra cui l'Emile e la Nouvelle Héloise di Rousseau, l'Esprit, i Mémoires de M.me de Maintenon e altre opere più tranquille, come l'Histoire de Charles XII di Voltaire, Fénélon, Marmontel, Beaumarchais, Montesquieu, le storie di Rollin. In italiano ha Boccaccio, Metastasio, ma anche gli Annali d'Italia del Muratori (101).
Gli inventari confermano la ben nota profonda dipendenza della cultura italiana da quella francese, contro la quale si erano invano battuti nella prima metà del secolo Muratori, Zeno, Maffei (102); ma rivelano anche la familiarità con quella inglese, che Cattarina legge nell'originale, non nella traduzione francese, come molti altri fanno. L'esterofilia è sino eccessiva: si leggono i classici in francese, Machiavelli e Guicciardini in inglese.
Le dame di casa Sagredo erano senza dubbio personalità non comuni; per la cultura e l'intelligenza, per l'altissima posizione sociale, per la volontà di affermare la propria indipendenza materiale e intellettuale, per il fine gusto artistico (si dilettavano di disegno e di arredamento, Pietro Longhi era loro protetto e le ritrasse più volte). Cattarina aveva sposato in prime nozze Antonio Pesaro, in seconde nozze Gregorio Barbarigo del ramo di S. Maria Zobenigo: era dunque cognata di Piero Barbarigo, capo della corrente curialista in senato, avversario della politica giurisdizionalistica di Andrea Tron, sostenitore dell'insegnamento cattolico nelle scuole (103). Eppure ciò non le impediva di perseguire con determinazione la formazione della sua biblioteca illuministica, che aumentava grazie ai frequenti viaggi all'estero; gli inquisitori di stato erano al corrente di tutto e vedevano di malocchio i viaggi e i libri, ma ciò non impediva a Cattarina di coltivare i suoi interessi, con una serietà chiaramente documentata dalla sua biblioteca.
Le Sagredo, per quanto particolarmente brillanti, non erano tuttavia del tutto eccezionali: il Settecento a Venezia - e non solo a Venezia - vede l'affermazione di numerose personalità femminili, come Caterina Dolfin Tron, Isabella Teotochi Albrizzi. Giustiniana Wynne, amante di Andrea Memmo e futura contessa Orsini di Rosenberg, leggeva con passione, giovanissima, l'istoria del Concilio Tridentino di Paolo Sarpi e altre opere di storia e di filosofia (104). Le donne erano partecipi della cultura maschile: negli ambienti aristocratici ci si teneva aggiornati su tutto ciò che avveniva in Europa, in campo politico e letterario, attraverso le corrispondenze, i viaggi, le ambascerie.
Niccolò Foscarini, come si è visto, porta seco, da Vienna, Raynal; Andrea Tron reca con sé a Vienna nel 1746 Bayle, Saint-Evremond, La Mettrie, Rousseau, Voltaire (che aveva incontrato all'Aja) (105). Francesco Pesaro possiede opere di Voltaire, Helvétius, Raynal, Diderot, Goudar, oltre all'Encyclopédie; ha inoltre, sia pure in francese, Locke, Hume, Swift (106) Alvise 2° Zuanne Mocenigo possiede tutti i classici dell'illuminismo, compresa l'Encyclopédie (107). Girolamo Ascanio Giustinian ha Bayle, Raynal, Rousseau, Goudar, Saint-Evremond, Crébillon, varie opere di Newton, nonché una sezione inglese ricca di opere storiche e filosofiche (108).
La presenza di opere inglesi e francesi, anche teoricamente proibite, si riscontra del resto non solo in biblioteche destinate all'uso strettamente personale dei proprietari, ma altresì in quelle costituite con finalità mecenatesche e aperte, come si accennerà, a visitatori e studiosi: in casa Soranzo a Rio Marin si poteva trovare, ad esempio, Rousseau, in casa Pisani a S. Stefano, Helvétius, oltre naturalmente a moltissimi altri autori francesi e inglesi (109).
Le raccolte dei patrizi più ricchi e potenti, i "proceri", come li chiamava Donà nella classificazione delle case patrizie compilata attorno al 1730, comprendevano di regola, dunque, gli autori più moderni: non era lecito ignorarli a chi poteva trovarsi eletto ad un'ambasciata all'estero o ad un'alta carica politica (110). Leggerli non necessariamente significava condividerne il contenuto. Andrea Tron non aveva simpatia per l'ateismo (111); Francesco Pesaro era permeato di uno spirito profondamente cristiano; ma ciò non impediva loro di conoscere le opere dei philosophes. Più difficilmente queste entravano nelle raccolte dei nobili delle classi economicamente inferiori, quei patrizi definiti dal Donà "meccanici" e "plebei", i cui orizzonti erano tanto più limitati quanto più si scendeva verso gli strati inferiori della piramide nobiliare; a meno che non si trattasse di "spiriti forti, liberi", secondo un'altra classificazione, quella di Giacomo Nani. Dal punto di vista dell'atteggiamento culturale, il Nani distingue "signori", "poveri ", "buoni o chietini" e appunto "spiriti forti, liberi", che si caratterizzano per indipendenza di giudizio, "avversione nei confronti dell'establishment", come scrive Piero Del Negro, e simpatia verso la cultura dei lumi. Questi atteggiamenti si trovavano in tutte le categorie patrizie: Giorgio Baffo, nobile di medie fortune, appartenente quindi alla categoria le cui aspirazioni si arrestavano alla quarantia, leggeva Voltaire, Bayle, Morelly, e altre opere proibite del filone piccante con cui alimentava la sua musa (112).
In molte biblioteche quindi le opere moderne entravano difficilmente: "poveri" e "chietini" tra i patrizi probabilmente non le acquistavano, e altrettanto avveniva in generale nelle altre categorie sociali. Se prendiamo in considerazione qualche esempio tratto dal ceto cittadinesco, vediamo che il segretario del senato Santorio Santorio conservava nella sua casa a S. Basegio una magnifica biblioteca di circa duemila volumi: abbondano le opere del Cinque e del Seicento, probabilmente raccolte dagli avi, ma vi sono anche molte edizioni contemporanee, soprattutto veneziane e di pregio: classici, storia, opere di solida erudizione, che non lasciano spazio ai romanzi dei philosophes. Se ci sono Milton e Bossuet, sono in traduzione italiana (113). La biblioteca del Santorio appare rappresentativa di quella cultura tradizionale che aveva ancora molti e anche degnissimi seguaci; ma certo fra essi e i Tron e i Pesaro si apriva un solco, un'incomprensione che contribuì a determinare quella paralisi politica che indebolì gli ultimi decenni della Repubblica.
Del tutto tradizionale nell'impianto è anche la biblioteca del conte Giacomo Antonio Cavanis, che nel 1772 ha cinquecento libri di storia, geografia, religione, diritto (114); le novità sono soprattutto nel campo dell'agronomia ("l'agricoltore sperimentato, le praterie artificiali, nuova maniera di seminar il formento-Griselini, pratiche osservazioni del governo de bachi da seta"). Non mancano informazioni su fatti recenti in varie parti del mondo, ma non vi è alcuna opera straniera. Nemmeno Giovanni Antonio Franzoni, "mancato di vita" il 3 settembre 1775, ha libri stranieri: la sua libreria, "in mezzà sopra la strada" a S. Polo, "con due armeretti laterali di albeo e dipinta a rimesso con sopra un mappamondo di legno" contiene circa centosessanta libri, quasi tutti italiani e qualcuno latino. Il Franzoni non è ricco; il mobilio è modesto; a giudicare dagli "armeri" siti in "altro mezà sopra il rio ", ove sono custodite "carte di diversi particolari" egli forse amministra patrimoni altrui, o forse è mercante. Per questo ha comperato il Dizionario universale del Chambers e il "Dizionario del Pivati"; ma c'è in lui un desiderio di arricchimento culturale che lo porta ad acquistare classici, testi geografici e varie opere storiche, Rollin, Muratori e molte altre più antiche. Si interessa anche di storia religiosa; ha una Storia de Concij ecumenici in due torni, ma della raccolta dei Concilia del Labbe non va oltre il secondo volume. È dunque una persona colta: ma non ha comperato nemmeno un'opera francese alla moda.
La cultura illuministica aveva diffusione larghissima: ma in molte case entrava solo indirettamente, attraverso riviste, giornali e magari attraverso critiche e confutazioni (115). Essa era invece presente in toto, come si è detto, nelle biblioteche dell'élite.
Peraltro le letture di questa élite, in cui la componente patrizia era prevalente, non si limitavano affatto alle opere di attualità. Una solida cultura era non solo utile a formare la personalità, ma anche necessaria a chi volesse o dovesse svolgere una carriera di una certa importanza nella magistratura: un discorso ben costruito poteva assicurare il successo di un disegno politico e per predisporlo occorreva una preparazione adeguata, e non solo nel campo specifico. Gli studi letterari venivano coltivati con impegno: Andrea Querini, del grande ramo di S. Maria Formosa, non solo leggeva i classici, ma anche li traduceva, componeva poesie a imitazione del Petrarca, leggeva e traduceva i poeti francesi. Quando Andrea Tron si trovava a Parigi, il Querini gli chiese di procurargli moderne traduzioni di Plutarco e di Platone: su tali libri, egli scrive, "mi pare che solamente possa formarsi l'animo e lo spirito". I libri migliori della cultura tradizionale non mancavano mai nelle biblioteche patrizie. Ma per operare sul terreno politico occorreva anche una preparazione amministrativa ed economica. Andrea Querini leggeva con solerzia trattati sulla moneta e sull'interesse del denaro, sulla finanza e sul commercio (116), Francesco Pesaro, spirito sensibile e religioso, cultore degli studi letterari, storici e filosofici, si applicava anche ai trattati "di politica, di commercio, di agricoltura, di legislazione". Era un dovere e una necessità per l'uomo politico: "comincio a intendermene e a cinguettare d'economia anch'io, cosa lontanissima dai miei principi e dalle mie prime inclinazioni", scriveva nel 1769 (117). E nella sua biblioteca, accanto ai classici e ai migliori libri moderni, figurano le opere di Necker in materia economica, quelle di Burlamaqui e di Vattel sulla natura del diritto e molte altre di finanza e di amministrazione. Alvise 2° Zuanne Mocenigo possedeva, oltre agli illuministi, una serie di opere di economia e di diritto (118). Anche Andrea Tron si procura nel 1780 i libri di Necker, mentre già nel corso della missione all'Aja, dal 1743 al 1745, aveva acquistato, accanto a molti libri di storia, il Dictionnaire e altre opere di Bayle. Pur estraneo all'estremismo ateistico dei philosophes, egli si teneva aggiornato sulla loro produzione, ma coltivava soprattutto studi storici e politici. Di orientamento nettamente illuministico era invece la cultura di un altro dei maggiori esponenti del patriziato, il coltissimo e brillante Andrea Memmo, allievo di quel geniale padre Lodoli che aveva educato vari giovani patrizi delle più importanti famiglie al culto della ragione e alla ricerca della verità (119). Al Lodoli il Memmo si era accostato non più giovanissimo; gliene era sorto il desiderio leggendo insieme al futuro economista Gian Maria Ortes "i dialoghi delle scienze nuove del Galileo". Il Lodoli leggeva e discuteva con gli allievi Cicerone, Puffendorf, altri classici antichi e moderni; simili solide letture formarono uomini come Girolamo Ascanio Giustinian, Angelo Querini, Andrea Gradenigo, che si impegnarono con dignità e serietà nei loro compiti di governo. Così la biblioteca di Girolamo Ascanio Giustinian conteneva, oltre ai classici dell'illuminismo, opere di economia (fra cui Necker), di storia di tutti i paesi d'Europa e America, di chimica, medicina, astronomia, filosofia, agronomia (120). Se questo eletto gruppo di "lodoliani" seppe immettere nella propria azione una volontà riformatrice che altri non vollero condividere, l'impegno pubblico e lo spirito di servizio, nutriti di buoni studi, erano la regola per i patrizi; "sono uomini vivi, di varia sensibilità e cultura, aperti a molti interessi, legati alla loro repubblica da zelo sincero ", scrive Giovanni Tabacco (121): e le loro letture erano, come nei secoli passati, scelte con cura per formare il cittadino e l'uomo politico.
Le biblioteche a Venezia sono, nel Settecento, molto numerose, e vanno aumentando nella seconda metà del secolo. Non c'è casa patrizia o cittadinesca, purché non in condizioni di indigenza, che non abbia una biblioteca, la cui cura viene di norma affidata al cappellano domestico, che non di rado è un erudito di vaglia. Accanto alla biblioteca, l'archivio di famiglia, ricco di atti amministrativi conservati non tanto, o non solo, per amore della storia del casato, ma anche come strumento per l'attività politica: anzi, ci si procura un buon numero di memorie, istruttorie, relazioni, pratiche di vario tipo in copia manoscritta per avere a disposizione una documentazione atta a fornire al magistrato la necessaria informazione (122). Su un simile materiale faceva lezione padre Lodoli: scritture anche recenti "de' più gravi magistrati, o de consultori in jure co' relativi decreti, o delle dispute ed orazioni fatte nel Senato o nel Maggior Consiglio, o delle relazioni de Capi di Provincia, de' Generali, de' sindaci inquisitori, degli ambasciatori" (123).
Molte biblioteche erano di antica formazione: così quella dei Corner Piscopia, ammirata dal Montfaucon per il gran numero delle opere storiche relative a Venezia, o quella dei Contarini degli Scrigni a S. Trovaso: ogni generazione lascia la sua traccia, i libri aumentano nei secoli, con netta prevalenza per le opere di storia, che integrano l'archivio della famiglia, ricco di documenti necessari alla vita pubblica. La dimensione media è di tremila-quattromila volumi, lo scopo primario della raccolta è la formazione e la preparazione politica del patrizio. Un'importanza particolare rivestono alcune biblioteche di illustri tradizioni, come quella dei Barbaro, contenente i codici raccolti da Francesco, Ermolao, Daniele e dagli altri uomini di cultura del casato, e quella dei Grimani di S. Maria Formosa, residuo ancora magnifico di quella dei grandi mecenati del Cinquecento, il cardinale Domenico, il procuratore Vettor, il patriarca di Aquileia Giovanni. La biblioteca Barbaro era passata per eredità ai Nani della Giudecca, che ancora la conservavano nei primi decenni del secolo; poi fu venduta, parte a Venezia, parte a Vienna (124). All'inizio del secolo esisteva ancora la magnifica raccolta di codici greci del procuratore Giulio Giustinian, che il Montfaucon giudicò seconda soltanto alla Pubblica Libreria; nel 1721 fu venduta, per il tramite del console Smith, al conte di Leicester (125).
Le vendite all'estero dei codici Barbaro e Giustinian, per quanto diminuissero dolorosamente il patrimonio della città, non devono tuttavia ingannare: non vi è alcuno spirito di abbandono da parte veneziana, anzi in nessun altro periodo a Venezia vi è un fervore collezionistico paragonabile a quello del secolo XVIII, anche in materia libraria. A Venezia, grande mercato, si vende all'estero, ma anche si compra dall'estero: è qui che viene a disperdere le sue immense raccolte Ferdinando Carlo Gonzaga, ultimo dei duchi di Mantova, è qui che il vescovo ausiliare di Bamberga Franz Joseph von Hahn vende i suoi libri tramite Giovan Battista Albrizzi (126). Si formano importanti raccolte nella prima metà del secolo: Apostolo Zeno, dottissimo letterato, ma non particolarmente ricco, riesce a mettere assieme una biblioteca di ventimila libri a stampa e seicento manoscritti, che diviene in qualche modo un modello per le altre in formazione. Essa comprendeva i classici greci e latini nelle migliori edizioni e possibilmente nelle più antiche, una collezione delle storie particolari delle città d'Italia, i migliori autori italiani in edizioni rare, circa trecento volumi di opuscoli rilegati, oltre a settecento commedie e ottocento drammi per musica. L'interesse si volge con lui ai monumenti dell'arte tipografica e ai "testi di lingua", le opere della storia letteraria italiana (127). Sarà questo l'oggetto di molte raccolte, come quelle dei Mocenigo a S. Stae e degli Zeno ai Gesuiti (128). Quella del letterato Anton Federico Seghezzi (morto nel 1743) fu venduta da Simone Occhi: comprendeva milleseicentoottantasette volumi, molti relativi alla storia letteraria d'Italia (129). Quella del balì Tommaso Giuseppe Farsetti comprendeva, oltre a trecentoottantasei manoscritti, centotrenta libri latini a stampa e circa duemila italiani, tutti o quasi vere rarità: i "testi di lingua" serviti per il vocabolario della Crusca, tutte le edizioni cominiane (dei Comino di Padova, molto apprezzate), una raccolta di commedie italiane e una di storie generali e particolari d'Italia (130). Quella di Francesco Pesaro, di duemilacentotrentanove volumi, comprendeva diciotto incunaboli, circa quattrocento cinquecentine, seicento libri latini, settecento italiani e quattrocento francesi, fra i quali le opere proibite già ricordate (131). Un asterisco nel catalogo a stampa segnala "le edizioni citate per testi di lingua nel Vocabolario degli Accademici della Crusca", in quanto particolarmente apprezzate dai collezionisti.
Altri invece coltivavano raccolte di manoscritti relativi alla storia patria, come i Gradenigo di S. Giustina o il doge Marco Foscarini, che peraltro possedeva anche tremilaquattrocentosettantacinque libri a stampa (132). Di grande qualità e rarità la raccolta del patrizio Giovanni Battista Recanati (133).
Fra tutte eccellono le biblioteche di un patrizio, di due cittadini e di due stranieri. La prima è quella di Giacomo Soranzo, che aveva accumulato nel palazzo di rio Marin circa quattromila manoscritti e ventimila libri a stampa. "Immenso tesoro di libri più ricercati" la dice Apostolo Zeno, che la frequentava: vi erano, fra i libri a stampa, tremila titoli francesi, fra cui numerosi proibiti, trecento spagnoli, cento olandesi. I più erano latini e italiani, fra cui duecentoventiquattro volumi di rari opuscoli eterodossi e millecentoquarantaquattro drammi per musica in centosessantasei volumi. Nel 1780 se ne pubblicò il catalogo per la vendita; l'anno dopo si fece un nuovo e più agile catalogo per le opere non vendute: in tutto dodicimilacinquecentonove titoli per sedicimilaottocentocinquantotto volumi, stimati complessivamente 134.399 lire, più di 20.000 ducati. Ben superiore era certo il valore dei manoscritti (134).
Un'offerta di 18.000 zecchini venne fatta al medico Giovanni Maria Paitoni per la sua magnifica biblioteca; ma egli la rifiutò, non volendo separarsi dai suoi libri. Secondo l'Andrés, che la visitò, la libreria del Paitoni era superiore a quella di Amedeo Svajer (135).
Magnifica la biblioteca di Maffio Pinelli, discendente dalla ben nota famiglia di stampatori ducali. Uomo dotto, fine bibliografo ("learned and intelligent bibliographer" lo definisce Edward Harwood, di cui aveva tradotto un'opera), conoscitore del francese e dell'inglese, oltreché del latino e del greco, possedeva seicento libri francesi, settantasette inglesi, centocinque incunaboli, fra cui i primi stampati in cinquantacinque città, e altri dodicimila libri rari italiani e latini. Il catalogo ragionato per la vendita fu predisposto dal Morelli, in sei volumi: nel 1788 il libraio londinese James Edwards acquistò l'intera raccolta per 6.000 sterline. Se ne fece poi una grande asta a Londra: nel catalogo, versione abbreviata del precedente, si prevedono sessanta tornate d'asta per dodicimilaottocentocinquantanove pezzi. Se ne ricavarono quasi 10.000 sterline (136).
Straordinaria anche la raccolta del console Smith: circa quindicimila edizioni rare di oltre tremila autori. Nel 1762 il console vendette tutte le sue raccolte, biblioteca compresa, al re Giorgio III, ricavandone la favolosa somma di 20.000 sterline; ma poi si mise subito all'opera per rifarsi un'altra libreria, e vi riuscì assai bene, se il catalogo stampato dopo la sua morte, nel 1771, include centodiciotto incunaboli e altri duemila libri, fra cui molte cinquecentine, libri d'arte e di numismatica, classici e molti testi dell'illuminismo (137).
Un altro straniero, Amedeo Svajer, console di Augusta, aveva raccolto una magnifica libreria "con assidue ricerche e con grande spesa", come recita il catalogo di vendita del 1794: tremila libri latini, cinquemila italiani, milleduecento francesi, oltre a millequattrocentodiciotto manoscritti, che vennero in parte acquistati dai Manin, in parte dalla Repubblica (138).
Tra le grandi raccolte dei due consoli e dei due cittadini e quella del senatore Soranzo vi era una diversità: contrariamente agli altri grandi collezionisti il Soranzo apriva la sua biblioteca al pubblico a ore fisse, adempiendo a una finalità mecenatesca che si attagliava alla sua condizione di eminente patrizio. La stessa cosa facevano i Pisani di S. Vidal, che l'aprivano regolarmente tre giorni alla settimana; anche quella del doge Pietro Grimani a S. Polo era "aperta a beneficio universale". Sul modello della biblioteca Pisani e con pari splendidezza i Manin, desiderosi di consolidare il proprio prestigio, costruirono la loro verso la metà del secolo. Una raccolta ampia e raffinata di libri, di estensione universale ed esibita in nobili ambienti appositamente attrezzati, era ormai elemento indispensabile per l'immagine pubblica di un grande casato (139). Purtroppo il mecenatismo dei Soranzo, dei Manin e dei Pisani non giunse al punto di indurli a beneficare in morte la Pubblica Libreria. Altri invece lo fecero: Tommaso Giuseppe Farsetti, Girolamo Ascanio Giustinian, e proprio nell'ultimo anno di vita della Repubblica l'ammiraglio Giacomo Nani, il cui lascito fu il più straordinario: circa mille manoscritti greci, alcuni di pregio grandissimo (140).
Anche se alcune grosse vendite depauperavano il tessuto connettivo delle biblioteche veneziane, la città continuava ad essere colma di libri; si è visto che in pochi anni lo Smith si era ricreato una nuova ricca libreria dopo la vendita della precedente, e molte altre andavano formandosi anche negli ultimi anni della Repubblica. Il commercio di libri era vivacissimo, vi si prestavano i maggiori librai, e la censura non frapponeva ostacolo alcuno: come si è detto, nei cataloghi a stampa figuravano tranquillamente opere non solo all'Indice, ma anche specificamente vietate dal governo come l'insultante scritto antiveneziano di Amelot de la Houssaie. Machiavelli è onnipresente, frequente il Sarpi, spesso presente anche lo sventurato ribelle Ferrante Pallavicino. Si sapeva che i divieti erano sola apparenza.
Le biblioteche private che un erudito aveva di fatto a disposizione erano dunque moltissime: a parte quelle aperte da alcuni patrizi a ore fisse, quasi tutti i proprietari a richiesta consentivano l'accesso (faceva strana eccezione Giacomo Collalto a S. Stin, che non ammetteva visitatori, anche se possedeva una raccolta immensa, di forse ottantamila e più volumi). Ma poi erano disponibili altre biblioteche, ancora più preziose e magnifiche di quelle private: le raccolte dei monasteri. Per molte istituzioni religiose la metà del Seicento aveva segnato un momento di eclissi; antiche raccolte si erano disperse, mancavano monaci eruditi e appassionati per mantenerle e incrementarle. Il processo si invertì verso la fine del secolo: in molti monasteri si rinnovarono i locali, si posero in opera mobili nuovi, si ricostituirono le collezioni. L'incremento nel secolo successivo fu ancora più cospicuo: monaci colti e capaci non solo sovrintesero a intelligenti acquisti, ma anche trasformarono i loro cenobi in veri centri di cultura (141).
Il primo posto spettava forse al monastero camaldolese di S. Michele: in quella "beata isola", "placidissimo luogo, quasi asilo di predilezione della dotta Minerva", si occupavano della biblioteca uomini come il Mittarelli, il Costadoni, il Calogerà, il Mandelli: i libri alla fine della Repubblica erano circa quarantamila, di cui almeno duemilatrecentocinquantadue manoscritti e milleduecentotré incunaboli. I chierici regolari Somaschi di S. Maria della Salute avevano circa trentamila libri, collocati in una biblioteca ricostruita all'inizio del secolo da padre Girolamo Zanchi. A S. Giorgio i libri erano circa ventimila; i Domenicani alle Zattere avevano ereditato nel 1750 la raccolta di Apostolo Zeno; tra i frati Minori Osservanti di S. Francesco della Vigna vi erano eruditi come fra Giovanni degli Agostini, di cui si conservavano le opere inedite nella biblioteca, che vantava molte opere preziose; i frati Minori Conventuali di S. Maria Gloriosa dei Frari avevano seimila libri legati in pergamena oltre a molti altri. In ogni istituzione religiosa vi era una biblioteca degna di nota: se ne contavano almeno ventisette alla caduta della Repubblica. In molte vi erano fondi antichi di grande importanza; quasi tutte aggiornavano le raccolte con acquisti opportuni; e quasi tutte erano aperte al pubblico uso. Vi erano libri anche presso molte parrocchie e alcune Scuole (o corporazioni).
Allo studioso si apriva infine la Pubblica Libreria, la Libreria di S. Marco (142): uscita dal torpore secentesco, l'animavano custodi intelligenti e capaci, come Anton Maria Zanetti e Jacopo Morelli, il primo conoscitore d'arte ma anche buon grecista, il secondo di erudizione più severa. Li assecondavano bibliotecari patrizi eletti dal senato fra i suoi membri più dotti e illustri: Lorenzo Tiepolo, Marco Foscarini, Alvise 4° Mocenigo, Girolamo Grimani, Zaccaria Valaresso, Girolamo Ascanio Giustinian, Francesco Pesaro. La chiusura che aveva caratterizzato il secolo precedente, in particolare nei confronti degli stranieri, è ormai un ricordo: per volontà del Tiepolo si pubblicano nel 1741-1742 i cataloghi a stampa delle raccolte manoscritte, che divengono così patrimonio comune della respublica litterarum. Anche l'apertura materiale viene assicurata in modo continuativo: non più a giorni alterni e con lunghi periodi di chiusura, ma tutti i giorni a orari fissi. E gli studiosi affluiscono in buon numero, anche stranieri, e non solo per una fuggevole occhiata come si consentiva in antico ma anche per lunghi lavori filologici: è il caso del Villoison, che pubblica gli scolii dell'Homerus Venetus A.
Anche le raccolte si arricchiscono, non solo in seguito a lasciti o doni, ma anche per acquisti, aventi oggetto opere della cultura contemporanea; senza tuttavia una aspirazione alla completezza, non solo per la materiale impossibilità ma anche perché, come spiega il Bettio, prima assistente del Morelli e poi suo successore, "non abbisognava nella Marciana grande estensione per la parte moderna, attese le numerose biblioteche delle corporazioni religiose, che stavano aperte ad uso pubblico, oltre le non poche dei cittadini, delle quali con facilità approfittar si poteva" (143). Idealmente tutte le biblioteche veneziane si integravano in un sistema armonioso, che consentiva ampie possibilità di studio e di lettura.
Molte di esse costituivano punti d'incontro per dotti e letterati; ma questa funzione era svolta soprattutto dalle botteghe del caffè e dai negozi dei librai. Alcuni di questi in particolare, come quelli di Albrizzi, Pasquali, Hertz, erano veri crocevia dello scambio intellettuale ed erudito. Non solo: i negozi dei librai servivano anche da luogo di lettura. Come nota Johann Caspar Goethe, molti frequentavano le botteghe più per studiare e per servirsi dei libri esposti che per comprare. "Non so se avessero o no comperato prima; sin tanto che io vi fui non vidi altro che leggere e discorrere. In queste librerie, sotto pretesto di comprare una bagatella può farsi conoscenza coi primi della città, i quali colmano lo straniero con tante e tante gentilezze" (144).
Il mondo di cui si è sinora trattato finì tragicamente negli anni della seconda dominazione francese, tra il 1806 e il 1813: le istituzioni religiose furono distrutte giuridicamente e spesso materialmente e le loro biblioteche disperse; le raccolte private furono nella quasi totalità svendute per far fronte alla spaventosa situazione economica in cui il governo francese aveva precipitato la città e i singoli cittadini. Tra le pochissime che si salvarono due furono trasformate dall'intelligenza dei proprietari in pubbliche istituzioni: quelle di Teodoro Correr e di Giovanni Querini. Qualche altra confluì nella Marciana, nel Civico Museo o nella Biblioteca del Seminario Patriarcale.
Venezia, ricca e animatissima capitale, era nel Settecento, come nei secoli precedenti, colma di opere d'arte e di oggetti preziosi d'ogni genere. Ovunque diffusi erano anzitutto i quadri: non vi era casa anche modesta che non ne conservasse più d'uno. Nelle case patrizie e cittadinesche essi si accumulavano da secoli a decine, spesso a centinaia, e la fioritura artistica della città accresceva le quadrerie di una continua produzione di nuovi capolavori. Se nelle case abbienti si ricoprivano di quadri o stampe tutte le pareti disponibili, il titolo di collezionista vero e proprio andrebbe riservato, come suggerisce il Pomian, a colui che radunava tavole e tele secondo un proprio progetto, attrezzando all'uopo uno studio, una galleria, un portico (145); e siffatti personaggi erano numerosi. Le dimensioni delle quadrerie dei collezionisti erano imponenti: Zorzi (Giorgio) Bergonzi aveva nel 1709 cinquecentocinquantasei quadri, Alessandro Savorgnan più di mille alla fine del Seicento, Andrea Bragadin, nel 1705, possedeva millediciannove fra dipinti e disegni (146). I patrizi di recente aggregazione gareggiavano nella committenza artistica e negli acquisti d'arte, anche per consolidare il prestigio sociale acquisito: famose le raccolte dei Grassi, che prediligevano i pittori del passato (147), dei Giovanelli, dei Labia, dei Widmann, degli Zenobio, dei Manin; ma anche i patrizi di antiche casate arricchivano i loro palazzi con tele di artisti contemporanei, come i Dolfin, grandi committenti del Tiepolo. Dalle grandi famiglie, come i Sagredo a S. Sofia, i Grimani ai Servi, i Mocenigo a S. Samuele, i Barbarigo a S. Maria Zobenigo, il Tiepolo riceveva commissioni di grandi opere per celebrare le glorie del casato; per le stesse Pietro Longhi eseguiva squisite scene di vita familiare ad ornare camere e mezzà. Anche in campo artistico la distinzione fra la nobiltà più ricca e potente e quella meno facoltosa operava i suoi effetti: "quarantioti" e "barnaboti", di pochi o nulli mezzi, poco acquistavano sul mercato dell'arte; e se mai prediligevano per mentalità conservatrice opere di impianto tradizionalista, raffiguranti "historie" o immagini devozionali (148).
Nei primi anni del secolo godevano fama europea le raccolte di Zaccaria Sagredo, che nel palazzo di S. Sofia accumulava quadri di artisti antichi e contemporanei, stampe, disegni (famosi quelli del Castiglione), sculture classiche, armature (149). Verso la fine del Settecento, Girolamo Manfrin, un dalmata di umili origini che aveva accumulato un'enorme fortuna gestendo il monopolio del tabacco, riunì una raccolta di quattrocento quadri di varia epoca, alcuni dei quali di eccezionale qualità, come la Tempesta di Giorgione (150). Anche quei patrizi che non si dedicavano agli acquisti d'arte possedevano, per effetto della secolare stratificazione, raccolte imponenti: Alvise 4° Mocenigo, ad esempio, aveva nel 1759 quattrocentotrenta dipinti, in gran parte ereditati (151).
Particolare interesse, per la concezione che stava alla base della raccolta, quella di padre Lodoli, che aveva riunito opere pittoriche di varie epoche ordinandole secondo un criterio storico (152); incominciava a delinearsi la storia dell'arte come disciplina, secondo criteri che verranno a maturazione nel secondo Settecento ad opera di Anton Maria Zanetti di Alessandro. Di grande importanza per l'evoluzione del gusto e della cultura artistica erano le raccolte degli amatori, dei connoisseurs: nella prima metà del secolo eccelleva Anton Maria Zanetti di Girolamo, cugino assai più anziano del precedente. Figura di respiro europeo, legato ai grandi collezionisti francesi Mariette e Crozat, lo Zanetti acquistava opere di Sebastiano e Marco Ricci, dello Zuccarelli, di Rosalba Carriera e possedeva una straordinaria raccolta di stampe (Rembrandt, Callot) e di disegni (153).
Un altro grande conoscitore, di qualche anno più giovine, Francesco Algarotti, di casa presso le corti europee, raccoglieva e raccomandava ai suoi regali amici (il re di Prussia, l'elettore di Sassonia) gli artisti contemporanei, a cominciare dal Tiepolo (154). Raffinato amatore era Maffio Pinelli, proprietario della ricchissima biblioteca di cui si è detto: possedeva anche una cinquantina di opere di grandi artisti contemporanei (155).
Anche gli stranieri profittavano delle possibilità offerte dalla creatività degli artisti veneziani e dalla vivacità del mercato (peraltro organizzato ancora tradizionalmente: non grandi aste come all'estero, ma trattative private) per costituire magnifiche raccolte: celebre fra tutte quella del console Smith, che si è più volte incontrato. La sua grande vendita del 1762 al re d'Inghilterra, che includeva anche, come si è accennato, la biblioteca, comprendeva cinquantaquattro Canaletto, quarantadue Marco Ricci, trentotto Rosalba Carriera, trentasei Zuccarelli, ventotto Sebastiano Ricci, nove Giuseppe Nogari, sei Carlevariis, quattro Pietro Longhi (156). Magnifica anche la raccolta del maresciallo Schulenburg, costituita nel 1747 da novecentocinquantasette pezzi: opere antiche (Tiziano, Lotto, Rubens) e contemporanee (Piazzetta, Marco Ricci, Pittoni, Giovanni Antonio Guardi); vi erano molte opere di soggetto storico, centonovantanove ritratti, centoventi paesaggi e cinquanta nature morte, scelta questa assai rara a Venezia (Alvise 4° Mocenigo, ad esempio, ne aveva appena quattro, Zaccaria Sagredo una soltanto) (157). Notevoli raccolte, anche se assai minori, appartenevano a John Murray, cognato dello Smith, a John Udney, successore dello Smith nella carica di console inglese, al console tedesco Sigismund Streit (158).
Ma, com'è ovvio, la maggioranza dei raccoglitori era veneziana: i collezionisti di quadri, nella seconda metà del secolo, erano almeno una cinquantina (159). Numerosi anche i raccoglitori di stampe: il Moschini ne ricorda dodici di primaria importanza, ma ve n'erano certo molti di più (160).
Nella seconda metà del Seicento e nei primi decenni del Settecento numerosissime erano le raccolte di monete e medaglie antiche (161). Nel 1683 Charles Patin elenca diciannove grandi collezioni, di cui tredici patrizie, quasi tutte ancora sussistenti nel secolo successivo. Altre sorgono nel Settecento: alcune patrizie e altre di dotti cittadini, come Onorio Arrigoni, Lorenzo Patarol, Apostolo Zeno. Eccezionali fra quelle patrizie le raccolte dei Soderini, dei Tiepolo, dei Morosini.
In declino invece le raccolte di statue: la maggiore del Seicento, quella dei Ruzzini, era stata ceduta prima del 1680 a casa Gonzaga, ma venne in parte ricomperata nel 1709 da Bernardo e Francesco Trevisan, due eruditi patrizi la cui raccolta è la maggiore, nel campo dei marmi, del primo Settecento. Sussistevano ancora le antiche raccolte dei Grimani di S. Maria Formosa e dei Contarini di S. Samuele: la prima si arricchì con vari pezzi provenienti dai Grimani Calergi, la seconda passò nel 1713 alla Pubblica Libreria. Alcuni rari pezzi erano conservati da Antonio Cappello alla Pietà. Nella seconda metà del secolo Giacomo Nani, valente ammiraglio e uomo di fine cultura e gusto, accumulò nel palazzo di S. Trovaso una grande raccolta di marmi greci, che divenne la maggiore della città.
In un clima che già anticipava il neoclassico, il patrizio Filippo Vincenzo Farsetti, splendido mecenate, faceva eseguire duecentocinquantatré calchi in gesso di marmi antichi e li metteva a disposizione dei giovani artisti, nel suo palazzo, "per attingervi le sicure norme di un bello, che viverà quanto i secoli" (162). Anche la raccolta di Angelo Querini ad Altichiero rispondeva ad uno scopo altamente didattico: stampe, carte, ritratti, statue antiche, vasi, tutto era ordinato secondo un complesso simbolismo forse d'ispirazione massonica, al fine di trasmettere una visione morale e un insieme di conoscenze atte ad avviare l'uomo sulla via della felicità (163). Girolamo Zulian, ambasciatore a Roma e poi bailo a Costantinopoli dal 1784 al 1788, amico di Canova, raccoglieva vasi di ambiente italiota ed etrusco, urne, cammei (famoso quello di Giove Egioco), con gusto raffinato e spirito ormai pienamente neoclassico (164).
Unica per l'originalità del suo contenuto la raccolta del patrizio Antonio Cappello, che racchiudeva non solo gemme, monete, medaglie, codici arabi, ebraici, greci, marmi antichi, una lamina romana di bronzo con molti nomi di consoli, urne lacrimatorie, lucerne sacrali, strumenti per sacrifici, ma anche una collezione di rarissime gemme scolpite: i basilidiani o abraxas, pietre incise con i misteriosi simboli della setta gnostica di Basilide, cui si aggiungevano vari talismani e amuleti. Il simbolismo di questi oggetti affascinava evidentemente il colto patrizio, che ne aveva riuniti ben duecentosettantadue; di essi soltanto e non degli altri oggetti della collezione egli pubblicò una descrizione a stampa nel 1702. Dopo la sua morte (1729), la raccolta venne in parte venduta; ma ne restarono cospicui frammenti sino al 1807 (165).
Fonte primaria per le antichità era il Levante. Giannantonio Soderini raccolse una quantità di oggetti nel corso dei suoi viaggi in Egitto, Terrasanta, Turchia e nelle isole greche. Marc'Antonio Diedo, provveditore generale da mar, con residenza a Corfù, tornò dalla missione, nel 1731, carico di monete, statue, iscrizioni, urne e "cent'altre rarità". Altrettanto fecero Girolamo Zulian e Giacomo Nani nel tardo Settecento (166). Ma sin dal Quattrocento non c'era quasi nave proveniente dal Levante che non recasse qualche tesoro appena scavato, in particolare monete.
Accanto alle medaglie, molte famiglie conservavano iscrizioni antiche. Il cardinale Angelo Maria Querini possedeva rari cimeli, fra cui un famoso dittico in avorio, la cui autenticità fu, a torto, messa in dubbio dal Maffei, innescando una lunga e acre polemica. Magnifiche raccolte di gemme incise di età antica vennero riunite da Anton Maria Zanetti di Girolamo e dal console Smith (167).
Si ridestava attorno al 1730, in coincidenza con gli studi muratoriani, l'interesse per il Medio Evo (168): Apostolo Zeno cominciò a collezionare antiche monete veneziane; Domenico Pasqualigo riunì una raccolta analoga, comprendente anche monete medioevali dei patriarchi di Aquileia, di Carlo Magno, di Rodolfo di Borgogna, e la lasciò nel 1746 alla Repubblica; Maffio Pinelli possedeva milleseicentosessantanove monete veneziane, di cui duecentoventuno in oro. Il Pinelli aveva inoltre "una serie di medaglie d'uomini illustri veneziani e d'altre appartenenti alla Repubblica di Venezia" (trecento-cinquantasei pezzi) e un'altra di millesettecentocinquanta pezzi relativi a uomini illustri d'altra nazione; il suo gusto storicistico si manifestava anche in una galleria di centosessantotto ritratti di dogi e dogaresse, dipinti da Francesco Maggiotto. Pietro Gradenigo e i nipoti Giacomo e Giovanni Agostino del ramo di S. Giustina avevano una raccolta di rare monete aquileiesi e veneziane.
Le collezioni di monete cominciarono a declinare verso la metà del secolo, in armonia con quanto avveniva a Parigi; qui divenivano di gran moda le raccolte di curiosità naturali, rispondenti alla visione del mondo dei philosophes più delle collezioni erudite (169). Anche a Venezia vi erano da tempo collezioni naturalistiche: nel Cinquecento era famosa quella di Marc'Antonio Michiel, nel Seicento quella di Niccolò Morosini, nel primo Settecento quelle di Giovan Battista Nani alla Giudecca e di Giovan Francesco Morosini a S. Canciano. Lorenzo Patarol († 1727), di famiglia cittadinesca, piantò un magnifico orto botanico alla Madonna dell'Orto, che il suo erede, Francesco Rizzo-Patarol, curò con amore, riordinando le piante non più secondo i criteri di Tournefort, ma secondo quelli di Linneo. Il patrizio Filippo Farsetti costituì il più ricco degli orti botanici veneti nella sua villa di S. Maria di Sala, costruita con immensa spesa dall'architetto Paolo Posi, secondo le sue direttive.
In ogni campo le raccolte veneziane riflettevano il pieno inserimento della cultura veneziana nella civiltà europea e il ruolo di grande capitale che la città svolgeva, partecipando e contribuendo all'evoluzione dell'arte, del gusto e della vita intellettuale: Venezia nel Settecento era uno dei centri propulsivi della cultura occidentale. Poi venne la perdita dell'indipendenza e qualche anno dopo, cessato il momento di immobile attesa della prima dominazione austriaca, il ritorno della rapace e devastatrice dittatura francese, che determinò la completa rovina della città. Le collezioni furono vendute nella loro totalità per la disperata situazione economica dei loro proprietari; i palazzi vennero spogliati o distrutti; i giardini sparirono. Venezia, non più capitale, divenne la città spettrale, simbolo universale della morte e della distruzione, la meta degli spiriti romantici d'ogni paese in cerca dei segni della fine e della corruzione d'ogni cosa: non più la vivace metropoli ove principi e viaggiatori venivano a cercare bellezza e divertimento, ove i letterati d'ogni dove s'incontravano nei caffè e nei negozi dei librai, ove si gustava appieno la joie de vivre propria dell'Ancien Régime, non solo negli aspetti frivoli della festa e del gioco, ma anche in quelli seri del godimento delle opere d'arte, dell'apprezzamento degli oggetti rari e preziosi, dello scambio intellettuale.
Accanto alle collezioni private vi erano poi quelle pubbliche (170). Ai quadri del palazzo Ducale e degli altri edifici pubblici di S. Marco e Rialto soprintendevano i provveditori al sal, coadiuvati a partire dal 1689 da un esperto, col titolo di "deputato alla custodia delle pubbliche pitture". Il primo a ricoprire la carica, istituita nel 1686, fu il pittore Giovanni Battista Rossi, cui succedette, nel 1704, sino al 1724, Vincenzo Cecchi. Morto il Cecchi, la custodia venne affidata al collegio dei pittori, da cui vennero promossi vari restauri. Nel 1777 Pietro Edwards, presidente del collegio dei pittori, propose un piano per il restauro di tutti i dipinti di proprietà dello stato, prevedendo altresì l'istituzione all'uopo di un laboratorio pubblico nel convento dei SS. Giovanni e Paolo. Il piano venne accolto dal senato, che nominò l'Edwards "ispettore al restauro generale delle pubbliche pitture". In sei anni il laboratorio restaurò quattrocentocinque quadri e continuò a funzionare fino alla caduta della Repubblica.
Lo stato possedeva anche una raccolta di statue antiche (171): quelle donate da Domenico e Giovanni Grimani, da Federico Contarini, da Alvise Mocenigo, da Giacomo Contarini e alla fine del secolo da Girolamo Zulian, costituenti il Pubblico Statuario, custodito nell'antisala o vestibolo della Libreria di S. Marco. Si trattava di circa duecento pezzi, molti dei quali greci e di grande pregio, cui si aggiungevano monete e medaglie, cammei (come quelli incastonati nel magnifico studiolo donato da Giovanni Grimani), iscrizioni e oggetti antichi di vario tipo. La raccolta era affidata al bibliotecario patrizio e al custode della Libreria di S. Marco.
Vi erano poi le raccolte degli enti religiosi. Le chiese e altresì i monasteri e i conventi si erano arricchiti nei secoli di tesori immensi: le opere d'arte appartenevano alle istituzioni religiose, ma allo stato spettava un potere di sorveglianza e di tutela, ad evitare soprattutto alienazioni non autorizzate (172). Una di tali vendite, tentata nel 1773 dalle monache di S. Maria Maggiore, offrì ad Anton Maria Zanetti, custode della Libreria di S. Marco e storico dell'arte, lo spunto per proporre una legislazione organica di tutela. Bisognava fare "un esatto catalogo o inventario di tutte le pitture esistenti" nelle collezioni veneziane che fossero "degne singolarmente di pubblica tutela": le opere incluse nell'elenco non avrebbero dovuto essere oggetto "di asporto o vendita arbitraria"; anche per i restauri necessari si sarebbe dovuta ottenere una licenza, "previa l'ispezione e la relazione di approvato conoscitore". Gli inquisitori di stato inoltrarono sollecitamente le proposte al consiglio dei dieci con relazione favorevole; seguì poco dopo l'approvazione. Lo Zanetti venne nominato "ispettore generale delle pubbliche pitture" e si applicò alla redazione dell'elenco; in base ad esso già nel 1774 Si provvide a notificare ai proprietari gli elenchi dei quadri oggetto della pubblica tutela. Analoghe cure venivano dedicate anche alle pubbliche pitture della Terraferma. Venezia mostrava così una sollecitudine per il patrimonio artistico dello stato che trovava ben pochi riscontri in altri paesi. Purtroppo tanti sforzi furono vanificati dalla caduta della Repubblica; già nel 1797 si ebbero le prime asportazioni dalle raccolte pubbliche e da quelle religiose. Quando poi i Francesi tornarono trionfanti a Venezia nel 1806 le soppressioni di monasteri e conventi e delle chiese annesse determinarono la devastazione e la scomparsa di moltissime raccolte religiose; un immenso patrimonio venne disperso e in parte distrutto.
Altrettanto accadde come si è detto per le raccolte private. Pochissime sopravvissero; una fra le superstiti ebbe particolare importanza in quanto crebbe sino a costituire il museo della città: quella del patrizio Teodoro Correr. Essa si ingrandì a dismisura grazie all'intelligenza e all'amor patrio del Correr, che dopo il 1806 comperò tutto ciò che poteva pur di salvare il salvabile nel generale disastro, privilegiando - tra l'incomprensione dei contemporanei - non già, o non solo, oggetti belli e rari, ma ciò che meglio giovava a trasmettere ai posteri la memoria della cessata Repubblica. Ciò che gli interessava soprattutto era il valore storico e documentario degli oggetti; il suo scopo, salvare per quanto possibile le reliquie del passato della patria (173).
Pur con mezzi limitati egli poté costituire una collezione imponente, approfittando, ma per un nobile fine, del disfacimento delle raccolte patrizie. A lui e a pochi altri, come Girolamo Ascanio Molin, i Querini e i Contarini degli Scrigni, il cavaliere Giovanni Rossi, l'erudito Emmanuele Antonio Cicogna, si deve la conservazione della memoria storica della città e dello stato, che rischiava di perdersi del tutto. A lui, e ai pochi che riuscirono a impedire la completa distruzione di ciò che gli avi avevano creato e raccolto, spetta la profonda gratitudine dei Veneziani.
1. Mario Infelise, L'editoria veneziana nel '700, Milano 1989, pp. 11-12.
2. Sulla situazione dell'azienda dei Plantin-Moretus nel primo Settecento, Leon Voet, The Golden Compasses, I, Amsterdam 1969, pp. 241-245. Per il commercio con la Spagna, Jan Materné, La librairie de la Contre-Réforme: le réseau de l'ocine plantinienne au XVIIe siècle, in AA.VV., L'Europe et le livre, Langres 1996, pp. 43-59. Sulla decadenza lionese, Jacqueline Roubert, La situation de l'imprimérie lyonnaise à la fin du XVIIe siècle, in AA.VV., Cinq études lyonnaises, Genève 1966, pp. 77-99 (a p. 98 la lucida relazione dell'intendente Lambert d'Herbigny, del 1697).
3. M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 13-20.
4. Giuseppe Bellini, Storia della Tipografia del Seminario di Padova, 1684-1938, Padova 1938, pp. 119-134, cf. Michela L. Spanio, Due protagonisti del commercio librario del XVIII secolo, amici del Muratori: Giovanni e Marcantonio Manfré, in AA.VV., L.A. Muratori e la cultura contemporanea. Atti del Convegno Internazionale di Studi Muratoriani. Modena 1972, I, Firenze 1975, pp. 167-178.
5. A.S.V., Riformatori dello Studio di Padova, filza 390; M. Infelise, L'editoria veneziana, p. 49.
6. "Giornale de' Letterati d'Italia", 34, 1723, p. 526.
7. A.S.V., Riformatori dello Studio di Padova, filza 370.
8. "Giornale de' Letterati d'Italia", 38, 1727, pt. I.
9. Antonella Barzazi, Enciclopedismo e ordini religiosi tra Sei e Settecento: la "Biblioteca Universale" di Vincenzo Coronelli, "Studi Settecenteschi", 16, 1996, pp. 61-83. Sino al 1705 la stampa della Biblioteca fu curata da Antonio Tivani, poi da Giambattista Tramontin. Delle enciclopedie di divulgazione scientifica, tra cui quella del Coronelli, del Chambers e del Pivati, tratta Alfredo Serrai, Storia della bibliografia, VIII, Sistemi e tassonomie, Roma 1997, pp. 299-504.
10. Da Carlevariis ai Tiepolo. Incisori veneti e friulani del Settecento, catalogo della mostra, a cura di Dario Succi, Venezia 1983, p. 114.
11. Piero Falchetta, Il "Teatro" di Francesco Zucchi fra arte e divulgazione (introduzione alla ristampa dell'opera), Venezia 1992, p. 6.
12. Rodolfo Gallo, L'incisione del '7oo a Venezia e a Bassano, Venezia 1941, p. 5; Gino Benzoni, Venezia all'inizio del Settecento, in AA.VV., Venezia 1717-Venezia 1993. Immagini a confronto, Venezia 1993, pp. 15-21, Alessia Bonannini, Dall'ideazione alla realizzazione: note sulla raccolta di Domenico Lovisa, ibid., pp. 23-28; Maria Agnese Chiari Moretto Wiel, Le grandi pitture pubbliche veneziane nella visione di Domenico Looisa, ibid., pp. 29-36.
13. Così lo stampatore Stefano Orlandini, citato da Giuseppe Morazzoni, Il libro illustrato veneziano del Settecento, Milano 1953, p. 57. L'opera del Palladio è recensita nel "Giornale de' Letterati d'Italia", 6, 1711.
14. "Giornale de' Letterati d'Italia", 38, 1727, pt. I.
15. La raccolta è descritta con cura da Emmanuele Antonio Cicogna in un appunto manoscritto conservato a Venezia, Museo Correr, anteposto ad un suo esemplare della ristampa del 1761 (segnatura: vol. A 23), pubblicato da Susy Marcon in calce alla sua introduzione alla ristampa dell'opera (per cui v. oltre, n. 68).
16. A.S.V., Riformatori dello Studio di Padova, filza 370.
17. Il decreto del senato del 21 maggio 1603 è trascritto da Horatio Brown, The Venetian Printing Press, London 1891, pp. 218-221. Peri torchi attivi nel 1735, M. Infelise, L'editoria veneziana, p. 49.
18. A.S.V., Riformatori dello Studio di Padova, filza 370.
19. Per la dipendenza della cultura italiana da quella francese v. Françoise Waquet, Le modèle franfais et l'Italie savante: conscience de soi et perception de l'autre dans la République des lettres (1660-1750), Rome 1989, pp. 63-167.
20. "Giornale de' Letterati d'Italia", 21, 1715.
21. Ibid., 28, 1717.
22. Ibid., 7, 1711.
23. Gino Benzom, Corner, Vincenzo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, pp. 262-267.
24. Cesare De Michelis, Letterati e lettori nel Settecento veneziano, Firenze 1989, p. 41.
25. Lo Zannichelli era personalità di rilievo in campo scientifico: cf. Krzysztof Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi. Parigi-Venezia, XVI-XVIII secolo, Milano 1989, p. 288.
26. "Giornale de' Letterati d'Italia", 37, 1726, p. 540. Sui libretti d'opera v. Irene Alm, Catalog of Venetian Librettos at the University of California, Los Angeles 1993.
27. Maddalena Lanaro, Accademie ed editoria: l'attività degli Albrizzi a Venezia, in AA.VV., Accademie e cultura. Aspetti storici tra Sei e Settecento, Firenze 1979, pp. 227-272.
28. Lino Moretti, Giambattista Albrizzi, amico di Giambattista Piazzetta, e gli "Studi di Pittura", in G.B. Piazzetta. Disegni, incisioni, libri, manoscritti, catalogo della mostra, Venezia 1983, pp. 79-82.
29. Carlo Ossola, Piazzetta e la "Gerusalemme liberata", ibid., pp. 67-69; La ragione e l'arte. Torquato Tasso e la Repubblica Veneta, a cura di Giovanni Da Pozzo, Venezia 1995, pp. 206-208.
30. Sul console Smith v. Frances Vivian, Il console Smith mercante e collezionista, Vicenza 1971. Sui rapporti col Pasquali getta nuova luce Federico Montecuccoli degli Erri, Il console Smith. Notizie e documenti, "Ateneo Veneto", 182, 1995, pp. 122-131 (pp. 111-181). Le edizioni di G.B. Pasquali sono descritte da Monica Donaggio, Per il catalogo dei testi stampati da Giovanni Battista Pasquali (1735-1784), in Problemi di critica goldoniana, a cura di Giorgio Padoan, II, Ravenna 1995, pp. 9-100.
31. Da Carlevariis ai Tiepolo, pp. 235, 144; Leslie Hennessey, Notes on the Formation of Giuseppe Wagner's "Bella Maniera" and his Venetian Printshop, "Ateneo Veneto", n. ser., 28, 1990, pp. 211-228.
32. G. Morazzoni, Il libro illustrato, pp. 77-104.
33. Marilyn Perry, The Statuario Publico of the Venetian Republic, "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 8, 1972, pp. 114-116 (pp. 75-253); Irene Favaretto, Arte antica e cultura antiquaria nelle collezioni venete al tempo della Serenissima, Roma 1990, p. 204.
34. Mario Infelise, Enciclopedie e pubblico a Venezia a metà Settecento: G.F. Pivati e i suoi dizionari, "Studi Settecenteschi", 16, 1996, pp. 161-190. Cenni biografici sul Pivati in Silvano Garofalo, L'enciclopedismo italiano: Gianfrancesco Pivati, Ravenna 1980 (pp. 30-34 per il Nuoro dizionario).
35. M. Infelise, Enciclopedie e pubblico.
36. Franco Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, 1758-1774, Torino 1976, pp. 106-107.
37. G. Bellini, Storia della Tipografia del Seminario, p. 114; M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 132-144. Su Hertz v. anche Brendan Dooley, Science, Politics and Society in Eighteenth-Century Italy. The "Giornale de' Letterati d'Italia" and Its World, New York-London 1991, pp. 50-54.
38. M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 144-183.
39. "Giornale de' Letterati d'Italia", 34, 1723, p. 541.
40. A.S.V., Riformatori dello Studio di Padova, filza 365. L'Albertini ricorre ai riformatori contro il Ragozza per il ritardo con cui procede nella stampa.
41. Udine, Archivio di Stato, Archivio Manin, b. 17 (Processo: il N.H. Lodovico Manin e i fratelli Albrizzi contro i NN.HH. Francesco e fratelli Foscari). Ringrazio vivamente Dorit Raines che mi ha segnalato la busta.
42. Valentino Romani, "Opere per società" nel Settecento italiano. Con un saggio di liste dei sottoscrittori (1729-1767), Manziana 1992, pp. III-XXXIX; Franmise Waquet, Les publications par souscription dans l'Italie du "primo Settecento", in Produzione e commercio della carta e del libro. Secc. XIII-XVIII, a cura di Simonetta Cavaciocchi, Firenze 1992, pp. 955-965. Utili osservazioni anche in Federico Montecuccoli Degli Erri, Analisi di un libro veneziano del '700. "Gli Studi di pittura" di Giambattista Piazzetta, "Saggi e Memorie di Storia dell'Arte", 18, 1992, pp. 130-132 (pp. 123-150).
43. Ne dà notizia il "Giornale de' Letterati d'Italia", 34, 1723, pp. 544-547; cf. V. Romani, "Opere per società", p. XXIV. Sugli Zucchi, v. R. Gallo, L'incisione del '700 a Venezia e a Bassano, p. 9.
44. Giulio Lorenzetti, Un dilettante incisore veneziano del XVIII secolo. Anton Maria Zanetti di Girolamo, Venezia 1917, p. 135.
45. Ne dà notizia il "Giornale de' Letterati d'Italia", 38, 1727, pt. I.
46. Udine, Archivio di Stato, Archivio Manin, b. 17.
47. Lettera di Anton Maria Zanetti di Girolamo del 25 marzo 1747, in Fabia Borroni, I due Anton Maria Zanetti, "Amor di Libro", 3, 1955, pp. 195-208. Sulle dediche v. Marco Paoli, L'autore e l'editoria italiana del Settecento, pt. II, Un efficace strumento di autofinanziamento: la dedica, "Rara Volumina", 1, 1996, pp. 71-102.
48. A. Barzazi, Enciclopedismo, p. 64.
49. M. Lanaro, Accademie ed editoria, pp. 243-270.
50. M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 41-45. Il decreto del 15 gennaio 1725 M.V. è in H. Brown, The Venetian Printing Press, pp. 274-278.
51. M. Infelise, L'editoria veneziana, p. 304.
52. Paolo Preto, I servizi segreti di Venezia, Milano 1994, pp. 526-527.
53. Alfredo Cioni, Bettinelli, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, IX, Roma 1967, pp. 735-737; M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 141-142 e ad indicem; Ivo Mattozzi, Carlo Goldoni e la professione di scrittore, "Studi e Problemi di Critica Testuale", 4, aprile 1972, pp. 95-153; Anna Scannapieco, Giuseppe Bettinelli editore di Goldoni, in Problemi di critica goldoniana, a cura di Giorgio Padoan, I, Ravenna 1994, pp. 63-188; Ead., Ancora a proposito di Giuseppe Bettinelli editore di Goldoni, ibid., II, Ravenna 1995, pp. 281-292; Ead., Io non soglio scrivere per le stampe...: genesi e prima configurazione della prassi editoriale goldoniana, "Quaderni Veneti", 20, dicembre 1994, pp. 119-186.
54. M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 167-170.
55. Ibid., pp. 278-279.
56. Sulla grande casa bassanese v. Mario Infelise, I Remondini di Bassano, Bassano 1980; Id., I Remondini. Stampa e industria nel Veneto del Settecento, Bassano 1990; Remondini. Un editore del Settecento, catalogo della mostra, a cura di Mario Infelise-Paola Marini, Milano 1990. Il catalogo delle incisioni remondiniane è dato da Carlo Alberto Zotti Minnici, Le stampe popolari di Remondini, Vicenza 1994 (con presentazione di Giordana Mariani Canova). Per la situazione della stampa nel secondo Settecento ci siamo basati soprattutto sull'illuminante studio di Marino Berengo, La crisi dell'arte della stampa veneziana alla fine del XVIII secolo, in AA.VV., Studi in onore di Armando Sapori, II, Milano 1957, pp. 1319-1338, nonché su M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 275-386.
57. Giovanni Scarabello, La soppressione della Compagnia di Gesù nelle relazioni degli ambasciatori veneti, in I Gesuiti e Venezia, a cura di Mario Zanardi, Padova 1994, pp. 435-446.
58. Gasparo Gozzi, Stato attuale dell'arte degli stampatori e librai nello Stato veneto dopo la metà del secolo XVIII, in Id., Scritti con giunta d'inediti e rari, a cura di Niccolò Tommaseo, II, Firenze 1849, p. 400; cf. M. Berengo, La crisi, p. 1333.
59. L'espressione è di Antonio Prata, in A.S.V., Riformatori dello Studio di Padova, filza 369 (relazione 12 settembre 1789); cf. M. Infelise, L'editoria veneziana, p. 334.
60. M. Berengo, La crisi, p. 1325.
61. Mario Infelise, Gesuiti e giurisdizionalisti nella pubblicistica veneziana di metà '700, in I Gesuiti e Venezia, a cura di Mario Zanardi, Padova 1994, pp. 663-686.
62. M. Infelise, L'editoria veneziana, p. 159.
63. Sul Griselini v. Franco Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, 1761-1797, Torino 1990, pp. 51-63.
64. M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 368-378. Per l'edizione dell'opera del Beccaria cui aderirono cinquecentonove associati (patrizi, nobili di Terraferma, futuri municipalisti, ecc.) v. Gianfranco Torcellan, Settecento veneto e altri scritti storici, Torino 1969, pp. 229-233.
65. Gilberto Pizzamiglio, Introduzione a Zaccaria Seriman, I viaggi di Enrico Wanton, Milano 1977, pp. 5-25.
66. Gilberto Pizzaiviiglio, La letteratura d'intrattenimento nell'editoria veneziana del '700, in L'editoria del '700 e i Remondini, atti del convegno, a cura di Mario Infelise - Paola Marini, Bassano 1992, pp. 83-95.
67. F. Montecuccioli degli Erri, Il console Smith, pp. 127-131.
68. L'opera, intitolata L'Augusta Ducale Basilica dell'evangelista San Marco nell'inclita dominante di Venezia, in Venezia, presso Antonio Zatta, 1761, è stata ristampata (Venezia 1991) a cura di Marino Zorzi - Susy Marcon.
69. G. Morazzoni, Il libro illustrato, p. 142.
70. M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 360-367; G. Bellini, Storia della Tipografia del Seminario, pp. 153-175 Piero Del Negro, Due progetti enciclopedici nel Veneto del tardo Settecento: dal patrizio Matteo Dandolo all'abate Giovanni Coi, "Studi Settecenteschi", 16, 1996, pp. 289-321.
71. M. Berengo, La crisi, p. 1334.
72. Sulla diffusione della History ofAmerica del Robertson v. Piero Del Negro, Il mito americano nella Venezia del Settecento, Roma 1975 (Atti dell'Accademia Nazionale dei Lincei, Memorie, ser. VIII, 18, fasc. 6), p. 507 (pp. 448-656) (ripubblicato Padova 1986).
73. Sulla stampa in greco, M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 262-270; Despina Vlassi Sponza, I greci a Venezia: una presenza costante nell'editoria (sec. XV-XX), in Armeni, ebrei, greci stampatori a Venezia, a cura di Scilla Abbiati, Venezia 1989, pp. 71-99.
74. Su Pano Maruzzi, Franco Venturi, Settecento riformatore, III, La prima crisi dell'Antico Regime, 1768-1776, Torino 1979, pp. 5-73.
75. Sulla stampa in armeno M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 170-171; Baykar Sivazliyan, Venezia per l'Oriente: la nascita del libro armeno, in Armeni, ebrei, greci stampatori a Venezia, a cura di Scilla Abbiati, Venezia 1989, p. 35 (pp. 23-48). Su quella in ebraico, Pier Cesare Ioly Zorattini, Gli ebrei nel Veneto durante il Settecento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, p. 472 (pp. 459-486).
76. Bianca Maria Antoliní, Editori, copisti, commercio della musica in Italia: 1770-1800, "Studi Musicali", 18, 989, pp. 287-296 (pp. 274-301); Sylvie Mamy, La musique à Venise et l'imaginaire franrais des Lumières, Paris 1996, pp. 136-167.
77. Sui periodici veneziani rimane fondamentale lo studio di Marino Berengo, che introduce l'antologia Giornali veneziani del Settecento, a cura dello stesso, Milano 1962, pp. IX-LXIV. Inoltre: Piero Del Negro, I periodici italiani dell'Antico Regime della Biblioteca Civica di Padova, "Bollettino del Museo Civico di Padova", 74, 1985, pp. 194-195; Id., I periodici italiani dell'Antico Regime della Biblioteca Comunale di Treviso, "Atti e Memorie dell'Ateneo di Treviso", a.a. 1989-1990, nr. 7, pp. 89-102. Rosanna Saccardo, La stampa periodica veneziana fino alla caduta della Repubblica, Padova 1942, elenca una cinquantina di periodici; ma Tiziana Plebani, Gli almanacchi veneti del Settecento, in L'editoria del '700 e i Remondini, atti del convegno, a cura di Mario Infelise - Paola Marini, Bassano 1992, p. 215 (pp. 207-220), individua settantacinque almanacchi, oltre ad altri venti menzionati da vari autori. La sola produzione di almanacchi si avvicinava quindi al centinaio di titoli: una vera "esplosione di questo genere editoriale", destinata a cessare nel fatale 1797. Esisteva anche un vivace giornalismo manoscritto: Mario Infelise, "Europa". Una gazzetta manoscritta del '700, in AA.VV., Non uno itinere. Studi storici offerti dagli allievi a Federico Seneca, Venezia 1993, pp. 221-239.
78. M. Berengo, La crisi, p. 1336.
79. I dati sull'esportazione, sulle tipografie e sui torchi sono in M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 275-338.
80. Sul Pepoli v. Guido Bustlco, Alessandro Pepoli, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 25, 1913, pp. 199-229; M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 378-384; Bruno Rosada, La giovinezza di Nicolò Ugo Foscolo, Padova 1992, pp. 65-66.
81. Anne Machet, Censure et librairie en Italie au XVIIe siècle, "Revue des Études Sud-Est Européennes", 10, 1972, nr. 3, pp. 459-490; Gian Albino Ravalli Modoni, Licenze dei riformatori dello Stùdio di Padova per edizioni venete del secolo XVIII con l'indicazione di Ferrara e di città dei ducati estensi quali falsi luoghi di stampa, "Atti dell'Accademia delle Scienze di Ferrara", 55, 1977-1978, pp. 473-487; Mario Infelise, Censura e politica giurisdizionalista a Venezia nel Settecento, "Annali della Fondazione Luigi Einaudi", 16, 1982, pp. 193-248; Id., L'editoria veneziana, pp. 71-131.
82. Robert Darnton, The Forbidden Best Sellers of the Pre-Revolutionary France, New York-London 1995; Id., The Corpus of Clandestine Literature in France, 1769-1789, New York-London 1995.
83. Il calcolo è di Mario Infelise, nell'ottimo saggio di sintesi L'editoria, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/I, Il Settecento, Vicenza 1985, p. 95 (pp. 91-111), in cui si precisano le percentuali, relativamente al periodo di massima prosperità del secolo, in 82 e 18%.
84. A.S.V., Riformatori dello Studio di Padova, filza 370.
85. Ibid.
86. Franco Piva, Cultura francese e censura a Venezia nel secondo Settecento, Venezia 1973 (Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Memorie, 36, fasc. 3), p. 16.
87. Ibid., pp. 46, 87-91.
88. Id., Censura e libri proibiti a Venezia: il "Registro Donadoni - Morelli" (1769-1795), "Aevum", 48, 1974, pp. 546-569; v. anche il rapporto del Morelli del 13 settembre 1797, pubblicato in Marino Zorzi, La Libreria di San Marco, Milano 1987, pp. 558-559.
89. F. Piva, Cultura francese, pp. 22-26.
90. Gino Damerini, La vita avventurosa di Caterina Dolfin Tron, Milano 1929, pp. 81-87, 346-348; Id., Settecento veneziano, Milano 1939, pp. 65-66; Franco Trenta-Fonte, Giurisdizionalismo illuminismo e massoneria nel tra-monto della Repubblica di Venezia, Venezia 1974, p. 45. Sul libraio Locatelli e su altri librai importatori abituali di libri proibiti, F. Piva, Cultura francese, p. 110.
91. Anne Machet, Clients italiens de la société typographique de Neuchàtel, in Aspects du livre neuchàtelois, a cura di Jacques Rychner-Michel Schlup, Neuchàtel 1986, pp. 171-172 (pp. 159-185).
92. F. Piva, Cultura francese, p. 91.
93. Ibid., pp. 209-221.
94. Augusto Bazzoni, Giacomo Casanova confidente degli Inquisitori di Stato di Venezia, "Nuovo Archivio Veneto", 7, 1894, p. 314 (pp. 287-320); F. Piva, Cultura francese, pp. 175-180; P. Preto, I servizi segreti, pp. 527-528.
95. Sulla diffusione dell'opera di Raynal, P. Del Negro, Il mito americano.
96. Cit. da G. Torcellan, Settecento veneto, p. 234.
97. Ibid., p. 92.
98. Piero Del Negro, "Amato da tutta la Veneta Nobiltà". Pietro Longhi e il patriziato veneziano, in AA.VV., Pietro Longhi, Milano 1993, p. 232 (pp. 225-241). I profili delle dame di casa Sagredo, protettrici del Longhi, sono disegnati dal Del Negro con finezza e documentata precisione.
99. Venezia, Museo Correr, ms. P.D. C 2570/Bis III; P. Del Negro, "Amato da tutta la Veneta Nobiltà", p. 233.
100. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 713 (= 8404), Catalogo de' libri ch'erano della Nobil Donna Caterina Sagredo Barbarigo; cf. P. Del Negro, "Amato da tutta la Veneta Nobiltà", p. 233.
101. A.S.V., Giudici di Petizion, b. 463/128, nr. 98; cf. P. Del Negro, "Amato da tutta la Veneta Nobiltà", p. 233.
102. F. Waquet, Le modèle franfis et l'Italie savante, passim.
103. Giuseppe Gullino, Una riforma settecentesca della Serenissima: il Collegio di S. Marco, "Studi Veneziani", 13, 1971, p. 524 (pp. 515-586).
104. Gianfranco Torcellan, Una figura della Venezia settecentesca: Andrea Memmo, Venezia-Roma 1963, p. 47.
105. Giovanni Tabacco, Andrea Tron e la crisi dell'aristocrazia senatoria a Venezia, Trieste 1957, pp. 28-30, 199-207.
106. Sulle letture del Pesaro, ibid., pp. 52-53, Anne Machet, La diffusion du livre franfis à Venise dans la deuxième moitié du XVIIIe siècle d'après les bibliothèques privées venitiennes, "Annales du Centre d'Enseignement Supérieur de Chambéry. Section Lettres", 8, 1970, pp. 48-50 (pp. 29-52); cf. Lorenza Perini, Per la biografia di Francesco Pesaro (1740-1799), "Archivio Veneto", ser. V, 115, 1995, pp. 65-98.
107. A.S.V., Giudici di Petizion, b. 463/128, nr. 98; cf. P. Del Negro, "Amato da tutta la Veneta Nobiltà", p. 241.
108. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Archivio della Biblioteca, Governo Veneto, anno 1791, fasc. 115.
109. Il catalogo Pisani, opera di Antonio Giovanni Bonicelli, venne stampato negli anni 1806-1807 ed è quindi teoricamente possibile che alcuni acquisti di opere proibite fossero stati effettuati dopo la caduta della Repubblica. Per il catalogo Soranzo v. oltre, n. 134.
110. Sulle distinzioni fra le case patrizie secondo il Donà e il Nani v. Piero Del Negro, Politica e cultura nella Venezia di metà Settecento. La "poesia barona" di Giorgio Baf "quarantiotto", "Comunità", 184, 1982, pp. 329-339 (pp. 312-425); Id., La distribuzione del potere all'interno del patriziato veneziano del Settecento, in I ceti dirigenti in Italia in età moderna e contemporanea, a cura di Amelio Tagliaferri, Udine 1984, pp. 311-337 Id., Il patriziato veneziano al calcolatore. Appunti in margine a "Venise au siècle des lumières" di yean Georgelin, "Rivista Storica Italiana", 93, 1981, nr. 3, pp. 838-848.
111. G. Tabacco, Andrea Tron, p. 25.
112. P. Del Negro, Politica e cultura, pp. 370-375.
113. A.S.V., Giudici di Petizion, Inventari, b. 463, nr. 8.
114. Ibid., nr. 13.
115. Paolo Preto, L'Illuminismo veneto, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/I, Il Settecento, Vicenza 1985, p. II (pp. 1-45).
116. G. Tabacco, Andrea Tron, pp. 48-49; v. anche Vittorina Barbon, Andrea Querini. Studio biografico, "Archivio Veneto", 36, 1888, pp. 5-35.
117. G. Tabacco, Andrea Tron, pp. 48-53.
118. P. Del Negro, "Amato da tutta la Veneta Nobiltà", p. 241.
119. G. Torcellan, Una figura della Venezia settecentesca, p. 33.
120. Come risulta dal catalogo della sua biblioteca, legata in morte alla Libreria di S. Marco: cf. supra, n. 108.
121. G. Tabacco, Andrea Tron, pp. 16-17. L'eccellente opera del Tabacco penetra con acutezza e simpatia all'interno della società patrizia e mostra di comprenderne a fondo lo spirito.
122. Dorit Raines, Una collezione pregiata del Settecento veneziano. La libreria dell'ultimo doge, Lodovico Manin, in Splendori di una dinastia. L'eredità europea dei Manin e dei Dogiin, a cura di Gilberto Ganzer, Milano 1996, pp. 89-91; Ead., La raccolta manoscritta e a stampa della casa Manin tra Venezia e Friuli, in Nel Friuli del Settecento: biblioteche, accademie e libri, a cura di Ugo Rozzo, II, Tavagnacco 1996, pp. 69-98; Ead., La famiglia Manin e la cultura libraria tra Friuli e Venezia nel '700, Udine 1997.
123. G. Torcellan, Una figura della Venezia settecentesca, p. 33.
124. Mi permetto di rinviare a Marino Zorzi, I Barbaro e i libri, in Una famiglia veneziana nella storia. I Barbaro. Atti del convegno di studio in occasione del quinto centenario della morte dell'umanista Ermolao. Venezia 4-6 novembre 1993, a cura di Michela Marangoni-Manlio Pastore Stocchi, Venezia 1996 (Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti), pp. 363-396.
125. Collezioni veneziane di codici greci, dalle raccolte della Biblioteca Nazionale Marciana, a cura di Marino Zorzi, Venezia 1993, p. 79
126. Helmut Boese, Über die 1747 in Venedig verkauften "Sagredo-Handschriften", " Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken", 66, 1986, pp. 263-309.
127. Collezioni veneziane di codici greci, pp. 83-85.
128. Giannantonio Moschini, Della letteratura veneziana del secolo XVIII fino a' nostri giorni, II, Venezia 1808, p. 55; Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1399 (= 9220): Giovanni Rossi, Leggi e costumi dei Veneziani, vol. XIV, c. 132.
129. Il raro catalogo si conserva in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, con la segnatura 117.C.230.
130. Mi permetto di rinviare a M. Zorzi, La Libreria, pp. 285-287, 304-305. Il catalogo della biblioteca Farsetti, in tre volumi, venne pubblicato presso la stamperia di Modesto Fenzo dal dotto custode della Libreria Pubblica, Jacopo Morelli (Venezia 1771-1785).
131. Della raccolta Pesaro esistono due cataloghi: il primo, Catalogo di una libreria vendibile in Venezia nell'anno 1799, s.n.t., il secondo, Catalogo della libreria di un illustre patrizio veneto, Padova 1805. Evidentemente la vendita predisposta nel 1799 non aveva avuto luogo.
132. Catalogo della biblioteca Foscarini ai Carmini vendibile a Venezia nell'anno 1800, s.n.t., conservato a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, con la segnatura 118.C.96.
133. Sulla biblioteca Recanati v. Collezioni veneziane di codici greci, p. 88. Secondo una nota manoscritta il catalogo a stampa Libri di una particolar libreria di Venezia proposti in vendita, s.n.t., conservato con la segnatura marciana 108.C.142, Si riferirebbe alla raccolta Recanati (ma forse non a quella di Giovanni Battista).
134. Il catalogo a stampa del 1780, in tre volumi, è conservato con la segnatura marciana 118.C. 171-173; quello del 1781 con la segnatura 119.C.127. In quest'ultimo sono indicati i prezzi di vendita di ogni titolo.
135. Juan Andrés, Cartas familiares a su hermano D. Carlos Andrés, III, Madrid 1790, p. 203; cf. M. Zorzi, La Libreria, pp. 347, 526.
136. Alfredo Serrai, Storia della Bibliografia, VII, Storia e critica della catalogazione bibliografica, Roma 1997, pp. 385-400.
137. Il primo catalogo venne stampato a Venezia nel 1755 dal Pasquali, col titolo Bibliotheca Smithiana; il secondo, stampato a Venezia nel 1771, Si intitola Catalogo di libri raccolti dal fu signor Giuseppe Smith e pulitamente legati (segnatura marciana 110.C.131); A. Serrai, Storia, pp. 367-371. Forse peraltro si trattava, almeno in parte, di libri che il console aveva trattenuto al momento della vendita al re.
138. I libri a stampa dello Svajer sono descritti nel Catalogo di libreria posta in vendita in Venezia nell'anno 1794 (segnatura marciana 109.C.84). Per i manoscritti, M. Zorzi, La Libreria, p. 309. Una magnifica biblioteca aveva anche un altro illustre straniero residente a Venezia, il principe Sigismondo di Kevenhiiller Metsch: dal catalogo a stampa, uscito a Venezia nel 1802 (segnatura marciana 212.D.229) si evince ch'egli possedeva tremilaseicentosedici titoli a stampa, oltre a trentanove incunaboli di data anteriore al 1480, un centinaio di incunaboli datati tra il 1481 e il 1500, trecentotredici manoscritti antichi, di cui tre dei secoli X-XI e due del XII, vari manoscritti recenti. In tre casse aveva poi circa trecento altri libri di vario pregio (anche manoscritti e incunaboli). Non mancano libri proibiti (Giannone, Raynal, Helvétius, ecc.).
139. Dorit Raines, L'archivio familiare strumento di formazione politica del patriziato veneziano. Gli archivi politici di patrizi veneziani nel fondo manoscritto Manin ex-Svajer presso la Biblioteca Civica "Joppi" di Udine, "Accademie e Biblioteche d'Italia", 64, 1996, nr. 4, pp. 5-38.
140. M. Zorzi, La Libreria, pp. 309-315.
14I. Antonella Barzazi, Ordini religiosi e biblioteche a Venezia tra Cinque e Seicento, "Annali dell'Istituto Storico Italo-Germanico in Trento", 21, 1995, p. 227 (pp. 141-228). Per un sintetico panorama circa le biblioteche religiose nel periodo mi permetto di rinviare a Marino Zorzi, Le biblioteche a Venezia nel secondo Settecento, "Miscellanea Marciana", I, 1986, pp. 253-324; Id., La Libreria, pp. 320-332.
142. M. Zorzi, La Libreria, pp. 263-264.
143. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciano, Archivio della
Biblioteca, b. 1825, rapporto del 14 gennaio 1826.
144. Johann Caspar Goethe, Viaggio in Italia, 1740, I, Roma 1930, pp. 38-41; M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 50-51.
145. K. Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi, p. 253.
146. Cesare A. Levi, Le Collezioni veneziane d'arte e d'antichità dal secolo XIV ai nostri giorni, I-II, Venezia 1900, pp. 81-117, 131-138, 159-170; cf. Fabio Zanotto, Collezionismo veneziano del Settecento, "Venezia Arte", 8, 1994, pp. 57-66.
147. Francis Haskell, Patrons and Painters. Art and Society in Baroque Italy, New Haven-London 1980, p. 262. Per gli altri collezionisti, ibid., ad indicem. Una bella collezione di quadri avevano anche gli Zorzi alle Zattere: Marta Tortorella, Zattere al Ponte longo: da ca' Graziabona a palazzo Zorzi (1458-1780), "Studi Veneziani", n. ser., 31, 1996, p. 103 (pp. 51-110).
148. P. Del Negro, "Amato da tutta la Veneta Nobiltà", p. 230.
149. F. Haskell, Patrons and Painters, pp. 263-267.
150. Ibid., pp. 379-381.
151. C.A. Levi, Le Collezioni veneziane d'arte, pp. 230-236.
152. K. Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi, p. 273.
153. Alessandro Bettagno, Introduzione a Caricature di Anton Maria Zanetti. Catalogo della mostra, Vicenza 1969; F. Haskell, Patrons and Painters, pp. 341-346.
154. F. Haskell, Patrons and Painters, pp. 347-360; Giovanni Da Pozzo, Piazzetta e Algarotti: il mito riformistico della luce, in AA.VV., G.B. Piazzetta. Disegni, incisioni, libri, manoscritti, Vicenza 1983, pp. 58-62.
155. Jacopo Morelli, Catalogo dei quadri raccolti dal fu signor Maffeo Pinelli. Ed ora posti in vendita in Venezia 1785, s.n.t.
156. K. Poiviian, Collezionisti, amatori e curiosi, p. 258; F. Vivian, Il console Smith mercante e collezionista, pp. 171-224.
157. Alice Binion, La galleria scomparsa del maresciallo von der Schulenburg, Milano 1990, pp. 61, 220-260; K. Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi, p. 259.
158. F. Haskell, Patrons and Painters, pp. 264, 302, 315-316.
159. K. Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi, p. 253. 160. Ibid., p. 254.
161. Collezioni di antichità a Venezia nei secoli della Repubblica (dai libri e documenti della Biblioteca Marciana), catalogo della mostra, a cura di Marino Zorzi, Roma 1988, pp. 82-125.
162. Ibid., pp. 128-131.
163. Giuliana Ericani, La storia e l'utopia nel giardino del Senatore Querini ad Altichiero, in AA.VV., Piranesi e la cultura antiquaria. Gli antecedenti e il contesto, Roma 1983, pp. 171-185; K. Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi, pp. 322-324.
164. I. Favaretto, Arte antica e cultura antiquaria, pp. 220-225.
165. Collezioni di antichità, pp. 84-86.
166. Ibid., p. 96.
167. Ibid., pp. 111, 116, 120.
168. K. Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi, p. 317.
169. Ibid., pp. 163-184.
170. Loredana Olivato, Provvedimenti della Repubblica Veneta per la salvaguardia del patrimonio pittorico nei secoli XVII e XVIII, Venezia 1974 (Memorie dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, classe di scienze morali, lettere e arti, 37, nr. I), pp. 13-45; Mario Speroni, La tutela dei beni culturali negli Stati italiani preunitari, Milano 1988, pp. 133-165.
171. M. Perry, The Statuario Publico; I. Favaretto, Arte antica e cultura antiquaria, pp. 84-96.
172. L. Olivato, Provvedimenti, pp. 47-66; M. Speroni, La tutela, pp. 142-143; K. Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi, pp. 245-253.
173. K. Pomian, Collezionisti, amatori e curiosi, pp. 324-325.