La stampa
Quattro quotidiani si contendono i favori del cittadino-lettore ancora alle soglie della Grande guerra: già meno che in passato(1), ma sempre in numero tale da configurare poteri e architetture mentali più articolati se confrontati alla condizione coloniale, alla monocultura o al cauto dualismo giornalistico delle altre città venete(2). La guerra semplifica, anzi — nella città semideserta di fine 1917 — Caporetto semplifica. Tacciono — su fronti opposti — il modernizzante «Adriatico» e la clericale «Difesa». Un silenzio che non ha a che fare con un indebolimento dei loro referenti, rispettivamente Giuseppe Volpi, con la moderna imprenditoria che va giusto allora realizzando Porto Marghera, e la curia patriarcale. Il dopoguerra vede per un biennio risorgere un quotidiano cattolico, che ricupera la testata tardo-ottocentesca «Venezia»; poi rimangono la «Gazzetta di Venezia» e il «Gazzettino». Il vecchio e il nuovo? Troppo semplice. L’erede bicentenaria dell’organo privilegiato dei governi(3) incorpora ormai da diversi anni due destre, la vecchia destra della rocciosa giunta clerico-moderata di Filippo Grimani e la nuova destra del magistero nazionalista di Alfredo Rocco. Il 1922 vede nuovo sindaco di Venezia Davide Giordano: su designazione e in luogo di Giovanni Giuriati — diranno i biografi di quest’ultimo(4) —, proiettato verso più alte mete. Comunque, primo sindaco nazionalista e fascista di una «grande» città d’Italia, confermando — è la terza volta, dopo Selvatico e dopo Grimani, e non sarà l’ultima — una tensione anticipatrice verso equilibri altrove non ancora affermati. È il paradosso di Venezia sgusciar via, così, dal sudario mortuario cucitole addosso e andare innanzi nel tempo. Analoghi svincolamenti rigenerativi della nuova dalla vecchia destra segnala contemporaneamente l’ascesa alla direzione della «Gazzetta di Venezia» di Gino Damerini: «uomo nuovo» dalle solide radici poiché ha percorso tutta la sua carriera nel vecchio giornale dei notabili finanziato dal partito liberale di Grimani e però è stato nel 1914 il condirettore di Rocco nel rampante settimanale dei nazionalisti veneti «Il Dovere Nazionale», che Damerini fa in campo S. Angelo, nella stessa sede della «Gazzetta», quasi un foglio-canguro(5). L’altro uomo forte della scena giornalistica veneziana è da lungo tempo Gianpietro Talamini, fondatore, proprietario e direttore del «Gazzettino», che il dopoguerra trova vigoroso settuagenario e che morrà sulla breccia, ancora alla testa della sua fortezza assediata, nel 1934(6). La sua creatura, nel 1919, ha trentadue anni, non molto rispetto all’oceano temporale attraversato dal concorrente superstite. E però l’anziana «Gazzetta» e il più giovane «Gazzettino» fanno a gara nel primo dopoguerra nel mostrarsi liberi da inibizioni rispetto alla rifondazione dei rapporti e delle forme di potere anche attraverso la disponibilità all’uso della violenza(7). Il Fascio veneziano nasce nel 1919 ospite del «Gazzettino» a palazzo Gritti Faccanon, ma i nazionalisti sono di casa alla «Gazzetta»; e Gabriele D’Annunzio, gli irredentisti, i giuliani e dalmati di Giuriati, l’uomo-simbolo Nazario Sauro, i «legionari» fiumani — in tutta la progressione politica che dal 1914 conduce al 1922 — trovano in tutt’e due i pur diversi fogli sponde amiche. Diversa infatti è la loro formula giornalistica, diversissimo — per dimensioni e caratteri — il pubblico(8), difformi i percorsi d’accesso al fascismo; ma tutt’e due arrivano consenzienti alla svolta dell’ottobre 1922, disposti ancora, sino all’ultimo, a concedere un’ultima prova d’appello alla destra liberale, in un governo appoggiato da Mussolini, ma capeggiato dall’uomo dell’entrata in guerra, Salandra, oppure, se l’avviso del sovrano sarà questo, a fiancheggiare fiduciosamente la scelta di rottura di un governo Mussolini. La «felice soluzione in senso nazionale» che si profila per la crisi nei titoli della «Gazzetta» di domenica 29 ottobre(9) trova massima risonanza martedì 31: Fra l’esultanza di tutta Italia Benito Mussolini / ha formato il governo nazionale. Titolo di prima, ovviamente, e a tutta pagina. In vista di quell’esito — il «Governo nazionale» — il neodirettore Damerini ha convogliato alcune delle più illustri penne del giornalismo nazionalista italiano: Enrico Corradini, che è ospite della «Gazzetta» da molti anni, Emilio Bodrero, professore di Filosofia e prossimo rettore a Padova, e soprattutto Maffio Maffi, incaricato di scrivere i pastoni da Roma(10). Il «Gazzettino» non ha le firme, in compenso ha i lettori, ma il 27 ottobre sceglie di muoversi sul terreno del concorrente, prelevando e ripubblicando l’articolo Ore decisive proprio da «L’Idea Nazionale», mentre solo poche righe si guadagnano il 29 Tre colonne in marcia verso Roma (sottovalutazione od occultamento di quella che solo a posteriori diverrà la Marcia su Roma sono un dato costante nella stampa di quei giorni, non solo a Venezia). Il 31 il giubilo per i tempi nuovi e le dinamizzazioni della politica che si annunciano vengono espressi con la sicurezza che non siano possibili equivoci o doppie letture: Mussolini compone il ministero in 6 ore. Come vengono vissute Le giornate storiche a Venezia (p. 4) ce lo narra quello stesso giorno la «Gazzetta», che non sembra avere dubbi nell’identificare il luogo e l’evento che segnalano, quasi in termini rituali, l’auspicato trapasso. Si tratta di L’occupazione della Camera del Lavoro, che durante il dopoguerra si era mostrata inaccessibile ai tentativi di conquista degli squadristi veneziani, impegnati nella sottomissione e nella segnatura del territorio. Ora — tranne, paradossalmente, le guardie regie, che inscenano un breve simulacro di resistenza — nessuno più si oppone ai fascisti che la invadono a mano armata, spazzano i locali, eliminano i simboli. L’apologo interessato visualizza un tempio vuoto, una religione abbandonata dai suoi fedeli. C’è solo Li Causi, ma non Girolamo Li Causi, solo suo fratello, che non muove un dito e cui — assicura la «Gazzetta» — non viene torto un capello. È La vittoria dello spirito, assicura l’articolo di fondo. «Questa pestilenziale annata che sta per terminare si chiude, se Dio vuole, con un fiorire nuovo di vita»(11).
A questo punto, le voci dissonanti sono ancora più marginali e meno legittimate di prima. Nel primo dopoguerra le sinistre veneziane, socialista e comunista — forti sul piano politico ed elettorale, ma pressoché escluse dai mezzi di comunicazione —, avevano ancora, se non un quotidiano, il risorto settimanale socialista «Secolo Nuovo» e — meteora del ’21 — «L’Eco dei Soviet». Di una stampa di sinistra si riparlerà adesso tra oltre vent’anni. Chiude il settimanale democratico «Il Popolo» (1919-1924) poiché a convivere col Fascio non può più bastare — come nel primo dopoguerra — la comune base interventista e combattentista. Chiude persino «Italia Nuova», il settimanale «voce del fascismo e del fiumanesimo»(12). Se non subito, dal ’22, con la stretta del ’24 sopravvivono solo gli allineati(13). Perciò chiude la sua breve stagione (1923-1924) anche il quotidiano popolare «Corriere delle Venezie»(14), che nelle strategie complessive del mondo cattolico non serve più ed è anzi d’impaccio. La diocesi provvede a sostituirlo con una testata dal nome prudente e inequivoco, «La Settimana Religiosa», assicurando ai suoi un organo di appartenenza idoneo a una eventuale navigazione sommersa di lunga durata(15). Un sacerdote — don Alfonso Bisacco — aveva diretto il quotidiano di partito; un laico — cosa rara — viene chiamato a dirigere il settimanale tutto liturgia e vita parrocchiale(16). Quando, all’ottavo anno di vita, Serafino Audisio muore(17), lo sostituisce don Bisacco e il cerchio si chiude.
Tenendoci all’interno dell’universo pubblicistico così come lo delineano le compatibilità economiche, politiche e ben presto anche duramente normative(18), potremmo individuare una periodizzazione in quattro fasi, non dissimile da itinerari più generali, in cui delineare le particolarità veneziane: dopo i conflitti e, detto venezianamente, la duplice serrata fra guerra e dopoguerra, la cristallizzazione del 1924-1943; una dialettica che si riapre in parte fra 1943 e 1950; e, dal 1950 in avanti, la riaffermazione in nuove forme di un sostanziale monopolio della comunicazione, per lo meno sino agli anni Ottanta(19). Molti appetiti, in tutti e tre i periodi fra le due guerre e dopo, girano intorno alla proprietà e all’uso della grande macchina del «Gazzettino», con tutto il suo indotto («Gazzettino Sera»(20), «Gazzettino Illustrato»(21), «Gazzettino dei Ragazzi»(22)).
Al giro di boa del 1922 la classe dirigente veneziana giunge munita di un nuovo strumento, non di mera rappresentanza, ma di lettura e orientamento dei processi in corso: la «Rivista Mensile della Città di Venezia» (1922-1935)(23). In questa sua prima uscita — il primo numero è del gennaio e Giordano è già insediato a Ca’ Farsetti — la responsabilità è dell’Ufficio comunale di statistica diretto da Rodolfo Gallo. Pur con riassetti di testata, le cifre, le statistiche economiche, i movimenti commerciali, le molte notizie dal porto, i dati demografici elaborati dai tecnici del Comune sono destinati a corredare di mese in mese ogni numero anche nelle annate successive facendone un utile strumento di lavoro per gli operatori pubblici e privati. Questa parte funzionale (un quarto dello spazio totale) è una presenza strategica che vicendevolmente prende e dà lustro alla parte maggiormente simile a una rivista di cultura. Il tratto pragmatico, operativo, efficientista ne caratterizza il piglio. Erudizione, aneddotica e colore locale non appaiono fini a se stessi, come così spesso avviene nei bollettini di enti pubblici. Il lettore — più nelle prime annate che dopo — avverte il senso di un’impresa sentita comune e un’aura di nuovo inizio. Venezia nuova è infatti l’esordio, con il limite di aver legato la parola d’ordine alla figura ormai frusta di un navigatore di lungo corso della venezianità quale Antonio Fradeletto(24). Questi indugia a mediare fra l’immagine di una «superba necropoli […] una vasta Torcello» e una «Venezia brutalmente modernizzata, col suo Canal Grande interrato»(25). Pagato pegno, sulla soglia, a un personaggio inevitabile della galleria di famiglia — come altri ne verranno via via onorati fra le due guerre sia dalla rivista del Comune che dalla rivista del Partito, «Le Tre Venezie», nei confronti di protagonisti della generazione passata quali Pompeo Molmenti o Filippo Grimani(26) — l’organo della «rivoluzione» che governa procede poi energico e spedito: la bandiera spiegata è quella della «più grande Venezia», coniugata a quella della «più grande Italia». E se Gabriele D’Annunzio rimane l’onorato precursore(27) di una restaurazione non impaurita dal moderno che non per niente si è giovata nell’anteguerra del grande nome di un Foscari, ha un Foscari fra i caduti dello squadrismo e di un altro Foscari farà più avanti un segretario federale(28), spetta ormai a Giuseppe Volpi ergersi a sagace interprete operativo del rilancio e della messa in scena del rilancio di Venezia e della venezianità. Il primo numero della seconda annata della «Rivista di Venezia» (gennaio 1923) si apre in campo S. Fosca, accanto alla statua di Sarpi, con un discorso del sindaco, fieramente veneziano e fieramente italiano, secondo la formula integrata di patriottismo municipale e nazionale che ispira tutta la nervatura della rivista; il nr. 2 fa racconto di un altro rito della memoria pubblica (La cittadinanza onoraria di Venezia agli artefici della Vittoria: il duca d’Aosta, il generale Diaz e l’ammiraglio Thaon de Revel); il nr. 4, aprile 1923, si apre con S.E. il Conte Giuseppe Volpi, Governatore di Tripolitania, solennemente ricevuto dal Consiglio Comunale: «noi veneziani siamo soprattutto dei realizzatori [afferma nel suo discorso Volpi], noi siamo soprattutto della gente aderente alla realtà, e come tali cammineremo nei nuovi tempi senza più retoriche e senza inutili illusioni». Bravo, chiosa il verbale riportato dalla «Rivista di Venezia»(29). E intenda chi può ciò che vuole, rispetto al fascismo, entità e parola sinora non incombenti nel modo di porsi sia di Volpi in questa occasione che della rivista in generale(30). Spiriti imprenditoriali e spiriti nazionali bastano infatti a delineare gli orizzonti della «realtà», che includono il fascismo al potere e hanno già tolto di mezzo, per successive esclusioni, tutti coloro che non sono sopravvissuti alle serrate sempre più stringenti del ’15, del ’17 e del ’22. Un ignoto — da ultimo — è per esempio diventato, qui come altrove, lo stesso pur amatissimo e carismatico fondatore del Fascio veneziano, l’avvocato Piero Marsich, restato al momento delle scelte più vicino al «Comandante» che al «Duce» e troppo legato a una sua idea di fascismo piccolo e non grande-borghese(31). Il direttore della «Gazzetta di Venezia» non perde infatti l’occasione — lungo tutto il secondo semestre del ’24 e nei giorni che precedono il discorso del 3 gennaio — per declinare «la nostra avversione contro ogni forma di rassismo»; e anche per assumere a caratteristica e vanto un’identità e una linea di «fiancheggiatori»(32), che inutilmente i socialisti agitano come una colpa; mentre quasi tutti sono stati dei «fiancheggiatori» del fascismo e ora, dopo «l’efferato delitto»(33) di una qualche risibile ‘Ceka’ del fascismo estremista, non è proprio il caso di abbandonare la nave in pericolo, ma anzi di appoggiare «il programma normalizzatore di Mussolini» avverso «l’opera incostituzionale dell’Aventino»(34). L’Aventino, in tutti quei mesi, è tuttavia parola e posizione poco esplicitata; il problema è invece la rottura del fronte da parte del «Corriere della Sera» di Luigi Albertini(35), fattosi capintesta e riparo di ringhiosi giornaletti vari. «Si può amare sin che si vuole questa nostra professione [lamenta il fondo del 1° gennaio 1925(36)], ma è pur necessario riconoscere il diritto del Governo a intervenire contro tanto scempio». Semplicemente entusiasta, quindi, la reazione di Damerini, presente alla Camera, di fronte al discorso tutto all’attacco del capo del governo il 3 gennaio: Una battaglia memorabile e «un discorso sostanzialmente normalizzatore»(37).
Nel novembre del 1927 Ermanno Amicucci — che, dopo avere espugnato la Federazione nazionale della stampa ed eretto sulle sue spoglie il Sindacato nazionale fascista dei giornalisti, sta portando a buon fine l’epurazione della categoria — dirama una precisa richiesta a tutti i segretari regionali. Vuole sul suo tavolo «un elenco esatto dei giornalisti antifascisti che sono rimasti nei giornali della Regione e che bisognerebbe allontanare, in obbedienza alla dichiarazione del Gran Consiglio Fascista sul problema della stampa»(38). Senza sorpresa, alla testa dei giornalisti delle «Tre Venezie» troviamo assiso Damerini(39). Ed ecco il quadro della situazione come si è venuta configurando in quel dicembre dell’anno VI:
In relazione alla lettera 28 novembre u.s. riguardante i giornalisti antifascisti, mi onoro comunicare che tutti i posti di comando nei giornali della zona dipendente da questo Sindacato sono nelle mani di vecchi e provati fascisti.
Anche nelle redazioni dei giornali il personale può dirsi ormai composto di elementi fascistizzati, se non tesserati. Qualche eccezione mi viene fatta per taluno dei capi ufficio corrispondenza dalla provincia del Gazzettino di Venezia. Da Vicenza, per esempio, si segnala la posizione equivoca dell’avv. Paolo Emilio Ronco, da Trento quella del sig. Luigi Battaglia, antifascista in passato, ma che da molto tempo non si occupa più di politica, da Bolzano l’on. Giarratana mi denunzia come antifascista il sig. Bianchi Giovanni, corrispondente del giornale Il Gazzettino. A Treviso è gravemente indiziato come antifascista il sig. Pesenti Adolfo, contro il soggiorno del quale, in quella città, la Federazione Provinciale Fascista, ha posto addirittura il veto.
Devo aggiungere che di tutto questo personale sospetto si fa garante il condirettore del Gazzettino e Vice-Segretario della Federazione provinciale Fascista di Venezia avv. Antonio Toffano [recte Giuseppe](40).
La fittizia condirezione imposta nel novembre 1926 al vecchio Talamini nella figura di un controllore federale, non giornalista, catapultato al vertice dalla cruda politicizzazione di tutti i ruoli di comando (quel Toffano — che Talamini riuscirà a licenziare nel gennaio 1929, appena il segretario federale cambia e da Casellati si torna a Suppiej — sarà poi direttore de «L’Arena» di Verona, passando senz’altro, in seguito, al ruolo di prefetto) non è che uno dei tanti episodi della lotta che per oltre un quindicennio si combatte senza esclusione di colpi attorno non già all’indirizzo politico generale del «Gazzettino», che è scontato, ma alla sua stessa proprietà. Come è stato dimostrato(41), il filofascismo ante Marcia del «Gazzettino» non è in questione e in questi nudi scontri economici e di potere l’antifascismo non c’entra. Gianpietro ed Ennio Talamini — il primogenito ed erede designato di una complessa dinastia familiare — si muovono spregiudicatamente fra i due clans di Giuriati e di Volpi che si contendono anche in questo campo la leadership cittadina; oltre che avere un federale in casa — perché l’avvocato Giorgio Suppiej ha sposato una nipote del direttore, figlia del caporedattore Ludovico Sartorelli — si appoggiano, come avvocato, niente meno che a Roberto Farinacci e al suo collaboratore locale avvocato Giovanni Zironda; e sono in grado, quando gli attacchi si fanno più pesanti, di chiamare in soccorso D’Annunzio — memore dei rapporti di guerra e dopoguerra — e persino il duce.
Questa consonanza — com’è della formula del giornale di informazione ad alta tiratura — non si esprime tanto negli articoli di fondo, che nel «Gazzettino» di Talamini sono infrequenti (lui stesso è un direttore di macchina e non un direttore di penna), quanto nei titoli e negli accostamenti e intrecci fra cronaca e istituzioni: o fra ufficialità e ciàcole. La dimensione specifica e la forza propulsiva che nel corso delle generazioni hanno portato questo giornale — con tutte le sue redazioni e la rete dei suoi corrispondenti nelle province — a far parte dell’arredo mentale dei veneti, sono la quotidianità, la piccola cronaca di campanile, il campiello e la calle messi in pagina. E poi le notizie utili, i piccoli annunci, le farmacie, gli spettacoli, i morti. ‘Non avere i morti’ sarà nel secondo dopoguerra registrato fra le cause prime di fallimento nei tentativi di radicare a Venezia — contro il gigante risorto quasi indenne dai suoi trascorsi di regime — un qualche antagonista. Questo non vuol dire che fra le due guerre, e non solo in prima pagina, questo giornale non gonfi anch’esso le gote. Orizzonti e linguaggio sono quelli comuni alla cultura nazional-fascista e alla rieducazione guerriera dell’Italiano. Il «Gazzettino Illustrato» — un’aspirante «Domenica del Corriere» veneta che dal maggio 1921 agli anni Cinquanta offre ogni lunedì un intrattenimento settimanale al largo pubblico, traducendo la cronaca e l’aneddotica in immagini, prima disegnate, poi fotografiche — esordisce con una presentazione dei due direttori, Talamini e il poeta e saggista Lionello Fiumi, fra le rovine del dopoguerra e i «gravi problemi delle terre liberate»(42); fa raccontare a puntate Gli orrori dell’invasione tedesca al «reverendo Giovanni Simonato»(43); in qualche sua tavola illustrata — alla maniera di Achille Beltrame — visualizza, stramazzato accanto alla sua motocicletta, il fascista padovano Ernesto Scapin ucciso da «un gruppo di sovversivi»(44); o — con la tecnica della semplice foto più didascalia — mostra I funerali del fascista Pio Pischiutta ucciso dai socialisti a Pordenone(45). Non mancano appendice e Grand-Guignol politico d’attualità, come nella illustrazione antibolscevica sulle signore borghesi aderenti ai Soviet, che, destinate agli usi sessuali dei commissari con la stella rossa, si ribellano, ammazzano i commissari e vengono prontamente trucidate dalle guardie rosse. Siamo nel giugno del ’21, nr. 5, mentre il nr. 6 mostra i mali del tempo a Bologna, sotto forma di signore e signori in ricco albergo, prigionieri voluttuosi della cocaina «dono funesto contrabbandato in Italia dai tedeschi». Tutti tratti in arresto, ovviamente. Se ci trasferiamo un anno e mezzo più avanti, dopo la Marcia su Roma(46), il paesaggio si illumina di speranza in una copertina, ormai fotografica, con Il battesimo d’un neonato fascista colto a volo, fra un manipolo di camicie nere, sulla scalinata della basilica di S. Giustina a Padova. «Il primo neonato che sarà allevato nella fede fascista» — illustra la didascalia — è nipote di un fascista trucidato da un comunista e reca nomi augurali: Lillo, Cleo, Benito e Disperato(47). Dieci anni dopo, il «Gazzettino Illustrato» ha scelto ormai decisamente la via di una grafica moderna, parla più che mai per immagini fotografiche, in tricromie non prive di suggestione visiva, e intreccia romanzi (I cadetti di Guascogna), vignette umoristiche, anniversari e riti di regime, curiosità, piccola pubblicità, gite sociali, dive del cinema esotiche e nostrane. Molte le copertine fasciste militanti, con o senza il duce. La dimensione divagante e pettegola di queste settimanali coloriture di cronaca locale e dal mondo può persino trovare un riscontro nell’inopinata apparizione dell’Agitatore russo Leone Trotzki con la consorte a Pompei, alla fine del 1932(48).
Meno andante nella sua nozione del tempo libero, visivamente più accurata ed elegante, più ricca di firme intellettualmente e artisticamente di pregio, una «Rivista Mensile Illustrata» che dal 1925 e ancor più chiaramente dal 1926 allarga su «Le Tre Venezie» le rinnovate fierezze della Serenissima e gli spiriti imprenditoriali della «nuova Venezia». La testata — complessa ed instabile(49), pur nella ventennale continuità della formula pubblicistica e delle presenze — inalbera nei primi numeri una volontà dichiarata di «propaganda turistica»(50), che dopo un primo anno di rodaggio si chiarifica come politicamente non neutrale, ma connessa ai luoghi della memoria e ai linguaggi dell’ora(51), e continuerà nei fatti senza più essere così scopertamente al servizio dell’industria del forestiero. Anche perché la sua trasformazione nel giugno 1926 in un organo della federazione(52) suggerisce riferimenti più severi (oltre alla presentazione del segretario federale avvocato Vilfredo Casellati(53), fanno la loro comparsa grafica i fasci); e perché Giovanni Giuriati, l’esponente del Fascio veneziano verso cui tende a gravitare «Le Tre Venezie»(54), pur nelle oscillazioni del gruppo dirigente della federazione (figurano per anni condirettori il direttore de «L’Arena» di Verona Antonio Galata(55) e il nipote di Giuriati, Giovanni Giuriati jr), si professa ostile al rischio di monocultura turistica. Era già intervenuto in questo senso e torna più vistosamente a farlo nel nr. 4 della quinta annata con una Lettera aperta a Giorgio Suppiei: «Invece di dominare i venti e di sfidare gli uragani, i Veneziani preferiscono dedicarsi oggi a una pleiade di professioni parassitarie e servili. E noi non possiamo rimproverarli perché non è loro la colpa se i reggitori degli ultimi due secoli altro non hanno saputo ispirare ai ragazzi del loro tempo»(56). È questo un vecchio cavallo di battaglia su cui è cresciuta, già dall’anteguerra, l’opposizione della nuova destra nazionalista, che ora è al comando, ma all’interno della quale gravita anche l’uomo della Compagnia Italiana Grandi Alberghi e del rilancio turistico cittadino, il rivale diretto di Giuriati, conte Volpi.
La rivista si può comunque configurare come una rassegna di viaggi nel territorio di terra e di mare segnato ab antiquo dai leoni di S. Marco e ridisegnato col sangue dei combattenti della Grande guerra: viaggi materiali, quindi, microguide ai luoghi per servire a un pubblico largo, ma anche e altrettanto viaggi mentali, riprese e dinamizzazioni della memoria, con quell’intreccio di veneziano e di nazionale che rappresenta l’accesso e l’apporto specifico di S. Marco alla cultura nazional-fascista(57). Ad onta delle forme di concorrenza residue, individuali e di gruppo, tutte queste testate pescano nello stesso terreno, sono la risultante di un’espulsione già avvenuta rispetto a quanto poteva essere incompatibile. Nomi e argomenti, in effetti, si ripetono. E anche in «Le Tre Venezie» fa la sua comparsa Gino Damerini per additare Ciò che Venezia non ebbe. Ciò che Venezia aspetta dai suoi reggitori: «un regime di eccezione dotato di ampi poteri»(58). Superato il pur consanguineo periodo del sindaco nazionalista — ancora appesantito da bardature elettive e consiliari — e quello burocratico dei commissari di metà anni Venti, sta per prendere avvio l’epoca autoritaria e gerarchica dei podestà. E il primo podestà, a Venezia — per chi ne sonda il clima dall’interno degli organi di stampa degli anni Venti — appare nell’ordine delle cose che sia proprio uno storico, e uno storico di Venezia, Pietro Orsi, chiamato a governare la città dal 1926 al 1929(59). Accanto a quella di un discorso pubblico da promuovere, l’altra ragion d’essere di una rivista di cultura promossa dalla federazione sta visibilmente nel calamitare gli artisti, gli eruditi e i letterati cittadini. Chi consuma le sue giornate negli archivi, nelle biblioteche, negli istituti accademici, nelle gallerie e negli studi d’arte(60) può trovare uno sbocco e una vetrina in questo gradevole mensile, in un do ut des di reciproca utilità. L’originalità e la varietà delle sue copertine attirano lo sguardo su «Le Tre Venezie» con i giochi di colori e di linee di autori locali e non: spesso Carlo Dalla Zorza, ma anche Vellani Marchi, Guido Marussig, Mario Pompei, Bernardini, Peri e numerosi altri pittori e illustratori di buona mano. Accanto ai pezzi si possono via via notare le firme di Alberto Musatti(61), Ervino Pocar, Osvaldo Parise, Elio Zorzi, e poi Diego Valeri, che prenderà stabilmente la rubrica della «Letteratura», come Alberto Zajotti il «Teatro» e Piero Pavan «Gli Sport»(62).
Qualche cosa di diverso si muove, una nuova generazione di apprendisti intellettuali viene avanti nell’anno del Decennale. È il promettente gruppo di studenti del G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti) veneziano, fra liceali e matricole, riuniti intorno ai fratelli Pasinetti. Non hanno fatto la guerra e hanno trovato il fascismo bell’e fatto, orizzonte precostituito e ambiente d’epoca. Mentre il futuro scrittore, Pier Maria, ha diciannove anni, Francesco, aspirante cineasta, è del 1911, ha ventun’anni come la «Gazzetta di Poesia» (sottotitolo) di cui sarà per un decennio direttore responsabile. Forse solo per questo si chiama «Il Ventuno» e apre con il tema dei «giovani», di coloro che non possono accontentarsi di leggere «Pègaso»(63); e forse, più sottilmente, per alludere a un ‘prima’ dell’assunzione del potere, proprio in quel 1932 saturo di celebrazioni della Marcia su Roma. Che questo possa avvenire avendo per sede il palazzo della federazione a S. Maurizio(64), testimonia — collezione del trisettimanale alla mano — delle briglie sciolte che gli adulti sono tutto sommato disposti per ora a lasciare a questi ragazzi, che faranno effettivamente onore a Venezia e che potrebbero costituire un buon investimento su quei «giovani» eredi designati di cui tutto il fascismo in età matura sta spiando il sorgere fra inquietudini ed enfatizzazioni. L’edizione dei Littoriali affidata dal centro proprio a Venezia nel 1935-1936 può vedersi come un punto di arrivo di un gruppo che ha ben lavorato. Si coglie subito che — a differenza dalle due o tre generazioni precedenti, ancora presenti nelle testate circostanti come soggetto attivo o per lo meno come termine di riferimento (i Foscari, i Molmenti, i Grimani e tutti i venezianissimi nomi sin qui ricorrenti) — «Il Ventuno» non è magnetizzato dal mito di Venezia: né da quello mortuario, né da quello emulativo dei reinneschi della memoria. La prima firma che si scorge nella prima pagina del nr. 1 è quella non veneziana di Mario Tobino, che è presente anche nella terza con Aria viareggina. Presenze, temi, trattazioni e reti di relazioni andranno poi sempre in questa direzione, quella di una rivista nazionale fatta a Venezia, ma che sin dal primo numero esibisce una redazione anche a Milano e persino, dal gennaio 1935, due «rappresentanze all’estero» a New York e a Parigi. Pier Maria constata che «Nel mondo e nella mentalità dei viaggiatori Venezia è stata lanciata come stazione di tristezza»; che nel cinema che la assume a sfondo dominano «falsità», «grottesco», «pacchianeria» e che fra tanti luoghi comuni che si ripetono, solo «il due per cento» di Venezia viene effettivamente conosciuta e mostrata(65). Galeazzo Biadene, dal 1934 redattore capo, ironizza blandamente sui riti e il paesaggio umano del Caffè Florian e relativo «senato» (la famosa saletta dove tutto è stato pensato dai predecessori, rivoluzioni ed esposizioni)(66). Non mancano i pezzi polemici, come quando Mario Macchioro finge un Esame al futuro giornalista, offrendo un divertito controcanto al linguaggio stereotipato che è intanto divenuto proprio di tutti i quotidiani, quelli veneziani non certo esclusi: «Come era il corteo? — Imponente e disciplinato. E la seduta? — Storica». E via seguitando in stile(67). O quando Alberto Magrini difende con vigore l’Architettura razionale a Venezia dal misoneismo e dai vade retro che si sono manifestati nella conferenza di un architetto dell’autorità di Duilio Torres(68): l’occasione è quella del concorso per il nuovo ponte dell’Accademia, dove viene escluso il progetto più innovativo e che, com’è noto, non si farà. O ancora, quando un editoriale del «Ventuno» — sarà di Francesco Pasinetti, che a Padova non deve avere ancora finito di persuadere lo storico dell’arte Achille Fiocco a concedergli la tesi che farà di lui il primo laureato in Storia del cinema di tutta l’università italiana — attacca frontalmente le Facoltà di Lettere: non ci servono, vivono fuori dal mondo, il nostro tempo non c’è, «Quest’epoca urgente, bruciante e importantissima che viviamo». Passi per tutte quelle ragazze che le riempiono, che tanto — si osserva con una brutta caduta d’epoca — non hanno bisogno di molto, andranno a fare le mamme. Ma per i giovani più vivi non possono bastare i pochissimi, tra i professori, che fanno eccezione e che si scoprono con «commossa meraviglia»(69). Tuttavia, un po’ perché nella maggioranza dei pezzi è vero, un po’ per erigere una difesa a questi affondo, lo stile che questi giovani dichiarano proprio è pacato e riflessivo. L’Invito — «invito alla serenità, alla cultura, al lavoro»(70) — passa anche attraverso i fondi del «Ventuno». Si attraversano interi numeri, pagine levigate e assorte, senza traccia esplicita del fascismo e senza che — in questa sorta di isola che pure resta la rivista del G.U.F. veneziano — venga nominato quel duce la cui frenetica nominazione intanto tutt’attorno è prescritta e incombe. Più che come futuri politici, questi studenti si pensano visibilmente come poeti, scrittori, artisti in pectore. E tuttavia, sin dal primo numero, più ancora che la poesia, l’arte, la letteratura, il teatro (il giovane Pietro Ingrao propone un Invito per un teatro sperimentale dei Guf (71)) si impone come sigillo della rivista il «Cinematografo», cui «Il Ventuno» dedica una pagina fissa, campo d’azione del direttore. E non si tratta solo di un cinema — italiano e internazionale — seguito nel suo farsi, raccontato e giudicato con le armi della critica e con una competenza tecnica che va crescendo. Pasinetti è un teorico e un organizzatore di cineclub, intende incrementare i luoghi della visione, formare dei capisaldi di competenze e di pubblico. Perciò saluta l’apertura del cineclub di Roma — con Palio del «nostro amico Blasetti»(72) —, vuole il cineclub a Venezia; e soprattutto pratica lui stesso la regia. «Il Ventuno» si fa cassa di risonanza dei primi film del suo direttore, produzione del G.U.F. veneziano, con tecnici, attori e comparse che sono i compagni di corso e di militanza: Entusiasmo, pubblicizzato come «il film degli universitari fascisti» e presentato in prima visione nella Settimana artistica organizzata proprio dal G.U.F. fra il 21 e il 28 aprile 1933 (fasc. 14); Una città che vive (1934, fasc. 19). Anche altri giovani del G.U.F. e del «Ventuno» (Biadene, Vittorio Cossato) si misurano con la nuova forma di espressione. La dimensione cinematografica motiva a mantenere i contatti — sia pure diradando le presenze e alcune firme — anche quando, con il 1935, mutano gli equilibri interni e esterni. Ai Littoriali del 1935 — dove il G.U.F. veneziano colleziona primi, secondi e terzi posti — si piazza solo quarto, in Critica letteraria, quell’Alfonso Comaschi che a differenza degli altri è un giovane politicamente in carriera(73). Sarà lui a gestire un successo che segna nel contempo una involuzione. I motivi sono anche di clima e di stretta politica generale, c’è la guerra e il fasc. 31 del settembre-ottobre 1935 si apre con un fondo a sua firma, A.O., che in altri tempi «Il Ventuno» dei Pasinetti si sarebbe forse potuto risparmiare. Ma poi il fasc. 32 annuncia che i Littoriali del 1936 sono stati assegnati a Venezia. Ora che gli occhi di tutti sono puntati sul G.U.F. veneziano, fanno subito la loro comparsa brani emblematici del dirigente nazionale dei giovani fascisti e futuro ministro della Cultura popolare nella Repubblica Sociale Fernando Mezzasoma(74), tratti dal suo libro Aspetti di vita borghese. Testata, copertina, referenti e pubblico ostentano la mutazione. Copertina e frontespizio, con aggiustamenti successivi, dichiarano infatti una doppia identità che fa del fascicolo del novembre 1935 insieme il nr. 11 della quarta annata de «Il Ventuno» e il nr. 1 della terza annata della «Rivista dei Littoriali»(75). Dal fasc. 33 (dicembre ’35), rimanendo Pasinetti direttore responsabile, Comaschi sostituisce Biadene come caporedattore. Fra luglio e settembre 1936 i fascc. 38 e 39 portano a compimento la mutazione e la rivista si riassesta laboriosamente come «Il Ventuno rivista dei Littoriali edita per incarico della segreteria nazionale dei gruppi universitari fascisti a cura del Guf di Venezia sotto gli auspici della Federazione Veneziana dei Fasci di Combattimento Cultura Arte Sport Lavoro». La trattazione dei Littoriali di Venezia sarà altrettanto burocratica della nuova testata(76).
Nella più esposta vetrina della stampa quotidiana, intanto, le stesse circostanze si riflettono senza neanche bisogno di stringere i freni. Gli equilibri generali sono stati fissati da un decennio. Finché non viene retrocessa a edizione serale del «Gazzettino» da Volpi — che nel 1939-1940, monopolio nel monopolio, acquisisce il controllo di tutt’e due le testate e quindi dell’informazione a Venezia(77) — la «Gazzetta di Venezia» ha in Gino Damerini il suo ventennale direttore stanziale: nazionalista della prima ora, profondamente radicato nella società veneziana, uomo di fiducia sia dell’establishment che delle gerarchie romane e — il che non guasta — storico di Venezia in proprio. La Realpolitik dell’amico-padrone non esita a restituire Damerini a quegli studi di storia veneziana che l’autore del Morosini(78) non ha mai trascurato, ma che ora può coltivare a tempo pieno, avendo anche lasciato la direzione del Sindacato giornalisti. Il suo volume su D’Annunzio e Venezia, edito da Mondadori nel 1943, rappresenta del resto ben più di un piacere erudito, poiché traccia la partecipe cronistoria delle origini di un ciclo di cui lui stesso e, diversamente, Volpi sono stati fra gli attori e che volge al termine(79). Di gran lunga più instabili, fra gli anni Trenta e Quaranta, gli assetti di vertice del «Gazzettino». Ennio Talamini resiste poco più di un anno al posto dove suo padre era rimasto per mezzo secolo. E del resto, il suo giornale appare meno ben fatto e anche meno veneziano di quello subito reimpostato da Giorgio Pini. Uomo di fiducia di Mussolini al «Popolo d’Italia», il trentasettenne bolognese arriva a Venezia da Genova dopo aver diretto a vent’anni «L’Assalto» nella sua città, e poi «Il Resto del Carlino», il «Giornale di Genova» e il «Corriere Mercantile», e firma come direttore dal 1° ottobre 1936(80). «Assumo in questo tempo nuovo la non lieve responsabilità del maggior quotidiano veneto, con entusiasmo di combattente e di vecchia camicia nera». Subito sotto questo suo Saluto militante, la «famiglia del Gazzettino», in poche righe, si adegua. Ennio sparisce. Ma così va il mondo in quegli anni di giornalismo commissariato da Roma — per dottrina, e non solo prassi contingente(81). A partire da Pini, repentini cambi della guardia fanno arrivare a Venezia — in questa inedita veste di ‘prefetti’ della comunicazione — cinque direttori in sette anni: Gino Rocca, Nino Cantalamessa, Giuseppe Ravegnani e, dopo l’intermezzo dei quarantacinque giorni, Guido Baroni. La direzione Pini dà maggior ordine alla materia, articola e rende più leggibile l’impaginazione, aggiunge immagini fotografiche, notizie sportive e soprattutto ripristina una pagina espressamente denominata «Gazzettino di Venezia». Un’amputazione permanente sia dell’informazione che dell’immaginario e del lessico cittadino — di cui perciò non si può far carico a una singola testata o a un solo direttore — è intendere per Venezia la città storica e ignorare Mestre e Marghera: questo nella quotidianità della cronaca, se non nei momenti augurali della «più grande Venezia». Il commediografo Gino Rocca — uomo di Mussolini sin dai tempi del primo «Popolo d’Italia»(82) — passa come una meteora in calle delle Acque, pur essendo legato alla città per la sua attività di autore e regista teatrale(83). È il quadriennio di Cantalamessa — «l’allineatissimo ‘Gazzettino’» dell’«allineatissimo Cantalamessa»(84) — a dover accompagnare le grandi scelte di schieramento ideologico, politico e militare. Coerentemente ai bisogni dell’ora e ai voleri del Ministero della Cultura popolare, la nuova prima pagina ha bisogno di spazio e di grandi titoli. La vecchia ragnatela dei trafiletti di poche righe e dei titoli su una sola colonna continua invece a caratterizzare le pagine interne, non però solo in senso divagante, come dispersivo pulviscolo, ma raccordando anche le notizie brevi alle coordinate e ai luoghi comuni di uno scontro epocale. Così più aspramente e scopertamente avviene per la «campagna antigiudaica». Perentori titoli su più colonne in prima, tipo Dichiarazioni di Goebbels (occhiello), La questione ebraica in Germania / sarà regolata prossimamente in via legale (titolo)(85); L’eliminazione degli ebrei / dalla vita economica tedesca(86). Più caratterizzante come strategia comunicativa la scelta di sventagliare faits divers di 10-20 righe, chiamati l’uno a riecheggiare e convalidare l’altro, costruendo via via per accumulo una sorta di metatesto che affolla la pagina delle «Ultime Notizie», derivando da tale collocazione ulteriori effetti di attrazione e drammatizzazione. In un solo giorno le «Ultime Notizie» impaginano, per esempio, una sopra l’altra, queste supposte grida plebiscitarie contro gli ebrei: Ricatto giudaico / al Governo inglese; Magazzini ebraici / distrutti a Bagdad; Cipro non vuole giudei(87).
Il combinato disposto delle due modalità di mobilitazione — titoloni e trafiletti — si registra in casi come la prima pagina del 20 novembre: il titolo assertivo su tre colonne I nefasti del giudaismo / contro ogni ordinato vivere civile fornisce una illimitata chiave generale a ben sette trafiletti sottostanti, ciascuno forte di un suo titolo su una colonna, atto a moltiplicare trucchi ed effetti revulsivi della messa in scena: L’oro dei giudei per la propaganda / contro la pacificazione europea; La piaga del giudaismo in Olanda; La condanna per spionaggio / di due ebrei in Romania; Viva ostilità in Messico / all’immigrazione ebraica; Epurazione in Ungheria / della stampa ebraica; Domini che non vogliono ebrei; Le proprietà dei giudei in provincia di Genova.
Con la concentrazione dei due quotidiani cittadini nelle mani della grande industria e in particolare di Volpi, uno dei due direttori — come si è detto — diventa di troppo e Cantalamessa subentra a Damerini per restringere la «Gazzetta» a edizione serale del ben più diffuso concorrente. Le 4 pagine dell’epoca sono poche e però, in rapporto alle notizie che in questi anni un giornale, per giunta della sera, è in condizione di dare, ancora troppe, tanto che abbondano i riempitivi. Difficile ridurre solo a questo l’aneddotica antiebraica, che continua spietata nello stile già esemplificato per il foglio del mattino: Le precettazioni degli ebrei / per lavoro a Padova nel «Notiziario Veneto» del 23 maggio 1942 (p. 2, una colonna) o i pensosi interrogativi giuridici connessi alla notizia da Roma di Una domestica ariana / percossa da un giudeo (4 giugno 1942, p. 1, una colonna). Si può parlare di riempitivo, invece, per le 200 puntate di romanzi come Amore che uccide di Carlo Comelli (1941-1942); ma non più di una pratica parassitaria appaiono in genere anche gli elzeviri di storia veneziana che aprono quotidianamente su due colonne il «Notiziario Veneto» di p. 2; e la spia sbadata di una penuria ai limiti della disperazione spunti di cronaca come le 10 tonnellate di carbone dolce donate alla federazione dei Fasci dal poglavnik della Croazia «in segno di cameratesca amicizia alle famiglie maggiormente bisognose dei richiamati alle armi»(88): 5 chili per ciascuna a 2.000 famiglie «scelte fra le più bisognose» appaiono l’equivalente patetico, seppur certosinamente ugualitario, della goccia nel mare; e tuttavia la rubrica di p. 3 su «Teatri-Concerti-Cinema» lascia anche indovinare accanto a queste miserie un’altra Venezia del tempo di guerra, se un qualunque mercoledì del 1942 (il 15 aprile) vanno in scena alla Fenice Lucrezia di Ottorino Respighi e Salomè di Richard Strauss, al Goldoni la rivisitazione dialettale di Pensaci, Giacomino! di Pirandello, opera di Emilio Baldanello, e si annuncia per venerdì il concerto di Arturo Benedetti Michelangeli al Circolo artistico presso il Conservatorio «Benedetto Marcello».
La guerra, intanto, procede, nella realtà e nei titoli, senza apprezzabili differenze nella «Gazzetta» e nel «Gazzettino». Le riflessioni latitano, l’articolo di fondo appare un genere impegnativo in declino, tutt’al più il duplice direttore, o chi per lui, può esercitarsi nel corsivo: ce ne sono di acri, all’indirizzo ora degli inglesi, ora di altri nemici, nell’angolo inferiore destro della prima pagina della «Gazzetta», di cui non si può dire che rivelino un artista della polemica. Come intanto vada davvero la guerra, lungo il corso del ’42 e ’43, nessuno sarebbe umanamente in grado di dirlo, in quanto semplice abitatore dei mondi virtuali del «Gazzettino» o della «Gazzetta». Si sta sempre vincendo, ma l’arte di vincere — nei giornali — deve molto, come si sa, oltre che alla falsificazione pura e semplice, alla reticenza, alla censura dei fatti sgraditi e alla tecnica di scomporre gli eventi, perdendo e facendo perdere il senso della sintesi e del generale. Una prudente dissociazione dai toni più guerreschi e il pensiero del domani si possono indovinare nella «Settimana Religiosa», tuttora affidata alle cure di don Bisacco. Il settimanale diocesano apre il 1941 con la Parola d’ordine: / Abbiamo fiducia!(89), peraltro assai meno netto nel testo di quanto appaia nel titolo: vi si parla infatti pochissimo, in maniera diretta, di guerra, per arrivare piuttosto a fissare l’onnicomprensivo e un po’ disarmante assunto che «Quanto avviene nel mondo, avviene perché Dio così permette». Nel maggio dello stesso 1941 l’immedesimazione acritica nel risorgente «Impero di Roma» tocca uno dei suoi vertici in una puntata della rubrica «Gli Avvenimenti» destinata — per ora in prima pagina e, man mano che la guerra va peggio, in collocazione più defilata, sino all’estinzione — ad aggiornare su temi extrareligiosi. In realtà, come si può vedere, la promiscuità clerico-fascista rappresenta la nota dominante: «Lubiana, capitale della Slovenia, ha accolto col più vivo giubilo l’annunzio della sua annessione all’Italia quale capoluogo della nuova provincia autonoma. Interprete dei comuni sentimenti della popolazione cattolica l’Ecc.za il vescovo Mr. Gregorio Kozman ha così telegrafato al Duce: ‘Duce, nell’apprendere con vivo giubilo l’incorporamento dei territori sloveni occupati dall’Esercito italiano’, ecc. ecc.»(90).. Il testo prosegue manifestando quanto si siano dilatatati e abbiano messo radici, anche al di fuori delle matrici originarie, il mito veneziano e i suoi intrecci mentali con l’idea di Roma:
Tutta la costa Dalmata dell’Adriatico è stata occupata dalle truppe italiane che hanno trovato ovunque le vestigia eloquenti della prima conquista romana e della successiva dominazione veneta.
Il tricolore è stato issato su tutti i principali centri costieri, ed è stato pure issato sulle principali isole dell’Jonio e dell’Egeo che, al pari della Dalmazia, conservano fedelmente la tradizione romana e veneziana del plurisecolare dominio. Corfù, Cefalonia, Zante sono ora altrettante gemme della corona adriatica che l’Italia ha fatto nuovamente sua(91).
Un anno dopo si possono ormai leggere titoli su più colonne che, al riparo dell’autorità pontificia, cominciano a insinuare idee di pace(92). In luglio, tuttavia, la morte della madre dell’eroe cattolico della Grande guerra Giosuè Borsi suggerisce ancora al direttore analogie e pronostici impegnativi: «La meta può ancora essere contrastata e lontana, ma il suo raggiungimento non può essere dubbio, perché alla virtù degli antichi come dei nuovissimi Eroi, al merito della loro generosità non può mancare il premio di una Divina ricompensa»(93). Saranno i suoi successori(94) a finalizzare in chiave pacifista tutta l’opera di Pio XII(95).
Nel marzo 1943 arriva al «Gazzettino» da Ferrara, al posto di Cantalamessa, un nuovo direttore, di profilo culturale superiore: è Giuseppe Ravegnani, narratore e critico letterario in proprio, che a Ferrara dirigeva dal 1929 le pagine culturali, ben fatte e ben frequentate, del «Corriere Padano» di Nello Quilici e Italo Balbo(96). Ha poco tempo prima del 25 luglio e la prima pagina rimane altrettanto irta di titoli gridati e di ingannevoli successi parziali. Una notizia che resta per più giorni in pagina è l’eroica morte dell’irredentista maltese Carmelo Borg Pisani, fucilato dagli inglesi, che può leggersi come un sintomo alla Giarabub, di morte e di gloria, come quelle che caratterizzeranno fra poco il tragico masochismo del fascismo dell’ora estrema. Qualche effetto della mano diversa si può notare in una terza pagina meno informe e più ricca di firme: Mario Missiroli(97), Beniamino Dal Fabbro, Giuseppe Gorgerino, ma anche scrittori veneti affermati o agli esordi quali Comisso e Antonio Barolini. Oltre alle divagazioni al femminile di cui è una specialista Teresa Sensi — consorte del pittore Dalla Zorza e navigatrice di lungo corso della stampa veneziana fra le due guerre e dopo — vi si incontrano Dario Ortolani, inviato di guerra con la Marina; il vecchio irredentista dalmata e studioso di cose risorgimentali Giuseppe Solitro (padre del podestà di Padova Guido Solitro); ma anche professori di Ca’ Foscari come l’italianista Arturo Pompeati; o il giovane storico dell’arte Rodolfo Pallucchini, che sta proponendosi come il nuovo organizzatore di mostre d’arte a disposizione di Venezia, cumulando in sé, alla maniera di Nino Barbantini, le attenzioni talvolta in passato disgiunte per la tradizione e per il nuovo; e un Ernesto Buonaiuti che, ad onta delle umiliazioni inflittegli da Chiesa e Stato, parla della guerra di Spagna parteggiando per la Spagna cristiana e mistica(98). La spia di aperture culturali, in questo grande estimatore di De Chirico, si può cogliere in qualche battuta pro e contro l’arte contemporanea e in particolare a proposito del già emblematico Picasso, artista d’avanguardia, e comunista per giunta. Ravegnani dichiara chiusa la discussione il 5 maggio, e anche con una certa affettazione di bruschezza, sceglie però di farlo dando la parola, fra le diverse lettere che dice di avere ricevuto al giornale da favorevoli e contrari, a un estimatore di Picasso — Giorgio Zecchi, S. Marco 150 — la cui lettera viene intitolata Il lettore provveduto. Ancora di Picasso. Il direttore, però, non può risolversi nell’uomo di cultura. Lo sbarco in Sicilia muove Ravegnani a un fondo, Faccia a faccia (11 luglio 1943), che è un appassionato concentrato, messo in bella, dei luoghi comuni antinomici su oro e sangue, popoli storici e senza storia, Europa e anti-Europa, noi e loro(99), cioè «questa Italia antica e nuova» e i «giovani ‘yankees’ […] giovani barbari». Sulla trincea di una guerra non più solo nazionale, ma continentale e di civiltà, il «Gazzettino» riesce anche a schierare un nome come Buonaiuti (Gli extra-europei, 15 luglio 1943). Il controcanto, fra prosaico e patetico, sta in chiamate alla resistenza meno alate e più strette al quotidiano, come quando, nella piccola cronaca rivelatrice del «Gazzettino di Venezia» a p. 2, ci si impegna con titoli su due colonne per le Riparazioni delle calzature (titolo), Nessun artigiano può esimersi dall’accettare qualunque riparazione / Nuovo invito al pubblico (sottotitolo)(100). Ma ormai, ci siamo. C’è giusto il tempo, domenica 25 luglio (!), per annunciare la nomina a segretario politico della federazione di un prodotto del vivaio a noi non del tutto ignoto(101).
Lunedì 26 luglio l’edizione del pomeriggio del «Gazzettino» — che pur reca ancora la firma, come direttore responsabile, di Ravegnani — fa già a tempo a immettersi festante nei giubili ecumenici del nuovo corso, titolando a otto colonne Mussolini dimissionario / Il Re assume il comando delle forze armate / Badoglio capo del Governo militare e aggiungendo un fondino Viva l’Italia! Viva il Re!. Mutato il senso politico delle cose, non sembra mutare la scenografia. Il titolo di p. 2 — La grandiosa dimostrazione / di stamane in piazza S. Marco — lo si sarebbe potuto riprendere, già composto, dai piombi della tipografia dei tempi dell’interventismo o della visita del duce e di altre coreografie d’epoca e ritornanti scene di massa cittadine. Il senso di déjà vu si accentua anche nelle piccole cose, quasi dei ‘clic’ ai margini della politica. Un uomo nuovo, il ragioniere-scrittore Ugo Facco De Lagarda non aspetta un giorno per riandare a Uomini di ieri, con un Ricordo di Pompeo Molmenti(102). Venezianissimo Heri dicebamus. Il cerchio sembra chiudersi. Un ‘refolo’ di nuovo il 28. Non nel titolo(103), simile ai tanti altri titoli assolutori che giornali e giornalisti già di regime si industriano intanto a fare in attesa di distinguere da che parte soffi il vento, ma in un fondino senza titolo dove si informa che «I redattori del Gazzettino sono addivenuti, con il benestare della proprietà del giornale, alla nomina di un Comitato di direzione, così composto: Enzo Duse, Danilo Gavagnin, Enrico Motta. Responsabile: Enrico Motta». Segue, non firmato, Il compito dell’ora, con un passaggio almeno non frivolo: «Un fremito di vita ha percorso la penisola ed ha intensamente vibrato nelle piazze che per tanti anni non conobbero altro entusiasmo se non quello comandato. […] Oggi, dopo ventun anno, i cittadini italiani ridiventano uguali davanti alla legge. Chi ha provato le conseguenze della illegalità ha respirato a fondo». La reggenza a tre dura quindici giorni, all’insegna del «realismo e fermezza» che contraddistinguono — si afferma — Il riassetto della vita nazionale(104). Fra i segnali, da una parte il richiamo alle armi dei dirigenti del «disciolto partito», dall’altra la liberazione di uomini come Guido De Ruggiero o Tommaso Fiore (1° agosto 1943, p. 1). Domenica 12 agosto «il prof. Diego Valeri assume con l’approvazione del Ministero della cultura popolare, la direzione del ‘Gazzettino’ e della ‘Gazzetta di Venezia’». Il poeta-professore è da anni una presenza stabile nella cultura veneziana, lo abbiamo incontrato garbato critico letterario nella rivista della federazione; ma all’uscita dalla dittatura tutta Italia dà nei vari settori e ruoli ciò che in quel momento può dare e il continuismo più venezianamente si esprime nei sottintesi assertivi del comunicato che «questi due giornali [...] rappresentano la viva voce delle genti venete» (12 agosto, p. 1). Prende subito piede così, anche nel nostro campo, la mutua complicità di un’accomodante derubricazione del fascismo a parentesi. Nel suo solo mese di direzione, Valeri ha un giornale a un solo foglio da gestire e i segni di un nuovo corso che ruotano intorno a più o meno pittoresche cronache ad hominem, quali l’arresto di un prototipo conclamato ed estremo della differenza fascista indifendibile quale «il famigerato Dumini» (13 agosto 1943): «uno, finalmente, è caduto nella rete. A quando gli altri?»(105); il «brutto quarto d’ora» dell’anziana signora che una «folla minacciosa di bagnanti» scambia per la madre dell’uccisore di Matteotti, al Lido(106) (16 agosto, p. 2); l’arresto dei capi del fascismo veneziano Dino Cagetti ed Eugenio Montesi(107) e il processo in cui quest’ultimo non si mostra più così tracotante come la città lo conosceva; ma anche, il 15 e di nuovo il 19, si trova lo spazio per ragionare di conflitti simbolici meno immediati, che hanno per protagonista il medaglione in bronzo di Felice Cavallotti — modellato da Carlo Lorenzetti, su testo di Giovanni Bordiga — che nel 1939 i fascisti hanno smurato da campo S. Stefano e che è stato ora rinvenuto in una discarica al Macello comunale. «Dopo venti giorni e più di aria nuova» si potrebbe — se non averlo già rimesso in sito — per lo meno trarlo dall’immondezzaio(108)!
Lunedì 13 settembre sparisce la firma di Valeri e non ne compare in sua vece un’altra: il giornale lo fanno i tedeschi che hanno occupato la città. Titolo su otto colonne su un discorso di Hitler in quanto capo europeo e sulla liberazione di Mussolini(109); di spalla il dott. Alfred Lindemann illustra La nuova situazione, che risulta anche più chiara in seconda dove la cronaca cittadina si apre con un comunicato del comando militare tedesco Alla popolazione / della città di Venezia. Comandano loro, stare tranquilli. E un lunare inno alla normalità vorrebbe essere in questa fase tutto il giornale: la domenica Concerto della banda in piazza, e il lunedì le coppie tubano, non mancano interventi su Sebastiano del Piombo e pezzi di colore sui ponti di Venezia(110); la situazione è così normale che Eugenio Montesi, reggente la federazione del Fascio repubblicano, invita a tornare «tutti gli aderenti a varie tendenze politiche» che si sono allontanati, basta che «si astengano da manifestazioni anti-nazionali e antitedesche»(111). L’interludio si avvia a una conclusione formale con il 26 settembre: da questa data, per quasi un mese, il segretario regionale del Sindacato giornalisti, che è ora Nino Scorzon(112), firma il giornale, non però come direttore, ma come «redattore responsabile»(113). È solo un altro mese dopo, dal 24 ottobre, che il «Gazzettino» si vede assegnare un direttore stabile, per tutto il periodo della Repubblica Sociale Italiana, nella persona dello squadrista toscano della «Disperata» Guido Baroni; la carriera di questi è stata circondata da incredulità diffusa per le sue qualità professionali, ma i rapporti interessati con Galeazzo Ciano, dei cui meriti squadristici si è professato testimone, lo hanno già innalzato alla direzione del «Popolo di Roma»; ora che questa protezione è divenuta controproducente, garantiscono per lui il passato di ante Marcia, una proprietà che deve stare attenta a come si muove(114) e la scelta stessa di restare in campo. Un altro del clan Ciano — il più famoso Giovanni Ansaldo, ex direttore del «Telegrafo» e voce preminente dell’E.I.A.R. (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) — legge e commenta a questo modo un pezzo di quell’ex camerata in un «Gazzettino» del ’44 che gli capita fra le mani nel campo di prigionia tedesco, dove alterna l’orrore per la fucilazione per i suoi trascorsi di regime che paventa lo attenda al ritorno e le speranze di riciclarsi nonostante tutto nuovamente, stavolta all’ombra degli inglesi e della Chiesa cattolica (sarà direttore del «Mattino» di Napoli dal 1950 al 1965): «tutto sommato, l’essere condannato a scrivere delle abominazioni simili sarebbe forse ancora peggio che l’essere costretto a vivere miseramente, come vivo»(115).
L’oscuramento è decretato dalle 17.30 alle 7.20, eppure vivere a Venezia in quei due anni non comporta solo squallore. Anche la pagina del «Gazzettino» è a luci intermittenti. La morte in guerra — e anche in quella particolare e più livida guerra che è la guerra civile — non è più sottoposta a censura. Si uccide e si viene uccisi. I «fuorilegge» esistono, sono temibili, commettono sempre nuovi «crimini». Sono ormai quotidiani i necrologi di militari e di civili, caduti sotto i bombardamenti o per altre cause di guerra. Non più esorcizzabile dalla sfera pubblica, la morte eroicizzata diventa notizia e rito(116). Dramma e mestizia vengono comunque intercalati da titoli e pezzi d’altro taglio, lusinghieri e affabulatori: nel gennaio del ’45 Il Fascismo guadagna terreno / ed è attivissimo ovunque(117); il 13 marzo Il Papa è favorevole alla socializzazione; Alfredo Cucco, sottosegretario al Ministero della Cultura popolare, celebra l’anniversario del Quarantotto siciliano(118) assicurando che se ne sta preparando un altro, e anche un altro 1860; potrebbe esserci una liberazione da sud, con i siciliani «sempre in piedi nel solco della storia» e con i Savoia, stavolta, nelle parti dei Borboni reazionari. Siamo nel ’45 e le evocazioni di una resistenza fascista dietro le linee anglo-americane erano cominciate nel ’43(119).
Nel groviglio di dileguamenti e riapparizioni, di reinterpretazioni e palingenesi, il ’43-’45 vede anche rimaterializzarsi il fantasma di Marsich attraverso la ricomparsa del suo giornale «Italia Nuova»(120) e di qualche suo uomo(121); trasferirsi o trovare collocazione a Venezia — fra i tanti uffici e istituti — anche testate ufficiali più o meno precarie, italiane e tedesche, quali «Luftflotte Sud» (1943-1944), «Corrispondenza Repubblicana» (1943-1944), «Il Camerata Italiano» (1944), «Scienza Europea», bimestrale dell’Istituto germanico (1944-1945); vede anche nascere, accanto all’organo diocesano ufficiale «La Settimana Religiosa», un più zelante e mondanamente schierato «L’Italia Cattolica»(122); e accorrere a Venezia gli ultras del clerico-fascismo repubblicano, religiosamente ai confini fra ortodossia e scisma. Quando, domenica 25 febbraio 1945, il farinacciano don Tullio Calcagno viene a Venezia a caldeggiare l’azione del suo giornale e movimento «Crociata Italica»(123), il Teatro Malibran a detta del «Gazzettino» si riempie, anche se — dalle sue stesse cronache trionfalistiche(124) — le autorità del patriarcato risultano assenti. Il Vaticano, del resto, ha provveduto a sganciarsi dalla Repubblica Sociale e a maggior ragione da quel religioso troppo ardente e intempestivo e lo stesso patriarca Piazza deve muoversi con accortezza, proprio in quanto, fra i presuli delle grandi diocesi, notoriamente uno dei più teneri con il regime.
Persino i fascisti dell’ora più estrema arrivano a prospettare la transizione ormai in atto come un crepuscolo che sia al tempo stesso tramonto e alba.
Una cosa però è certa, qualunque siano gli avvenimenti futuri. La Repubblica Sociale ha dato agli italiani la spina dorsale di un ordinamento futuro.
I marocchini passano, i brasiliani passano, i canadesi passano, gli indiani passano, i polacchi passano, i sudafricani passano, i neozelandesi passano, i nordamericani passano, gli inglesi passano, gli slavi passano, i russi passano… L’Italia resta(125).
È il 25 aprile del «Gazzettino» fascista. Venerdì 27 — nell’ultimo numero firmato da Baroni — quel concentratissimo ciclo finale si chiude così come si era aperto il 13 settembre del ’43: lasciando la parola ai tedeschi. Non ci saranno distruzioni se non ci sarà lotta(126).
Sabato 28 il comando piazza del C.V.L. (Corpo dei Volontari della Libertà) fa uscire un foglietto dalla complessa testata: «Fratelli d’Italia-Il Gazzettino-Organo del Comitato Regionale Veneto di Liberazione nazionale»: anche questo un modo per far di cappello ai potenti meccanismi di radicazione e continuità che si esprimono nell’istituzione giornalistica locale e nello stesso tempo — è ovvio — per segnalare chi ne ha preso possesso e le dà voce. Il designato alla firma è un uomo della Resistenza cattolica, Francesco Semi. Per quasi tre mesi il «Gazzettino» è tenuto in quarantena e, in sua assenza, il paesaggio giornalistico si fa volubile e mosso, rendendo più che mai arduo mantenere per parte nostra una linea e, nello stesso tempo, non rinunciare del tutto ai particolari e ai testi. Tre sono i nodi evidenziati da quel 1945-1946 della stampa, da cui usciranno scelte e assestamenti di lungo periodo. Per prima cosa, la voglia di esserci, di uscire dal silenzio e di contare delle piccole testate, quotidiane e non, di ambito provinciale o regionale, che si affollano, escono come e quando possono, per qualche giorno o settimana, come espressione o all’ombra del C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) e del P.W.B. (Psychological Warfare Branch)(127). Tipica effervescenza da Stato nascente, che meriterebbe di per sé una considerazione analitica, a partire dal ricupero e riordino delle collezioni integrali. Il secondo nodo concerne la proprietà del «Gazzettino», questione spinosa per motivi attinenti sia alla sfera privata che pubblica. È stato legittimo, a suo tempo, il passaggio di proprietà dai Talamini a Volpi? È legittimo, adesso, che uno dei nuovi capi emergenti, il democristiano Pietro Mentasti, metta tutti gli altri esponenti del C.L.N., e persino qualcuno del suo stesso partito, di fronte al fatto compiuto, e cioè che Volpi si è comprato una sanatoria politica per i suoi trascorsi fascisti di primissimo piano regalando a Mentasti, e quindi ai nuovi potenti, le azioni del «Gazzettino»(128)? A partire da quella folgorante rivelazione se ne discute per decenni in tutte le possibili sedi. Il terzo nodo di questioni — esauritasi in soli otto mesi la direzione di Armando Gavagnin, antifascista storico e redattore del giornale sino all’arresto nel 1928(129), perduta cioè la battaglia per il controllo «pluralistico» del «Gazzettino»(130) — vede un duplice tentativo di costruirgli un’alternativa, non limitata ai periodici di partito che pure prolungano la propria vita più o meno effimera fra guerra e dopoguerra: «Giustizia e Libertà» degli azionisti, diretto da Agostino Zanon Dal Bo; «La Voce del Popolo», settimanale della federazione veneziana del P.C.I. (Partito Comunista Italiano)(131); l’antica testata del «Secolo Nuovo», ricuperata dai socialisti; «Veneto Liberale»; e il più longevo «Popolo del Veneto», diretto da Pietro Lizier e Antonio Meccoli, organo dei democristiani, che sono quelli che meno in teoria ne avrebbero bisogno visto che detengono proprietà e direzione del quotidiano «di tutti», oltre che trovare appoggio nel nuovo settimanale diocesano, che — lungi dagli apparenti riserbi della liquidata «Settimana Religiosa» — si attribuisce nel ’46 un nome squillante, titolare di ogni possibile autorità anche rispetto al mondo esterno: «La Voce di San Marco». A provarsi per primi nell’avventura ambiziosa di un quotidiano concorrente sono i comunisti. Parrebbe lapalissiano: ci sono le forze e i voti per eleggere il sindaco, perché non dovrebbero esserci per garantirsi un’informazione non ostile? Speranze e candori del dopoguerra. L’Emilia, la Toscana e altri luoghi della penisola sono certo più «rossi» del Veneto o di Venezia, e tuttavia sono e saranno anch’essi esposti al controcanto pressoché permanente di una monocultura giornalistica che incorpora le spinte, le idiosincrasie e le memorie del blocco sociale che ha sostenuto il fascismo(132). Dura quindici mesi la fase comunista — proprietà e direzione — de «Il Mattino del Popolo», «quotidiano politico di informazione». Ha un solo foglio, su otto colonne, degli stessi formato e caratteri del «Gazzettino», si fa del resto in calle delle Acque e si direbbe fra condannato e voglioso di ricalcarlo. Non per niente, però, il primo numero reca la data del 1° maggio del ’46 e lo dirige Giuseppe Gaddi: uno sperimentato uomo di partito, pronto a moltiplicare i ruoli e che fa e firma in tutti i modi il giornale per qualche mese prima di congedarsi «chiamato ad altro incarico»(133). Nel fondo di apertura, Primo Maggio, Gaddi esalta l’unità finalmente raggiunta dei lavoratori, richiamandone volonterosamente a precedente, sin dal 1908, il vescovo Geremia Bonomelli; «G.G.», entusiasta di Con Roma e con Mosca, consiglia in particolare il libro appena uscito di Guido Miglioli(134) ai parroci di campagna e a tutti coloro che vorrebbero dividere i lavoratori (nr. 1, p. 2); «Giuseppe» apre un contenzioso storico-politico a fini referendari in un servizio a puntate su Casa Savoia davanti alla storia (dal 2 maggio)(135). Più di una volta il foglio adotta come suoi editoriali articoli di Togliatti. L’attivismo non verrà meno, ma ci dà anche il senso della povertà dei mezzi e delle necessità di improvvisazione. Sarà anche per questo — e non solo per inveterata opacità — che le buone intenzioni espresse nella denominazione della seconda facciata del foglio «Dalla Laguna alla Terraferma» non riusciranno neppure questa volta a portare sistematicamente in pagina Marghera e Mestre. Se non ci riesce un ex operaio e operaista come Gaddi, è da pensare che le resistenze e le difficoltà nel riconcettualizzare il senso e il perimetro della città siano davvero molte. Dopo 32 numeri, il 7 giugno, la seconda pagina si rassegna realisticamente a tornare un «Notiziario Veneziano» e in questa rinuncia stanno già le premesse del fallimento, cioè la difficoltà di crearsi in tempi rapidi un pubblico di parte operaia, educato a leggere un quotidiano locale e sottratto alla dipendenza dal «Gazzettino». Gli altri due uomini della Resistenza che gli succedono alla testa del giornale — Ugo Arcuno, dal 21 ottobre ’46 al 31 agosto ’47, e Orfeo Vangelista, sino al cambio di proprietà e di linea del «Mattino del Popolo» — non avranno molto più tempo. Non è facile diventare per davvero quello che il «Mattino del Popolo» pretenderebbe già di essere e di voler continuare a essere: «l’unico quotidiano del Veneto al servizio delle masse popolari, dei bisogni e delle aspirazioni delle quali vuol essere il portatore»(136). La seconda e la terza direzione danno più respiro al giornale, sono in grado di coinvolgervi giovani destinati a una buona carriera giornalistica come Emanuele Rocco o Alberto Jacoviello e intellettuali di più generazioni, con o senza radici locali, come Umberto Barbaro(137), Roberto Cessi, Bruno Visentini(138), Luigi Ferrante, Francesco Tullio Roffarè(139), Elio Chinol, Aldo Camerino. Fa la sua comparsa anche Luigi Salvatorelli, poi fondista accreditato della rinascita liberal-democratica del «Mattino del Popolo» aperta dal neodirettore Tito de Stefano nel suo editoriale di avvio mercoledì 1° ottobre 1947. Nel Saluto ai lettori la «cessante gestione» «augura loro di continuare ad avere nel ‘Mattino del Popolo’ un informatore attento e veritiero come finora è stato, in difesa dell’indipendenza nazionale, delle istituzioni repubblicane e democratiche, degli interessi dei lavoratori»(140). Tito de Stefano — che nel triennio 1947-1950, prima nel quotidiano poi nel settimanale che ne deriva con il meno squillante nome «Cronache Veneziane», si afferma come l’uomo nuovo del giornalismo a Venezia e che è destinato a una apprezzabile carriera nazionale — lo chiarisce subito, non senza bruschezza: «Da oggi la testata del giornale non è più della Federazione comunista di Venezia e cioè il ‘Mattino del Popolo’ non è più un giornale comunista». Quel fondo ha però per titolo Giornali e libertà, ponendo immediatamente quello che sarà il Leitmotiv del suo impegno e lo spirito dei due giornali: non c’è solo il fascismo a violare la libertà di informare ed essere informati, c’è anche «la legge del denaro». A poco più di due anni e mezzo dalla Liberazione, stanno morendo uno per uno i giornali nuovi, le solite cinque o sei grandi testate controllano tutta l’informazione, i direttori del ’45 vengono mandati via, l’epurazione della categoria è miseramente fallita, i fascisti ritornano(141). È giusto? Non è giusto. Sia nel «Mattino» che in «Cronache Veneziane» le scelte di valore contano. Non per niente vi circolano — e ancor più nel settimanale, sgombro da impegni di cronaca — gli spiriti e i rigori dell’azionismo. Nei due anni di «Mattino» liberal-democratico, fondi e interventi vengono chiesti a Salvatorelli, Aldo Garosci, Aldo Capitini, e poi Umberto Morra, Umberto Segre, Arrigo Cajumi, Gino Luzzatto, Zanon Dal Bo, Giorgio Vecchietti, Renzo Renzi, Gigi Ghirotti, Lamberto Sechi, Sandro Bolchi, Sergio Telmon; i servizi romani li confeziona Vittorio Gorresio; la pagina della cultura, grazie alla presenza da animatore di Giuseppe Marchiori, segue non episodicamente le arti a Venezia, presentando e facendo interloquire i nuovi artisti veneziani e non veneziani; ricupera il meglio delle precedenti collaborazioni culturali alla stampa veneziana fra le due guerre (Francesco Pasinetti, Beniamino Dal Fabbro, Neri Pozza, Lea Quaretti); si apre a prestigiose e variegate presenze esterne, quali Ungaretti, Cardarelli, Stuparich, Giovanna Bemporad, Carlo Bo. Lo stesso Tito de Stefano è un direttore che scrive, si espone, ha una penna lucida e pugnace. Eccone due prove, un corsivo e un fondo. Il primo, del 1° aprile 1948, deplora il clima bellicista della contrapposizione preelettorale e così ne individua le ragioni interne:
[…] perché non dire che tutti i partiti senza eccezione sono andati a gara nel rimettere all’onor del mondo, e spesso nei posti di delicata responsabilità (giornali in prima linea), gli stessi uomini allenati a sciacquarsi la bocca con le mistiche e le mitologie del defunto regime?
Le botti danno il vino che hanno. E qual meraviglia, dunque, se i quotidiani di partito e indipendenti diretti dalla jeunesse dorée dell’era mussoliniana, littori e figli di papà, teorici del corporativismo e profeti del secondo fascismo, e nelle cui retrovie pullulano i redattori agli esteri della ‘guerra sola igiene del mondo’ e degli sputi alla Russia o alle ‘decrepite democrazie occidentali’, secernano ancora oggi il veleno dell’intolleranza e dell’odio e bandiscano il nuovissimo ‘verbo’ degli eterni voltagabbana che li scrivono(142).
Parole forti, non riducibili all’amarezza morale per i riciclaggi che si potevano vedere anche in città e nel «Gazzettino», inesorabilmente brutto e vincente. Sino alle soglie del 18 aprile il «Mattino del Popolo» si divincola dall’obbligo di schierarsi o di qua o di là, ragiona e, si può dire, vota da «terzaforzista»: convinto — lo esplicita infine domenica 18 aprile — che «la schiacciante vittoria di una delle due maggiori fazioni ci porterebbe prima o poi fuori dal terreno democratico»(143); è però maggiormente incline a dar credito alle sinistre nella continuità degli spiriti nazionali e democratici della Resistenza, che non al partito cattolico. Due giorni prima delle elezioni, il fondo non firmato Opporsi al conformismo è il manifesto di un liberalismo che non c’è e che meno che mai ci sarà nell’Italia degli anni che si vanno aprendo: «Che fine farebbero le libertà ‘borghesi’ in un’Italia comunista, basta leggere alcuni libri per impararlo con poca spesa». Tutto il resto del pezzo si riferisce non a ciò che potrebbe accadere, ma a ciò che è già: «La radio è un feudo Dc. I giornali, dal ‘Corriere’ all’ultimo foglio di provincia, sono quasi tutti in mano democristiana o para-democristiana. La scuola, è meglio non parlarne. Per sapere come vadano il cinema e il teatro, basta guardare la fotografia di Andreotti. […] codesti cattolici verniciati di liberalismo vengono fuori dalle tavole del Sillabo o dal saio di padre Gemelli: sarà un errore imperdonabile, ma l’istinto ci dice di non fidarci»(144).
Ebbene, sì. Il «Mattino» e il suo direttore non solo sono antifascisti e «unitari», si permettono anche di essere laici e anticlericali. Lo rimangono coerentemente nei sette mesi di vita che ancora gli rimangono. Le vicende internazionali e il dopo-elezioni suggeriscono di marcare ideologicamente l’anticomunismo, ma non portano a smussare politicamente né l’antifascismo né l’opposizione al governo De Gasperi. Il giornale fa una buona morte. L’annuncia d’un tratto un riquadro a firma della redazione, nella prima pagina del 24 dicembre 1948. Le motivazioni sono, insieme, generali e specifiche. Accade a Venezia ciò che sta accadendo altrove alla «superstite stampa libera del nostro paese». Soccombe perché non ha capitali adeguati per reggere ai costi, perché non dispone di appoggi pubblici e privati, e, specifica l’addio del «Mattino del Popolo», per «l’onere schiacciante delle spese generali, le condizioni monopolistiche del mercato della carta»(145). È ciò che confermano, anni dopo, gli storici della stampa veneta(146). Il giornale vendeva 10.000 copie, si stava dunque costruendo un suo pubblico. È la tipografia dell’Editoriale S. Marco, presso cui, al solito, è costretto a stampare, in pratica è il suo stesso avversario diretto, il «Gazzettino», la D.C. (Democrazia Cristiana), a strozzarlo scientemente in fasce.
Non meraviglia che «Cronache Veneziane» apra il primo numero del 1950 sparando in prima pagina il suo j’accuse, diretto e nominativo, al senatore Mentasti(147). A coronamento — iperrealista — del quinquennio, un giornalista di Salò è appena diventato direttore del «Gazzettino»(148). Lo sarà per dieci anni. A Venezia, per chi è legato alla pregiudiziale antifascista, è questo un segnale ancora più sinistro dei prìncipi del trasformismo come Ansaldo mandati a Napoli a dirigere il «Mattino» o come Missiroli al «Messaggero» e al «Corriere». La D.C. non ha presentabili uomini suoi per tutti i posti di potere che le circostanze della guerra fredda la portano a occupare; deve servirsi di chi ci sta a far blocco, per motivi opportunistici o di schieramento, ovvero di chi — anticipando nei fatti la realistica immagine di un ex fascista e liberale di risulta come Montanelli: anche per questo tanto rappresentativo e venerato(149) — vota e fa votare per la D.C. «turandosi il naso»(150). A Venezia — interrotto sul nascere il tentativo ciellenista di reinnescare nel «Gazzettino» gli spiriti laici e progressivi delle origini — il vecchio-nuovo partito di governo ha già posto due fiduciari(151) alla testa del giornale che nel momento del pericolo il realismo del conte Volpi ha depositato nelle sue mani. Adesso fa di peggio, emette un crudo segnale(152), spiazzante anche per quella parte dei cattolici che si sono scaldati al fuoco della Resistenza. Il neodirettore, che invano chiede udienza per i saluti di rito al sindaco della giunta di sinistra Giobatta Gianquinto(153), era capocronista del «Gazzettino», oltre che novelliere nella «Gazzetta», nei più cruenti giorni della guerra civile: quando le due testate attaccavano i «fuorilegge», cioè gli antifascisti, e plaudivano alla loro esecuzione. Nell’interpretare il senso di scandalo per simili riapparizioni «Cronache Veneziane» si agita molto(154), fa sulla questione «Gazzettino» una vera e propria campagna di stampa, risale indietro nel tempo(155), riesce a far intervenire l’ex proprietario e direttore Ennio Talamini(156) (al quale, dell’impero di famiglia, sono rimaste solo una pallida versione del «Gazzettino Illustrato», riapparso con una nuova serie dal 1947, e la speranza di riprendersi prima o poi il quotidiano per via giudiziaria); riesce a far intervenire l’ex commissario del C.L.N. Facco De Lagarda(157); ma non Mentasti, il nuovo uomo forte della D.C. e del giornale, che non ha bisogno di dare risposte alle insistenti chiamate in causa di quel grillo parlante(158). L’aggressività finisce così per tradursi in un effetto boomerang per la constatata sproporzione delle forze. Non è tuttavia il caso di schiacciare per intero su questa polemica e sull’impotenza che ne deriva questo ricco e in se stesso vitale «Settimanale di Vita e Problemi Cittadini», uscito col suo primo numero a 12 pagine domenica 4 settembre 1949 e attivamente vissuto sino al nr. 16 del secondo anno, 14 maggio 1950. Erede esplicito della stagione del ’45 e più direttamente della seconda fase del «Mattino del Popolo», ha in comune con quell’anti-«Gazzettino» allo stato nascente il direttore, molte firme(159) e la generale chiamata a raccolta degli intellettuali e professionisti, non necessariamente militanti nei partiti di sinistra, ma laici(160), antifascisti e antidemocristiani perché portati ad antivedere nel blocco in formazione a direzione clericale i germi di un rinnovato regime(161). Non si parla però solo di politica e partiti politici. Le vicende comunali vengono riferite e discusse, fra gli altri, da amministratori molto particolari quali Gino Luzzatto e Carlo Izzo. L’architetto Alberto Magrini — che sul piano regolatore in terraferma lavora dagli anni Trenta — giudica inabitabili i pianterreni in laguna e necessario comunque ripensare modernamente il nesso Venezia-terraferma: Grattacieli o no / da Venezia si deve uscire (1, 4 settembre 1949, nr. 1). Nel numero di apertura — vetrina e programma del nuovo «Settimanale di Vita e Problemi Cittadini» —, un’altra firma degli anni Trenta ed ex direttore del «Gazzettino» dei quarantacinque giorni, Diego Valeri, presenta già come un’occasione perduta un avveniristico Discorso sul Lido(162), in diretta prosecuzione di un dibattito sull’isola di grattacieli — forma contemporanea d’arte socialmente utile — avviato negli ultimi numeri del «Mattino del Popolo»(163), che anche in questo trova un erede in «Cronache Veneziane». Della formula editoriale fanno parte integrante le 2 pagine delle lettere, che disegnano un tessuto vivace di interventi, ricco di bei nomi di professionisti, uomini di cultura, artisti cittadini: una specie di pubblico ‘salotto’ — potremmo dire, se il termine non apparisse logoro — di conversazione urbana o di società civile in azione. Tant’è che neppure lo sport viene escluso da queste e dalle altre pagine del settimanale e le sorti del Venezia — che esce appena dalle sue stagioni migliori — vengono seguite come parte della vita cittadina, con attenzione non solo ai risultati della squadra, ma ai suoi assetti societari(164).
L’altro episodio saliente di vita veneziana, identificabile nel dopoguerra come uno di quelli in cui si esprimono, mettono a punto e fronteggiano identità e schieramenti, si colloca ancor prima della spaccatura a livello di governo nazionale, alla fine del 1946. Sarebbe interessante conoscere la composizione del pubblico cattolico che affolla il Teatro Malibran quella domenica 29 dicembre e poterlo confrontare con quello che appena un anno e mezzo prima lo aveva riempito attorno al chiacchieratissimo prete di Farinacci. Si tratta di una giornata antiblasfema, una delle tante manifestazioni di massa di quei mesi — psicologicamente, e non solo istituzionalmente, «costituenti» — in cui il mondo cattolico cementa solidarietà politiche per via extrapolitica. La dignitosa e fiera protesta dei cattolici veneziani titola su otto colonne la prima pagina del «Popolo del Veneto» nel primo numero del 1947(165). E l’unico foglio, formato quotidiano, del settimanale democristiano è tutto incentrato sulle interruzioni polemiche che hanno punteggiato i discorsi del prof. Eugenio Bacchion — ‘eminenza grigia’ del cattolicesimo veneziano nel lungo dopoguerra — e dell’ospite esterno; sugli accenni di controcorteo che hanno accompagnato per strada il corteo dei militanti cattolici avviato verso piazza S. Marco; e infine — peggio — sulle dimostrazioni davanti al palazzo patriarcale che non hanno risparmiato il patriarca. Una sconcia provocazione — qualifica sdegnato tutto ciò un altro titolo, contrapponendovi L’alta e ferma parola del Patriarca. Niente di simile si è verificato nelle altre città italiane durante cerimonie analoghe. Lizier arriva a commisurare l’accaduto agli scontri oltraggiosi attorno alle spoglie di Pio IX. Il vero bersaglio delle contestazioni è l’innominato Adeodato Piazza, ma qui scatta — e da parte cattolica si coltiva — l’incomunicabilità fra i due mondi: per i contestatori laici, infatti, è in discussione una figura politica compromessa dai suoi non dimenticati comportamenti filofascisti, spintisi sino a pubbliche dichiarazioni antiebraiche; per chi non è interessato all’autonomia delle sfere — a cui vanamente invita il sindaco nel suo discorso in consiglio comunale, attirandosi con ciò il dileggio della controparte —, ma anzi al sovrapporsi e coincidere delle appartenenze, confessionale e civile, cattolica e democristiana, un uomo di Chiesa è un uomo di Chiesa e un cardinale è un principe della Chiesa, ingiudicabile con le categorie del temporale e sottratto alla comune cittadinanza. «Amici democristiani [esorta un riquadrato del giornale], boicottate i GIORNALAI che vendono i periodici scomunicati. Sarà una forma di utile lotta contro la stampa anticlericale»(166). Il mondo in cui si sta entrando è questo.
1. Efisio Norfo, Ricordi di un vecchio cronista, Venezia s.a. [ma 1945]. Memoria storica (o piuttosto aneddotica) del giornalismo veneziano, l’autore lavora dal 1895 al 1901 all’«Adriatico», poi al «Gazzettino» sino al 1939.
2. Sergio Cella, Profilo storico del giornalismo nelle Venezie, Padova 1974.
3. Gianni Boldrin, Aristocrazie terriere e finanziarie all’assalto della stampa (1919-1925), in Giornali del Veneto fascista, Padova 1976, pp. 17-78.
4. Elio Zorzi, Giovanni Giuriati irredentista-combattente-politico, «Le Tre Venezie», 6 luglio 1930, nr. 7, pp. 11-16.
5. Mario Isnenghi, «Il Dovere Nazionale». Lettere di Alfredo Rocco a Gino Damerini, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 449-459 (ora in Id., L’Italia del fascio, Firenze 1996, pp. 63-76).
6. Maurizio De Marco, Il Gazzettino. Storia di un quotidiano, Venezia 1976.
7. Giulia Albanese, Alle origini del fascismo. La violenza politica a Venezia 1919-1922, Padova 2001.
8. Il «Gazzettino» è un foglio popolare a diffusione regionale che durante la prima guerra raggiunge le 150.000 copie, compiendo un salto di qualità editoriale che lo accomuna alle non molte altre testate ottocentesche che ai primi del Novecento vi riescono. La «Gazzetta» resterà sempre legata, anche nei numeri, all’età dei notabili.
9. Dopo le prime consultazioni del Sovrano la crisi si avvia / ad una felice soluzione in senso nazionale: titolo di prima pagina e su sei colonne, cioè quante ne ha la «Gazzetta» del tempo.
10. Il fondo del 31 ottobre ha per titolo La vittoria dello spirito. Già La radunata fascista a Napoli ‘regina del Mediterraneo’ (occhiello) era stata presentata pochi giorni prima, simpateticamente, così: Mussolini esalta e chiarifica il procedere del fascismo verso le grandi mete nazionali. Al titolo fa seguito il sommario: L’entusiasmo delle camicie nere L’interminabile sfilata Le milizie fasciste in rivista Incidenti senza conseguenze Cavalleria, donne e preti fascisti («Gazzetta di Venezia», 25 ottobre 1922, p. 1). Enrico Corradini firma l’editoriale Sulle rovine del socialismo: «Questa può essere la missione storica del fascismo. La missione di interrompere il socialismo fino a che l’Italia abbia compiuto il suo passaggio dalla povertà e dal primo periodo della sua industrializzazione alla industrializzazione piena e alla ricchezza». Indicativo anche il fondo non firmato del 27, Crisi storica, dove si sostiene — in polemica con qualche nostalgico — che questa non è la Caporetto delle istituzioni liberali, è anzi la reazione a Caporetto.
11. «Gazzetta di Venezia», 31 ottobre 1922.
12. Anno I, 29 luglio 1920-anno III, 31 luglio 1922. Giunto all’anno IV, 24 maggio 1932, nr. 7-X il «Bollettino della Federazione Provinciale Fascista», nato il 15 settembre 1929 e da allora diretto dal federale Giorgio Suppiej, riprende la vecchia denominazione ritoccandola in «Italia Nova», mantenendo, ma retrocedendo a sottotitolo la dicitura di «Bollettino Ufficiale». Il cambio di segreteria portando alla direzione il federale Michele Pascolato renderà dal 1935 ancora più arcigno e militaresco l’aspetto e il tratto di «Italia Nova», giusta la sua ora dichiarata natura di «Foglio d’Ordini della Federazione dei Fasci di Combattimento di Venezia». Esce dal 1929 al 1943, con formato e numero di pagine vari, spostando subito la sede da palazzo Grünwald in via XXII Marzo a palazzo Dal Zotto in campo S. Maurizio e dal 1935 nella nuova sede della federazione in palazzo Michiel delle Colonne-Ca’ Littoria. Una nuova serie, nostalgica delle origini, esce durante la Repubblica Sociale Italiana. Sull’intera parabola cf. Matteo Giacomello, «Italia Nuova» 1920-1945: l’organo ufficiale del fascismo veneziano, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1992-1993.
13. La testata più significativa e durevole è il settimanale diocesano «La Settimana Religiosa» (1925-1945, poi «La Voce di San Marco»), che attraversa il regime coi comportamenti classici dell’alleanza-concorrenza.
14. Erede del settimanale popolare «Aurora» (1921-1922).
15. Ancora più predisposte a ritrarsi dal mondo appaiono poi pubblicazioni come «Le Venezie Francescane», una «Rivista Storico-Artistica-Letteraria-Illustrata» edita a S. Francesco della Vigna a partire dal 1932 e che ha una vita pluridecennale, fungendo anche da «Bollettino Ufficiale dell’Associazione ‘Amici di S. Francesco’». Per quanto atemporale possa apparire e sentirsi, anch’essa entra in sonno nel biennio 1944-1945.
16. Senza eccedere in separatezze. Nelle occasioni canoniche le sue 4 pagine formato quotidiano mettono di fronte a tutti i compromessi clerico-fascisti che giustificano e consentono ai cattolici, e solo a loro, la sussistenza delle loro reti identitarie.
17. La morte del Comm. Serafino Audisio viene annunciata, a tutta prima pagina, su sei colonne, nel nr. 9 del 2 marzo 1930. Benché giovane, questo maestro elementare era anche il presidente dell’Azione Cattolica veneziana.
18. Valerio Castronovo, La stampa italiana dall’Unità al fascismo, Bari 1970; e i saggi di Nicola Tranfaglia, La stampa quotidiana e l’avvento del regime. 1922-1925, e di Paolo Murialdi, La stampa quotidiana del regime fascista, in Storia della stampa italiana, IV, La stampa italiana nell’età fascista, a cura di Valerio Castronovo-Nicola Tranfaglia, Roma-Bari 1980, rispettivamente alle pp. 1-30 e 31-258.
19. 1984, nascita di «La Nuova Venezia». Sulla piazza di Venezia e Mestre il «Gazzettino» non è più solo.
20. «Il Gazzettino Sera», quotidiano, 1921-1941, poi 1946-1950.
21. «Il Gazzettino Illustrato. Settimanale delle Tre Venezie», 1921-1950.
22. «Il Gazzettino dei Ragazzi», settimanale diretto da Ennio Talamini, 1935-1936.
23. Rodolfo Gallo è il direttore nei primi otto anni; quando è «chiamato a Roma ad alto ufficio» gli subentra dal nr. 4-5 del 1930-VIII Mario Brunetti, sino alla cessazione nel settembre 1935. Riprendendo una nuova serie della «Rivista di Venezia», «a cura del Comune», il sindaco democristiano Roberto Tognazzi scrive nel 1955 che solo «un ordine superiore esteso a tutte le altre consorelle» aveva posto fine a una rivista utile e stimata. Nel primo numero fa ancora a tempo ad essere presente Rodolfo Gallo, stavolta con un articolo su Andrea Palladio e Venezia. Dal nr. 1 dell’anno III, settembre-ottobre 1957, diventa direttore l’assessore Wladimiro Dorigo che porta avanti la «Rivista di Venezia» fino al 1958.
24. Daniele Ceschin, La ‘voce’ di Venezia. Antonio Fradeletto e l’organizzazione della cultura tra Otto e Novecento, Padova 2001.
25. Antonio Fradeletto, Venezia nuova, «Rivista Mensile della Città di Venezia» (d’ora in poi citata come «Rivista di Venezia»), 1, 1922, nr. 1.
26. Era veramente l’ultimo dei «parrucconi» — si dice fuori dai denti per La morte di Pompeo Molmenti, conservatore, antipontista e firmatario del manifesto Croce, anche se questo lo si omette — per poi concedere che «per la sua scomparsa, Venezia sembra diminuita di valore» («Le Tre Venezie», 4, febbraio 1928, nr. 2, p. 49); naturalmente più caloroso il riferimento al precursore Piero Foscari, di cui si riproduce un busto in bronzo nel numero di aprile del 1928 (nr. 4, p. 53). A tesaurizzare Filippo Grimani — in una linea di continuità della classe dirigente che sembra escludere solo Riccardo Selvatico — provvede l’ex direttore del quotidiano clericale «La Difesa», Francesco Saccardo: per la «Rivista di Venezia» (3, gennaio 1924, nr. 1) due ricuperi in una volta, ma qui siamo proprio alle onoranze funebri e infatti si tratta del discorso commemorativo all’inaugurazione del ricordo scultoreo del sindaco, opera di Pietro Canonica.
27. Non senza imbarazzi e meno di quanto sarebbe giusto a Venezia; d’altra parte, si tratta — come nel caso del suo uomo a Venezia, e anzi qualche cosa di più di questo, Piero Marsich — di alternative interne emarginate.
28. Rispettivamente, Annibale e Ludovico. Anche un vaporetto dell’A.C.N.I.L. (Azienda Comunale di Navigazione Interna Lagunare) prenderà nel 1935 il nome del primo.
29. Cf. pp. 73-76.
30. Pochi mesi ancora e il 2 giugno 1923, con la venuta di S.E. Mussolini a Venezia, ci sarà modo di rendergli direttamente onore, a Marghera, nella sala del Maggior Consiglio, nella sala Napoleonica e sulla rivista (2, giugno 1923, nr. 6, pp. 129-134).
31. L’indice del mensile della federazione, «Le Tre Venezie», nel primo numero del 1929 (gennaio) ne annuncia in morte un ricordo, non firmato e di una sola pagina, che qualcuno ha peraltro provveduto a tagliare dalla collezione conservata nella Biblioteca civica del Museo Correr. Prelievo di un fedele o piccolo contributo, anch’esso, alla damnatio memoriae?
32. La complicità dei fiancheggiatori, «Gazzetta di Venezia», 30 dicembre 1924.
33. Appello del Re allo spirito di conciliazione del Parlamento per la concordia nazionale: titolo a tutta prima pagina, su sei colonne, del 1° luglio 1924. Cf. anche La salma dell’on. Matteotti rinvenuta nei pressi di Riano, 17 agosto 1924, p. 1, quattro colonne.
34. È il sommario di un taglio centrale di Impressioni e commenti dell’azione di Governo uscito in prima pagina, su tre colonne, venerdì 2 gennaio 1925. L’editoriale della «Gazzetta» — Alla camera — plaude quel giorno alla «normalizzazione». Quello del giorno avanti, primo giorno dell’anno 1925, alla Responsabilità.
35. Furibondo e sprezzante il corsivo di Giuseppe Fusinato, Il ‘male maggiore’ di un economista, dove l’attacco a Luigi Einaudi porge l’occasione per cogliere in contraddizione con se stesso il «Corriere» che dal 1898 al 1921 ha combattuto contro l’Italia parlamentarizzata e adesso non sa riconoscere nell’Italia di Mussolini il frutto, anche, di quella sua lunga opposizione («Gazzetta di Venezia», 15 agosto 1924, p. 1, quattro colonne).
36. Responsabilità, non firmato.
37. Accanto a questo editoriale — stavolta firmato dal direttore, con la sua sigla g.d. — la «Gazzetta di Venezia» del 4 gennaio 1925 riporta con grande evidenza e partecipazione Le dichiarazioni del Capo del Governo alla Camera, riassumendo così la situazione nel sommario: L’opposizione sfidata a portare le sue accuse davanti al Parlamento-La Ceka italiana non è mai esistita-L’azione normalizzatrice del Governo e i tristi effetti della sedizione dell’Aventino-‘Entro 48 ore la situazione sarà chiarita su tutta la linea’-Una mozione dell’opposizione ritirata.
38. La richiesta, datata Roma 8 novembre 1927, è conservata in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Carte Pini, b. 3. Desumo il documento dalla tesi su Ermanno Amicucci di Mauro Forno, in corso di allestimento presso il dottorato in Storia delle società europee dell’Università degli Studi di Torino.
39. Damerini e il futuro direttore della «Gazzetta del Popolo» e del «Corriere della Sera» si conoscono da anni; Amicucci era stato anche corrispondente di guerra della «Gazzetta di Venezia».
40. La risposta di Damerini ad Amicucci è datata Venezia 27 dicembre 1927 ed è conservata in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Partito Nazionale Fascista, Servizi Vari, ser. I, b. 245.
41. Come per il caso Toffano, seguo la ricostruzione di M. De Marco, Il Gazzettino.
42. I direttori Gianpietro Talamini-Lionello Fiumi, Esordio, «Il Gazzettino Illustrato. Settimanale delle Tre Venezie», 1, 16 maggio 1921, nr. 1, p. 2. Per allargare e diversificare il pubblico e per raggiungere «ogni ceto di persone», si promettono cronache, immagini, ma anche appetibili romanzi, novelle «sempre dei migliori autori, in prevalenza veneti», esemplificando le presenze con questi nomi: Luzzatti «faro luminoso», Molmenti, Barbiera, Barbarani e «la pleiade delle scrittrici» (dalla Pascolato alla Salvi).
43. Gli orrori dell’invasione tedesca (titolo) narrati dal reverendo Giovanni Simonato dei padri Camilliani già parroco di Colbertaldo, testimone oculare (sottotitolo), p. 7. Il servizio si sviluppa in varie puntate.
44. «Il Gazzettino Illustrato», 1, 23-30 maggio 1921, nr. 2, p. 7.
45. Ibid., p. 5.
46. Alla Imponente adunata di cinquantamila fascisti a Napoli e a Episodi, scene e figure delle giornate di Roma sono dedicate copertine, notizie e immagini dei nrr. 44 e 45 del 29 ottobre e del 5 novembre 1922. Un servizio fotografico visualizza e legittima anche, provincia per provincia, Le giornate fasciste nelle Venezie.
47. «Il Gazzettino Illustrato», 2, 3 dicembre 1922, nr. 49.
48. Ibid., 12, 17 novembre 1932, nr. 48.
49. Nasce nel maggio — anzi nel may 1925 —, 28 pagine scritte in inglese, dalla testata alla pubblicità agli articoli, e si chiama «Venice / published by the ‘Federazione per gli / interessi turistici della Venezia’». Il direttore è già Antonio Galata, la sede — per ora — a S. Maria del Giglio 2551A. Nei 6 fascicoli usciti fino a dicembre si parla di località turistiche, feste, mondanità.
50. Anche nella testata parzialmente modificata con cui si apre il secondo anno, 1926: «Le Tre Venezie-Venice-Rivista Mensile Illustrata di Propaganda Turistica».
51. Ecco — a mo’ di modello — a quale intarsio di echi può dare luogo una puntata sull’altipiano dei Sette Comuni: «Alla fine della Valle ecco Tresché-Conca, ecco Cesuna, ecco il martoriato Lemerle. Nomi questi a cui è legata un’epoca di sangue e di gloria […]. No, non vogliamo morire! Sembrava gridare la voce possente della razza quale sfida al destino e non morirono […]. Anche il famoso ponte Roana che attraversava la Val d’Assa e che fu distrutto nella ritirata del 1916 ci appare ricostruito nella sua grandiosità. Fu inaugurato il 24 Settembre 1924 alla presenza di S.E. Benito Mussolini e di molte personalità Fasciste. […] Fu in quella occasione che il Duce del Fascismo si compiacque conferire ad Asiago il titolo di città» («Le Tre Venezie», 2, gennaio 1926, nr. 1, p. 4).
52. In un primo tempo «Le Tre Venezie-Rivista Mensile Venezia», incorniciata da due fasci, poco più avanti «Le Tre Venezie-Rivista Mensile Edita a Cura della Federazione Provinciale Fascista di Venezia», la cui sede all’epoca è in campo S. Maurizio.
53. Con la sua parola «il fascismo veneziano, che si onora di essere all’avanguardia del presente movimento di rinascita cittadina, affida oggi a questa Rivista, per sua cura profondamente trasformata, il compito di seguire, illustrare, far conoscere la nuova maschia volontà di Venezia, che si manifesta oggi in opere poderose e audaci non sempre note e spesso non ben note, non sempre sostenute dal concorde consenso cittadino e spesso misconosciute» (Presentazione, «Le Tre Venezie», 2, giugno 1926, nr. 6).
54. Nel già citato profilo che ne traccia Elio Zorzi, in occasione dell’uscita di La Vigilia, il protagonista indiscusso del Fascio veneziano è lui (ibid., 6, agosto 1930, nr. 8, pp. 11-16).
55. Galata subentra come direttore del quotidiano veronese a Giuseppe Toffano nel 1930 restandovi fino al 1936 e verrà restaurato in quel ruolo nel dopoguerra, dal 1946 al 1957.
56. Giovanni Giuriati, Secondo tempo. Lettera aperta a Giorgio Suppiei, «Le Tre Venezie», 5, aprile 1929, nr. 4, p. 14 (pp. 13-16). Il destinatario della lettera aperta è il nuovo federale.
57. Su D’Annunzio e Venezia cf. gli Atti del convegno dell’Ateneo Veneto (1988) a cura di Emilio Mariano pubblicati a Roma nel 1991, e in partic. Mario Isnenghi, Venezia e l’ideologia della venezianità, pp. 229-244, compreso anche nella raccolta di Id., L’Italia del fascio, Firenze 1996, pp. 47-62.
58. «Le Tre Venezie», 2, giugno 1926, nr. 6, p. 12.
59. Pietro Orsi, Brevissima sommaria Relazione dell’opera svolta come podestà di Venezia dal 12 settembre 1926 al 14 giugno 1929, Venezia 1929.
60. Li descrive come una sorta di caratteristica fauna locale la scrittrice statunitense Mary McCarthy nei suoi paesaggi veneziani: «D’inverno, nelle biblioteche pubbliche, questi oziosi spulciano gli archivi veneziani e i libri illustrati sull’arte veneziana. Quando la Biblioteca Correr chiude, si spostano alla Marciana, non riscaldata, dove siedono infagottati nei cappotti, per trasferirsi infine alla Querini-Stampalia che rimane aperta fino a tarda notte» (Venezia salvata, Milano 1999 [1956], p. 15).
61. Alberto Musatti, già presidente del gruppo nazionalista veneziano, firma per esempio questo profilo sopra le righe di Mussolini: «Mussolini è una di quelle apparizioni umane che escono all’ora necessaria da qualche grossa confluenza di tempi e di storie, e che sembrano riempire della propria forma individuale e mentale tutto intero l’aspetto della nazione e del tempo che le hanno prodotte» («Le Tre Venezie», 2, luglio 1926, nr. 7, p. 10).
62. La federazione fascista veneziana scompare dalla testata e non è più proprietaria de «Le Tre Venezie» dal nr. 3 del marzo 1939. Negli anni successivi la direzione passa rapidamente da una mano all’altra (Giovanni Giuriati jr, Antonio Galata, e anche nomi nuovi come il direttore di «Le Panarie» di Udine Chino Ermacora e Giovanni Napolitano); mutevole anche la sede che va e viene fra Venezia — «sua sede primitiva e naturale», ora al ponte dell’Angelo, S. Maria Formosa 5312A (15, settembre 1940, nr. 9) — e Padova. In realtà la svenezianizzazione è patente e non solo d’ambiente. Mutano sensibilmente anche i temi — sempre più culturali e politicamente agnostici — e i collaboratori, che negli anni dal 1940 al 1945 sono soprattutto studiosi e professori dell’Università di Padova come Carlo Anti, Achille Fiocco, Sergio Bettini, Rodolfo Pallucchini, Manara Valgimigli, oltre a Diego Valeri e a qualche giovane proveniente dal G.U.F. padovano e da «Il Bo», come Ugo Mursia, Giulio Alessi e Iginio De Luca. Sospeso con il 1945, il tentativo di farlo risorgere nel 1947 non andrà a buon fine (direttore Antonio Barolini, redattore responsabile Elio Chinol).
63. Il Ponte, «Il Ventuno», 1, 21 febbraio 1932-X, nr. 1.
64. La testata originaria informa che redazione e amministrazione si trovano al G.U.F. di Venezia, in campo S. Maurizio, nel palazzo della federazione; ci sono uffici anche a S. Polo 2196 e a Milano, corso Roma 64. Il primo comitato di redazione del trisettimanale — 60 centesimi, 8 pagine — comprende Luigi Biancheri, Luigi Cini, Sergio Fadin, Francesco Pasinetti, Pier Maria Pasinetti, R.F. Selvatico. All’inizio dell’anno III, gennaio 1934 (fasc. 16), «Il Ventuno-Rivista di Cultura del GUF di Venezia sotto gli Auspici della Federazione Veneziana dei Fasci di Combattimento» passa a un formato più piccolo, di 36 pagine, a 3 lire.
65. Pier Maria Pasinetti, La prova di Venezia, «Il Ventuno», 1, 13 marzo 1932-X, nr. 2, p. 1.
66. Galeazzo Biadene, Anti-funzione del caffè di piazza, ibid., 3, marzo 1934-XII, nr. 3, fasc. 18, p. 13.
67. Mario Macchioro, Esame al futuro giornalista, ibid., 1, 24 marzo-15 maggio 1932-X, nr. 4, p. 3.
68. Alberto Magrini, Architettura razionale a Venezia, ibid., 2, aprile 1933-XI, nr. 6, fasc. 15.
69. Facoltà di Lettere, ibid., 2, 22 gennaio-5 marzo1933-XI, nrr. 2-3-4, fasc. 13.
70. Invito, ibid., 1, 3 aprile 1932-X, nr. 3.
71. Pietro Ingrao, Invito per un teatro sperimentale dei Guf, ibid., 3, aprile-maggio 1934-XII, nrr. 4-5, fasc. 19.
72. La Proposta di istituire cineclub, dovunque possibile, e il giudizio simpatetico su Blasetti e il suo film (nel fasc. 25, secondo del 1935, loderà Vecchia Guardia) sono nel nr. 2, nella pagina-rubrica dedicata al «Cinematografo» (1932, p. 7); sin dal primo numero f.[rancesco] p.[asinetti] aveva riempito una pagina (p. 5) di notizie e riflessioni sul cinema.
73. Segreteria federale nel ’43, breve epurazione dopo il ’45, poi giornalista al «Gazzettino».
74. Fernando Mezzasoma, Tre uomini, «Il Ventuno», 4, novembre 1935-XIII, fasc. 32.
75. La testata diventa: «Il Ventuno-Rivista dei Littoriali della Cultura e dell’Arte Anno XIV».
76. L’anno X, 1941, vede una nuova serie quindicinale, con una testata rinnovata per guardare agli sviluppi ulteriori invece che alle origini del fascismo: «Il Ventuno Domani». Anche se Francesco Pasinetti ne rimane direttore responsabile, la rivista — 10 pagine formato quotidiano — non è più veneziana: si scrive a Roma e si stampa a Milano, ha un comitato direttivo nazionale con nomi quali Felice Chilanti, Icilio Petrone, Vasco Pratolini e un ricco repertorio di firme, da Alfonso Gatto a Libero de Libero, Alessandro Bonsanti, Manlio Cancogni, Massimo Mida, Renato Giani, Carlo Cassola. Politicamente inquieta, con Camillo Pellizzi che invita a Mobilitare i cervelli ai fini del Regime (10, 27 luglio 1941-XIX, nr. 9, p. 1), ma anche autorappresentazioni in chiave di fascismo antiborghese e la rubrica «Osservatorio del pensiero rivoluzionario».
77. I particolari di questa battaglia perduta con la proprietà e le autorità vengono riesumati con amarezza dalla vedova di Gino, Maria Damerini, nel suo libro di memorie, miniera di notizie dall’interno della classe dirigente, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova 1988, pp. 290-292. Gli anni della guerra e del dopoguerra vengono ricordati in risentite memorie, tuttora inedite, anch’esse di grande interesse.
78. Gino Damerini, Morosini, Milano 1929.
79. Il volume viene finito di stampare, quasi un sigillo, nel giugno 1943. È stato ristampato, con una Postfazione di Giannantonio Paladini, nella collana di studi dell’Ateneo Veneto, Venezia 1992.
80. Mario Isnenghi, Genealogie di giornali e giornalisti (1987), ora in Id., L’Italia del fascio, Firenze 1996, pp. 253-288. In Filo diretto con Palazzo Venezia, Bologna 1950, lo stesso Giorgio Pini racconta la sua esperienza di caporedattore del «Popolo d’Italia» dal 1936 al 25 luglio 1943, da cui risulta quindi una sovrapposizione di ruoli nel primo periodo.
81. Mario Isnenghi, La ‘quarta arma’. Teoria e prassi della stampa di regime (1982), ora in Id., L’Italia del fascio, Firenze 1996, pp. 307-350.
82. «Figlio di un soldato, mi sentii freneticamente soldato nella trincea di via Paolo da Canobbio, prima che la guerra cominciasse, il 14 novembre 1914». Un autoritratto più immedesimato e ardente di quello solitamente disegnato dalla critica più recente, ripreso, in morte, da Giuseppe Silvestri, Gino Rocca, poeta veneto, «Le Tre Venezie», 16, marzo 1941, nr. 3, p. 173.
83. Gino Rocca 1891-1941, Feltre 1991; Gino Rocca. Atti del convegno, a cura di Fabio G. Budel, Feltre 1993.
84. Così, mezzo secolo dopo — veritiera e perfida — li inchioda nelle sue memorie M. Damerini, Gli ultimi anni, p. 292.
85. 12 novembre 1938, p. 1, tre colonne.
86. 14 novembre 1938, p. 1, due colonne.
87. 11 novembre 1938, p. 5.
88. Un gentile dono del Poglavnik / alle Camicie nere veneziane, «Gazzetta di Venezia», 17 gennaio 1942, p. 2.
89. 1941 / Parola d’ordine: / Abbiamo fiducia!, «La Settimana Religiosa», 5 gennaio 1941-XIX, nr. 1, p. 1.
90. «Gli Avvenimenti», ibid., 11 maggio 1941-XIX, nr. 19, p. 1.
91. Ibid.
92. Il Santo Padre rinnova la Crociata di preghiere / per l’avvento di una Pace giusta e duratura, ibid., 26 aprile 1942, nr. 17, p. 1. Nella stessa pagina l’articolo La Chiesa e la guerra rivendica una Chiesa non già «neutrale», bensì «imparziale», allegando il consenso in proposito del «Ministro Bottai».
93. bi, Nel cielo degli Eroi ‘Mamma Borsi’ / ha raggiunto il suo Giosuè, ibid., 12 luglio 1942, nr. 28, p. 1 (editoriale).
94. La morte del nostro Direttore, ibid., 14 novembre 1943, nr. 46, p. 1. La calorosa laudatio, Miles Christi, è a firma di mons. Giuseppe Spanio. Non c’è un successore immediato, ma un’avocazione al vertice della curia patriarcale con la provvisoria responsabilità — non come direttore, ma come redattore — di mons. Giovanni Urbani, patriarca del futuro. Gli subentra nell’aprile ’44 il sacerdote Mario Greatti, con cui si consumano le estreme fasi della testata, con sospensioni e rinascite, sino al Commiato del 30 dicembre 1945. Gli incidenti di percorso non erano in effetti mancati: il nr. 30 del 1943 ha la sfortuna e l’intempestività di uscire — alla data di domenica 25 luglio — impaginando in prima come due articoli gemelli un Accorato altissimo appello di S.S. Pio XII e il discorso del segretario del Partito: Gli Avvenimenti / L’impegnativa dell’ora / nel discorso di Carlo Scorza. Il 29 aprile del 1945 il nr. 17 esce titolando Il Mese di Maria e ignorando la Liberazione. Dal 1946 don Greatti dirige una nuova testata — «La Voce di San Marco», memore di altre — che non prova neppure a promettere di circoscriversi alla sfera religiosa.
95. Armistizio / Dopo il messaggio al mondo di S.S. Pio XII / Il Papa e la pace d’Europa, «La Settimana Religiosa», 12 settembre 1943, nr. 37, p. 1, sei colonne (editoriale firmato r.m.).
96. Vent’anni di cultura ferrarese: 1925-1945. Antologia del «Corriere Padano», a cura di Anna Folli, I-II, Bologna 1978.
97. La religione del Risorgimento, «Il Gazzettino», 11 luglio 1943, p. 3.
98. 3 giugno 1943, p. 3.
99. «[…] tocca proprio a noi, italiani di razza buona, il primo onore di difendere, nel sacro suolo della Patria, anche l’Europa, l’avvenire dell’Europa. Compito senza dubbio grave e oneroso, ma che noi italiani, gente ferrata alla sorte per dura che sia, intatte le forze dello spirito e quelle delle armi, assolveremo sino all’ultimo, magari con l’unghie e con i denti, se occorra».
100. «Il Gazzettino», 15 luglio 1943, p. 2.
101. Alfonso Comaschi, già del G.U.F. e del «Ventuno».
102. «Il Gazzettino», 26 luglio 1943, p. 3.
103. Unità degli Italiani intorno ai simboli della Patria, p. 1, otto colonne.
104. Il riassetto della vita nazionale / continua con realismo e fermezza (titolo) Ex-federali, vicefederali, fiduciari di fabbrica e squadristi dipendenti dalle organizzazioni del disciolto partito richiamati alle armi (sommario), «Il Gazzettino», 31 luglio 1943, p. 1.
105. Ibid., 13 agosto 1943, p. 1.
106. Sulla spiaggia del Lido (occhiello) Scambiata per la madre del Dumini (titolo) Il brutto quarto d’ora di una signora anziana e della sua giovane compagna alle prese con la folla minacciosa dei bagnanti (sommario).
107. Cagetti e Montesi / tratti in arresto, «Il Gazzettino», 13 agosto 1943, p. 2.
108. La lapide abbandonata, ibid., 19 agosto 1943, p. 2. L’articolo precedente è La lapide a Cavallotti, ibid., 15 agosto 1943, p. 2.
109. Un discorso di Hitler al popolo del Reich / Mussolini liberato dai Tedeschi, ibid., 13 settembre 1943, p. 1, otto colonne.
110. Il concerto della banda è annunciato nell’edizione del 19 settembre, gli altri pezzi danno il tono alla pagina veneziana del giorno 20 (p. 2).
111. Comunicato nr. 2, «Il Gazzettino», 18 settembre 1943, p. 2.
112. Da redattore del «Gazzettino», Gaetano Scorzon ha fatto da tramite fra Gianpietro Talamini e il Fascio veneziano, ma è stato anche il corrispondente del «Popolo d’Italia» e il compilatore del «Bollettino» della federazione fascista veneziana.
113. La distinzione gli varrà dopo la guerra un’assoluzione per insufficienza di prove nel processo per collaborazionismo. Di questo e degli altri processi — fra cui quello al direttore seguente Guido Baroni — rende noti ora i documenti il volume di Marco Borghi-Alessandro Reberschegg, Fascisti alla sbarra. L’attività della Corte d’Assise straordinaria di Venezia (1945-1947), Venezia 1999, pp. 151-153.
114. Il grande capitale ha comunque avviato, a Venezia come a Roma, le operazioni di sganciamento dal fascismo morente e il 2 ottobre 1943 il «Gazzettino» riporta una notizia dell’Agenzia Stefani con il loro arresto.
115. Giovanni Ansaldo, Diario di prigionia, Bologna 1993, p. 9 (4 febbraio 1944).
116. La ‘Giornata degli Eroi’ (occhiello) Austero rito a San Michele in onore / dei soldati tedeschi caduti per la Patria, «Il Gazzettino», 12 marzo 1945, p. 2. Molti i partecipanti, secondo la testimonianza del giornale; fra le istituzioni, Ca’ Foscari, il cui rappresentante è il prof. Pompeati.
117. 14 gennaio 1945, p. 1. L’occhiello è Grido d’allarme dei traditori.
118. Alfredo Cucco, XII Gennaio 1848 (occhiello) Quarantotto siciliano, «Il Gazzettino», 17 gennaio 1945, p. 1.
119. Guido Baroni, Di là dal Volturno, ibid., 12 novembre 1943, editoriale.
120. Ne escono 68 numeri dal 1° gennaio 1944 al 22 aprile 1945: tutt’altro che effimero, dati i tempi. Cf. M. Giacomello, «Italia Nuova» 1920-1945.
121. Simon Levis Sullam, La rinascita del Partito Fascista a Venezia (1943). Cronaca e spunti interpretativi, «Venetica», n. ser., 13, 1996, nr. 5, pp. 101-160.
122. «L’Italia Cattolica-Periodico di Cattolici Italiani» è un quindicinale uscito a Venezia fra il 5 dicembre 1943 e il giugno 1944 (nrr. 9-10). Cf. Mario Isnenghi, Stampa del fascismo estremo in area veneta. Tracce e reperti, in Tedeschi, partigiani e popolazioni nell’Alpenvorland (1943-1945). Atti del convegno, Venezia 1984, pp. 117-136.
123. Annarosa Dordoni, «Crociata italica». Fascismo e religione nella repubblica di Salò (gennaio 1944-aprile 1945), Milano 1976.
124. Vibrante manifestazione al ‘Malibran’ (occhiello) L’azione di «Crociata italica» / nelle parole di don Calcagno ai veneziani, «Il Gazzettino», 26 febbraio 1945, p. 2, tre colonne.
125. Bologna, ibid., 25 aprile 1945, p. 1.
126. Alla popolazione di Venezia, comunicato firmato Il Comandante tedesco in data 25 aprile, uscito in prima pagina sul «Gazzettino» del 27.
127. Dopo l’ultimo numero fascista del 27 aprile 1945, il «Gazzettino» è costretto a tacere sino al 18 luglio. In attesa di una chiarificazione, escono diverse testate di transizione. Di seguito, il 28 e il 29 aprile, il già nominato «Fratelli d’Italia-Il Gazzettino»; ancora di seguito, dal 30 aprile 1945 al 3 maggio, i nrr. 1-4 del «Corriere di Venezia» a cura del P.W.B., che diventa organo regionale mutando perciò la testata in «Corriere Veneto Quotidiano a cura del PWB» con il nr. 5 del 4 maggio 1945 e fino al nr. 32 del 5 giugno. Direttore Guido Polacco. Non dissimile nei temi e nello spirito, con una più esplicita presenza degli uomini della Resistenza, esce anche dal 16 maggio «Il Giornale delle Venezie. Quotidiano del Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto». La pubblicazione è autorizzata dal P.W.B., ha sede come l’altro nel palazzo del «Gazzettino», ha per direttore un esponente del P.C.I., Giuseppe Gaddi, affiancato da un pluralista «Comitato di Direzione responsabile» comprendente: Vittorio Cossato, A. Ephrikian, Cesare Lombroso, Francesco Tullio Roffarè, Francesco Semi. Durerà più a lungo, quasi un anno, sino al 28 aprile 1946. Intanto però, il 18 luglio 1945, è risorto «Il Gazzettino. Quotidiano d’Informazione fondato nel 1887 da Gianpietro Talamini», cui viene risparmiato nella testata il marchio blandamente punitivo di un «nuovo» invocato da alcuni. Il 1945 ha quindi due nr. 1, ma questo postfascista prosegue comunque la numerazione degli anni, visto che la tradizione Talamini è assunta in positivo (anno LIX). Direttore Armando Gavagnin, condirettore responsabile Guido Polacco che ha compilato finora il foglio del P.W.B. Non basta, perché il ciellenistico «Giornale delle Venezie», chiudendo il 28 aprile ’46, figlia attraverso la sua componente comunista «Il Mattino del Popolo» il cui primo numero esce subito dopo a firma di Giuseppe Gaddi. Contemporaneamente risorge, come a bilanciare la novità a sinistra, il «Gazzettino Sera» (nr. 1, 29 aprile 1946).
128. Rinvio per questo alla ricostruzione di M. De Marco, Il Gazzettino, e in particolare alla seduta decisiva del Comitato di Liberazione Nazionale Regione Veneto del 5 ottobre 1945 (pp. 124-128).
129. Già di area repubblicana, ora azionista, più avanti socialdemocratico. Cf. Armando Gavagnin, Vent’anni di resistenza al fascismo. Ricordi e testimonianze, Torino 1957; ne esiste una riedizione del Comune di Venezia nel 1979 con una prefazione di Giobatta Gianquinto, già repubblicano al suo fianco, poi sindaco comunista con Gavagnin assessore.
130. Rinascita, firmato fdg, e Ritorno di Armando Gavagnin sono i due fondi di apertura di mercoledì 18 luglio 1945. Non solo in testata, il presupposto è che si possa stare fra continuità e discontinuità, saltando la fase fascista e ricollegandosi a una presunta età dell’oro. Che il «Gazzettino» sia dentro alle origini del fascismo veneziano e che Talamini lo abbia diretto sin quasi alla metà degli anni Trenta, appare ininfluente. Cf. del resto l’immagine, anch’essa benevola, di un altro antifascista veneziano, Arduino Cerutti, Memorie, Venezia 1980, p. 85. Si riesce persino a omettere la direzione Pini nel pezzo del 27 gennaio 1946 su Giorgio Pini condannato / a 6 anni e 8 mesi. Su altre cose questo «Gazzettino» è meno accomodante e i temi e le firme significativi non mancano. Oltre allo stesso Gavagnin, gli editoriali vengono spesso affidati allo storico Roberto Cessi; sono visibili anche Semi, De Lagarda, Gino Piva. Si seguono i processi ai fascisti, in Italia e all’estero; l’epurazione; l’allontanamento dal Senato dei compromessi con il regime, fra cui l’ex sindaco Davide Giordano. Guardando avanti, al che fare, si ragiona di come evitare altre guerre, degli Stati Uniti d’Europa, delle sorti di Trieste e della Venezia Giulia; e — in modo particolarmente appassionato e non senza divisioni tra Gavagnin e Cessi su quale sia la miglior scuola per i figli del popolo — di come debba trasformarsi la scuola (Gavagnin sarà a lungo assessore alla pubblica istruzione). È caduto da poco il governo Parri e stanno per sopraggiungere le elezioni amministrative quando, il 17 marzo 1946, Pietro Mentasti – detentore delle azioni, astro nascente della destra democristiana e uomo del Cardinale — liquida la parentesi antifascista mettendo alla direzione un giornalista di sua fiducia.
131. Nasce il 27 luglio 1945, ancora con l’autorizzazione del P.W.B., e — diretto prima da Giuseppe Gaddi, poi da Mario Balladelli — dura sino al 4 aprile 1946, quando gli dà il cambio «Il Mattino del Popolo».
132. Paolo Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra 1943-1972, I-II, Roma-Bari 1978.
133. Giuseppe Gaddi, Congedo, «Il Mattino del Popolo», 1, 20 ottobre 1946. Precede l’editoriale (non firmato) Per l’italianità di Trieste.
134. L’attenzione strategica al dialogo con i cattolici si manifesta anche nel Ricordo di Ernesto Buonaiuti, dove l’autore Serafino Riva si dichiara suo frequentatore dai tempi delle conferenze all’Università Popolare di Treviso su s. Paolo («chi non lavora non mangi») interpretandolo e autointerpretandosi come «comunisti cristiani» («Il Mattino del Popolo», 1, 4 maggio 1946, p. 3). È domenica, il giornale può concedersi 4 pagine.
135. Contro la monarchia è anche l’editoriale di Giuseppe Gaddi, L’abbraccio a un cadavere, sui liberali che le si schierano a favore (5 maggio 1946).
136. Id., Congedo.
137. Cinema sovietico-cinema americano, «Il Mattino del Popolo», 1, 8 settembre 1946, p. 3.
138. Ripresa economica e crisi finanziaria, ibid., p. 1 (editoriale). È lo stesso giovane Visentini di sinistra che firma intanto — come «L’Osservatore Politico» — diversi fondi di «Università», il quindicinale padovano diretto da Franco Cingano. Cf. Mario Isnenghi, Un giornale del 1945-46: «Università», in Montagne e veneti nel secondo dopoguerra, a cura di Ferruccio Vendramini, Verona 1988, pp. 197-216.
139. Tra i film della Mostra cinematografica, Roffarè critica Pian delle stelle, il film commissionato dal Corpo dei Volontari della Libertà a un regista, Giorgio Ferroni, che non ha a che fare con l’antifascismo; loda moderatamente Paisà di Rossellini, senza vederci né un capolavoro né il modello di un nuovo cinema (18 e 19 settembre 1946, p. 2). Il 20 settembre 1946, fra «Gli Spettacoli», si valorizza invece una folla serale in piazza S. Marco: Migliaia di persone applaudono / entusiaste tre documentari russi.
140. 30 settembre 1947.
141. Tito de Stefano, Giornali e libertà, «Il Mattino del Popolo», 2, 1° ottobre 1947, editoriale.
142. Id., Le radici della violenza, ibid., 3, 1° aprile 1948, p. 1.
143. Due parole ai lettori, ibid., 18 aprile 1948, p. 1 (editoriale).
144. Opporsi al conformismo, ibid., 16 aprile 1948, p. 1 (editoriale).
145. «Nell’atto di accomiatarci dai nostri lettori, mentre ci lusinghiamo di lasciare in essi un rimpianto non effimero di questa libera voce che si spegne, inviamo loro il nostro saluto e il nostro ringraziamento», ibid., 24 dicembre 1948, p. 1.
146. Mario Baratto, estensore della rassegna La stampa quotidiana veneta uscita nel novembre 1951 su «Belfagor» (nr. 6), nell’ambito di una inchiesta in più puntate sull’informazione nel dopoguerra, regione per regione, scritte da autori diversi e pubblicate fra il 1950 e il 1952 tutte con la firma «Belfagor». L’inchiesta della rivista verrà ripetuta in parte quindici anni dopo. In questo caso l’autore di La stampa quotidiana veneta dal 1951 a oggi è Mario Isnenghi, il pezzo esce nel fasc. 6 del 1964. Tutti gli articoli delle due inchieste sono stati poi riuniti in volume: Mario Isnenghi-«Belfagor», Giornali e giornalisti. Esame critico della stampa quotidiana in Italia, Roma 1975.
147. Accusiamo Mentasti!, «Cronache Veneziane», 2, 15 gennaio 1950, nr. 1, p. 1.
148. «Un giornalista di Salò è dal Capodanno 1950 direttore del ‘Gazzettino’. Questo, sfrondato dalle punte polemiche e dalle piccole manovre da avvocati di pretura, il nocciolo triste e resistente della strenna dell’on. Mentasti. Un signore che 5 anni fa era passato, senza che nessuno ve lo spingesse e pienamente compos sui (non ha messo egli stesso l’altro giorno la sua carriera di giornalista sotto il segno di una intemerata coscienza?) dalla parte dei tedeschi e dello scisma repubblichino; un fuorilegge, dunque; un convinto avversario della democrazia e persecutore dei partigiani, il quale, se le cose fossero andate in altro modo, sarebbe oggi un gaulaiter dell’Italia prussianizzata; questo signore dirige oggi uno dei maggiori giornali italiani, di un paese, cioè, che deve la sua libertà alla sconfitta della Germania, il ritorno nel mondo civile al suo risveglio dalla narcosi fascista ed in larga parte la sua democrazia di oggi all’ammutinamento anti-fascista del movimento partigiano» (ibid.).
149. M. Isnenghi, Introduzione a Giornali e giornalisti, pp. 32-37; Id., ‘Le bourgeois révolté’: lettere a Montanelli, «Rivista di Storia Contemporanea», 19, 1990, nr. 4.
150. La seconda rassegna veneta di «Belfagor», s’incentra sul virtuosismo di uno di questi direttori, Giuseppe Longo, democristiano nel quotidiano, laico e liberale in una sua rivista di politica e cultura.
151. Riccardo Forte e Giannino Marescalchi.
152. Qualche cosa di simile avviene in un’altra istituzione veneziana, la Mostra del cinema, come «Cronache Veneziane» non manca di rilevare, parlando risentitamente del direttore Antonio Petrucci, espressione del duo romano Andreotti-De Pirro, che si circonda di «vecchi fascisti risuscitati per l’occasione» (L’affondatore della X° Mostra Internazionale d’arte cinematografica, 1, 4 settembre 1949, nr. 1). Diverso e positivo il giudizio sulla Biennale d’arte e sull’opera di Rodolfo Pallucchini, pur con qualche preoccupazione di ritardi organizzativi (Giuseppe Marchiori, Domande alla Biennale, 1, 11 settembre 1949, nr. 2, p. 9).
153. La cronaca del «Gazzettino», il 4 gennaio 1950, p. 2: Seduta molto burrascosa / nel pomeriggio di ieri a Ca’ Farsetti (titolo) Il gruppo socialcomunista prendendo lo spunto dalla notizia del / nuovo direttore del «Gazzettino» inscena una clamorosa gazzarra. Si riferisce fra l’altro che i due articoli letti in consiglio dal sindaco come capo d’accusa al capocronista di allora, oggi direttore, sono Dura legge (4 agosto 1944) e Dopo l’uccisione della sentinella tedesca / Il popolo veneziano unanime nell’esecrazione (5 agosto 1944). Segue un’aggressiva, ma tutta formale Replica dell’incriminato — lui non c’entra, era in ferie — e annuncia querele. Cf. anche la cronaca del 6 gennaio 1950: Ieri a Ca’ Farsetti (occhiello) Vivace appendice / alla seduta di martedì (titolo) Contestate le accuse mosse al nostro Direttore […] (sommario). Una ricostruzione diversa offre «Cronache Veneziane» in Il discorso del sindaco sul ‘caso’ Tommasini (1, 15 gennaio 1950, pp. 7-10).
154. I misteri del «Gazzettino», nello stesso nr. 1 del 1950, chiama in causa, oltre al direttore Attilio Tommasini, anche Alfonso Comaschi, fino all’ultimo dirigente fascista, epurato, riassunto e ora capocronista; cf. anche Mentasti e i democristiani (2, 5 febbraio 1950, nr. 3, p. 1); e una bene informata sintesi del 1943-1950 a Venezia attraverso una Breve storia della DC (2, 19 febbraio 1950, nr. 5). La firma Antonio Strozzi, forse — come altri — un nome di penna e comunque, nel settimanale, una presenza significativa.
155. Di chi è il «Gazzettino»?, «Cronache Veneziane», 2, 29 gennaio 1950, nr. 2, pp. 1-2.
156. Con una «lettera al direttore» che «Cronache Veneziane» titola Il «Gazzettino» e i Talamini, 2, 12 marzo 1950, nr. 8, p. 11, tre colonne.
157. È una «lettera al direttore» uscita nel nr. 3 del 5 febbraio 1950, che «Cronache Veneziane» titola La questione del «Gazzettino»: «[…] l’unico quotidiano cittadino, organo informativo della regione, è divenuto a poco a poco quello che è. Nel 1915 Venezia, con 150mila anime rispetto ai 350mila corpi odierni, ospitava invece quattro giornali, di vario colore, tutti civilmente combattivi. Tutto questo costituisce, non soltanto per me, una grande tristezza» (p. 11).
158. Il quale le estende anche al capo del partito e del governo: Che ne pensa De Gasperi? (2, 5 marzo 1950, nr. 7, p. 3).
159. Diverse provengono dalla stampa fra le due guerre, come «Il Ventuno» o «Le Tre Venezie», i giornali del G.U.F. di Padova, «Il Bo», e di Treviso, «Il Rengo», oltre che dai giornali del C.L.N. Nella sua breve stagione «Cronache Veneziane» ospita, oltre ai già nominati, scritti di Gino Luzzatto, Carlo Izzo, Manlio Dazzi, Umbro Apollonio, Giuseppe Marchiori, Giuseppe Turcato, Giuseppe Santomaso, Emilio Vedova, Armando Pizzinato, Mario de Luigi, Giuseppe Samonà, Sergio Levi, Massimo Bontempelli, Raffaello Levi, Astone Gasparetto, Mario Orsoni, Diego Valeri, Alberto Magrini, Rodolfo Pallucchini, Iginio Borin, Guido Padoan, Egle Renata Trincanato, Renato Carrain.
160. Quando la giunta comunale imbandiera la città per il XX Settembre, «Cronache Veneziane» non nasconde dubbi circa l’opportunità di farlo, ma difende l’iniziativa davanti alle scomposte reazioni clericali (1, 11 settembre 1949, nr. 2).
161. Uscito da poco dall’esperienza di forzata chiusura — non per mancanza di lettori — l’ex direttore del «Mattino del Popolo» apre «Cronache Veneziane» sull’anomalia e l’intollerabilità di questo monopolio rispetto alla storia della stampa a Venezia e alla stessa vitalità attuale della città, che egli si rifiuta di mettere in dubbio (Due parole di presentazione, «Cronache Veneziane», 1, 4 settembre 1947 [ma 1949], nr. 1). Prima che la chiusura si ripeta anche con il domenicale, Tito de Stefano promuove un’inchiesta sulla diffusione dei vari organi di stampa a Venezia, locali e nazionali, che esce nel nr. 9 del 19 marzo 1950, a firma Marco Sagredo. Vi si afferma che il «Gazzettino» in città è sceso a 17.000 copie, dalle 27.000 dell’anteguerra, restando comunque il quotidiano più venduto: più del «Corriere della Sera», secondo con 2.500 copie e dell’«Unità», terza con 2.000. In cifre assolute, si piazza secondo il settimanale a fumetti «Grand Hotel» (14.000), mentre «Oggi» è a 4.000 copie, nettamente in testa rispetto a tutti gli altri rotocalchi e ai femminili. «Naturalmente ‘Il Mondo’ che è forse il giornale più intelligente stampato in Italia nel dopoguerra, trova a fatica i duecentocinquanta acquirenti» (Marco Sagredo, I cattivi lettori, 9, 19 marzo 1950, p. 6). Le 17.000 copie diffuse a Venezia dall’antico e radicatissimo «Gazzettino» sembrerebbero rivalutare le 10.000 attribuite al «Mattino del Popolo» neonato, rendendolo già concorrenziale.
162. «Pensare che, accanto a Venezia, in vista di Venezia, si sarebbe potuto creare una città modernissima, un teatro esemplare delle nuove concezioni architettoniche; e pensare che questo sfogo di architettura in libertà avrebbe forse risparmiato a Venezia stessa gli insulti modernistici che tutti sapete» (Due parole di presentazione, p. 3).
163. Pallucchini li vuole al Lido / e Bontempelli li trova un incanto (titolo) Marchiori li preferisce a S. Zulian-Paola Masino / ha premura di vederli-Proprio ‘bellini’ per una turista (sommario) («Il Mattino del Popolo», 3, 23 dicembre 1948, p. 2).
164. Se ne occupa in particolare Renato Carrain.
165. Il settimanale di palazzo Camerlenghi, stampato nella tipografia del «Gazzettino», è al suo terzo anno di vita (anno I, 1945): direttore Pietro Lizier, condirettore Antonio Meccoli. Per la lungamente rilevante figura del cattolicissimo Lizier v. Loredana Nardo, ‘Nova et vetera’: universitari e laureati cattolici fra Venezia e l’Italia (1897-1937), tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1996-1997. Quanto a Meccoli, anche lui viene chiamato in causa polemicamente ad personam da «Cronache Veneziane» (2, 12 marzo 1950, nr. 8): Il signor Meccoli uno e due (titolo) In un libro del 1941 sul Carducci si sdilinquisce in grotteschi omaggi all’‘uomo della Provvidenza’; oggi è vice-direttore responsabile del ‘Popolo del Veneto’, organo regionale della Democrazia Cristiana (sommario). Si tratta di Ritorno cristiano del Carducci, Venezia 1941. Le schermaglie continuano nel nr. 9 del 19 marzo, che vedono la pubblicazione di una lettera di Meccoli a de Stefano, cordiale e sminuente, che gli guadagna solo una nuova scarica di citazioni compromettenti e il rifiuto di ogni embrassons-nous.
166. «Il Popolo del Veneto», 3, 4 gennaio 1950, nr. 1, p. 2.