La stele di Hammurabi e le antiche leggi
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La stele del Codice di Hammurabi è uno degli oggetti che meglio rappresenta nell’immaginario collettivo la cultura mesopotamica. Nei primi anni del XX secolo, alla sua scoperta, il padre Jean-Vincent Scheil sentenziò che mai furono rinvenuti “documenti più considerevoli per alta portata morale e contenuto generale” di questo, “un monumento non solo della storia dei popoli dell’Oriente, ma della storia universale”.
Agli inizi del XVIII secolo a.C., quando Hammurabi sale al trono di Babilonia, la Mesopotamia è suddivisa in vari regni, fra i quali predominano Larsa a sud e l’Assiria a nord. Fin dall’inizio, lo scopo principale del re è “ristabilire la giustizia sul paese” e il suo atteggiamento non muta neanche in seguito alle grandi vittorie ottenute dopo il trentesimo anno di regno e alla creazione dell’impero. Hammurabi non vuole essere considerato una divinità come gli altri re, si proclama piuttosto “pastore” del suo popolo e rispetta le tradizioni dei vinti, senza imporre la cultura babilonese.
Testimone di questo atteggiamento è il suo monumento più famoso, la stele del codice, sulla quale compare il dio Shamash e non la principale divinità babilonese, Marduk. È probabile che in origine il monumento fosse eretto a Sippar, davanti al tempio dello stesso Shamash, ma la posizione originale non è certa, perché, quando il re elamita Shutruk-Nakhunte (re dal 1170 al 1155 a.C. ca.) conquista la Babilonia nel XII secolo a.C., la stele è portata come bottino di guerra a Susa, assieme a molti altri monumenti provenienti da Sippar e da Eshnunna. Qui la stele continua ad essere studiata e copiata per molti secoli, fino a quando Assurbanipal d’Assiria (re dal 668 al 631 a.C.) devasta l’acropoli della capitale elamita nel VII secolo a.C. e provoca probabilmente la caduta e la rottura del monumento babilonese, che rimane nascosto sotto le rovine della città, fino alla sua scoperta, avvenuta fra il 1901 e il 1902.
La stele e l’iconografia Il monolite di diorite nera, alto 2,25 metri e accuratamente lisciato, ha la forma di un cippo slanciato, che conserva ancora evidenti le irregolarità del blocco di pietra dal quale fu ricavato. Sulla parte inferiore del monumento, che ha forma quasi cilindrica, è inciso il testo del codice. Verso l’alto la stele si arrotonda, la sommità è lunata e la parte frontale superiore è tagliata per far posto ad una scena a rilievo.
In essa è raffigurato Hammurabi al cospetto di Shamash, divinità solare e della giustizia, rappresentato con una lunga barba e un abito a balze, seduto su un seggio che riproduce la facciata tipica di un tempio mesopotamico. Gli attributi divini sono evidenti: sul capo porta la classica tiara con quattro paia di corna, raffigurate straordinariamente di profilo; due fasci di raggi solari si propagano dalle sue spalle come a dissipare le ombre e a portare la luce della giustizia; i piedi sono posati su un piedestallo a scaglie, raffigurazione dei monti dell’est dai quali sorge quotidianamente il Sole. Il dio legittima la sovranità del re e le sue leggi consegnandogli un bastone e un cerchio, strumenti di potere e di giustizia, la cui importanza simbolica è abilmente sottolineata dallo scultore, che li pone nel centro esatto della composizione.
Il bastone e il cerchio, o il picchetto e la corda, sono attrezzi di misurazione, impiegati per la costruzione degli edifici, che diventano simbolo del “re costruttore”, il quale li utilizzava nelle cerimonie di fondazione dei templi. Precedentemente all’epoca di Hammurabi, sono visibili sulla stele di Ur-Namma, il fondatore della III Dinastia di Ur. Il monumento in calcare alto tre metri è in pessimo stato di conservazione ma è chiaro che la raffigurazione a bassorilievo distribuita su cinque registri celebri la costruzione del tempio e della ziqqurat di Sin a Ur. Una delle scene meglio conservate ci mostra la divinità lunare Sin porgere questi attrezzi al re, impegnato ad eseguire una libagione su un altare.
Gli stessi simboli appaiono nelle mani di Shamash su un’altra stele in calcare, forse da attribuire a Lipit-Ishtar di Isin. Ur-Namma, Lipit-Ishtar e Hammurabi sono tutti noti per aver lasciato leggi scritte e il cerchio con la corda e il bastone sono simbolicamente gli strumenti che vengono loro consegnati dagli dèi per misurare la giustizia e appianare i soprusi.
Sulla sua stele Hammurabi è raffigurato leggermente più piccolo di Shamash, indossa una lunga veste a pieghe verticali che gli lascia scoperta la spalla destra, ha una folta barba e porta il tipico copricapo dei re di Ur e di Babilonia. Il re è ritto di fronte al dio e tiene il braccio destro sollevato, in segno di ascolto e sottomissione. Al polso destro porta un bracciale, come Shamash, e due collane attorno al collo. Una di queste potrebbe essere l’“amuleto di Hammurabi”, un talismano realizzato con lapislazzuli, calcedonio blu e agata, del quale parla ancora, oltre mille anni più tardi, il re assiro Esarhaddon. Tali amuleti magici e protettivi, realizzati con pietre preziose, sono ben attestati nelle fonti scritte ed è probabile che il re ne indossasse uno durante le cerimonie ufficiali e i riti religiosi.
Le caratteristiche iconografiche appena descritte hanno una lunga tradizione nell’arte mesopotamica. La lunga veste a balze di Shamash e la sua tiara cornuta, di regola rappresentata frontalmente, sono tipiche delle divinità e si possono vedere sia nelle altre due steli menzionate, sia in molti sigilli dell’epoca. Il copricapo a calotta era indossato, secoli prima di Hammurabi, anche da Gudea di Lagash, in una nota testa di diorite trovata a Girsu, uno dei migliori esempi dell’alto livello raggiunto dalla plastica neosumerica. La posa delle braccia di Hammurabi è ripetuta dall’Orante di Larsa, una statuina a tutto tondo realizzata in rame e parzialmente placcata d’oro, dedicata “per la vita di Hammurabi” alla principale divinità amorrea, il dio Amurru.
Il testo del codice è iscritto in quasi 4000 colonnine verticali che iniziano sotto il rilievo di Shamash e procedono verso la figura del re, susseguendosi su più registri e ricoprendo pressoché la totalità della superficie della stele. Il testo è composto da tre sezioni principali. La prima è un lungo prologo nel quale si narra di come i grandi dèi Anu ad Enki, dopo aver dato al dio Marduk il potere sulle genti, chiamarono Hammurabi, re pio e devoto, affinché migliorasse la condizione del popolo, proclamando la giustizia e distruggendo il male, illuminando il paese come il dio Shamash. L’esaltazione delle capacità politiche e delle qualità morali di Hammurabi è ripresa nella terza parte, l’epilogo, nel quale si sottolinea come le leggi siano state incise sulla stele per proteggere i deboli, gli orfani e le vedove. Il re invita chiunque sia oppresso ad andare alla stele ad “ascoltare” le sue parole che non saranno mai cancellate. Chiunque proverà a cancellarle o non le ascolterà sarà vittima delle maledizioni dei grandi dèi.
La sezione più lunga è la seconda, quella che contiene le 282 leggi del codice, ordinate in base agli argomenti trattati in gruppi più o meno omogenei, spesso collegati l’uno all’altro per analogia. Ad esempio, all’articolo 125, che tratta del furto di beni dati in deposito, segue un articolo sulla falsa denuncia di un furto, quindi un altro sulla falsa denuncia verso una sacerdotessa o una donna sposata. Da qui parte una lunga sezione di leggi dedicate prima al diritto matrimoniale, poi a quello familiare, che si conclude con il famoso articolo 196: “Se un uomo causa la perdita di un occhio del figlio di un altro uomo, sia condannato all’accecamento di un occhio”. Questa è un’applicazione della legge del taglione, cioè l’assegnazione di una pena identica al danno commesso, utilizzata soprattutto per reati che comportano l’uso della violenza o provocano danni fisici e che, secondo i casi, può essere inflitta al condannato o a un suo parente.
Le leggi ci permettono di ricostruire anche la struttura sociale babilonese: sopra tutti ci sono gli awilum, gli “uomini”, economicamente autonomi, proprietari terrieri o alti funzionari; seguono i meshkenum, i “prostrati”, cioè i poveri, i cittadini privi di mezzi di produzione e quindi non indipendenti economicamente, costretti a lavorare per lo stato o per un awilum; infine si trovano i wardum, gli “schiavi” acquistati in paesi stranieri o ottenuti come bottino di guerra.
Le punizioni corporali, pressoché assenti nelle precedenti leggi sumeriche, sembrano essere inflitte solo se l’accusato è un awilum, forse per dare un valore esemplare alla punizione o forse riprendendo vecchie usanze tribali semitiche. La classe dirigente babilonese, infatti, non ha origini sumeriche ma amorree. Per i mushkenu si utilizzano, invece, soprattutto le pene pecuniarie o l’asservimento.
Quello del taglione non è l’unico principio utilizzato per stabilire le pene; molto comune è l’uso del contrappasso, con l’inflizione di una pena che colpisce la parte del corpo con la quale è stato commesso il reato o che ricorda simbolicamente la colpa, ad esempio tagliando la mano ai ladri o facendo annegare gli adulteri legati insieme.
Il Codice di Hammurabi non è la prima raccolta di leggi. Una società, per piccola che sia, non può sopravvivere senza norme e gli uomini vivono da sempre in conformità a determinati comportamenti, magari non scritti e tramandati oralmente di generazione in generazione. Dopo la nascita della scrittura, bisogna attendere vari secoli per trovare una vera raccolta di leggi, ma i tentativi di “ristabilire la giustizia” o di “restaurare la libertà” che si trovano menzionati nelle iscrizioni dei re sumerici di Lagash fra XXIV e XXII secolo a.C. sono chiaramente dei tentativi di regolamentazione e di controllo dei soprusi. Il più antico codice che è parzialmente giunto a noi è quello scritto in sumerico di Ur-Namma, primo re della III Dinastia di Ur. Il sovrano, il primo ad unire in un unico regno genti sumeriche e semitiche, diventando “re di Sumer e di Akkad”, decide forse di far redigere un codice scritto per la necessità di uniformare le norme diverse che regolano la vita dei due popoli. I 32 articoli che lo compongono non possono coprire ogni campo della giustizia ed è probabile che queste leggi servano solo a regolamentare le questioni controverse o a modificare alcune regole già in vigore, forse mai scritte ma ben note ai giudici. Analizzano casi molto particolari, tralasciando spesso quelli più normali, sia le leggi di Lipit-Ishtar di Isin, sia quelle di Hammurabi, che, a differenza delle altre sono scritte in accadico e sono conservate nella loro quasi totalità.
La lunga fortuna di cui gode il Codice di Hammurabi per tutta la storia giuridica mesopotamica è dimostrata dalle sue numerose copie, sia coeve sia posteriori, incise su pietra o su tavolette d’argilla. Della più antica versione rimane solo il prologo, nel quale mancano vari riferimenti ai benefici dispensati dal re alle città annesse al suo regno. Per questo si ritiene che la stele, incisa alla fine del regno di Hammurabi, contenga la trascrizione di un testo composto tempo prima, aggiornato più volte nel corso degli anni.
Non scrivono leggi solo le genti mesopotamiche, ma anche i loro vicini, gli Ittiti a nord e gli Ebrei a sud-ovest. Due codici ittiti composti intorno alla metà del II millennio a.C. sono per molti aspetti simili a quelli assiro-babilonesi, ma con la pena pecuniaria che prevale sulla legge del taglione, ampiamente utilizzata invece nelle leggi ebraiche composte fra il IX e il V secolo a.C. e contenute nella Torah (la Legge), in particolare nei libri del Levitico e del Deutronomio.
Un modo diverso di approcciarsi alle leggi si ha in tarda epoca medioassira, durante il regno di Tiglat-pileser (re dal 1114 al 1076 a.C.). Basandosi su leggi precedenti, forse su qualche codice a noi sconosciuto, sono redatti dei “breviari”, nei quali le norme sono raggruppate per tema. Per questo motivo una stessa legge che affronta due argomenti diversi, ad esempio il possesso di un campo e questioni di eredità ad esso collegate, può trovarsi riportata identica sia nel gruppo inerente le questioni di diritto familiare, sia in quello dedicato alla proprietà della terra.
Non si conoscono veri corpi di leggi per l’epoca neoassira, ma ad essa datano le copie più tarde del Codice di Hammurabi, conservate nella ricca biblioteca di Assurbanipal e fondamentali per la conoscenza completa dello stesso. Alcuni dei frammenti contengono, infatti, leggi cancellate sul monumento originale in seguito alla deportazione della stele a Susa.