La storia del diritto romano
La storia degli studi di diritto romano nell’Italia del Novecento è la storia di un’identità perduta, e mai ritrovata – ed è perciò, nel suo insieme, la storia di un declino, che appare ormai irreversibile, risultato di un isolamento sempre più pesante e drammatico.
Questa caduta in verità non riguarda soltanto il nostro Paese, ma l’Europa e l’intero Occidente, dove il diritto romano come disciplina autonoma, oggetto di ricerca e d'insegnamento specifici, sta di fatto uscendo dai grandi circuiti dell’organizzazione scientifica e accademica internazionale. Mai davvero radicatosi negli Stati Uniti – sia pure con qualche eccezione brillante e significativa, e a onta della spettacolare crescita dell’antichistica americana negli ultimi decenni – questo campo di studi sta ormai scomparendo dal panorama inglese, francese e persino tedesco, dove pure, almeno sino alla metà del secolo scorso, appariva ancora un punto di riferimento insostituibile nella formazione giuridica delle classi dirigenti. Come dire, insomma, che quella tradizione sta precipitando sostanzialmente fuori della rete in cui si concentrano le istituzioni più importanti della ricerca e della didattica avanzata di cui disponiamo.
Una prima e clamorosa conseguenza di questa scomparsa è che oggi per la prima volta ci troviamo già (diciamo, almeno dagli anni Novanta del Novecento) di fronte a generazioni di giuristi e di operatori del diritto, con responsabilità di primo piano in Europa e in America, per le quali il diritto romano appare soltanto come una cognizione nebulosa e remota, quando non come un continente completamente sommerso.
Esso resiste, nei termini di una presenza didattica significativa, unicamente in Italia e in Spagna (e in qualche modo in alcune realtà dell’America Latina), ma in una condizione che, dal punto di vista delle relazioni accademiche, somiglia a quella di un territorio assediato e, dal punto di vista scientifico, di un’isola pressoché dimenticata. Certo, negli ultimi anni abbiamo potuto assistere a non trascurabili riprese di attenzione per il diritto romano in alcuni Paesi di quel che era stato l’universo comunista – dalla Russia stessa alla Cina – ma è ben difficile immaginare che da questi impulsi possano arrivare, almeno per ora, contributi di un qualche rilievo sotto il profilo della ricerca e dell’acquisizione di conoscenze e di prospettive innovative. Oggi più che mai, il diritto romano è dunque una disciplina a rischio: se non proprio di completa estinzione, quanto meno di una gravissima marginalizzazione.
Eppure, ancora agli inizi del Novecento gli studi romanistici erano parte essenziale del grande sapere giuridico europeo e, per quanto ci riguarda più da vicino, ben al centro della cultura della nuova Italia uscita dall’unificazione. All’ombra dei grandi maestri di Germania – Friedrich Carl von Savigny, Rudolf von Jhering, Bernhard Windscheid, autentiche glorie del prestigioso e austero sistema universitario tedesco – una generazione di professori italiani – quella di Contardo Ferrini (1859-1907), di Biagio Brugi (1855-1935), di Carlo Fadda (1853-1931), di Silvio Perozzi (1857-1931), di Vittorio Scialoja – si stava rapidamente affermando, conquistandosi un ruolo da protagonista. Il suo lavoro (con la sola parziale eccezione di Ferrini, peraltro precocemente scomparso) ruotava intorno a un assunto nel quale si era già riconosciuto Filippo Serafini (1831-1897), primo professore di diritto romano nell’Università di Roma dopo il 1870, che possiamo considerare come l’autentico fondatore della rinascente romanistica italiana.
Esso consisteva nell’idea che una forte presenza degli studi romanistici fosse indispensabile per la costruzione del tessuto giuridico del nuovo Stato nazionale. La codificazione appena compiuta non poteva assolutamente bastare (si credeva fermamente); e il più capace dei legislatori rischiava sempre di restare abbagliato dal proprio illimitato arbitrio, se non si alzava a proteggerlo e sorreggerlo, robusta e matura, una scienza giuridica adeguata, lei sola vera interprete delle esigenze profonde della nazione, e unica in grado di garantirne l’unità di istituzioni appena raggiunta. Ma non vi poteva essere cultura giuridica degna di questo nome senza mantenere un profondo rapporto con la tradizione e il passato: niente come il diritto di un popolo libero – infatti – vive di storia e nella storia. E la tradizione e il passato, nella millenaria vicenda giuridica italiana, più e meglio che in ogni diverso Paese europeo, non potevano significare altro che diritto romano. Già Serafini aveva scritto del resto fin dal 1871, nella sua prolusione romana:
Se noi scorriamo la storia primitiva di qualsiasi popolo, noi troviamo che ogni nazione forma un insieme organico distinto per sua natura da tutte le altre. Questo carattere particolare si manifesta nella lingua, nei costumi, nel diritto. Nella stessa guisa che è impossibile creare di pianta una lingua nazionale e nazionali costumi, così è pure impossibile improvvisare un diritto nazionale. La vera fonte del diritto dunque non è il capriccio del legislatore, ma la necessità di provvedere ai rapporti della convivenza civile, e trae la sua impronta non dall’ingegno di pochi saggi, ma dal genio individuale della nazione (Serafini 1872, 1901, p. 205).
Agli studi romanistici veniva così attribuito (senza timore di smentite) una sorta di primato intellettuale all’interno della scienza giuridica moderna: una superiorità che si traduceva in una missione di autentica fondazione nazionale. Il diritto romano diventava un pilastro indispensabile nell’edificazione non solo del sistema istituzionale italiano, ma del carattere stesso del suo popolo, finalmente riunito: un’antica sapienza, rigenerata da interpreti attenti e fedeli, che la mettevano al servizio di un giovane Stato.
Era una convinzione destinata a un grande successo, ed era, per così dire, l’‘imprinting’ di quella romanistica che altrove ho definito nazionale (Schiavone 1990): un motivo destinato ad arrivare, come subito vedremo, sino al fascismo, e a spegnersi solo alle soglie della Repubblica e della Costituzione. È sin troppo facile riconoscerne le ascendenze culturali, cristallizzatesi nell’asse Serafini-Fadda-Scialoja-(e infine) Bonfante. In primo luogo, la presenza di Savigny e della scuola storica tedesca con il suo storicismo marcatamente continuista, segnato da accentuati elementi di organicismo romantico; e poi un certo naturalismo di matrice positivista e sociologizzante, riconoscibile soprattutto nel lavoro di Bonfante (che era stato allievo diretto e privilegiato di Scialoja).
In particolare, il debole storicismo di Savigny veniva usato in due direzioni: per garantire anche in Italia il primato della scienza giuridica rispetto al testo dei codici, in funzione cioè antilegislativa (ed era la vocazione moderata di quel ceto di intellettuali che così si esprimeva: dietro l’onnipotenza del legislatore s'intravedeva sempre l’ombra del rischio rivoluzionario). E insieme per integrare il primato del diritto romano ben dentro ‘lo spirito del popolo’ della nuova Italia (per riprendere una celebre espressione che Savigny mutuava dalla cultura romantica del suo tempo). In tal modo la ripresa degli studi romanistici, sotto il magistero della grande scuola tedesca, ma cercando nello stesso tempo di affrancarsene («come abbiamo rivendicato dallo straniero la nostra terra, rivendichiamo il culto di una scienza», aveva scritto sempre Serafini), diventava non solo un problema di dottrina e di idee, ma una questione di identità nazionale, e di impronta da dare allo Stato e alla formazione delle nuove classi dirigenti. Un vincolo strettissimo doveva stringere «antico diritto di Roma» e «nuovo diritto d’Italia», e questo nel rispetto delle caratteristiche intrinseche della storia italiana, «poiché è impossibile improvvisare un diritto nazionale» e, se «le nazioni si formano con le armi», è solo con le «buone istituzioni» che «si mantengono» (Serafini 1872, 1901, pp. 217-19).
Questo programma collegava così in un unico intreccio la vocazione ‘nazionale’ della nuova romanistica a quell’attualizzazione del diritto romano (la costruzione di un diritto romano ‘attuale’ – noi diremmo di un ‘diritto romano-borghese’ – era stata il progetto dell’ultimo Savigny; cfr. Schiavone 1984, pp. 61 e segg.), che aveva caratterizzato tanta parte della cultura giuridica europea nel corso del 19° sec., e che aveva dato vita, in Germania ma non solo, alla scuola della cosiddetta pandettistica.
Pietro Bonfante è stato di certo il romanista più importante dell’Italia moderna. Forse soltanto Vincenzo Arangio-Ruiz – di vent’anni più giovane, allievo napoletano di Fadda – può essere confrontato con lui. Al centro del suo mondo di studi ritroviamo un’interpretazione fortemente finalistica del diritto e della storia. L’attualizzazione del diritto romano – già in gran parte realizzata – era solo il primo passo verso l’assolvimento di un compito ancora più complesso, che doveva mirare a riportare alla luce le finalità storiche e giuridiche di ciascun istituto, come si potevano leggere attraverso «una lunga catena di secoli» (Bonfante 1902, 19344 , 1° vol., p. XIII). In questo modo, ricerca storica e ricerca propriamente giuridica s'integravano al servizio della comprensione e dell’arricchimento del diritto vigente, e di una più corretta individuazione dei suoi scopi e delle sue funzioni. Antico diritto romano e moderno diritto civile s'intrecciavano in maniera davvero inestricabile, senza però che questo comportasse un annullamento della prospettiva storica, in un punto d’equilibrio di indubbia suggestione, che non sarebbe stato più ritrovato. Bonfante in realtà era uno storico di prim’ordine – come quasi nessun romanista sarebbe più stato (di nuovo, con l’eccezione quasi sola di Arangio), anche se per lui la conoscenza storica aveva pur sempre una funzione in qualche modo subalterna rispetto alla costruzione giuridica.
E c’era di più. Con uno slittamento che doveva molto a un fondo di storicismo romantico, nel suo pensiero la storia del diritto romano veniva identificata con la storia della formazione stessa del popolo italiano, e con la storia dei concetti di nazione e di Stato-nazione. I tradizionali confini del diritto privato erano così completamente travalicati. Il diritto romano poteva diventare una specie di scienza regina, dove si fondevano costruttivismo giuridico e analisi storica nella definizione di un primato culturale (e in certo senso morale) che aspirava a porsi come punto di riferimento dell’intera intelligenza italiana.
E fu proprio questa – un’autentica lotta per l’egemonia intellettuale – la ragione profonda che scatenò, negli anni della Prima guerra mondiale, la polemica di straordinaria asprezza che Bonfante avrebbe ingaggiato con Croce, già allora all’apice della sua influenza (Bonfante 1925, 4° vol., pp. 53 e segg., 70 e segg., 90 e segg.; Croce 1919, 1° vol., pp. 348 e segg.). Altrove ho ricostruito, per quanto brevemente, l’incandescente andamento del dibattito, e il suo retroscena, e non vi ritornerò ancora (Schiavone 1990). Quel che va detto ora è che esso segnò anche il culmine nell’ascesa del diritto romano come sapere di punta, in grado d'imprimere il proprio sigillo su tutta la cultura italiana. La veemenza della reazione di Croce aveva in effetti anche il sapore di un riconoscimento. L’avversario era di pari livello. E la questione andava molto al di là di una semplice battaglia antipositivistica. In gioco erano due modelli alternativi di educazione intellettuale per le nostre classi dirigenti: uno centrato sullo storicismo idealistico, e sul ruolo dominante della filosofia; l’altro su una scienza giuridica in grado di orientare la forma stessa dello Stato nazionale: un gruppo omogeneo di discipline a stretto contatto con le scienze naturali e dominato dal diritto romano, a sua volta rigenerato dalla sociologia e da una storiografia educata al positivismo. Quel che Croce voleva contrastare non era tanto (o almeno non soltanto) lo scientismo positivista sul piano delle idee, ma la pretesa di Bonfante di collocare il diritto (e gli studi romanistici) al posto della filosofia come cerniera decisiva fra popolo e Stato, fra domanda politica e ‘servitori’ della cosa pubblica: esattamente quel che abbiamo definito la funzione ‘nazionale’ degli studi romanistici.
Cinquant’anni dopo Serafini, sembrava davvero che l’obiettivo da lui indicato fosse stato pienamente raggiunto. Gli studi di diritto romano avevano saputo guadagnare con rinnovato slancio il centro della scena: non solo delle facoltà di Giurisprudenza, bensì dell’intero panorama culturale della nuova Italia. Avevano contribuito a questo successo, oltre allo stesso Bonfante, gli altri allievi di Scialoja: Salvatore Riccobono e Gino Segrè; e con loro, Siro Solazzi e il giovane Arangio-Ruiz.
Ma tutto durò solo un volgere d’anni assai breve. E fu il fascismo a determinare la rottura. Intendiamoci, non si trattò di una vicenda soltanto italiana, e altrove la svolta assunse evidentemente colori diversi. Ma in Italia fu il fascismo, ripeto, a mettere per primo in crisi quella pretesa egemonica che pure pareva così ben sorretta.
Il punto cruciale dove si aprì la frattura va ritrovato nel rapporto fra diritto romano e diritto positivo. L’orientamento di Scialoja e di Bonfante era, come abbiamo visto, per un'integrazione strettissima fra i due poli, sulla scia della tradizione pandettistica: la prospettiva dell’attualizzazione o, si è detto, del diritto romano-borghese. In Bonfante un simile assunto non aveva soffocato un’autentica vocazione storiografica, che aveva prodotto risultati anche significativi. Ma si trattava sempre, in qualche modo, di un punto di vista secondario, finalizzato comunque, in ultima istanza, alla visione attualizzante. Ora, questa fusione fra antico e moderno si reggeva su un'interpretazione pesantemente individualistico-liberista tanto del diritto romano quanto del diritto positivo contemporaneo: autonomia privata, primato della volontà, costruzione individualistico-liberista della soggettività giuridica e dei diritti che ne discendevano. Insomma, sull’asse di una trascrizione liberale del diritto romano. Ebbene, era proprio quest'impostazione che una nuova generazione di giuristi – quella, per capirci, di studiosi come Filippo Vassalli o Costantino Mortati – stava cominciando a mettere in crisi, sulla spinta di una nuova idea del rapporto fra Stato ed economia e fra diritto e socialità, indotta dalle trasformazioni del capitalismo del Novecento a ridosso della grande crisi del 1929, e dalla conclusione del ciclo liberale nella storia d’Italia (Schiavone 1980).
Sia chiaro: da noi quest’onda di modernità arrivava filtrata e deformata dall’opzione drammaticamente liberticida e antidemocratica che il fascismo vi imprimeva sopra: era, appunto, una modernizzazione autoritaria della vita del Paese. Ma era comunque una modernizzazione sufficiente per determinare un salto di qualità che spiazzava gli studi di diritto romano, azzerando la loro funzione ‘nazionale’ e dislocando, per la prima volta, la cultura giuridica italiana lontano da ogni scelta attualizzante rispetto al diritto romano. Paradossalmente, quanto più la retorica della romanità (e del suo ‘immortale’ diritto) si faceva martellante nella politica culturale fascista, tanto più sotto quell’insulso velo si elaboravano ben altre realtà. Adesso c’era bisogno di nuovi modelli normativi, di una razionalità giuridica che il diritto romano non poteva più offrire. Quella stagione si era chiusa per sempre, e la morte quasi contemporanea di Scialoja e di Bonfante ne segnò quasi fisicamente l’epilogo. Ci si incamminava per altre strade, rispetto alle quali il diritto romano non poteva più rivendicare alcun primato. E importanti segnali del cambiamento non si sarebbero fatti aspettare. Nel nuovo codice civile, promulgato nel 1942, e già nei suoi lavori preparatori, la presenza della tradizione romanistica fu inaspettatamente molto modesta, quando non addirittura quasi del tutto assente. E anche dopo la Liberazione, nell’impianto della nuova Costituzione repubblicana, mentre non era difficile intravedere le tracce della cultura giuridica italiana venuta tormentosamente alla luce negli anni Trenta, e poi definitivamente maturata nella crisi del fascismo, non era sopravvissuto praticamente nulla della vecchia impronta giuridica romano-borghese. Togliatti fu uno dei primi ad accorgersene e a prenderne atto (Togliatti 19732, p. 12).
Emilio Betti, formatosi alla scuola di Moriz Wlassak, di Josef Partsch e di Otto Lenel a Vienna e Friburgo, ma anche dello stesso Bonfante a Pavia, fu l’unico romanista a percepire precocemente il cambiamento, sia pure in modo non del tutto limpido, e a cercare di ricostituire su nuove basi – non più pandettistiche – l’indispensabilità, se non proprio il primato, del diritto romano, che per lui restava indiscutibile (rivendicando, da un lato, la superiorità logica del presente sul passato in termini quasi hegeliani, sottolineando però dall’altro l’intrinseca continuità della tradizione giuridica europea, che aveva avuto proprio nel diritto romano un incancellabile e creativo momento di fondazione; cfr. Schiavone 1980, pp. 47 e segg.). Ma la sua rimase per molte ragioni – anche politiche – una voce isolata, nonostante l’indubbio prestigio che sempre circondò il suo lavoro e la sua persona.
Ancora alla fine degli anni Trenta il centro della disciplina continuava a ruotare intorno alla scuola di Bonfante: Pietro de Francisci, Giovanni Rotondi, Emilio Albertario; seguiti più tardi da Giuseppe Branca, Edoardo Volterra, Paolo Frezza. Con loro, erano al lavoro Solazzi, Segrè, Arangio Ruiz, mentre si stava appena formando la generazione successiva: di Gian Gualberto Archi, formatosi con Perozzi; di Mario Lauria, alla scuola di Solazzi; di Giorgio La Pira, scoperto da Betti; di Giuseppe Grosso, allievo di Segrè; di Riccardo Orestano, cresciuto con Riccobono. Nella memoria della disciplina questa sarebbe rimasta come l’età dell’oro della romanistica italiana, ma in effetti la rottura si era già consumata e il conseguente declino era ormai inevitabile. La distanza dal diritto positivo mise quella cerchia di studi sostanzialmente al riparo da rapporti troppo stringenti con il fascismo. E anche la convinta adesione di Betti e di de Francisci, e qualche cedimento più diffuso alla retorica del mito risorgente di Roma, non si trasformarono mai, per fortuna, in opzioni vincolanti di lavoro o di metodo.
Era tuttavia qualcosa di ben più profondo che stava cedendo, aprendo di fatto la lunga stagione della crisi. Era il nocciolo del lascito bonfantiano, con la sua mediazione fra filologia interpolazionista e cultura dell’attualizzazione ‘nazionale’ del diritto romano, a non reggere più, e la contiguità fra diritto positivo e tradizione romanistica risultava ormai gravemente compromessa, mentre il rapporto con le scienze storiche si faceva sempre più evanescente. Eppure tutti quegli studiosi – alcuni dei quali di alto livello – continuavano a sentirsi innanzitutto giuristi, e non storici: era quella la loro formazione, e il loro mondo. Che poi i giuristi di diritto positivo non li ascoltassero più, li amareggiava, ma non li spingeva a compiere l’unico passo che li avrebbe potuti salvare: quello in direzione della storia, della sola storia, per poter poi da lì ricostituire su nuove basi la relazione con le scienze giuridiche. Ma i romanisti tendevano piuttosto a dare una lettura rovesciata di quanto stava accadendo: e leggevano l’incipiente isolamento che stava cominciando ad avvolgerli come segno di una grave degenerazione nel campo dei loro interlocutori mancati, piuttosto che di una perdita di senso e d'identità del proprio sapere.
Scelsero quindi una strada incerta e senza un vero sbocco, che il passare del tempo avrebbe reso sempre più impraticabile, ma che aveva per loro un rassicurante sapore di famiglia: quella di confondere la critica interpolazionistica con la via maestra di una nuova storia giuridica. Si trattava di un completo fraintendimento: ma l’unico in quel gruppo che aveva davvero la tempra del filologo, Rotondi, morì giovane, nemmeno quarantenne, senza una scuola. E l’altro che aveva gli strumenti per capire, e probabilmente si rese conto del vicolo cieco – Arangio Ruiz, dico – non fu mai al centro di una vera scuola, paragonabile al rilievo del suo talento, e aveva per giunta un invincibile fastidio per ogni teorizzazione, e ogni questione di metodo: salvò se stesso, ma non la sua disciplina.
La generazione successiva, emersa in primo piano negli anni Cinquanta del secolo scorso – agli ultimi nomi già ricordati bisogna aggiungere almeno quelli di Giovanni Pugliese, Giuseppe Ignazio Luzzatto, Francesco De Martino, Antonio Guarino, Cesare Sanfilippo, Bernardo Albanese – si trovò così a gestire una situazione già compromessa. La frattura rispetto alle scienze giuridiche si accentuava sempre di più, nonostante tutti i tentativi (peraltro assai fragili) di ristabilire un contatto. E il passo decisivo verso la storia – quello richiesto esplicitamente e persino brutalmente da Arnaldo Momigliano in un intervento tanto noto e importante quanto inascoltato, agli inizi degli anni Sessanta – rimase del tutto incompiuto (Momigliano 1966, pp. 285 e segg.). Peggio ancora, visto da molti come un pericolo, piuttosto che come la sola opportunità. De Martino, Archi, Orestano avrebbero finito, battendo vie differenti, con l’incontrare orizzonti suggestivi. Si trattava tuttavia di percorsi relativamente isolati, senza che la disciplina nel suo insieme venisse davvero spinta su posizioni più mature, capaci di guardare al di là di una difesa sempre più chiusa e debole del proprio ruolo, e di conquistarsi una nuova identità, piuttosto che rimpiangere quella perduta. E pesò poi di nuovo una morte precoce, quella di Luigi Raggi, allievo innovativo e brillante di Orestano, che si era reso conto in breve di molte cose.
In verità, l’occasione di una svolta si era presentata per la romanistica italiana, e proprio tra la fine degli anni Cinquanta e gli ultimi anni Sessanta del Novecento (Raggi muore nel 1968). L’ambiente che l’avrebbe resa possibile non era però romano, ma napoletano, e legato a quell’indirizzo di studi che stava spostando in modo radicale la propria attenzione verso il pensiero e le individualità dei giuristi romani, abbandonando il terreno consueto di una storia esclusiva degli ‘istituti’ e dei dispositivi normativi, prigioniera della polarità impropria e soffocante tra ‘classico’ e ‘postclassico’ (Schiavone 2002a). Le ricerche sulla locazione di Luigi Amirante (allievo di Arangio Ruiz) apparvero nel 1959 (Ricerche in tema di locazione); il libro di Francesco Paolo Casavola sulla donazione nel 1960 (Lex Cincia. Contributo alla storia delle origini della donazione romana); il primo volume della monografia sull’usufrutto di Mario Bretone nel 1962 (La nozione romana di usufrutto, 2 voll., 1962-1967); il saggio di Casavola su Gaio nel 1965 (Gaio nel suo tempo), come il lavoro di Bretone sull’Enchiridion di Pomponio (Motivi ideologici dell'Enchiridion di Pomponio). Sia Casavola, sia Bretone, come poi Francesco Grelle, si erano formati in una fervida comunità in cui ancora lavoravano fianco a fianco Lauria, De Martino, Guarino.
Ma perché proprio Napoli? Sarebbe difficile rispondere, e ci porterebbe lontano. Dovremmo certo di nuovo parlare di Arangio Ruiz, ma dovremmo anche guardare fuori della romanistica, in direzione di Adolfo Omodeo, di Federico Chabod, dell’ultimo Croce e dell’Istituto che prese il suo nome – in breve: dei molti percorsi dello storicismo (anche marxista, dalla fine degli anni Quaranta) all’ombra del Vesuvio. Sarebbe bastato poco perché quel piccolo ma agguerrito gruppo di giovani studiosi rimanesse unito intorno a un progetto, e che quei fermenti e bisogni di nuovi orizzonti si saldassero in modo più organico a quanto veniva dagli ambienti vicini ad Archi e a Orestano (con Raggi, andrebbero ricordati almeno Ugo Zilletti e Franca De Marini; e fuori da quelle scuole, Ferdinando Bona e Roberto Bonini), o, in Germania, dall’insegnamento e dalla sensibilità di Franz Wieacker, sempre attentissimo a quanto accadeva in Italia, e probabilmente tutta la storia della romanistica europea sarebbe cambiata. Sarebbe bastato che Guarino, che quei talenti se li era visti crescere intorno, e che aveva capacità organizzative e peso accademico, avesse deciso di favorire e proteggere le loro speranze e i loro propositi. E insieme che Raggi vivesse più a lungo, e che la vita di Amirante non fosse stata segnata dal drammatico incidente che ne mutò gli equilibri. Ma niente accadde di tutto questo, e già agli inizi degli anni Settanta della solidità di quei legami non era rimasto più nulla.
Per oltre vent’anni il moltiplicarsi delle cattedre, che avrebbe portato a un aumento vertiginoso dei numeri (siamo arrivati a superare i cento professori ordinari di diritto romano negli anni Novanta!), e il conseguente mantenimento di un notevole peso accademico (anche legato alle importanti carriere pubbliche di alcuni romanisti), hanno in parte nascosto la profondità della crisi, coprendo altri dati, assai preoccupanti: una produzione scientifica da tempo indotta in larga parte da esigenze concorsuali dei più giovani, con una circolazione ridottissima, se non pressoché inesistente; oppure destinata a fini strettamente didattici (manuali per studenti). Rapporti di fatto quasi insignificanti con le scienze giuridiche, nonostante molti rimpianti e molte buone intenzioni; e non certo migliori – salvo qualche eccezione – con le discipline storiche.
Ma da quando, in seguito ai mutamenti intervenuti nel nostro sistema universitario, anche i numeri hanno cominciato a contrarsi, e con essi a diminuire proporzionalmente il peso accademico, è difficile non rendersi conto dell’ampiezza del declino e dell’oscurarsi del futuro. Situazione per certi versi paradossale: perché le grandi trasformazioni che stanno investendo, in Europa e nel mondo, gli ordinamenti statali nazionali, e il primo tormentato delinearsi di un ordine giuridico globale, rendono forte il bisogno di storia, l’esigenza di interrogarsi in modo nuovo sul nostro passato, per capire davvero chi siamo e da dove veniamo. Ma per essere all’altezza di questo compito, e potersi rigenerare nel suo assolvimento, la romanistica dovrebbe essere per prima cosa in grado di rivoluzionare se stessa.
Eppure, nonostante difficoltà e inadeguatezze ormai così evidenti, bisogna dire che la ricerca italiana di diritto romano ha dimostrato, proprio nell’ultimo quindicennio, una vitalità inaspettata (Schiavone 2002b). Pur in un contesto dominato, come si diceva, da una produzione a fini concorsuali – in genere mediocre, ripetitiva, costruita su modelli scientifici e letterari del tutto logori – non mancano ricerche e libri anche importanti, che meriterebbero di essere conosciuti al di là di quella cerchia ristrettissima dove purtroppo sono quasi sempre confinati.
In questo quadro, il primo aspetto che mi sembra vada sottolineato è la ormai piena affermazione di quell’indirizzo di studi che possiamo definire di storia del pensiero giuridico romano. Le polemiche che accompagnarono la nascita di questo orientamento (nella scuola napoletana cui abbiamo fatto cenno) oggi si possono giudicare del tutto superate. Che le ricerche sui profili intellettuali dei giuristi romani ci fossero definitivamente interdette dallo stato frammentario delle fonti utilizzabili si è rivelata sempre meglio come un’affermazione senza fondamento, nutrita soltanto di una cattiva cultura storiografica.
È però vero che l’avanzamento di questo tipo di ricerche è stato meno rapido e sicuro di quanto era stato da alcuni previsto (o auspicato), e soprattutto non è stato in grado di assicurare quel rinnovamento generale degli studi romanistici di cui i suoi assertori più convinti lo avevano immaginato capace. Senza dubbio le nostre conoscenze sulla giurisprudenza romana si sono molto accresciute, soprattutto in riferimento ad alcuni periodi e ad alcuni temi, fino al punto d’aver reso possibile una nuova ricostruzione d’insieme, un autentico racconto genealogico della storia del pensiero giuridico romano, dalle origini sino alle soglie del mondo tardoantico. Ma bisogna anche riconoscere che, nonostante questi risultati, quegli studi non sono riusciti a spostare in avanti l’intero asse problematico e metodologico della romanistica, né hanno determinato davvero lo sviluppo di nuovi rapporti sia con le scienze storiche, sia con quelle giuridiche.
Le ragioni di questo risultato mancato sono molteplici – e certamente si collegano anche al ritardo e alla fatica con cui la nuova prospettiva è riuscita ad affermarsi: limiti che a loro volta rimandano al fallimento napoletano di cui prima s’è detto. E però non si può negare che abbia anche influito una certa fragilità e una certa unilateralità dei nuovi orientamenti. In particolare, credo si sia fatta sentire la difficoltà di riuscire a non fermarsi soltanto a una ricostruzione degli sfondi culturali in cui i giuristi operavano, o del loro retroterra ideale e politico, bensì ad affrontare, e storicizzare, il nocciolo più strettamente specialistico-giuridico del loro pensiero e delle loro dottrine.
Non si tratta, però, solo di limiti soggettivi: essi rivelano piuttosto l’esistenza di vincoli strutturali della nostra ricerca, che rinviano a grandi problemi teorici. Il diritto, come modo separato e specialistico di disciplinamento dei rapporti sociali, è una forma forte, costitutiva della razionalità dell’Occidente. Ma proprio per questo, quanto più essa sviluppa la sua dimensione tecnica, con tanta maggiore efficacia essa tende a escludere da sé la dimensione del tempo, del divenire, della storia. La trascrizione filosofica di questa specie di blocco ha attraversato del resto la nostra coscienza, da Platone a Martin Heidegger. Ed è per questo che, in termini di storia culturale della modernità, il cammino di Savigny si separa da quello di Edward Gibbon e di Barthold Georg Niebuhr. Altrove, ho già accennato a questo grande tema (Schiavone 2005, pp. 19 e segg., 35 e segg.).
La storia del pensiero giuridico non esaurisce il panorama della romanistica di questi anni. Accanto, vanno segnalate almeno due altre tendenze.
La prima è quella che potremmo definire neocomparativistica. In questo orientamento il diritto romano, piuttosto che oggetto di attenzione storiografica, è sottoposto a uno sguardo di tipo dichiaratamente morfologico: non le genealogie interne al suo sviluppo storico, non i nessi con i contesti sociali e culturali che lo hanno espresso, non la ricostruzione della trama che ha segnato la sua presenza nel cammino d’Europa, ma un confronto puramente comparatistico tra i suoi dispositivi normativi (nuovamente ridotti alla polarità elementare fra classico e giustinianeo), e quelli di altri ordini giuridici, lontani nel tempo. Ancora una volta, così, come in tante precedenti occasioni nella vicenda della romanistica, il problema della storia – della storicizzazione completa dell’oggetto – è come aggirato: e di nuovo il diritto romano si presenta a noi attraverso l’immagine – quanto resistente! – che vi hanno impresso sopra, nel salvarlo, i maestri dei ‘Digesta’ giustinianei. Quella, voglio dire, di un’unica struttura chiusa e compatta, intrinsecamente acronica, da valutare solo nel suo insieme, secondo ragioni sistemiche che nulla hanno a che fare con le categorie del pensiero storico.
L’obiettivo di questa proposta – da cui si attendono ancora risultati meritevoli di particolare attenzione – dovrebbe essere quello di ristabilire un rapporto con le scienze giuridiche contemporanee, che si suppone più attratte dal diritto romano sub specie comparationis che sub specie historiae. Mi sembra assai arduo poter condividere questa valutazione. E dubito assai che i giuristi di oggi siano più attratti dalla comparazione che dalla storia. E perché mai? A me sembra piuttosto (vi ho già fatto cenno) che questi ultimi abbiano sempre più bisogno di storia, e che si rendano conto di questa esigenza, ma che chiedano autentica storia, che li aiuti a capire, a riconoscersi e a criticare, e non pallide imitazioni, prigioniere di una scolastica che nessuno ascolta più. Il comparativismo morfologico può ben avere la sua importanza, ma in aggiunta alla conoscenza storica, non al suo posto.
La seconda tendenza cui mi riferivo potremmo indicarla come neoattualizzante: con qualche seguito nella civilistica e (in quel che resta della) romanistica tedesche, e parecchie simpatie (anche se non tutte dichiarate) in Italia.
Al fondo di questa posizione vi è l’idea – anche questa incredibilmente resistente – che il diritto romano possa ancora servire da guida e da orientamento per la creazione del diritto contemporaneo. È una convinzione che si è molto appoggiata all’europeismo giuridico tra fine Novecento e primo Duemila: il movimento per una sempre più forte integrazione normativa del continente dovrebbe riconoscere nel diritto romano la base imprescindibile – se non proprio il contenuto prevalente – del nuovo diritto comune europeo, che potrebbe a sua volta far da modello per la ricostruzione giuridica dei Paesi dell’ex mondo comunista, e del terzo mondo.
È difficile valutare il realismo di questa persuasione, e quanto piuttosto essa si alimenti ancora solo di nostalgie per i bei tempi andati in cui davvero il diritto romano, nella sua nuova vita moderna, era diventato il centro dell’ordine giuridico del pianeta. Se pensiamo alla complessità e alla potenza – sebbene ancora aurorale – dei dispositivi giuridici del nuovo ordine globale, e all’intreccio delle relazioni che esse presuppongono fra tecnica ed economia, mi sembra un’impresa disperata cercar di mettere tutto questo sulle spalle del diritto romano, a meno di rielaborarlo fino al punto da farlo sparire. E allora, vien fatto di pensare davvero che il solo modo – oggi più che mai – di salvarne davvero la memoria, nel nuovo mondo che sta prendendo vertiginosamente forma sotto i nostri occhi, sia di consegnarlo per sempre, una volta per tutte, alla storia, e alla sola storia.
E due strade mi sembra restino aperte, di fronte alla nostra ricerca (Schiavone 2006). L’una conduce verso una storia genealogica dell’intreccio tra formalismo romano e formalismo moderno, non per celebrarne l’apologia, ma per individuarne meccanismi, tracciati e (soprattutto) limiti: le condizioni che lo hanno reso possibile nella modernità dell’Occidente; la ricostruzione dei caratteri originali romani, in particolare rispetto all’elaborazione di un rapporto storicamente determinato tra forma e potenza; le relazioni – epistemologiche e di potere – fra astrazione e formalismo nell’esperienza antica. Insomma, un’archeologia dell’eguaglianza – giuridica e politica – osservata in tutta la sua fragilità e insieme il suo radicamento: un capitolo decisivo per quella critica della ragione giuridica moderna che aspetta ancora di essere scritta – un immenso campo da esplorare.
L’altra porta verso una completa ricontestualizzazione del pensiero giuridico romano: a ricollocare finalmente i giuristi antichi al loro posto, nel cuore della costruzione e del governo dell’impero. Sono entrambi percorsi per i quali siamo maturi. Non rimane che incamminarci.
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