La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte
La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte è il titolo di una memoria che Croce lesse all’Accademia pontaniana di Napoli nella tornata del 5 marzo 1893, e che fu pubblicata in quell’anno negli Atti della medesima accademia (23° vol., pp. 1-29). Successivamente, e sempre con varianti non solo formali, Croce la ristampò per Loescher nel volumetto Il concetto della storia nelle sue relazioni con l’arte. Ricerche e discussioni (1894, 18962; il testo originale può essere confrontato con queste due versioni nella raccolta Controversie sulla storia, a cura di R. Viti Cavaliere, 1994) e nel volume degli Scritti varii intitolato Primi saggi (1919, 19513: da quest’ultima si cita d’ora in poi con la sigla PS). Nelle edizioni successive Croce raccolse anche alcune risposte a critiche e recensioni, oltre ad altri scritti su temi connessi a quelli della memoria. Nella seconda edizione, sempre per Loescher, la memoria è accompagnata da uno scritto in cui Croce risponde ad alcune obiezioni (Discussioni, pp. 43-115, ristampate abbreviate in PS con il titolo Noterelle polemiche), che riprende un secondo intervento alla Pontaniana sullo stesso argomento (6 maggio 1894), e da due saggi, L’arte, la storia, e la classificazione dello scibile e Intorno all’organismo della filosofia della storia (entrambi anche in PS come Sulla classificazione dello scibile e Intorno alla filosofia della storia). La memoria del 1893 era accompagnata da un breve excursus su I romanzi storici, presente anche in tutte le edizioni successive.
Croce riconobbe sempre un particolare valore a La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (d’ora in poi soltantoo La storia), redatta all’età di ventisette anni, assegnandole un ruolo decisivo nella formazione del proprio pensiero. Essa infatti segna il sorgere di una vera e propria vocazione filosofica nel suo autore, e l’imporsi di problemi che lo occuperanno, si può dire, per tutto il resto della sua vita: la natura dell’arte, quella della storia, e la necessità che vengano chiarite da una riflessione filosofica. La storia viene quindi a costituire lo spartiacque tra il periodo dell’erudizione giovanile (1886-92), occupato da ricerche di storia locale, e il periodo successivo, nel quale gli interessi di Croce si volgono da un lato verso questioni teoriche, dall’altro verso indagini storiche di più ampio respiro.
Il Contributo alla critica di me stesso (1915) è molto esplicito nel rivendicare a La storia questa funzione di turning point:
Così, dopo lunghe titubanze e una serie di soluzioni provvisorie, nel febbraio o marzo del 1893, meditando intensamente un giorno intero, alla sera abbozzai una memoria col titolo: La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, che fu come una rivelazione di me a me stesso, perché non solo mi dié la gioia di vedere chiaramente certi concetti di solito confusi e l’origine logica di molteplici indirizzi erronei, ma mi meravigliò per la facilità e il calore con la quale la scrissi, come cosa che mi stava a cuore e mi usciva dal cuore, e non come più o meno frivola e indifferente scrittura di erudizione. Anche l’importanza che fu data dai critici alla detta memoria, paradossale in apparenza e in effetti assai ardita in quei tempi di positivismo, e le discussioni che essa levò e nelle quali mi sentii più volte agevolmente superiore agli avversari, valsero a rinfrancarmi (Contributo alla critica di me stesso, a cura di G. Galasso, 1989, pp. 31-32).
In un’intervista pubblicata nel 1908 sulla rivista «Il Marzocco», poi inclusa in Pagine sparse (1919-1920), Croce ricostruisce l’origine della memoria in un modo che sottolinea ancora più teatralmente la sua funzione di rottura:
Ecco mi giunse l’eco di una grossa quistione, vivacemente dibattuta. Era mossa dal Villari: se la storia fosse arte o scienza. Io allora non potevo credere se non che la storia fosse scienza, e preparai una memoria per dimostrare che la storia è scienza. Lo scritto era già composto per la stampa, e io continuamente ci ripensavo sopra. Di giorno in giorno me ne sentivo meno soddisfatto, finché all’improvviso mi scoppiò nella mente la soluzione nuova del problema, in un lampo di luce. Non avevo capito niente! La storia non può essere scienza, ma deve essere arte; perché la scienza è dell’astratto, e la storia è, come l’arte, del concreto: individualista. La storia differisce dall’arte, solo in quanto l’arte rappresenta il possibile, la storia il reale. Corsi in tipografia. Scomponete! Era tutto il mio passato che scomponevo (Pagine sparse, 1° vol., 1943, pp. 207-08).
In entrambe queste testimonianze emerge, retrospettivamente, il carattere nettamente antipositivistico della posizione crociana. Quando Croce ricorda che non poteva non credere che la storia fosse scienza, si riferisce a un orientamento largamente prevalente negli studi storici del tempo che vedevano nelle scienze – e in primo luogo in quelle naturali – il modello sul quale orientarsi, e che dunque erano inclini a riconoscere vero valore soltanto a studi che potessero fregiarsi della qualifica di scienza.
Molte prove, se ce ne fosse stato bisogno, Croce poteva trovarle nello scritto di Pasquale Villari (1826-1917) al quale rinviava l’intervista sul «Marzocco», La storia è una scienza?, pubblicato sulla «Nuova antologia» del 1891, nel quale si citavano molti studiosi inglesi, francesi e anche tedeschi della seconda metà dell’Ottocento orientati verso il carattere scientifico della storia. Va però notato che Villari, storico autorevole, intellettuale di fama, seguace del metodo positivistico, nello scritto che pure, teste l’interessato, fu all’origine della decisione di Croce di affrontare l’argomento, non sposa affatto il partito dei sostenitori della natura scientifica della storia. La storia è una scienza? adotta piuttosto una veduta sincretistica, orientata a mettere in luce come la storiografia unisca caratteri che la avvicinano alla scienza con altri che invece farebbero propendere per una sua natura più prossima all’arte. Insomma la storia, per Villari, è sì scienza, ma anche (un bell’esempio di quell’anche che, a detta di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, è nemico della filosofia) arte. Nella memoria del 1893 Croce cita Villari due sole volte, e in nota. Se ne occupa più distesamente nelle Discussioni, spinto dalle osservazioni di un recensore, ma solo per stigmatizzarne «l’imprecisione del pensiero» e darne un giudizio molto duro, «una filastrocca senza capo né coda» (PS, p. 60).
Dunque la lettura di Villari è al massimo l’occasione più prossima della decisione crociana di affrontare il tema dei rapporti tra arte e storia, che affonda però in un terreno già del tutto propizio, perché preparato, per un verso, dall’attività di Croce come storiografo erudito (che a un certo momento sente sorgere il bisogno di capire meglio che cosa sia quella storia che fa), per un altro, dalle numerose letture di teoria e metodologia della storia che Croce ha fatto negli anni precedenti al 1893. E La storia prende le mosse proprio dall’opinione espressa dagli studiosi tedeschi, perché in Germania «i cultori di storia, per abito mentale ivi molto diffuso, sentono frequentemente il bisogno di filosofare sulla loro disciplina»: la storiografia è scienza, rispondono a una voce Johann Gustav Droysen nel suo Grundriss der Historik (1868; Croce cita dalla 3a ed. accresciuta, del 1882) ed Ernst Bernheim nel suo Lehrbuch der historischen Methode (1889). Ma, se la natura scientifica della storia è così chiara, perché si torna tanto spesso a sollevare il dubbio che la storia sia arte o almeno partecipi dell’arte, cosa che non si fa per le altre scienze? Droysen stesso si chiedeva come mai alla storia e solo alla storia fosse toccata «l’equivoca fortuna» di dover essere anche arte, «fortuna alla quale nemmeno la filosofia partecipa, a dispetto dei dialoghi di Platone» (Grundriss, cit., p. 85, citato da Croce in PS, p. 6).
Per rispondere occorre, secondo Croce, stabilire con precisione il significato dei tre concetti di arte, scienza e storia, e chiarire quindi le loro relazioni. La memoria crociana segue appunto questa articolazione: dopo aver fissato nel § 1 la natura dell’arte, dedica il § 2 a quella della scienza e il § 3 alla storia, e fa scaturire da questo triplice esame la conclusione perentoria che la storia è arte; seguono il § 4 nel quale si stabilisce la differenza (che potrà essere solo relativa, cioè tale da impiantarsi sull’identità di fondo senza contraddirla) tra arte in senso stretto e storia, e infine il § 5 nel quale ci si interroga sulla natura dei cosiddetti lavori preparatori alla storia (si intende alla storia narrata), quali la ricerca delle fonti, lo studio dei documenti eccetera. Nella piccola appendice sul romanzo storico, infine, Croce discute e respinge la condanna di tale genere letterario formulata da Alessandro Manzoni dopo la stesura del suo capolavoro, nel discorso Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione (1850), come questione diversa bensì da quella trattata nel corpo del saggio, ma che pure ha con essa qualche relazione.
La delimitazione del concetto dell’arte è la più incerta e quella in cui Croce si dimostra più tributario del pensiero altrui. La cosa può stupire se si pensa che solo pochi anni più tardi Croce potrà scrivere un testo di grande originalità e portata innovativa proprio nel campo dell’estetica, l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1902), la cui parte teorica, per di più, è già quasi completamente delineata nelle Tesi fondamentali di un’estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1900), ma conferma le ripetute affermazioni di Croce circa la difficoltà che gli è costato orientarsi in questo ambito «in Italia affatto trascurato», laddove in Germania «ha dato frutti mirabili (PS, p. 8). In La storia distingue quattro vedute sul bello e sull’arte: quella dei sensualisti secondo i quali il bello coincide con il piacevole, quella dei razionalisti per i quali coincide con il vero, quella dei formalisti secondo i quali consiste in rapporti formali e infine quella di Hegel, per il quale il bello è l’apparire sensibile dell’idea. Croce dichiara di poter accettare solo quest’ultima determinazione, che però interpreta molto liberamente nel senso che l’arte sia tale in quanto fornisce una rappresentazione della realtà. E appunto, se si ammette che l’arte sia rappresentazione della realtà, il divario tra arte e storia, che a tutta prima appare grande, comincia a colmarsi.
Il sensualismo e il razionalismo sono stati confutati una volta per sempre, in estetica, dalle critiche di Immanuel Kant.
A nessuno verrà in mente di confonder da capo il Bello col piacevole, se non forse a qualche pseudofilosofo francese o inglese, di quelli che chiamano filosofia le loro chiacchiere (p. 9).
Analogamente, nessuno vorrà confondere il bello con i valori morali o con quelli scientifici o filosofici, quantunque in questo caso, a differenza di quanto accade nel precedente, l’intento può ben essere nobile, ossia quello di trovare le relazioni che legano tra loro il vero, il bene e il bello (ma Croce aggiunge subito che questa trilogia, ormai abusata, talvolta assume suo malgrado «una tinta comica»). La teoria formalistica dell’arte viene trattata molto più ampiamente e Croce spiega questa trattazione relativamente estesa con la volontà di portare a conoscenza del lettore italiano una teoria «che presso di noi è rimasta affatto ignota» (p. 10). In realtà, la formazione filosofica di Croce doveva molto all’ispiratore dell’estetica formalistica, Johann Friedrich Herbart, e Croce aveva letto a lungo i teorici tedeschi del formalismo, in particolare Robert von Zimmermann e la sua Allgemeine Aesthetik als Formwissenschaft (1865); inoltre era ben consapevole del dibattito che era stato a lungo vivo in Germania tra i propugnatori dell’estetica della forma e quelli dell’estetica del contenuto. Nel capitolo dell’Estetica dedicato agli epigoni di Herbart e Hegel, Croce illustrerà dettagliatamente questo dibattito; ma in La storia lo liquida abbracciando subito la posizione dei critici del formalismo, e in particolare quella formulata da Eduard von Hartmann nella sua Die deutsche Aesthetik seit Kant (1886).
L’esposizione della teoria estetica che Croce dichiara di accettare, quella che vede nell’arte una rappresentazione del reale e dunque ripone il bello «nella rappresentazione o manifestazione sensibile dell’idea» (p. 9), seppure si appoggi esplicitamente a Hegel (e hegeliana o pseudo-hegeliana è appunto la formula del «sinnliches Scheinen der Idee» che viene echeggiata nella frase precedente) è sorprendentemente scorciata e reticente. «Non mi è possibile fondare questa affermazione» – aggiunge infatti subito dopo Croce – «che a primo aspetto sembra strana ed è pure la sola che spieghi tutti i fatti estetici» (p. 12). Tra l’altro Croce rinvia non alle Vorlesungen über die Aesthetik (1835-1838) di Hegel, come sarebbe logico aspettarsi, ma alla Philosophie des Schönen (1887) di Hartmann, nella quale si troverebbe la spiegazione più convincente del modo in cui si compie il processo della rappresentazione o espressione. Probabilmente in questo periodo la conoscenza di Hegel da parte di Croce è ancora molto limitata: difficile spiegare, altrimenti, come egli non si renda conto che la tesi principale che va a sostenere, quella della riduzione della storiografia sotto il concetto generale dell’arte, appare lontanissima dall’orizzonte filosofico hegeliano, e non possa trovare quasi nessun appiglio nelle teorie del filosofo tedesco. D’altro canto, in risposta alle critiche di un hegeliano napoletano, Raffaele Mariano (1840-1912), che aveva recensito la memoria sul «Fanfulla della Domenica» del luglio 1893, Croce riconosce esplicitamente che tale tesi non aveva nulla a che fare con la dottrina hegeliana, e prende in qualche modo le distanze da Hegel rettificando l’impressione erronea che poteva essere nata dallo scritto recensito:
Per mio conto, non sono hegeliano, come taluno mi ha qualificato a proposito dello scritto sulla storia, che è invece spiccatamente antihegeliano: cosa che non sfugge all’hegeliano Mariano. Dello Hegel accolgo solamente, ma ancora col benefizio dell’inventario, le dottrine estetiche (p. 54).
Quel che Croce sembra accogliere da Hegel, sia pure mediatamente, è appunto l’orientamento antiformalistico della sua estetica, un orientamento però che egli ricava molto più dalla ricezione dell’estetica hegeliana nella seconda metà dell’Ottocento che direttamente dai testi del filosofo tedesco. Le spiegazioni puramente formalistiche non sono convincenti: anche nei casi più semplici non sono mai i meri rapporti formali a spiegare l’attrattiva estetica, e a maggior ragione questo vale quando sono in gioco contenuti elevati. I più sottili prodotti dello spirito, per es. i concetti filosofici, diventano oggetto di discriminazione estetica quando si incarnano nella parola e negli altri mezzi di espressione. E diventano ‘belli’ quando la loro espressione è adeguata ed efficace. Per quanto poco rigorosamente fondata, o fondata su un’equivoca interpretazione di Hegel, insomma, la teoria abbracciata da Croce gli consente di dare ai rapporti tra forma e contenuto, in estetica, una soluzione non troppo distante da quella che poi farà propria nell’estetica matura, e nella quale è possibile scorgere un riflesso della lettura di Francesco De Sanctis:
La forma estetica non è, come alcuni credono, cosa che abbia valore estetico per sé, e sia applicabile a certi contenuti sì e a certi altri no, come una veste variopinta o un diadema di gemme scintillanti; ma è come la proiezione del contenuto stesso (p. 13).
Non per nulla Croce ne ricava già, come corollario, quell’idea della bellezza come interamente risolta nell’espressione riuscita che sosterrà poi sempre: «Nell’arte, tutta la realtà naturale ed umana – che è bella o brutta secondo i varî aspetti – diventa bella, perché è appercepita come realtà in generale, che si vuol vedere espressa compiutamente» (p. 14). Calibano nella Tempesta di William Shakespeare, o Iago nell’Otello, sono belli anche se fisicamente o moralmente ripugnanti, perché rappresentati compiutamente.
Assai più agevole risulta a Croce fissare un concetto della scienza. Caratteristica della scienza è infatti la ricerca di aspetti generali e la costruzione di concetti, cioè di abstracta. Una volta stabilito ciò, risulta ben chiara la distanza che corre tra la storia e la scienza. Infatti la storia ha sempre a che fare con fatti individuali e concreti, mentre la scienza ricerca sempre leggi generali. «La storia ha un solo ufficio: narrare i fatti. […] La storia narra» (p. 19). La storia non determina le leggi dello svolgimento degli avvenimenti, ma espone o racconta gli avvenimenti stessi. Un artista rappresenta un individuo (Macbeth o Riccardo III); uno scienziato, per es. uno psicologo, lo inquadra in un tipo; un artista dipinge una pianta; un botanico considera tutti gli esemplari di quella pianta e riporta quel genere a una specie. «O si fa scienza, dunque, o si fa arte. Sempre che si assume il particolare sotto il generale, si fa scienza; sempre che si rappresenta il particolare come tale, si fa arte» (p. 23). A torto si è detto che la storia è la scienza dello svolgimento dei fatti; con tutta evidenza, essa è piuttosto la rappresentazione di tale svolgimento.
Questa distanza tra storia e scienza è stata colta, in particolare, dai critici della conoscenza storica e dagli assertori dell’inutilità della storia, i quali, dal fatto che essa non dà luogo a leggi o concetti generali e universalizzabili, hanno ricavato (troppo affrettatamente, secondo Croce) la convinzione che non fornisca sapere alcuno, o almeno nessuno utilizzabile. Così è accaduto in Die Welt als Wille und Vorstellung (1819) di Arthur Schopenhauer, ma anche nei Pensieri su l’istoria e su la incertezza ed inutilità della medesima (1808) di Melchiorre Delfico. Altri hanno ritenuto, ancora una volta a torto, che la natura non scientifica della storia fosse un difetto della storiografia consueta, che si sarebbe dunque potuto emendare ponendo finalmente la storia sui binari della scienza, come era stato il caso con la History of civilization in England (1857-1861) di Henry Thomas Buckle, che aveva preteso di individuare le leggi generali e costanti dello sviluppo storico. Se si fissa, invece, la distanza che separa la storiografia dalla scienza e, contemporaneamente, si tiene presente il vero concetto dell’arte, la convergenza di storiografia e attività artistica cessa subito di apparire paradossale. Essa suona inaccettabile se si ha dell’arte un’idea sbagliata, che la riduce a intrattenimento dei sensi o a vuoto formalismo o a rivestimento di dottrine scientifiche; ma, non appena si sia raggiunta l’idea che l’arte è rappresentazione della realtà, l’affinità tra le due perde l’apparenza della stravaganza e sembra invece imporsi quasi naturalmente: «La storia – infatti – non è forse anch’essa rappresentazione della realtà?» (p. 15).
Una disciplina gravitante nell’ambito degli studi storici e che potrebbe incarnare un’obiezione alla tesi crociana della natura individualizzante e descrittiva del sapere storico è rappresentata dalla cosiddetta filosofia della storia, in quanto essa cerca proprio di trovare delle costanti e delle regole generali dello sviluppo storico, come accade appunto nell’opera di Buckle. In quanto elabora generalità e leggi, la filosofia della storia sembrerebbe garantire precisamente quel carattere ‘concettuale’ e ‘scientifico’ che Croce vuole negare alla storia. Il problema è affrontato una prima volta alla fine del § 2 della Storia.
Accanto alla storia, ossia alla storiografia, si va formando una scienza, che se non è quello che il Buckle sognava, una determinazione delle leggi della storia (le quattro leggi del Buckle!) è certo una ricerca dei concetti sotto i quali si pensa la storia, e merita veramente per la prima volta il nome di filosofia, o, se si vuol meglio, di scienza della storia (PS, p. 21).
Questa accezione dell’espressione filosofia della storia va tenuta ben distinta da quella che assume in Hegel, per il quale si tratta di delineare il senso generale del percorso storico. La filosofia della storia, nel senso hegeliano, è stata oggetto di critiche radicali nella seconda metà dell’Ottocento, e tuttavia è possibile intenderla anche in altro modo: essenzialmente come una metodologia degli studi storici. Croce non nega che questo genere di studi abbia la sua legittimità, almeno quando è inteso come riflessione critica sui modi del conoscere storico – una sorta, diremmo oggi, di epistemologia della storiografia –, ma sottolinea che con essi si abbandona il terreno vero e proprio della storia, per passare a quello della filosofia o della teoria della storiografia: «La materia storica può certo dar luogo a ricerche scientifiche, che formano la filosofia della storia nel senso sopraddetto; ma per sé la storia non è scienza» (PS, p. 22).
Sul tema della filosofia della storia Croce sente il bisogno di tornare nel breve saggio Intorno all’organismo della filosofia della storia (1895), e che la questione gli sembri bisognosa di precisazioni è dimostrato anche dal fatto che sia questo sia le parti della memoria concernenti la filosofia della storia vengono profondamente rimaneggiati in occasione della ripubblicazione nei Primi saggi. Anche nello scritto del 1895 Croce distingue nettamente una ricerca filosofica, volta a ricercare un senso complessivo allo sviluppo storico, da una più concreta indagine di metodologia degli studi storici. La presa di distanza dalla prima è ancora più netta che nella memoria, perché Croce è ora in grado di indicare con maggior sicurezza il retaggio provvidenzialistico, in ultima analisi teologico, della filosofia della storia così intesa:
La filosofia della storia è stata a lungo considerata come una sorta di rivelazione del significato della storia, alla quale si perveniva con lo scrutare i disegni della Provvidenza o col determinare il ritmo della Ragione, dell’Idea, del Divenire universale, o in quali altri modi si è mai chiamato il travestimento metafisico del vecchio Dio (PS, p. 67).
Questa è, agli occhi di Croce, niente più che una fantasticheria e un allontanamento dal serio studio dei fatti storici che porta in sé, in aggiunta, il rischio di un corrompimento morale in quanto la presenza di un disegno prestabilito del corso storico dovrebbe logicamente indurre al fatalismo e alla rassegnazione. Ma negare la possibilità di costruire una storia a priori non equivale a mettere fuori gioco qualsiasi considerazione sulla storia. Croce può dunque raggruppare i lavori che scaturiscono da questa riflessione sotto tre rubriche distinte. La prima è rappresentata da questioni circostanziate e non più generali sul significato della storia; la seconda, da questioni concernenti le leggi e i fattori dello sviluppo storico; la terza, da questioni di metodologia della storiografia. Croce ritiene che in anni recenti queste problematiche abbiano dato luogo a indagini pur serie e circostanziate – e sta pensando a Bernheim, a Georg Simmel, ad Antonio Labriola – le quali tuttavia, a suo parere, non riescono a stringersi in un filone di ricerca unitario. Lo impedisce intanto il fatto che le prime due tematiche concernono gli accadimenti storici, le res gestae, laddove la terza riguarda la scrittura della storia, la historia rerum gestarum. Ma lo impedisce, ancor più radicalmente, la natura stessa dei problemi esaminati. Discutere sul senso della storia significa o ricadere nella filosofia provvidenzialistica della storia, o escludere che ciò sia possibile, e dunque è affare che riguarda la teoria della conoscenza o gnoseologia in genere; affrontare le leggi della storia significa muoversi nel campo dell’antropologia (se si hanno di mira le basi naturali dell’agire storico) o della sociologia (se invece si punta ai fattori sociali o politici); infine, la metodologia della storiografia è, di nuovo, una parte della teoria della conoscenza e della classificazione dello scibile. Anche se le singole ricerche condotte in questi campi possono avere la loro utilità e il loro rigore, insomma, Croce tende a escludere che possano costituire un campo unitario della conoscenza. Alle spalle di qualche incertezza di orientamento, si intravede già un percorso che porta sostanzialmente a risolvere quanto di legittimo c’è agli occhi di Croce in questo ordine di studi in una teoria (filosofica) della storiografia e al rifiuto della filosofia della storia quando essa sia intesa come ricostruzione del senso complessivo della storia.
Torniamo alla memoria del 1893. Una volta stabilita la natura individualizzante e rappresentativa che unisce la storia all’arte, resta da spiegare quale sia la loro differenza relativa, quella che permette di dar loro due nomi diversi. Unite dal dato primario di essere entrambe forme di rappresentazione dell’individuale, e quindi, negativamente, dal fatto di rifiutare qualsiasi irreggimentazione dell’individuale nel generale, arte e storia sono tuttavia distinguibili, in via subordinata, per il fatto che la prima rappresenta il puramente possibile, la seconda si occupa del realmente accaduto. Non è esatto, spiega Croce, ritenere che la storia sia un’arte particolare, per es. un’arte letteraria; a ben vedere, si possono rappresentare contenuti storici anche in altre arti, per es. nel ritratto o nella pittura storica. Non è sul piano dei mezzi espressivi che va situata la differenza tra arte e storia, ma su quello del contenuto:
Per questa via […] non si giunge a ottenere una distinzione della storia dalle altre produzioni dell’arte e si vede anzi chiaro che, sotto il puro rispetto estetico, ossia del modo della rappresentazione, la storia non forma un genere, ma è una produzione che fa parte di vari generi, un contenuto che può essere espresso con mezzi vari (p. 29).
La distinzione andrà ricavata sulla base di un altro criterio, cioè «dal contenuto, ossia dalla materia, ossia dall’argomento, o come altro si voglia chiamare, che la storia prende a elaborare a differenza delle altre produzioni artistiche» (p. 30). Croce dunque è spinto ad affrontare di nuovo, da una diversa angolazione, la questione annosa del contenuto artistico, rilevando ancora una volta l’incapacità delle teorie sensualistiche, formalistiche e razionalistiche di proporre soluzioni plausibili. Il richiamo a Hegel e all’estetica dell’idealismo concreto offre la giusta soluzione, che Croce enuncia attraverso le parole di De Sanctis, «la cui mirabile critica, tutta ispirata ai principî idealistici, è la migliore riprova della feconda verità di quella dottrina» (p. 32), e che viene ad affermare che il contenuto non deve essere considerato indifferente, ma visto come un antecedente del problema artistico. Indifferente dal punto di vista estetico, il contenuto non lo è però sotto ogni altro rispetto. Ma l’unica determinazione possibile del contenuto artistico, scrive Croce appoggiandosi in questo caso a un estetico tedesco oggi pressoché dimenticato (e che Croce stesso definisce riduttivamente un eclettico), Karl Reinhold von Köstlin, autore di una Aesthetik (1869), è che il contenuto sia interessante. Dato che l’arte può accogliere anche il brutto o il dissonante o il malvagio, e rappresentarlo in modo esteticamente efficace, non rimane altra determinazione del contenuto che questa generalissima: che sia interessante.
Sotto l’incalzare delle obiezioni che gli formulerà Giovanni Gentile nel fitto dialogo epistolare che accompagna la gestazione delle Tesi di estetica e poi dell’Estetica, Croce arriverà a un ben diverso concetto del ruolo del contenuto in arte; nella memoria del 1893, però, egli sembra non avvedersi dei limiti della teoria dell’interessante, o meglio, liquida quei limiti come semplici «manchevolezze di terminologia», e scrive: «Contenuto dell’arte è la realtà in generale in quanto presenta interesse sotto vari aspetti, intellettuali, morali, religiosi, politici, e via dicendo, e altresì estetici» (p. 33). Il fatto è che a Croce interessa arrivare per qualche via a reintrodurre una diversità tra storia e arte, e la teoria del contenuto interessante gli serve come ponte per arrivare alla soluzione che gli sta a cuore, e che colloca il discrimine tra storia e arte nel fatto che la prima rappresenta il realmente accaduto, la seconda il meramente possibile:
La storia, rispetto alle altre produzioni dell’arte, si occupa dello storicamente interessante; ossia non di ciò che è possibile, ma di ciò che è realmente accaduto. E sta al complesso della produzione dell’arte come la parte al tutto; sta come la rappresentazione del realmente accaduto a quella del possibile (p. 35).
Nel senso corrente della parola si chiama arte solo quell’attività che è orientata a rappresentare il possibile, cioè è svincolata dall’obbligo di fedeltà al reale. Questa circostanza non deve però impedire di scorgere che «anche la rappresentazione del realmente accaduto – la storia – è processo essenzialmente artistico e offre interesse simile a quello dell’arte» (p. 35).
L’impegno a rappresentare il reale impone allo storico una serie di lavori preparatori alla vera e propria narrazione storica. Prima di scrivere la storia, lo studioso deve ricercare documenti, stabilirne l’autenticità, interpretarli. È evidente che a questo punto si apre un problema per Croce: se la comunanza di natura con l’arte può rivendicare una certa intuitività nel caso della narrazione storica, della storia narrata, che ha anche esteriormente un’affinità con l’arte, molto più difficile è scorgere il legame nel caso di queste attività preparatorie. La soluzione di Croce è come sempre perentoria, e consiste nell’escludere questi lavori propedeutici della scrittura della storia dalla storia vera e propria, che è solo la storia narrata: «Prima condizione per avere storia vera (e insieme opera d’arte) è che sia possibile costruirne una narrazione» (p. 38). L’appartenenza della storia all’arte vale per la storia narrata e solo per essa:
Codesti lavori preparatori sono essi storia? La stessa posizione della domanda include la risposta. Certo che no. Nel linguaggio corrente, li chiamiamo storia: ma, parlando con proprietà, una ricerca per determinare quali elementi germanici e latini cooperarono alla nascita del comune italiano, o per istabilire quale fu la parte avuta da Maria Stuarda nell’uccisione del Darnley, un esame dell’autorità storica di Tacito o la dimostrazione dell’apocrifità dei Diurnali di Matteo Spinelli, non sono storia, così come la raccolta di appunti e di osservazioni dell’artista, ancorché ricca di elementi preziosi, non è l’opera d’arte (pp. 37-38).
L’insistenza di Croce sul carattere narrativo della storia non deve però indurre a interpretare la sua presa di posizione giovanile a favore della riduzione della storia all’arte come una rivendicazione del valore puramente letterario della storiografia e un disconoscimento del suo compito di ricerca della verità. La seconda metà del Novecento ha visto tanto storici di professione quanto filosofi inclinare verso una considerazione della storiografia che la fa consistere in un genere di scrittura non più impegnato del romanzo o di altre forme di letteratura ‘creativa’ ad accertare l’autentico svolgimento delle cose. Si pensi alle posizioni fatte proprie da Roland Barthes (1915-1980), per il quale lo storico non punta alla realtà, ma solo a un effetto di realtà, da Michel de Certeau (1925-1986), che pone al centro della sua riflessione la scrittura della storia, da Hayden White (n. 1928), per il quale le narrazioni storiche sono solo costruzioni verbali, le cui forme hanno più punti in comune con la letteratura di quanti ne abbiano con le scienze, e ancora da Franklin Rudolf Ankersmit (n. 1945), a parere del quale il discrimine tra due narrazioni storiche differenti è, in ultima analisi, soltanto di valore estetico. Ebbene, interpretare in questo modo la tesi de La storia non solo sarebbe inadeguato, ma precluderebbe ogni possibile comprensione del ruolo assunto dalla memoria del 1893 nello sviluppo del pensiero crociano. Infatti Croce riconduce la storia al concetto generale dell’arte non perché vuole accentuare gli aspetti ‘estetici’ dello scrivere di storia, rinverdendo la concezione antica della storia come opus oratorium maxime. Al contrario, la riconduzione della storia all’arte è possibile in quanto quest’ultima viene pensata innanzi tutto come conoscenza. Il presupposto del ragionamento crociano è la rivendicazione della funzione conoscitiva dell’arte, resa possibile dalla distinzione tra un tipo di conoscere individualizzante, proprio dell’arte ma anche della storia, e un altro volto alle generalizzazioni, operante per concetti, caratteristico invece della scienza.
Alla radice si situa dunque un’ostinata volontà di non esaurire nel conoscere scientifico ogni tipo di conoscenza, di opporre al progetto positivistico di estendere ovunque la metodologia astraente delle scienze naturali l’esigenza di salvaguardare un tipo di conoscenza irriducibile a esse, che è appunto il conoscere attraverso l’arte o la storia. «Il punto importante», dirà Croce replicando ad alcuni critici nel 1894, «è (per dirla alla tedesca) che non ogni Wissen (sapere) è Wissenschaft (scienza)» (p. 50).
Nell’appendice su I romanzi storici, discutendo e respingendo la condanna comminata da Manzoni ai «componimenti misti di storia e di invenzione», Croce scrive una frase che chiarisce bene come per lui l’artisticità della storia non abbia nulla a che vedere con la letterarietà dell’esposizione storica, ma sia questione che riguarda la natura profonda del conoscere storico: «La poesia storica è affatto distinta dalla storia propriamente detta, la quale è arte nella sua essenza e non già perché, come la poesia storica, passi attraverso le invenzioni fantastiche (poetiche)» (p. 46).
Insistendo sul carattere di conoscenza proprio sia dell’arte sia della storia, Croce si mostra in sintonia, anche indipendentemente da influssi diretti, con i nuovi orientamenti filosofici che si stavano facendo strada in Germania. I maggiori punti di contatto sono quelli con il discorso tenuto da Wilhelm Windelband nel 1894 su Geschichte und Naturwissenschaft, nel quale la distinzione tra conoscere storico e conoscere delle scienze naturali viene elaborata non sulla base degli oggetti di cui storia e scienze si occupano, ma del metodo conoscitivo adottato, e pone capo all’opposizione tra elaborazione nomotetica (che va in cerca di leggi generali) ed elaborazione idiografica (che punta alla rappresentazione di fatti particolari), e all’avvicinamento tra storia e arte. Ma ci sono affinità anche con la distinzione teorizzata da Wilhelm Dilthey tra scienze della natura e scienze dello spirito, in Einleitung in die Geisteswissenschaften (l’opera è del 1883, tuttavia viene citata da Croce solo nell’edizione del 1896, e non in quelle precedenti, della memoria).
Ancora più significativi delle convergenze con gli orientamenti antipositivistici d’oltralpe sono i punti di contatto tra le vedute avanzate nella Storia e gli sviluppi successivi del pensiero di Croce. Anche in questo caso, bisogna guardarsi da letture superficiali, che indurrebbero piuttosto a sottolineare la distanza dalle idee del Croce della maturità. Come è noto, infatti, la tesi della riconducibilità della storia all’arte comincia a vacillare già nell’Estetica del 1902, per essere poi abbandonata a partire dai Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro (1905) e soprattutto dalla Logica come scienza del concetto puro (1909) – e, a fortiori, negli scritti successivi sulla storia, Teoria e storia della storiografia (che uscì in Italia nel 1917) e La storia come pensiero e come azione (1938). Abbandonata, quella tesi, per essere sostituita da un’altra che apparentemente è quella, a essa opposta, del carattere filosofico della storiografia e anzi dell’identità di filosofia e storiografia e della concezione della filosofia come momento metodologico di quest’ultima. Senonché, queste divergenze non devono occultare continuità molto più significative. Intanto, non va dimenticato che anche l’identificazione di storiografia e filosofia non va certo nel senso di fare della prima una scienza di generalità, ma si rende possibile a Croce a partire dall’identità di giudizio individuale e giudizio definitorio che è ancora, almeno nelle intenzioni, una difesa dell’irriducibilità del singolo avvenimento a schemi o concetti astratti. Ma su un piano diverso da questi aspetti più ardui della filosofia crociana, in molti casi le convergenze tra La storia e le idee elaborate successivamente si stagliano in modo molto chiaro. Si pensi alla polemica contro la filosofia della storia, cioè contro quegli orientamenti che credono di poter indicare un senso complessivo dello svolgimento della storia umana o di poterne rintracciare le leggi a priori, che abbiamo già visto molto netta della memoria del 1893 e che poi si precisa nelle repliche ai critici, in particolare quella a Mariano, e nello scritto del 1895. O ancora al caratteristico andamento della ‘riconduzione’ della storia all’arte: si tratta, appunto, di una ‘riduzione’, cioè della dimostrazione che un’attività spirituale ha i suoi principi esplicativi ultimi in un’altra più universale. E la filosofia matura di Croce esibirà spesso questa forma, come quando il diritto sarà ‘ricondotto’ all’economico (nella Riduzione della filosofia del diritto alla filosofia dell’economia, del 1907, e poi nella Filosofia della pratica. Economia ed etica, del 1909) o anche a quando la linguistica generale sarà ricondotta all’estetica, nelle Tesi di un’estetica e poi nell’Estetica.
Su un punto, poi, la memoria del 1893 si dimostra decisiva per gli sviluppi successivi. Ed è nel franco riconoscimento del carattere conoscitivo dell’arte. L’arte è conoscenza: questa la consapevolezza di fondo che emerge dalla Storia e rispetto alla quale Croce non arretrerà mai, mantenendola ben ferma lungo tutto l’arco della propria filosofia. Individuando nell’arte un conoscere, Croce si ricollega alla grande tradizione dell’estetica baumgarteniana e si dota dello strumento che gli consente di prendere le distanze da molte delle estetiche della seconda metà dell’Ottocento, respingendone i presupposti edonistici e formalistici e incamminandosi così verso le teorie che saranno esposte nell’Estetica del 1902. La qualificazione della Storia come «rivelazione di sé a sé stesso» proposta da Croce non è, dunque, un’iperbole.
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