La storiografia anglofona su Costantino nel XX secolo: linee di sviluppo
Molte tra le pagine migliori della storiografia del Novecento sul Tardoantico sono scritte in inglese. Questo è dovuto in parte a una tradizione secolare che risale a Gibbon, e in parte alla presenza in Inghilterra, nel corso del secolo, di studiosi di vaglia quali Norman Baynes, Arnold Hugh Martin Jones, Ronald Syme, Arnaldo Momigliano. Presso questi ultimi si sono formati molti fra i più importanti storici d’oggi su Costantino. In questa voce si tratta delle evoluzioni principali della storiografia anglofona nella prima metà del secolo. Il percorso che la storiografia anglofona su Costantino, e sul Tardoantico più in generale, è quello di un progressivo allontanamento dal modello della decadenza gibboniana, in primo luogo attraverso la rivalutazione delle fonti letterarie, poi con le acquisizioni della storia economica e sociale e infine con l’analisi della documentazione, soprattutto numismatica. L’opera di Momigliano, pur non cospicua dal punto di vista quantitativo, marca uno spartiacque. Dopo Momigliano, la prospettiva storiografica su Costantino in seno all’accademia anglofona cambia significativamente. Le evoluzioni e le acquisizioni storiografiche dagli anni Sessanta in poi vengono trattate non a livello di singoli autori ma di traiettorie.
Vale la pena, da ultimo, fare una notazione metodologica: a seguito della progressiva anglicizzazione linguistica dell’accademia – e specialmente dell’editoria accademica – la produzione di studi scientifici su Costantino in inglese è pressoché sterminata, e gli strumenti informatici oggi disponibili rendono del tutto superflua una mera rassegna bibliografica, che per giunta sarebbe più che datata a principio. Quello che si cercherà di fare in questa sede è quindi soprattutto quello di offrire una panoramica d’insieme, cercando di mettere in luce, laddove esista, una specificità anglofona nello studio di Costantino.
Nel contesto degli studi di cultura inglese dedicati a Costantino, The Decline and Fall of the Roman Empire svolge spesso il ruolo del convitato di pietra. In realtà, l’opus magnum gibboniano è sempre presente, in modo carsico se si vuole, anche negli autori che scelgono di non farne neppure menzione1. Edward Gibbon dà alle stampe il suo ponderoso trattato in un’epoca di grandi sommovimenti: la prima edizione del Decline and Fall vede la luce tra le rivoluzioni americana e francese, tra il 1776 e il 1788. Tali sconvolgimenti storici conducono Gibbon a riflettere sulle forze spirituali che avevano guidato la fine di un mondo, quello dell’Impero romano, mentre l’ancien régime di cui egli stesso faceva parte si avviava irreversibilmente alla fine. Gibbon individua nell’affermazione del cristianesimo la forza determinante che aveva condotto il mondo romano classico alla sua fine: naturalmente, in questa prospettiva, il ruolo di Costantino è enorme. Più che la trattazione specifica di Costantino da parte di Gibbon, tuttavia, quello che davvero segna, come una polarità elettrica positiva o negativa, la gran parte della storiografia anglofona su Costantino è l’impostazione generale di Gibbon, che vede nella figura stessa del primo princeps cristiano una sorta di epitome della decadenza dell’Impero, un grande generale corrotto dai costumi della nuova religione.
Di fatti, il paradigma del declino e della caduta rimane sostanzialmente vivo in tutta la storiografia anglofona sul Tardoantico della prima metà del Novecento, e viene definitivamente superato solo da Peter Brown, come si vedrà. Ma prima di arrivare a questo, vale la pena riflettere sul fatto che la fortuna del modello gibboniano fino alla Seconda guerra mondiale si deve in parte alla particolare situazione politica europea negli anni che seguono la Grande guerra, con lo spegnersi della società vittoriana e la minaccia – realizzata, ma solo sul continente – di una rivoluzione che avrebbe spazzato via un’epoca intera. Prima di entrare in questo gioco di riprese e di abbandoni della tradizione gibboniana, occorre ricordare almeno il primo studio biografico moderno di Costantino, cioè il Constantine the Great. The Reorganization of the Empire and the Triumph of the Church di John Benjamin Firth (1868-1943). Questa opera singolare, a metà strada tra il saggio e la lettura amena (la collana in cui apparve era chiamata Heroes of Nations), non è priva di interesse. Una sufficiente informazione circa le fonti letterarie, che l’autore fa spesso parlare direttamente in testo tramite una traduzione vivace, e gli indici molto curati rendono il testo di facile accessibilità. È suggestivo notare che, sebbene nell’introduzione l’autore rivendichi la propria imparzialità e addirittura il fatto di non aver fatto particolari letture oltre le fonti primarie, il modello gibboniano della caduta dell’Impero è sempre presente: Firth prova soprattutto ad argomentare a favore dell’importanza di Costantino nell’evitare la catastrofe, ma il paradigma rimane il medesimo2. A questo proposito, nuova linfa alla tradizione gibboniana arriva dall’irlandese (ma di confessione anglicana, e ciò ha una sua importanza) e liberale John Bagnell Bury, su livelli scientifici molto più alti rispetto a Firth.
Libero pensatore che si trova a vivere il tramonto del vittorianesimo e l’alba dell’epoca dei totalitarismi, John Bagnell Bury (1861-1927), Regius professor prima di Storia greca al Trinity College di Dublino e poi di Storia moderna a Cambridge, vede in Costantino il modello del rivoluzionario in grado, quasi single-handedly, di sovvertire un mondo intero. Ammiratore incondizionato e curatore attento di Gibbon (la sua edizione del Decline and Fall è ancora quella di riferimento), Bury è autore di un’importante History of the Later Roman Empire in cui, pur entro il perimetro moraleggiante gibboniano, si focalizza l’attenzione soprattutto sul portato rivoluzionario della conversione di Costantino3. Bury fa cioè suo lo scetticismo di Gibbon sui racconti di Eusebio e di Lattanzio, ma l’accezione della rivoluzionarietà della scelta cristiana di Costantino è con tutti e due i piedi nella sensibilità novecentesca4.
Persecution was an unavoidable consequence of Constantine’s act in adopting Christianity […]. A State, at that time, was unthinkable without a State cult and if an Emperor became a Christian a logical result was that Christianity should be adopted as the official religion of the Empire, and a second that the old Roman policy of toleration should be thrown overboard […]. But the consequences were not drawn immediately. It must never be forgotten that Constantine’s revolution was perhaps the most audacious act ever committed by an autocrat in disregard and defiance of the vast majority of his subjects5.
In questo passaggio sono da rimarcare almeno tre elementi. Il primo riguarda l’interpretazione della religiosità di Costantino. Si tratta di una religiosità in primo luogo politica e statuale: qui pesano, come si accennava, sia l’anglicanesimo di Bury che l’influenza di Gibbon. Tuttavia, nella prospettiva di Bury la dimensione del calcolo cinico da parte di Costantino è assente: piuttosto, in Bury la conversione di Costantino assume i caratteri di una scommessa, in cui o si vince tutto o tutto si perde. Va inoltre rilevata l’inevitabilità, secondo Bury, dell’esito totalitario (l’anacronismo è voluto) della rivoluzione di Costantino. L’orientamento liberale dell’autore e i tempi in cui Bury scrive (il 1923) impongono di leggere il termine revolution negativamente, anzi: in modo davvero sinistro. Si tratta di un’accezione del concetto destinato ad avere una fortuna straordinaria in tutta l’antichistica britannica del XX secolo, invero soprattutto grazie alla Roman Revolution di Ronald Syme, testo che sarebbe stato pubblicato a Oxford nel 1939, al termine del ventennio totalitario e alle soglie della catastrofe della guerra. Oltre a Syme, vale la pena di ricordare qui anche l’opera di George Baker, Constantine the Great and the Christian Revolution. Il valore e l’originalità di questo studio sono invero relativi, ma lo stile attualizzante e quasi colloquiale lo rendono una lettura piacevole: di grande impatto retorico, ad esempio, l’apertura del testo, in cui si paragona il rapporto tra Roma e Costantinopoli a quello tra York (città significativa nella vicenda costantiniana) e New York6. Il testo di Baker rappresenta un esempio interessante di diffusione presso il pubblico americano di una letteratura costantiniana scientificamente piuttosto superficiale, ma tutto sommato fededegna nell’informazione di base.
Negli stessi anni in cui negli Stati Uniti usciva il libro di Baker, a Londra veniva dato alle stampe un testo fondamentale per il percorso degli studi costantiniani di lingua inglese.
Il Constantine the Great and the Christian Church di Norman Hepburn Baynes (1877-1961) è tutto ciò che Constantine the Great and the Christian Revolution di Baker non è: denso, critico, erudito7. Nonostante questi aggettivi, non si deve pensare a Baynes, professore allo University College di Londra come a un accademico puro dedito soltanto al paziente lavoro dello studio. Al pari di Bury e di Syme, Baynes era un uomo del proprio tempo, fortemente addentro alle vicende e ai drammi dell’Europa come testimoniano la sua attività per il Foreign Office quale curatore dell’edizione dei discorsi di Hitler e forse ancora di più la Romanes lecture del 1942 (Intellectual Liberty and Totalitarian Claims)8. La riflessione inglese su Costantino nella prima metà del XX secolo, soprattutto quella britannica, non è quasi mai, come si vede, scevra da considerazioni anche sul periodo politico in atto. Come che sia, gli studi di Baynes su Costantino sono fondamentali: sia per certe intuizioni e conclusioni in alcuni singoli punti della parabola costantiniana che rimangono valide a tutt’oggi, sia per alcune, significative innovazioni critiche. In generale, forse, si può affermare che Baynes è probabilmente il primo fra gli anglofoni a non guardare Costantino attraverso le lenti del giudizio morale (grande o opportunista, rivoluzionario o corruttore) ma a soffermarsi su alcuni, dirimenti aspetti puntuali, a volte non necessariamente sintonici tra loro. Il Costantino di Baynes, in sostanza, è una figura meno monumentale rispetto a quello di Bury, e molto più complessa. Ad esempio, per quello che riguarda l’aspetto militare, Baynes pone le riforme di Costantino nel solco di quelle già operate da Diocleziano, e lo stesso modello di regalità cristiana delineato da Eusebio ha molto a che vedere con la regalità divina ellenistica, nella misura in cui quello è il modello di regalità di cui Eusebio può servirsi nell’elaborazione di un nuovo modello di sovrano cristiano9. È proprio lo studio fortemente analitico della fonte eusebiana e delle sue fonti che porta Baynes a compiere un decisivo passo di allontanamento dalla linea gibboniana, e questo avviene sul terreno principale di ogni contesa accademica riguardante Costantino, e cioè la sua conversione al cristianesimo. Infatti, Baynes è il primo storico inglese a valutare Eusebio come fededegno, in particolare nel riportare le lettere e i documenti di Costantino. Ne consegue quindi che le parole di Eusebio sulla bontà del cristianesimo di Costantino sono da prendersi seriamente, e così la fede dell’imperatore e anche la sua volontà di realizzare, sotto i propri auspici ma senza prevaricare le istituzioni ecclesiastiche, l’unità all’interno della Chiesa10. Nonostante questa presa di posizione apparentemente monolitica, in qualche modo uguale e contraria a quella di Burckhardt, Baynes rimane soprattutto uno storico dei dettagli più che degli affreschi. Il suo ritratto di Costantino non è privo di nouances: ad esempio, Baynes ricorda la benevolenza concessa da Costantino al sacerdote dei misteri eleusini Nicagora11, mentre il reimpiego dell’iconografia solare è spiegato attraverso la grande popolarità del culto in età tardo antica e come mezzo per inserire Costantino in una tradizione riconosciuta che però potesse rappresentare anche il punto di partenza per un’innovazione radicale12. In sostanza, Baynes porta agli studi su Costantino la rivalutazione delle fonti letterarie – su tutti, Eusebio – e una serie di acquisizioni puntuali. Il Costantino di Baynes è un cristiano convinto, che ha ben fermo il proprio obiettivo dell’edificazione di una Chiesa cattolica unitaria sotto il patrocinio dell’imperatore, che tuttavia non dimentica di essere cauto o astuto quando le circostanze lo richiedono. Baynes in parte anticipa alcune acquisizioni che s’imporranno solo alcuni decenni più tardi, sottraendo Costantino al paradigma della decadenza e interpretando il suo principato non solo alla luce dell’Impero romano e dell’affermazione del cristianesimo, ma anche come fondamento dell’impero bizantino.
Al Costantino di Baynes deve molto, almeno in partenza, anche il Costantino di A.H.M. Jones (1904-1970). La vita di Jones, a differenza se si vuole di quelle di molti altri studiosi che qui si passano in rassegna, è abbastanza ordinaria, e l’interesse di Jones per Costantino scaturisce non da una riflessione che coinvolge anche il presente, ma da un percorso accademico classico. Jones scrive il suo primo studio rilevante su Costantino in circostanze editoriali singolari. Lo studio è Constantine and the Conversion of Europe, pubblicato a Londra nel 1949. La collana di cui fa parte il testo è strutturata in modo da associare una biografia di un personaggio storico a un grande cambiamento (ad esempio, ‘Lenin e la rivoluzione russa’). Questo per dire che il titolo, vagamente altisonante, non aderisce troppo al profilo di Costantino che emerge dal testo di Jones, il quale per altro è descritto da chi lo ha conosciuto come persona assai schiva e discreta13. Il testo in questione è destinato a una readership che va molto al di là della cerchia accademica ed è privo di annotazioni, fatta salva una rapida discussione bibliografica a fine testo. Proprio dalla fine del testo è interessante partire per valutare il Costantino di Jones.
Constantine hardly deserves the title of Great which posterity has given him, either by his character or by his abilities. He lacked firmness of purpose to pursue steadily his long-term objectives. His temper was tempestuous, and in his violent outbursts of rage he would make hasty decisions and utter savage threats, which he fortunately did not usually fulfil. He was highly susceptible to flattery, and fell completely under the influence of any dominating personality who happened to be at his side. He shows up best as a general: in war his rapidity and boldness of decision carried the day, and his campaigns against Maxentius and Licinius were brilliant. His general strategical conceptions for the defence of the empire were also sound. In the more humdrum task of administration he was weak14.
Il Costantino di Jones si caratterizza in primo luogo per l’impulsività e l’approssimazione. Questo si evince, di volta in volta nel corso del testo, dall’attenzione data da Jones ai fallimenti di Costantino. In primo luogo, quello religioso: almeno negli obiettivi che aveva postulato Baynes, che vedeva Costantino soprattutto come lottatore indefesso per l’unità della Chiesa. In questo, argomenta Jones, la missione di Costantino fu velleitaria e fallimentare, e può considerarsi un successo solo assumendo come punto d’osservazione l’impero bizantino15. A questo si aggiungono i fallimenti sociali, in particolare nella lotta contro la corruzione, vero male endemico del tardo Impero romano16. Il passaggio riportato anticipa in nuce alcune delle conclusioni, molto più radicali, che avrebbero fatto in seguito altri studiosi sull’influenza che alcuni soggetti dotati di intelligenza e personalità potevano avere su Costantino. Quello che, se si vuole, è discutibile, è l’accezione negativa con cui Jones presenta questa circostanza. La grande attenzione alla storia sociale doveva portare Jones a perfezionare la propria posizione sul diuturno dibattito intorno alla genuinità della conversione di Costantino17. Se da un lato Jones non ha dubbio alcuno che dal punto di vista personale la mossa di Costantino fosse sincera, dall’altro Jones pone in evidenza il fatto che la crisi del III secolo aveva generato in tutti gli strati della popolazione, ma soprattutto nei livelli più bassi di essa, una notevole fluidità accompagnata a una grandissima attesa di cambiamento. Questo, naturalmente, aveva creato un clima favorevole all’accettazione di un cambio spirituale radicale e rivoluzionario. Quest’osservazione di Jones è fertilissima: per la prima volta il cono di luce non viene proiettato sulle aristocrazie esclusivamente ma si propone di includere nella riflessione anche il contadino e il minatore. Si tratta invero, in Jones, soprattutto ancora di un primo passo, che però è di importanza decisiva per sviluppi storiografici successivi, per altro in parte ancora aperti18. Nell’opus magnum di Jones, The Later Roman Empire, particolare attenzione è data agli aspetti finanziari delle politiche costantiniane, inquadrate nel contesto delle politiche fiscali di epoca tetrarchica19. L’ultimo paragrafo del capitolo dedicato a Costantino di questo testo presenta, in sette righe, forse la miglior sintesi possibile di tutto il principato costantiniano20.
Sin qui si sono trattati autori che non solo scrivono in inglese, ma anche erano di cultura britannica e in vari casi erano coinvolti nella vita politica e intellettuale lato sensu del Regno Unito. Con Andreas Alföldi entrano in scena alcuni personaggi illustri che hanno un’altra estrazione geografica e culturale, ma che in virtù della storia politica del Novecento o dell’isolamento della loro lingua d’origine si ritrovano a scrivere per buona parte della loro vita scientifica in inglese21. Questo rappresenta una peculiarità positiva straordinaria per gli studi scientifici su Costantino e il Tardoantico nel mondo anglosassone, e rappresenta una fondamentale fonte di arricchimento per gli studiosi anglofoni della generazione successiva.
L’inizio dell’interesse per Costantino da parte di Alföldi (1895-1981) molto ha appunto a che fare con le origini ungheresi dello studioso e con il suo conseguente interesse scientifico per l’area danubiana, unitamente alla dimestichezza – al tempo impareggiata – di Alföldi con la documentazione numismatica22. Proprio nell’impiego massiccio della fonte monetale è da rilevarsi il contributo più significativo di Alföldi allo studio di Costantino, sebbene, come si dirà a breve, non sempre le conclusioni dello studio ungherese abbiano retto ad analisi successive. Il seguente passaggio riguarda alcune monete emesse dalla zecca di Treviri in un periodo che segue di poco la battaglia di ponte Milvio, e chiarisce bene l’approccio di Alföldi alle questioni della conversione e della gestione di questa nella comunicazione politica.
It comes to this, then, that we have before us a record of the time immediately after the Battle of the Mulvian bridge – a document which is enhanced in value by the fact that it comes from the capital of Constantine. It cannot be without intention, then, that on the three reverses of the three colleagues, by the side of ‘Jupiter Conservator’ and ‘Sol Invictus Comes (Augusti)’, the regular companion of the latter, ‘Mars Conservator’, is suppressed, and in his place, a colourless scene appears with a commonplace expression in symbol of the recurrent imperial vows. On the obverses too we find, correspondingly, only two God-Emperors, Jupiter-Licinius and Sol-Maximin; Constantine, the third, is already unwilling to appear here as a god. The reason he cannot so appear is that he bears on his head the new type of helmet, which, as his subjects knew, bore on it the emblem of a religion, that would not tolerate the payment of divine honours to mere man. The clear and full expression of the monogram was almost impossible here because of the minute scale of the helmet. Even afterwards, when the helmet was shown on a larger scale at Siscia, the only remedy was to make the cross-bar of the helmet unnaturally broad, in order to squeeze in the chi-rho on it23.
Molto poco inglese e molto pertinente alla tradizione accademica tedesca è innanzitutto l’attenzione alla fonte documentaria, che Alföldi intende spesso come prova definitiva, dando molta attenzione al carattere ufficiale della monetazione rispetto all’opinabilità del resoconto letterario. In questo, l’approccio di Alföldi, è radicalmente diverso da quello di Baynes, verso il quale Alföldi assume spesso una posizione di critica. Alla valorizzazione della fonte numismatica qua talis si accompagna una precisa disamina dell’iconografia monetale: per l’epoca, si tratta di una vera novità metodologica, che come tutte le novità non è scevra da alcune fragilità che in seguito verranno infatti messe in discussione. Come che sia, e questo è quasi paradossale, sebbene il taglio metodologico sia alquanto differente da quello di Baynes sulla valutazione della fonte letteraria, e in particolare di Eusebio, l’esito degli studi di Alföldi si inserisce nel solco che Baynes aveva tracciato, vale a dire in quella tendenza che, in reazione a Gibbon e a Burckhardt, comincia a rivalutare la genuinità del senso religioso di Costantino. Alföldi porta addirittura il segno più oltre e individua nella monetazione di Costantino i segni della cristianizzazione già in un periodo molto vicino alla battaglia di ponte Milvio, che nella ricostruzione dello storico ungherese riveste un ruolo davvero capitale. In quest’ottica, alla conversione individuale fa subito seguito la dimensione politica del cristianesimo costantiniano. Il cristianesimo del Costantino di Alföldi è anzi un cristianesimo che è soprattutto politico: questo non tanto per una questione interpretativa quanto per le fonti che Alföldi ritiene più fededegne. Come per la battaglia di ponte Milvio, infatti, Alföldi privilegia la fonte numismatica anche per quello che riguarda la fondazione di Costantinopoli, di cui sono posti molto in evidenza i caratteri cristiani nella progettazione e nella monetazione24. Tuttavia, a differenza che per i tipi monetali che seguono la battaglia di ponte Milvio, per Costantinopoli l’evidenza numismatica è molto più ampia, numericamente, e quindi più complessa, e porta in luce anche il rapporto di Costantino con il Senato. In qualche modo, questa aporia – o meglio, il tentativo di risolverla – diviene evidente soprattutto nella breve, ma densa, monografia costantiniana che Alföldi realizza dopo aver lasciato l’Ungheria per la Svizzera a seguito della situazione geopolitica postbellica che vedeva l’Ungheria collocarsi a Est della cortina di ferro: The Conversion of Constantine and Pagan Rome25. Il fatto che si tratti di un lavoro che si situa in un periodo di transizione nella vita di Alföldi ha una sua importanza: il cambiamento di paese e la conseguente minore disponibilità di materiale di prima mano (Alföldi è soprattutto storico di analisi, particolarmente documentali) porta lo studioso a riflettere su materiali già conosciuti e a riorganizzarli in maniera più coerente. Il risultato è sostanzialmente quello di ribadire le posizioni già espresse nei precedenti contributi: la conversione di Costantino è sincera, scaturisce da un sentimento che è più superstizioso che escatologico, ha immediati effetti sulla rappresentazione del potere. Una maggiore attenzione, tuttavia, è posta sulla gradualità di tutto il processo e sugli ostacoli che Costantino dovette superare per raggiungere lo scopo della cristianizzazione dell’Impero, e in generale sulle contraddizioni che caratterizzarono la politica del IV secolo. L’ultimo contributo significativo di Alföldi su Costantino risale al 1959, quando lo studioso ungherese si era già insediato a Princeton. Da una statuetta conservato proprio nella città accademica del New Jersey, Alföldi risale alla rappresentazione iconografica dei contingenti teutonici che avrebbero combattuto al fianco di Costantino nella battaglia di ponte Milvio26. In qualche modo, questo brano rappresenta una chiusura ad anello della produzione di Alföldi sul primo imperatore cristiano, che dà il meglio per originalità soprattutto nella parte che proprio intorno alla battaglia di ponte Milvio si concentra. Il contributo più significativo di Alföldi agli studi su Costantino rimane però quello di aver fatto entrare prepotentemente nel dibattito l’evidenza numismatica: non tutte le conclusioni di Alföldi sono ancora condivisibili, ma la novità nel metodo resta, per quegli anni, fondamentale27.
Molto critico nei riguardi di molte delle conclusioni di Alföldi è stato il finlandese Patrick Bruun (1920-2007), curatore del volume dedicato a Costantino e Licinio nel Roman Imperial Coinage e che si tratta qui, seppur in breve, perché in inglese sono tutti i suoi contributi costantiniani più rilevanti28. Per Bruun, la presunta cristianizzazione dell’iconografia monetale già in un’epoca molto vicina alla battaglia di ponte Milvio non va sopravvalutata, per tre ragioni: la prima è l’opportunità politica, che non richiedeva una presa di posizione troppo netta, la seconda perché la croce aveva una propria tradizione iconografica anche al di là del cristianesimo, come semplice motivo geometrico, e infine perché l’iconografia monetale era per lo più decisa a livello locale, senza necessariamente un controllo così stretto da parte dell’imperatore29. L’affermazione della croce come simbolo di vittoria ha, infatti, un percorso complesso di definizione grafica, che cambia e muta nel corso delle occasioni e che si istituzionalizza in maniera stabile solo molto dopo la morte di Costantino30. A riprova di questa maggior incertezza, rispetto alle ricostruzioni di Alföldi, stanno le monete con iconografia solare, che sono attestate fino al 32431. La stessa monetazione che segue la morte di Costantino mantiene questo tenore in qualche modo ambiguo, che ha senz’altro a che fare con la cristianizzazione, ma anche con la divinizzazione dell’imperatore stesso32. In sostanza, laddove in Alföldi Costantino è l’imperatore delle immediate certezze e delle successive difficoltà, per Bruun gran parte della monetazione di Costantino testimonia una cautela politica enormemente maggiore da parte del primo imperatore cristiano, che pondera con attenzione riferimenti chiari alla nuova religione e al proprio potere personale (distinto da quello tetrarchico), ma parimenti non disdegna, almeno fino al 324, un linguaggio iconografico dotato di solidi legami con la tradizione33. Se molte delle riflessioni numismatiche di Bruun rappresentano un netto punto d’avanzamento nell’indagine su Costantino, alcune considerazioni, tra cui quella di cambiare la data tradizionale della battaglia di ponte Milvio dal 312 al 311, non hanno avuto seguito34. Ritornando su un piano più generale, il contributo maggiore di Bruun è stato quello di inserire l’informazione dell’evidenza numismatica nel proprio contesto specifico, superando la visione della documentazione monetale come elemento di confutazione delle fonti letterarie35.
Rispetto ad Alföldi (e ancora di più rispetto a Bruun), il rapporto di Arnaldo Momigliano (1908-1987) con la cultura anglosassone è molto più profondo e complesso. Momigliano arriva in Inghilterra nel 1938 a seguito delle leggi razziali, che ne stroncano la carriera accademica in Italia proprio nei primi anni di sua docenza torinese. L’arrivo di Momigliano in Inghilterra corrisponde solo cronologicamente all’afflusso di tanti studiosi ebrei in fuga dalla Germania nazista: la fama di Momigliano è assai meno solida, internazionalmente, rispetto ai molti colleghi tedeschi e la stessa tradizione antichistica italiana non gode al tempo di un prestigio così indiscusso. Tuttavia, poche figure sono innovative e influenti per l’antichistica di lingua inglese come Momigliano. Questo vale, tra molte altre cose, anche per gli studi sul Tardoantico. I vastissimi interessi culturali e la grande sensibilità per il problema della religione in rapporto alla storia politica avevano già portato Momigliano a riflettere, nel suo periodo italiano, su Costantino36. In particolare, la prospettiva della voce dedicata alla storia imperiale di Roma nell’Enciclopedia Italiana (1936) considerava la figura di Costantino soprattutto alla luce della crisi del III secolo e dell’anarchia militare, ed era figlia di una matrice storicista che si inseriva nell’alveo di una tradizione, quella crociana, che era veramente diversa da quella britannica. Inoltre, già in quella voce era presente una delle acquisizioni più significative di Momigliano su Costantino, e cioè il fatto che egli non fu tanto l’artefice di una nuova società cristiana, ma che seppe cogliere prima e meglio di altri il portato di un’aggregazione, come quella cristiana, che oltre a una nuova visione dell’universo aveva sviluppato i suoi codici, le sue istituzioni e – forse soprattutto, per Momigliano – una sua intelligentsija. Fondamentale, a questo proposito, è l’introduzione a The Conflict Between Paganism and Christianity in the Fourth Century37. Si tratta del punto di un punto nodale della storiografia sul Tardoantico nel Novecento, la cui importanza travalica sia Costantino che la sola anglofonia. Se ne cita un passo particolarmente denso.
More generally, it can be said that no interpretation of the decline of the Roman empire can be declared satisfactory if it does not also account for the triumph of Christianity. It may seem ridiculous to have to emphasize this proposition so many years after A. Harnack and E. Troeltsch. But a careful study of their works con perhaps explain why they failed to impress their fellow historians. Though both Harnack and Troeltsch were well aware that the Church was a society competing with the society of the Roman empire, they remained theologians to the end. They were more interested in the idea of Christianity than in Christians. Rostovtzeff and Pirenne, who loved the cities of men, may be excused if they remained unimpressed by theologians who talked or seemed to talk about the city of God. It is the modest purpose of this paper to reassert the view that there is a direct relation between the triumph of Christianity and the decline of the Roman Empire. But, of course, it will not be a simple return to Gibbon. What Gibbon saw as a merely destructive power must be understood on its own terms of Civitas Dei – a new commonwealth of men for men. Christianity produced a new style of life, created new loyalties, gave people new ambitions and new satisfactions38.
Come spesso accade in Momigliano, molto è detto con poche parole. Innanzitutto, va rimarcato il richiamo esplicito alla tradizione gibboniana del Decline and Fall. Si tratta, tuttavia, di una ripresa che non ha nulla di retorico: Momigliano prende Gibbon e lo pone in una posizione dialettica rispetto a quanto, mentre l’Impero romano si avviava verso la sua fine, cominciava a prosperare, e cioè la società cristiana. Sostanzialmente, si tratta delle stesse domande della voce enciclopedica del 1936, riproposte dopo il conflitto mondiale, in piena Guerra fredda e in contesto culturale – quello britannico e più specificamente quello del Warburg Institute, dove si incontrano per definizione le diverse tradizioni intellettuali europee – che sul Tardoantico aveva una tradizione precisa. La stessa attenzione agli sviluppi sociali del cristianesimo che precedono la conversione di Costantino non nasce esclusivamente da un semplice allargamento degli interessi tradizionali degli studi sul primo imperatore cristiano. La vera novità che Momigliano apporta allo studio su Costantino è infatti soprattutto metodologica, e consiste nel superamento dello studio di Costantino come oggetto della sola scienza antichistica. Questo significa, in primo, l’utilizzo delle acquisizioni delle altre scienze storico-religiose, in particolare tedesche, di inizio secolo, che sino ad allora erano state sostanzialmente ignorate dalla maggior parte degli studiosi di storia antica. Per quanto oggi possa sembrare quasi banale – e già nel 1958 Momigliano usa l’aggettivo ridiculous – si tratta di un cambio di prospettiva molto radicale rispetto a quello che era stato lo studio dell’era costantiniana. In sostanza, si esce, pur riconoscendone la fondatezza e l’importanza, dall’impostazione gibboniana. Si guarda cioè all’era costantiniana non più dalla prospettiva di Augusto, ma si indica l’esistenza di una prospettiva di San Paolo. Da notare che, tutto questo, è in Momigliano solo poco più che un’indicazione. Nel complesso l’età costantiniana non è uno dei temi momiglianei ‘classici’. La prospettiva sociale del cristianesimo nascente viene indagata solo in parte. Ma si tratta di un’indicazione fertilissima, senza la quale tutti gli studi successivi, soprattutto di area anglofona, sarebbero diversi, e senza dubbio più poveri. Si può affermare che Momigliano ha indicato il terreno che sarebbe stato dissodato da una generazione successiva di studiosi.
In ogni caso, non si deve pensare al contributo di Momigliano allo studio Costantino come a un qualcosa di estremamente vago. Nella stessa introduction cui si è fatto riferimento qui, rifuggendo ogni facile divagazione morale quando non provvidenzialistica, Momigliano individua un campo preciso e concreto in cui il conflitto, o quanto meno le tensioni sociali del IV secolo, si manifestano. Questo campo è quello dell’esercito. Infatti, a seguito dell’introduzione del solidus e delle sue conseguenze in termine di coscrizione, di riorganizzazione e di strategia per le frontiere l’esercizio veniva a essere il campo in cui si scontravano città e campagna, culti urbani e pratiche religiose soprattutto militari, romani e barbari. In quest’ottica, il cristianesimo, lungi dall’essere una sorta di soluzione dialettica a questi contrasti, forniva quanto meno un potenziale terreno comune: questa dinamica è di importanza fondamentale per il sostanziale successo della conversione di Costantino39. Inoltre, con quest’intuizione che Momigliano in qualche modo anticipa un’idea di grande rilevanza che sarà sviluppata da Peter Brown sul cristianesimo come compromesso per la custodia della tradizione classica.
Oltre che con la densa introduzione, Momigliano contribuisce alla raccolta con un altro saggio dedicato al confronto, o meglio, nell’ottica di Momigliano, del conflitto, tra storiografia pagana e storiografia cristiana40. Di fatto, Pagan and Christian Historiography è la verifica storiografica di quel paradigma del conflitto che Momigliano analizza in generale nell’introduzione. Focalizzando la propria attenzione su Eusebio e, soprattutto, su Lattanzio, lo studioso piemontese si allontana nei fatti dalla visione gibboniana della decadenza e mette in evidenza come nel IV secolo l’emergere del cristianesimo non possa connotarsi come la vittoria di un nuovo mondo cristiano contro quello ‘classico’, tradizionalmente politeista: piuttosto si tratta, per Momigliano, del disvelamento di un mondo e di una concezione della storia che sino a quel momento avevano avuto uno sviluppo sostanzialmente sotterraneo, in larga parte ignorato dalle élites del tempo41. Qui si entra, seppur tangenzialmente, nel problema, così importante nella riflessione momiglianea, dell’interpretazione del tempo: lineare secondo la tradizione ebraica – e poi, in questo senso, cristiana – e quello ciclico greco42. In qualche modo, con la vittoria politica di Costantino, viene alla luce questa elaborazione cronologica che il cristianesimo aveva svolto ben prima del IV secolo43. Paradossalmente, tuttavia, è proprio la vittoria politica di Costantino che impone una revisione della visione lineare per i cristiani ora giunti al potere. Indubbiamente, il protagonista di questa operazione è Eusebio, che è il primo a organizzare una tavola cronologica per colonne parallele, quasi a voler armonizzare le visioni del tempo e per inserire la cronografia cristiana nelle tradizioni cronologiche preesistenti. La presa del potere comportava, in qualche modo, l’abbandono della prospettiva millenaristica. Né quello cronologico è l’unico lavoro di mediazione cui si cimenta Eusebio: anche nell’elaborazione della Vita Constantini egli si pone in un’ottica che certo risente della tradizionale biografia ellenistica, ma al contempo ha qualche elemento nuovo. Non un’agiografia, non una vita di un re, ma soprattutto la biografia di un uomo pio.
Il contributo più importante di Momigliano allo studio di Costantino, al di là di questi aspetti puntuali, sta soprattutto nell’aver compreso che dietro al primo principe cristiano c’era un intero mondo intellettuale, attrezzatissimo culturalmente e politicamente, che colse l’occasione quasi fortuita della vittoria di ponte Milvio per emergere e prendere saldamente le redini del potere e non solo. Questo non solo, di fatto, in Momigliano viene in modo meramente parziale sviluppato: nel complesso Costantino non rientra nei principali interessi storiografici di Momigliano. Tuttavia, quella del conflitto è il primo serio scarto nella storiografia anglosassone su Costantino dalla prospettiva di Gibbon.
In questo paragrafo dedicato a Momigliano si fa menzione di un altro grande nome della storiografia anglofona sul Tardoantico, Ronald Syme. Lo storico neozelandese, pur conoscitore profondissimo del Tardoantico, studiò Costantino solo marginalmente: la cosa, tra l’altro, non ha mancato di destare qualche interrogativo, nella misura in cui Costantino poteva presentarsi, all’autore della Roman Revolution, come un nuovo Ottaviano44. Va rilevato comunque il contributo prosopografico in cui Syme chiarisce le ragioni per cui, nel 310, Costantino sceglie di valorizzare pubblicamente la propria presunta discendenza da Claudio il Gotico45. A prescindere da questo, va ricordato come The Roman Revolution ha un’influenza generale su tutti gli studi di storia romana di età tardo-repubblicana e imperiale in lingua inglese, inclusi quelli su Costantino.
Dopo Momigliano e, cursoriamente, Syme, si passa ora in rassegna la storiografia anglofona su Costantino che potremmo definire contemporanea.
Tutte le fondamentali linee di ricerca della storiografia anglosassone su Costantino convergono e vengono superate nel lavoro di Peter Brown. Lo storico irlandese (ma di cultura protestante) fin da giovane si presenta come lo storico più attrezzato per seminare nel solco tracciato da Momigliano. Brown, infatti, arriva a Costantino e al Tardoantico non dalla storia romana ma da Sant’Agostino: questo lo rende molto sensibile a vedere soprattutto la pars construens del’età costantiniana e a focalizzare la sua attenzione sulla mediazione tra l’ascesa della società cristiana e la civiltà ellenistico-romana46. Siamo, in sostanza, al superamento definitivo di Gibbon. Questa mediazione tra cristianesimo e classicità ha nella vicenda di Costantino il suo punto più rilevante, e si manifesta in vari aspetti anche molto concreti del suo operato. Uno di questi è la rappresentazione della regalità costantiniana, che certo deve molto alla costruzione eusebiana, fondata sostanzialmente sul modello ellenistico, ma anticipa – ad esempio nella monetazione, in cui il profilo di Costantino ha lo sguardo rivolto al cielo – la descrizione che ne darà Agostino nel De Civitate Dei47. Altro punto fondamentale della riflessione di Peter Brown è la contestualizzazione della scelta ‘borghese’ di Costantino. Dal punto di vista strettamente politico Costantino avrebbe potuto facilmente fare affidamento sull’esercito e sulla campagna: egli invece sceglie di porsi anche in un rapporto politico con le città. Molti cristiani che abitavano i centri urbani più importanti erano anche imbevuti di cultura classica: avvicinandosi a loro, Costantino fa sì che l’affermarsi del cristianesimo non comporti la distruzione della civiltà ellenistico-romana. Anzi: il cristianesimo garantisce un comune denominatore tra romani e barbari, ponendo la civiltà classica in una posizione non di sfida diretta, ma di compromesso con i barbari stessi. Questo compromesso salva il salvabile della cultura del mondo antico mediterraneo ellenistico. Costantino impersona questo compromesso, che rappresenta forse il più grande successo del primo principe cristiano48. Il rapporto tra Costantino, il cristianesimo e l’aristocrazia cristiana è di assoluta simbiosi: l’affermarsi del cristianesimo non è affatto – e qui ci allontaniamo molto dall’idea di Bury – il frutto della singola determinazione dell’imperatore militans pro deo, ma è soprattutto il frutto della costruzione di una nuova società che con Costantino vede in qualche modo la luce dopo anni di oscurità49. Del resto, Brown non è attento solo ai successi di Costantino. È particolarmente rilevante in questo senso è la questione donatista: Costantino aspira, secondo Brown, a una Chiesa che sia un’assemblea veramente universale, tuttavia la sua conversione, invece che ordine, porta in seno al mondo cristiano soprattutto il caos. È anche la grande difficoltà incontrata con i cristiani d’Africa, argomenta Brown, a spingere Costantino vero Est50. Con Costantino nasce a tutti gli effetti anche il concetto di politica religiosa, che è cosa diversa dal rapporto tra religione e potere. Con Costantino, il rapporto con la religione diviene a tutti gli effetti politico nella misura in cui c’è la necessità di un rapporto con un corpo sociale, la Chiesa, dotato di proprie istituzioni51.
Se si deve riassumere in poche righe il contributo di Brown agli studi su Costantino, si può affermare che esso è stato soprattutto quello di aver sfumato i confini fra l’antichità classica e il Medioevo, di aver rovesciato le prospettive d’indagine sul primo imperatore cristiano e di avere abbattuto molti steccati che dividevano le varie discipline teologiche e storiche fino agli anni Sessanta52.
Allievo di Sir Ronald Syme è invece Timothy David Barnes, probabilmente il più prolifico storico di Costantino nella seconda metà del XX secolo. La bibliografia costantiniana di Barnes è in effetti sterminata, e spazia da questioni puntuali, ma decisive (datazioni, notazioni prosopografiche) senza mancare di affrontare i grandi temi classici della storiografia su Costantino, in primis il ruolo giocato nel suo principato dalla conversione. Barnes ha poi marcato alcune fondamentali acquisizioni per quanto riguarda Eusebio, fornendo a più riprese proposte per collocare la redazione dell’Historia Ecclesiastica, della Vita Constantini e in generale di tutta l’opera eusebiana in una prospettiva stratificata53. Una delle caratteristiche degli studi eusebiani di Barnes è l’attenzione alle caratteristiche del genere letterario cui di volta in volta i testi di Eusebio afferiscono: tali generi veicolano le informazioni storiche contenute nei testi54. Oltre a una miriade di contributi più brevi, Barnes è soprattutto l’autore di tre monografie fondamentali, due molto ravvicinate tra loro, pubblicate all’inizio degli anni Ottanta, e un’altra recentissima55. Pur con sostanziali differenze di spettro e di stile, tutti e tre i testi presentano un imperatore per certi aspetti quasi conservatore ma che abbraccia la causa cristiana con zelo quasi missionario. Siamo comunque assai lontani dalla visione di Alföldi che vedeva nella parabola di Costantino il frutto immediato della conversione di ponte Milvio. Il Costantino di Barnes ha avuto quanto meno un’inclinazione verso il cristianesimo già da prima, e inoltre è molto attento a modulare le proprie politiche religiose con gradualità e a seconda delle circostanze56. Rispetto alla ricostruzione del mondo tardoantico di Peter Brown, dove Costantino è fondamentale ma è inserito in un enorme contesto di grandi rivolgimenti sociali e spirituali, Barnes ingrandisce di nuovo l’importanza della personalità dell’imperatore. Inoltre, egli tenta spesso di dare un nome e un’identificazione – e in questo la scuola di Syme è evidente – alle persone illustri attive nel periodo di Costantino57. Anche in questo la differenza rispetto a Brown è abbastanza netta: laddove quest’ultimo ricerca il saeculum, Barnes preferisce focalizzare la propria attenzione sulle élites. Da questo punto di vista è molto rilevante il lavoro fatto da Barnes anche nella contestualizzazione dell’opera di Costantino nella cornice della tetrarchia, per cui molti dei provvedimenti di Costantino si pongono nel solco della riorganizzazione dell’Impero operata da Diocleziano. Di fatto, Barnes parte da un approccio metodologico nel complesso tradizionale (la maggiore importanza delle fonti letterarie rispetto all’iconografia e alla documentazione è ribadita più volte), che viene però portato al massimo livello possibile di competenza filologica, conoscenza delle fonti e della dottrina58. Questo porta l’opera di Barnes su Costantino a essere il classico della storiografia anglofona su Costantino nella seconda metà del Novecento e il punto di riferimento – a volte in dialettica quando non in esplicita polemica – di tutta la produzione successiva.
Negli ultimi quarant’anni, le pubblicazioni su Costantino in inglese si sono susseguite a una velocità impressionante. Ciò è dovuto a molti fattori. Il primo, come si accennava all’inizio di questa voce, è la presenza, specie in Inghilterra di alcuni fondamentali studiosi del Tardoantico che hanno fatto scuola. A questo si deve aggiungere la graduale assunzione dell’inglese come lingua scientifica internazionale anche per l’antichistica e l’attivismo dell’editoria accademica inglese e americana. Qui si fornisce soltanto una rapida panoramica di alcuni sviluppi, facendo attenzione soprattutto alle biografie e agli studi monografici.
Ramsay MacMullen ha scritto nel 1969 un’importante biografia sul primo imperatore cristiano, che verte molto sul tipo di cristianesimo cui Costantino si converte: esso ha assai poco di etico e di interiore ed è anzi politico59. Averil Cameron (1940) cerca di mettere in evidenza un Costantino meno esclusivamente cristiano rispetto a quello di Barnes, rispetto al quale propone una lettura di Eusebio alternativa (ad esempio, rifiuta l’ipotesi di Barnes di una redazione in due tempi della Vita Contantini). Più in generale, la Cameron presta maggiore attenzione alle incoerenze del percorso politico-religioso di Costantino60.
Harold Allen Drake focalizza la propria analisi soprattutto sull’importanza della conversione di Costantino come elemento di stabilizzazione politica di un principato ancora molto scosso dalla crisi del III secolo, e sul ruolo giocato dalla Chiesa come istituzione in questo senso61. Le ricerche di Simon Corcoran sul Codex Theodosianus e in generale sulle fonti legislative hanno portato, tra le altre cose, nuova luce sull’amministrazione costantiniana e sulla concezione dell’imperatore62. Anglofone sono anche le due fondamentali raccolte miscellanee su Costantino apparse negli ultimi anni, la prima a cura di Samuel Lieu e Dominic Monserrat (1964-2004) e la seconda a cura di Noel Lenski63. Negli ultimi vent’anni è stato pubblicato un buon numero di biografie di Costantino, ora di taglio sostanzialmente tradizionale come nel caso di Michael Grant e Charles Matson Odahl, ora avanzando posizioni più radicali64. Appartengono a quest’ultima tipologia i lavori di Thomas George Elliott (secondo il quale Costantino non passa attraverso una vera conversione, essendo cristiano già praticamente dalla nascita) e di Raymond Van Dam, che con un richiamo esplicito a Syme travalica molte cautele e propone un Costantino da subito molto rivoluzionario65. La vivacità e la fertilità della storiografia anglofona su Costantino paiono del resto non doversi esaurire, come testimoniano i recentissimi studi monografici di Jonathan Bardill, David Potter, e John Noël Dillon66.
La storiografia in lingua inglese su Costantino si innesta a inizio secolo ancora sul tronco del Decline and Fall di Gibbon. Le acquisizioni più rilevanti della prima metà del secolo sono soprattutto quelle di Baynes (rivalutazione delle fonti letterarie, soprattutto Eusebio) e di Jones (scoperta della storia sociale della tarda storia romana). La cultura storiografica anglosassone beneficia molto della scrittura in inglese e dell’attività in Gran Bretagna o negli Stati Uniti di studiosi dell’Europa continentale: qui si sono ricordati, a proposito di Costantino, soprattutto Alföldi, che porta in particolare la metodologia tedesca dello studio della documentazione non letteraria, e Momigliano, che per primo mette in crisi la prospettiva gibboniana. Su questo solco si sviluppano le ricerche, estremamente innovative, di Peter Brown, mentre la lezione del metodo prosopografico e filologico di Ronald Syme viene sviluppata ampiamente da Timothy Barnes. Naturalmente la storiografia anglofona su Costantino non si esaurisce in questi autori, né negli altri che qui si sono riportati: non si è fatta menzione qui, inter alios, dei contributi costantiniani di Glen Warren Bowersock o di Fergus Millar. Tuttavia, gli autori che si sono trattati, le loro opere e le loro prospettive forniscono in qualche modo un filo rosso che lega tutta la storiografia su Costantino in lingua inglese. Questo filo rosso è la capacità di porre alle fonti – in fondo un numero contenuto di testi – le grandi questioni generali d’insieme, e di trarne di conseguenza interpretazioni il più possibile coerenti. Questo favorisce una riflessione collettiva la cui Stimmung finisce per definire continuamente lo stato dell’arte degli studi su Costantino. In questa capacità di indagare Costantino e la sua era a tutto tondo sta, forse, il più tipico e fondamentale contributo della storiografia anglofona agli studi sul primo imperatore cristiano.
1 Su Gibbon si veda in dettaglio il contributo di H. Schlange-Schöningen, Edward Gibbon. Costantino nella History of the Decline and Fall of the Roman Empire, in questa stessa opera.
2 J.B. Firth, Constantine the Great. The Reorganization of the Empire and the Triumph of the Church, New York 1905, pp. V-VI; 1.
3 E. Gibbon, A History of the Decline and Fall of the Roman Empire, ed. by J.B. Bury, 7 voll., London 1909-1914.
4 Eus., v.C. I 28-29; Lact., mort. pers. 44,5-6.
5 J.B. Bury, History of the Later Roman Empire, 2 voll., London 1923, pp. 365-366.
6 G.P. Baker, Constantine the Great and the Christian Revolution, New York 1930, pp. 1-2. Morte di Costanzo Cloro a Eboracum (York) e acclamazione di Costantino: Eutr., X 1-2. Dal 1998 a York, nei pressi del Minster, sorge una statua in bronzo di Costantino seduto su un trono. Lo stile è classicheggiante e le fattezze del principe sono ispirate all’iconografia coeva. Con la mano sinistra, Costantino sostiene una spada appoggiata al basamento, alla maniera di uno scettro. La punta dell’arma è spezzata e la spada assume quindi le sembianze di una croce. Su quest’oggetto si fissa lo sguardo di Costantino, che con l’altra mano sembra indicare l’adiacente cattedrale gotica. Sul basamento della statua è scritto Constantine by this sign conquer. L’opera è dello scultore Philip Jackson.
7 N.H. Baynes, Constantine the Great and the Christian Church, Raleigh Lecture on History, London 1931. Si veda anche Id., Constantine, in Cambridge Ancient History, XII, The Crisis of Empire, A.D. 193- 337, ed. by. A.K. Bowman, P. Garnsey, Av. Cameron, pp. 678-699.
8 The Speeches of Adolf Hitler, ed. by N.H. Baynes, 2 voll., Oxford 1942; Id., Intellectual Liberty and Totalitarian Claims, Oxford 1942.
9 N.H. Baynes, Two Notes on the Reforms of Diocletian and Constantine, in Journal of Roman Studies, 15 (1925), pp. 196-204; Id., Eusebius and the Christian Empire, in Annuaire de l’insititut de philologie et histoire orientales, 2 (1933-1934), pp. 13-18.
10 N.H. Baynes, Constantine the Great and the Christian Church, cit., p. 27.
11 Ivi, p. 83 nota 58.
12 Ivi, pp. 101-102.
13 A. Sarantis, Arnold Hugh Martin Jones (1904-1970), in A.H.M. Jones and the Later Roman Empire, ed. by D.M. Gwynn, Leiden-Boston 2008, pp. 3-24.
14 A.H.M. Jones, Constantine and the Conversion, cit., p. 248.
15 Ivi, pp. 185-186.
16 Ivi, pp. 229-230.
17 A.H.M. Jones, The Social Background of the Struggle between Paganism and Christianity. in The Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, ed. by A. Momigliano, Oxford 1963, pp. 17-37.
18 Si veda il contributo di P. Brown in questa stessa opera.
19 Si veda su questo anche A.H.M. Jones, Over-Taxation and the Decline of Roman Empire, in Antiquity, 33 (1959), pp. 39-43.
20 A.H.M. Jones, The Later Roman Empire 284-602. A Social, Economic and Administrative Survey, I, Oxford 1964, p. 111: «Constantine has many great achievements to his credit. He firmly established Christianity as the religion of the empire. He built a new capital, which was to outlive the old Rome by nearly a millennium. He organised an efficient mobile army, and laid the foundations of a sound gold currency. But he set a standard of extravagant expenditure and reckless fiscality, which undermined the economic stability of the empire».
21 In generale su Alföldi si veda il volume miscellaneo Andreas Alföldi in the Twenty-First Century, ed. by F. Santangelo, J. Richardson, in corso di stampa.
22 A. Alföldi, Die Donaubrücke Konstantins d. Gr. und verwandte historische Darstellungen auf spätrömischen Münzen, in Zeitschrift für Numismatik, 36 (1926), pp. 161-174. Su questo argomento si veda il contributo di Ch. Raschle, Costantino nella storiografia tedesca del Novecento, in questa stessa opera.
23 A. Alföldi, The Helmet of Constantine with the Christian Monogram, in Journal of Roman Studies, 22 (1932), pp. 9-23.
24 A. Alföldi, On the Foundation of Constantinople: a Few Notes, in Journal of Roman Studies, 37 (1947), pp. 10-16.
25 A. Alföldi, The Conversion of Constantine and Pagan Rome, Oxford 1948.
26 A. Alföldi, Cornuti. A Teutonic Contingent in the Service of Constantine the Great and its Decisive Role in the Battle at the Milvian Bridge, in Dumbarton Oaks Papers, 13 (1959), pp. 171-183.
27 Su questo argomento si veda il contributo di F. Carlà in questa stessa opera.
28 Si tratta del VII volume della collezione.
29 P. Bruun, The System of Vota Coinages, in Nordisk Numismatik Årsskrift, 1956 (1958), pp. 1-21, ora in Id., Studies in Constantinian Numismatics, Roma 1991, pp. 27-35; Id., The Christian Signs on the Coins of Constantine, in Arctos, 3 (1962), pp. 5-35; Id., Early Christian Symbolism on Coins and Inscription, in Atti del VI Convegno Internazionale di Archeologia Cristiana (Ravenna 23-30 settembre 1962), Città del Vaticano 1965, pp. 527-535. All’interno delle zecche, un ruolo particolare era rivestito da quella di Arles, attiva dal 313, si veda Id., The Constantinian Coinage of Arelate, Helsinki 1953, p. 9.
30 P. Bruun, Victorious Signs of Constantine: A Reappraisal, in Numismatic Chronicle, 157 (1997), pp. 41-59.
31 P. Bruun, The Disappearance of Sol from the Coins of Constantine, in Arctos, 2 (1958), pp. 15-37.
32 P. Bruun, The Consecration Coins of Constantine the Great, in Arctos, 1 (1954), pp. 19-31.
33 P. Bruun, Portrait of a Conspirator. Constantine’s Break with the Tetrarchy, in Arctos, 10 (1976), pp. 5-23; Id., Constantine’s Dies Imperii and Quinquennalia in the Light of the Early Solidi of Trier, in Numismatic Chronicle, 9 (1969), pp. 177-205; Id., Constantine’s Change of Dies Imperii, in Arctos, 9 (1975), pp. 11-29.
34 P. Bruun, The Battle of the Milvian Bridge: The Date Reconsidered, in Hermes, 88 (1960), pp. 361-370. Bruun ha poi esteso la propria discussione di alcune questioni puntuali di cronologia: P. Bruun, Studies in Constantinian Chronology, New York 1961.
35 P. Bruun, The Late Roman Imperial Coin Portraits – Objects of Research and Tool of the Scholar, in Litterae Numismaticae Vindobonenses, 4 (1992), pp. 215-230.
36 Su questo argomento si veda il contributo di F. Santangelo in questa stessa opera.
37 Su questa introduzione e sul suo contesto si veda di recente Pagans and Christians in the Roman Empire: The Breaking of a Dialogue (IVth – VIth Century A.D.), Proceedings of the International Conference (Bose, 20-22 october 2008), ed. by P. Brown, R. Lizzi Testa, Berlin-Münster-Wien-Zürich-London 2011: P. Brown, Back to the Future: Pagans and Christians at the Warburg Institute in 1958, pp.17-24; A. Melloni, Momigliano in conflict. Un’indagine dall’archivio Einaudi, pp. 25-38; Av. Cameron, Thoughts on the Introduction to The Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, pp. 39-54.
38 A. Momigliano, Christianity and the Decline of the Roman Empire, in The Conflict, cit., p. 6.
39 «Above all something had to be done in order to establish a communal life which both Romans and Barbarians could share», A. Momigliano, Christianity and the Decline of the Roman Empire, cit., p. 15.
40 A. Momigliano, Pagan and Christian Historiography in in the Forth Century A.D., in The Conflict, cit., pp. 77-99.
41 Lact., inst. V 1,15: «Haec in primis causa est, cur apud sapientes, doctos et principes huius saeculi scriptura sancta fide careat, quod prophetae communi ac simplici sermone, ut ad populum, sunt locuti». A. Momigliano, Pagan and Christian Historiography, cit., p. 82: «Normally the educated pagans of the Roman empire knew nothing about Jewish or Christian history».
42 A. Momigliano, Il tempo nella storiografia greca, in History and Theory, 6 (1966), pp. 1-23.
43 A. Momigliano, Pagan and Christian Historiography, cit., p. 83.
44 J. Matthews, Ronald Syme, Constantine the Great and the Second Roman Revolution, in Id., Roman Perspectives. Studies in Political and Cultural History, from the First to the Fifth Century, Swansea 2010, pp. 41-56.
45 R. Syme, The Ancestry of Constantine, in Bonner Historia-Augusta-Colloquium 1971, hrsg. von J. Straub, Bonn 1974, pp. 237-253.
46 P. Brown, The Making of Late Antiquity, Cambridge (MA)-London 1978, p. 34: «The religious and cultural history of the third and fourth centuries is distinctive for that reason: to move from the age of the Antonines to the age of Constantine is not to pass through some moment of catastrophic breakdown, of bankruptcy, depletion, pauperization, and the consequent “cutting back” of expenditure on religious and cultural activity but rather to pass from one dominant lifestyle, and its forms of expression, to another; to pass, in fact, from an age of equipoise to an age of ambition».
47 Il riferimento è in Aug., civ. V 25,1-14. P. Brown, Saint Augustine, in Trends in Medieval Political Thought, ed. by B. Smally, London 1963, pp. 1-21, ora in P. Brown, Religion and Society in the Age of Saint Augustine, London 1982, pp. 9-21: sebbene l’iconografia dello sguardo in alto sia già diffusa dai tempi di Galeno.
48 P. Brown, Approaches to the Religious Crisis of the Third Century A.D., in English Historical Review, 88 (1968), pp. 542-568, ora in Id., Religion and Society, cit., pp. 74-93.
49 P. Brown, Aspects of Christianization of the Roman Aristocracy, in Journal of Roman Studies, 51 (1961), pp. 1-11, ora in Id., Religion and Society, cit., pp. 161-82. L’influenza della prospettiva momiglianea è evidente. Si veda anche Id., The World of Late Antiquity. From Marcus Aurelius to Muhammad, London 1971, p. 27.
50 P. Brown, Religious Dissent in the Later Roman Empire: The Case of North Africa, in History, 46 (1961), pp. 83-101, ora in Id., Religion and Society, cit., pp. 237-260.
51 P. Brown, Religious Coercion in the Later Roman Empire: The Case of North Africa, in History, 48 (1963), pp. 283-305, ora in Id., Religion and Society, cit., pp. 301-331.
52 P. Brown, The World of Late Antiquity, cit., p. 19.
53 T.D. Barnes, Two Speeches by Eusebius, in Greek Roman and Byzantine Studies, 18 (1977), pp. 341-345; Id., The Editions of Eusebius’ Ecclesiastical History, in ivi, 21 (1980), pp. 191-201.
54 T.D. Barnes, Panegyric, History and Hagiography in Eusebius’ Life of Constantine, in The Making of Orthodoxy. Essays in Honour of Henry Chadwick, ed by. R. Williams, Cambridge 1989, pp. 94-123.
55 T.D. Barnes, Constantine and Eusebius, Cambridge (MA) 1981; Id., The New Empire of Diocletian and Constantine, Cambridge (MA) 1982; Id., Constantine. Dynasty, Religion and Power, Chichester-Malden (MA) 2011.
56 T.D. Barnes, The Conversion of Constantine, in Échos du Monde Classique, 29 (1985), pp. 371-391; Id., From Toleration to Repression: The Evolution of Constantine’s Religious Policies, in Scripta Classica Israelica, 21 (2002), pp. 189-207.
57 T.D. Barnes, Two Senators under Constantine, in Journal of Roman Studies, 65 (1975), pp. 40-49.
58 T.D. Barnes, Lactantius and Constantine, in Journal of Roman Studies, 63 (1973), pp. 40-49.
59 R. MacMullen, Constantine, New York 1969; Id., Christianizing the Roman Empire (A.D. 100-400), New Haven (CT) 1984.
60 Av. Cameron, The Reign of Constantine, A.D. 306-337, in Cambridge Ancient History, XII2, cit., pp. 90-109. Si veda soprattutto il commento alla Vita Constantini: Eusebius’ Life of Constantine, ed. by Av. Cameron, S.G. Hall, Oxford 1999. Sulla redazione della stessa Vita Constantini si veda Av. Cameron, Eusebius’ Vita Constantini and the Construction of Constantine, in Portraits. Biographical representation in the Greek and Latin Literature of the Roman Empire, ed. by M.J. Edwards, S. Swain, Oxford 1997, pp. 145-174.
61 H.A. Drake, Constantine and the Bishops. The Politics of Intolerance, Baltimore (MD) 2000.
62 Si veda ad esempio S. Corcoran, Emperor and Citizen in the Era of Constantine, in Constantine the Great. York’s Roman Emperor, ed. by E. Hartley, J. Hawkes, M. Henig et al., London 2006, pp. 41-51.
63 Constantine. History, Historiography and Legend, ed. by S.N.C. Lieu, D. Montserrat, London-New York 1998; The Cambridge Companion to the Age of Constantine, ed. by N. Lenski, Cambridge 2007.
64 M. Grant, Constantine the Great. The Man and his Time, London 1993; C.M. Odahl, Constantine and the Christian Empire, London-New York 2004.
65 T.G. Elliott, The Christianity of Constantine the Great, Scranton (PA) 1996; R. Van Dam, The Roman Revolution of Constantine, Cambridge 2008.
66 J. Bardill, Constantine. Divine Emperor of the Golden Christian Age, Cambridge 2012; J.N. Dillon, The Justice of Constantine. Law, Communication and Control, Ann Arbor (MI) 2012; D. Potter, Constantine the Emperor, Oxford 2013.