La storiografia: dagli storici di Alessandro a Polibio e Plutarco
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La variegata tradizione di resoconti e memoriali sorta intorno all’impresa di Alessandro Magno risulta per noi solo parzialmente ricostruibile. Se l’opera storiograficamente più elevata del periodo ellenistico è quella di Polibio, il periodo romano vede tra l’altro l’affermarsi della biografia a carattere morale ed educativo, il cui più celebre rappresentante è Plutarco.
L’epopea trionfale di Alessandro Magno già durante il suo stesso svolgimento ha alcuni storici “ufficiali”. Callistene, pronipote di Aristotele, accompagna il Macedone e ne scrive le vicende fino alla battaglia di Gaugamela (331 a.C.), ma cade in disgrazia e viene messo a morte nel corso della cosiddetta “congiura dei paggi” nel 327 a.C. Eumene di Cardia ne raccoglie in un certo senso il testimone e redige dei “diari” ufficiali, le Efemeridi, che trattano degli avvenimenti a partire dal 330 a.C.
Non si deve peraltro ritenerle asettici documenti d’archivio: è stato sottolineato come i frammenti superstiti sembrino tendenziosamente finalizzati a mettere in buona luce Perdicca, uno dei protagonisti delle lotte tra i diadochi. Dopo la morte di Alessandro, la parabola del conquistatore è raccontata dal suo generale Tolemeo, il fondatore della dinastia che governa l’Egitto per due secoli, e da Aristobulo di Cassandrea, a quanto pare il “tecnico” a capo del genio nel corso della spedizione. Il suo resoconto, per quanto probabilmente fin troppo oleografico nel ritrarre il sovrano, doveva però essere ricco di interessanti dettagli naturalistici relativi alle terre attraversate dai Macedoni.
Le opere di Tolemeo e Aristobulo sono andate perdute, ma risultano ampiamente utilizzate da Arriano di Nicomedia. Allievo del filosofo Epitteto, diviene amico dell’imperatore Adriano che lo eleva al rango senatorio e gli affida l’incarico di governatore della Bitinia. Arriano, figura profondamente libresca, nel corso della sua vita decide di atteggiarsi a nuovo Senofonte, come testimonia la sua produzione letteraria e storiografica. Se i suoi Eventi successivi ad Alessandro (probabilmente ispirati alle Elleniche) sono andati quasi completamente perduti, sopravvive invece l’Anabasi di Alessandro, che per noi costituisce un’indispensabile fonte sulla spedizione del Macedone. Lo scopo principale di Arriano, peraltro, non è affatto di carattere storiografico. Il suo obiettivo è quello di comporre un tributo letterario alle grandi imprese di Alessandro, facendo per lui quello che Omero aveva fatto per Achille; l’elaborazione stilistica e retorica dell’opera (che pure ha un’ossatura storica rispettabile) è particolarmente elaborata e la rende facilmente accessibile, per quanto spesso carente in pathos.
Una tendenza differente rispetto a quella “cortigiana” rappresentata da Aristobulo, Tolemeo ed Eumene è spesso individuata nell’opera storica perduta di Clitarco di Alessandria, composta intorno al 310 a.C. e basata, a quanto pare, su resoconti di prima mano da parte di partecipanti alla spedizione. Clitarco viene spesso criticato come poco affidabile e incline a “colorire” la narrazione, ma i suoi resoconti molto vividi dovevano risultare particolarmente attraenti, al punto che risultano alla base del diciassettesimo libro di Diodoro Siculo e di molti episodi presenti in Curzio Rufo, nonché, forse, anche del cosiddetto Romanzo di Alessandro.
La perdita quasi totale dei testi originali degli storici di età ellenistica è almeno in parte compensata dalla sopravvivenza di una larga parte dell’opera di Polibio di Megalopoli.
Esponente di spicco della Lega achea, nel 167 a.C. viene deportato a Roma insieme ad altri esponenti del partito filomacedone; lì diviene precettore e poi amico di Scipione Emiliano, che lo vuole nel suo entourage. Al suo seguito, Polibio può assistere ad importanti eventi storici come la distruzione di Cartagine (146 a.C.) e per incarico del suo potente patrono compie anche lunghi viaggi. Tornato in Grecia negli ultimi anni della sua vita, con ogni probabilità si dedica alla rifinitura delle Storie, alla quali verosimilmente lavora già da molto tempo e che, alla sua morte, rimangono incompiute, come dimostra la presenza di alcune incongruenze frutto delle rielaborazioni successive mai completamente armonizzate. L’opera storica di Polibio in origine è costituita da ben 40 libri, che trattano il periodo compreso tra il 264 e il 146 a.C. I primi cinque (che arrivano fino alla seconda guerra punica sono sopravvissuti in forma integrale; i libri VI-XVI e XVIII sono fruibili in una raccolta di estratti, piuttosto consistente e continua, approntata in età bizantina e nota come Excerpta antiqua; della maggior parte degli altri libri restano solo frammenti inclusi in maniera non sistematica nelle enciclopedie di exempla storici assemblate a Costantinopoli sotto l’imperatore Costantino Porfirogenito.
Gli ampi brani superstiti delle Storie permettono comunque un’analisi sufficientemente approfondita delle finalità e del modus operandi dell’autore. L’obiettivo di Polibio, che si presenta come “tecnico” coinvolto in prima persona, in quanto politico, nei meccanismi che narra è quello di coniugare utilità e diletto fornendo una “storia universale” che abbracci sinotticamente gli eventi che, nel periodo in esame, coinvolgono i grandi stati affacciati sul Mediterraneo: i regni ellenistici, Roma, Cartagine. La sua storia, in polemica con vari contemporanei e predecessori (ma in accordo con Tucidide), è eminentemente “pragmatica”, ovvero incentrata sugli avvenimenti politico-militari, e “apodittica”, nel suo tentativo di mostrare le cause e i collegamenti tra gli eventi. Proprio le cause dei fatti storici, nel terzo libro, sono lucidamente sottoposte a una celebre ripartizione tra motivazioni profonde e autentiche (aitiai), motivazioni superficiali ovvero pretesti (prophaseis) e “princìpi” (archai), ovvero le circostanze in cui azioni già decise prendono avvio. L’occhio di Polibio è sempre molto attento agli ordinamenti politici: il sesto libro, in particolare, era dedicato all’analisi della costituzione romana, vista come particolarmente efficace in quanto “mista”.
L’interesse politico è legato anche alla concezione “etica” della storia, vista come utile raccolta di exempla di comportamento, che spiega la presenza abbastanza frequente di digressioni biografiche. Lo stile di Polibio è volutamente sobrio; particolarmente caratteristica la lingua, un raro esempio di koiné che risente del linguaggio cancelleresco delle corti ellenistiche. Già gli antichi la condannavano per la sua distanza dall’attico e anche per i moderni risulta spesso ostica, come dimostra la fortunata (anche se un po’ ingenerosa) asserzione secondo cui Polibio sarebbe bello da leggere in ogni lingua, tranne che nella sua.
Il valore “etico” della storia compare in uno dei più importanti e fortunati (fino a tutta l’età moderna) autori greci di età romana, Plutarco di Cheronea. Cultore della tradizione greca, ma ben inserito anche negli ambienti romani e capace di sollecitare interventi imperiali (per esempio a favore dell’oracolo di Delfi, di cui è sacerdote) per il tramite delle sue influenti conoscenze a corte, Plutarco scrive moltissimo. Un elenco delle sue opere, il cosiddetto Catalogo di Lampria (dal nome di un suo presunto figlio), ricorda ben 227 titoli; poco meno della metà risulta sopravvissuto. La produzione che riguarda più da vicino la storiografia è costituita dalle Vite parallele, dove, in genere, un personaggio greco viene accostato ad uno romano che per qualche motivo gli è ritenuto affine (non mancano però casi sporadici di vite isolate, come quelle di Galba o Vitellio, o dedicate a personaggi non greci, come quella, parimenti isolata, di Artaserse). Tranne che in alcuni casi, l’accostamento è reso esplicito in una “comparazione” (synkrisis) finale.
Plutarco sottolinea come le sue Vite non abbiano pretese di completezza storica (il suo uso degli autori precedenti, sia di quelli canonici sia di quelli più oscuri, è comunque riconosciuto ed estesissimo): esse appartengono espressamente ad un genere specifico, quello, per l’appunto, della biografia. I suoi sono ritratti finalizzati a far risaltare il singolo uomo, la sua personalità e il suo carattere; per questo motivo è frequente, e particolarmente gradevole, il ricorso all’aneddoto, al motto di spirito, ai particolari marginali e sfuggenti (diapheugonta) come mezzo per dare vita a una figura. Le sue biografie, agili e accattivanti, hanno un valore eminentemente educativo: leggendo le vicende dei grandi personaggi di quella che già Plutarco considera antichità (per quanto ovviamente meno remota di quanto possa apparire a noi), il lettore può trarre utili insegnamenti etici, vivendo per giunta, durante la lettura, una sorta di catarsi, una “simbiosi” che gli consente di rivivere in quell’istante i pathemata di cui legge. Anche le vite degli “eroi negativi” (Antonio e Alcibiade in primis) hanno la loro utilità nell’esaltare il valore della virtù attraverso l’esposizione del vizio. Non si deve nemmeno trascurare, peraltro, il valore di “ponte culturale” delle biografie plutarchee, che, collegando grandi personaggi delle due civiltà (dai più antichi, come Teseo e Romolo, ai massimi rappresentanti dell’ambito politico e culturale, come Alessandro e Cesare, Demostene e Cicerone), avallano l’ideologia della “condivisione” del governo dell’impero, alla base del lealismo delle classi dominanti greche. Da rimpiangere, in tal senso, la perdita della prima coppia di Vite (Epaminonda e Scipione), che probabilmente era aperta da un’introduzione programmatica all’intera raccolta.
Il resto della produzione superstite di Plutarco, raccolta già in epoca bizantina, è compresa sotto la tradizionale denominazione (generica quanto spesso poco appropriata) di Moralia, ossia “scritti morali”. Al loro interno si possono individuare vari trattati e trattatelli di ambito filosofico, tra i quali spicca l’Erotico, dedicato al tema dell’amore, che riecheggia il Simposio e il Fedro di Platone. Altri scritti hanno argomento pedagogico, di cui un buon numero riguarda la religione, tema particolarmente caro a Plutarco. All’interno di questi si possono riscontrare crescenti inquietudini: celebre è il trattato Sulla cessazione degli oracoli, nel quale ci si interroga sul perché molti dei più famosi oracoli dell’antichità abbiano smesso di operare, e si fornisce anche la celebre notizia sulla morte del dio Pan, che sarebbe stata annunciata da una voce misteriosa al tempo di Tiberio. Altri trattati mostrano invece la grande influenza esercitata dalla religione egiziana. Una visione molto chiara e pragmatica delle possibilità di fare politica, per un greco, sotto il dominio di Roma è espressa nei Precetti politici; altri trattati, infine, si occupano di critica letteraria e di questioni erudite ed antiquarie (importanti i nove libri delle Questioni conviviali, accostabili ai più tardi Deipnosofisti di Ateneo), talora non disgiunte da un interesse che si potrebbe definire antropologico (d’obbligo il riferimento alle Questioni romane).
La sterminata produzione plutarchea, nel suo complesso, è stata molto importante nello sviluppo della cultura moderna, anche grazie alla fortunata traduzione francese del vescovo Jacques Amyot. Plutarco è l’autore più citato da Montaigne e lo stesso Enrico IV ritiene che l’autore di Cheronea sia la sua coscienza.
Le Vite plutarchee, per quanto particolarmente apprezzate e accessibili, nel loro ruolo di introduzione alla storia romana per i lettori greci sono affiancate anche da altre opere più organiche e distese, che, nonostante una serie di lacune, sopravvivono in buona parte (segno dell’importanza che rivestono per Bisanzio, che aveva i suoi fondamenti politici proprio nella prosecuzione dello stato romano).
Tanto interessante quanto ancora relativamente poco accessibile a un lettore italiano si rivela in primo luogo l’Archeologia romana (secondo il titolo tradizionale, o Storia di Roma arcaica, secondo un’interpretazione più corretta) di Dionigi di Alicarnasso. Molto attivo anche nell’ambito della critica letteraria, Dionigi tratta le vicende di Roma dalle origini fino alla prima guerra punica. La sua storia sopravvive integra per i primi dieci libri sui 20 originali; per il resto esistono estratti e riassunti. Per quanto sia stata bollata, soprattutto in passato, come opera puramente retorica intesa a celebrare l’elogio di Roma e delle sue virtù, l’Archeologia romana presenta in realtà diversi elementi di interesse, a partire dall’utilizzo di fonti, come quelle annalistiche, altrimenti perdute. Per certi versi, Dionigi sembra anticipare la volontà di Plutarco di coniugare Grecia e Roma: la tesi centrale (peraltro con una lunga tradizione alle spalle) della sua opera storica, infatti, sostiene che Roma sia in tutto e per tutto “una città greca”.
Una certa attenzione verso le vicende di Roma si riscontra anche nella Biblioteca storica di Diodoro Siculo, monumentale patchwork di estratti storiografici anteriori (spesso tratti da opere per noi perdute) che tratta le vicende dalle origini del mondo alle campagne di Cesare in Gallia; ne sopravvivono i libri I-V (le antichità dell’Oriente e quelle greche fino alla vigilia della guerra di Troia) e XI-XX (dal 480 al 301 a.C.).
Al I secolo risale la Storia romana di Appiano, compilazione parzialmente superstite contraddistinta da una particolare organizzazione “tematica” basata sulle guerre sia civili che esterne che i Romani si trovarono ad affrontare.
La summa della storiografia greca su Roma è però costituita dalla gigantesca Storia di Roma di Cassio Dione, che si sviluppa nel corso di 80 libri, dalle origini fino ad Alessandro Severo. Oltre a riassunti ed estratti ricavati in epoca bizantina, rimangono i libri XXXVI-LX e consistenti frammenti degli ultimi due. Cassio Dione, di origine bitinica e in qualche modo imparentato con Dione Crisostomo, ricopre importanti incarichi pubblici sotto i Severi (è tra l’altro senatore e per due volte console). Inizia a scrivere la propria opera al tempo di Settimio Severo, ispirandosi alla figura di Sallustio, e scrivendo in un greco che risente di Tucidide e Demostene; la sua opera, come ci si potrebbe aspettare da un personaggio noto per essere integerrimo e inflessibile, si rivela molto seria e accuratamente documentata. D’altro canto, non mancano tratti (soprattutto negli ultimi libri, nei quali l’autore vivacizza notevolmente la narrazione attingendo ai propri ricordi personali) tipici del periodo, come l’attenzione a sogni, prodigi, eventi numinosi. Non è un caso che, come egli stesso racconta nel settantaduesimo libro, l’impulso a scrivere la propria Storia di Roma gli sia venuto tanto da un invito di Settimio Severo, quanto da una visione notturna.
Leggermente più giovane di Cassio Dione è Erodiano, autore de Gli avvenimenti dopo Marco Aurelio, in otto libri, che descrive le vicende romane sino al 238. L’opera, marcatamente moralistica e retorica, si segnala soprattutto per il lungo attacco contro la figura del rozzo imperatore Massimino il Trace, visto come causa primaria del declino finanziario delle poleis dell’impero.
L’ultimo storico greco dell’impero romano può essere considerato Zosimo, vissuto probabilmente agli inizi del VI secolo, la cui Storia nuova, che attinge in maniera più o meno acritica a storici tardoantichi importanti ma andati perduti (in particolare Olimpiodoro di Tebe), si rivela notevole per l’attitudine strenuamente pagana dell’autore, che condanna in ogni modo Costantino e Teodosio per rivalutare nettamente, invece, la figura di Giuliano.