La storiografia in eta classica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La Grecia non inventa la storia, piuttosto la figura dello storico. L’affermazione di una prosa storiografica emerge in Ionia alla fine del VI secolo con i logografi come Ecateo di Mileto, ancora legati alle tradizioni del mito ma in un clima culturale che favorisce le prime revisioni critiche delle tradizioni sul passato. Le guerre persiane forniscono a Erodoto la materia per la prima vera opera storiografica; una seconda guerra, quella del Peloponneso, stimolerà Tucidide a proporre la sua. Entrambi forniscono un modello che sarà ripreso e discusso per millenni. Erodoto, Tucidide e Senofonte, pur nelle loro ben distinte personalità, saranno legati in una catena storiografica che afferma un nuovo genere nello spazio letterario greco.
È convinzione assai diffusa che i Greci abbiano inventato la storia, almeno nel senso in cui questa disciplina è praticata dalla cultura occidentale. Una convinzione che si può accettare a patto di chiarirne il senso. Forme di registrazione degli avvenimenti politici, militari, religiosi erano apparse già nel mondo mesopotamico: cronache, liste reali, annali, che spesso ponevano il presente in relazione al passato – premessa indispensabile alla pratica storiografica. Una produzione tuttavia incentrata intorno alla figura del sovrano e intesa a celebrarne le imprese. Dalle grandi iscrizioni trionfali accadiche che, alla fine del III millennio a.C., magnificavano le gesta dei re Sargon e Naram-Sin fino alla stele di Bisotun dedicata a Dario, la tradizione orientale identificava la possibilità stessa di fissare la storia con la persona del sovrano, che parla e racconta in prima persona: “Re Dario dice che...”. Le cronache babilonesi dal canto loro venivano redatte nei santuari ed erano strettamente controllate dalle potentissime autorità religiose locali. Una storia ufficiale, emanata e controllata dal potere centrale, senza possibilità di versioni alternative. La vera novità introdotta dal mondo greco è rappresentata dalla figura di chi scrive la storia. Lo storico in quanto “soggetto scrivente” è effettivamente invenzione greca. Un soggetto individuale, svincolato dal potere politico, che organizza e realizza la sua opera in modo autonomo e indipendente. Questo non significa necessariamente che sia perciò obiettivo o attendibile, ma piuttosto che la qualità del suo discorso dipenda esclusivamente dalle sue scelte.
L’autore di testi storici, firmando le sue opere, si assume la responsabilità di ciò che contengono. In tal modo, il racconto storico non deriva da un’autorità superiore (il sovrano, la divinità, le Muse) ma è il frutto di un lavoro individuale. È perciò inevitabilmente discutibile. Il primo prezioso insegnamento della storiografia greca è che la storia non vive di verità assolute. Tale principio emerge, affermato con chiarezza, fin dalle prime manifestazioni di scrittura (pre) storiografica: ancora prima dei grandi “maestri” Erodoto e Tucidide, Ecateo di Mileto poteva introdurre la sua opera affermando: “scrivo queste cose come a me sembrano vere”. Naturalmente, ogni storico riteneva che la sua verità fosse quella giusta, ma sapeva anche di non poterla dimostrare in maniera definitiva. Una condizione che si amplificava volgendosi alle epoche passate, invase dalle narrazioni del mito; se non altro, il presente offriva allo storico la possibilità di affermare la propria autorità di testimone.
Ma la nascita di un atteggiamento propriamente storico non si limita alla raccolta di fatti nella loro cornice cronologica: implica uno sforzo interpretativo di quei fatti, capace di coglierne il carattere specifico, il senso e la dinamica, ma anche il rapporto con il passato alla ricerca delle cause.
La definizione della figura dello storico si compie di pari passo con l’individuazione del campo di indagine proprio della storia: sia come “spazio cronologico” nel quale muoversi, sia come elaborazione di strumenti idonei all’indagine. Ogni storico greco elabora e illustra il proprio metodo, in cui afferma il modo d’intendere la propria attività. Spesso possiamo cogliervi una distanza enorme rispetto ad alcune elementari istanze della moderna storiografia (una per tutte: citare sempre esplicitamente le fonti utilizzate). D’altra parte l’idea che attraverso le scelte metodologiche di fondo si debba cogliere il cuore del pensiero storico dell’autore è un dato la cui espressione prima risale al mondo greco.
Alle origini stesse della letteratura greca, nell’Iliade, c’è il racconto di una guerra combattuta nel passato. Il mondo degli eroi, che domina la letteratura epica, è per definizione un mondo tramontato, distante, che rivive nelle tradizioni orali e nelle recitazioni degli aedi. Collocato in un tempo che sfugge a definizioni cronologiche precise, ha come fonte di autorità per essere cantato le Muse e l’ispirazione divina che si istilla negli aedi.
Il passato è fatto di tradizioni mitiche: è racconto, anzi è una selva di racconti. I miti si accumulano, presentano numerose varianti della stessa vicenda, a seconda del contesto geografico, culturale, a volte familiare, nel quale vengono elaborati; a volte si contraddicono oppure si intrecciano, in un continuo processo di giustapposizione. Per gran parte dell’età arcaica quei racconti, che ricostruivano il passato perduto dell’età del Bronzo e della prima età del Ferro, rappresentarono l’unica trasmissione di una memoria collettiva, decisiva nel formare una identità culturale comune. La percezione di una impossibilità ad assegnare un valore di storicità al mito si insinua precocemente nella cultura greca, senza negarne il ruolo fondante di un’intera cultura. La “verità” storica dei racconti mitici fu precocemente incrinata già dalle Muse di Esiodo, abilissime nel dissimulare la distanza tra verità e menzogna.
Tracce di pensiero storico emergono già in età arcaica. Tra VII e VI secolo a.C. cresce lentamente una nuova consapevolezza nel volgere lo sguardo al passato: Mimnermo, nel suo poema dedicato a Smirne (la Smirneide) e nella Nannò, evoca la colonizzazione greca dell’Asia Minore come causa dei conflitti nella Ionia della sua epoca. La storia delle fondazioni (ktiseis) delle città torna in Archiloco e Senofane; momenti cruciali del passato spartano riecheggiano nei versi di Callino e Tirteo come le guerre messeniche, o la rethra. Accanto ai poeti, la tradizione poneva la figura del profeta Epimenide, capace di “vedere” il passato sotto forma profetica e spiegare così le cause di una carestia diffusasi ad Atene con il sacrilegio compiuto dagli Alcmeonidi contro i seguaci di Cilone, nel 636 a.C.
Il passato poteva dunque cogliersi attraverso segni divini, che ne ricollegavano l’interpretazione alla sfera religiosa, oppure nelle tradizioni e nei racconti orali, che i Greci chiamavano logoi. Sono questi ultimi ad essere di gran lunga prevalenti.
Nel VI secolo a.C. compare una serie di autori che si incaricano di raccogliere per scritto, in prosa, tali tradizioni: ad essi è dato convenzionalmente il nome di logografi. L’abbandono della poesia è certo fatto decisivo per il successivo sviluppo di una scrittura specificamente storiografica: non ne va tuttavia sopravvalutata la funzione in questa prima fase. Poeti e logografi concorrono a raccogliere e trasmettere le tradizioni sul passato, in modo distinto ma all’interno della stessa temperie culturale.
È nel mondo microasiatico che si sviluppa in particolare la logografia: nel vivace clima culturale della Ionia nasce un pensiero nuovo, razionale, portato all’osservazione scientifica, al senso critico. È in tale contesto che si colloca la figura di Ecateo di Mileto, vissuto a cavallo tra VI e V secolo a.C. Aristocratico dottissimo, Ecateo fu grande viaggiatore e utilizzò questa sua esperienza nella composizione della Periegesi, una descrizione della terra distinta in due libri: Europa e Asia. L’opera, che era corredata da una carta geografica a certificarne l’utilità pratica, non si limitava a descrivere i territori, seguendo in particolare rotte e itinerari; inseriva anche notazioni sui popoli che abitavano la terra, secondo un carattere che diverrà proprio della letteratura periegetica, dove geografia ed etnografia si compenetrano. Un carattere che ritroveremo, benché con diverso spessore, anche in Erodoto. Ecateo aggiungeva inoltre elementi di storia territoriale: elencava ad esempio i popoli barbari che avrebbero occupato la Grecia prima dell’arrivo degli Elleni.
Non rifuggiva dal legame con il mito: i Greci erano giunti nel Peloponneso con il ritorno degli Eraclidi. Non si coglie in quest’opera uno sforzo di riconsiderazione critica della tradizione mitica, che appare invece centrale in un altro scritto, le Genealogie (o, secondo altre tradizioni, Historiai). Dopo lo spazio, il tempo otteneva anch’esso una sua mappatura, sia pure ancora fragile: le genealogie risalivano il corso delle generazioni attraverso le ricerche sulle tradizioni eroiche.
Prima di Ecateo v’era stata la Teogonia esiodea, opera sulle genealogie divine: il passaggio a quelle eroiche rappresentava un progresso, ma si muoveva nella medesima scia. Lo stesso Ecateo poteva vantarsi di saper risalire a sedici generazioni prima dell’antenato divino della sua famiglia e restò davvero stupito di fronte ai sacerdoti egiziani che sapevano menzionarne 300: la storia egiziana dunque era nata molto prima della greca. Soprattutto, le tradizioni greche erano confuse e richiedevano che vi si mettesse ordine. È questo l’obiettivo di Ecateo: “Scrivo queste cose... perché i logoi degli Elleni mi sembrano molti e risibili”. La proliferazione di racconti mitici li rendeva inattendibili, obbligava a un lavoro critico di revisione. Ecateo, senza mai arrivare a disconoscere del tutto il mito, cerca di renderlo accettabile, di arginarne la molteplicità incontrollabile, di smussarne gli eccessi palesemente inverosimili. Una “riduzione al verosimile”, come la definiva von Fritz. L’esempio più chiaro è dato dalla sua interpretazione della fatica di Ercole che recupera dall’Ade Cerbero, il mostruoso cane a tre teste. Ecateo pensa che in realtà si trattasse di un serpente che viveva al capo Tenaro, chiamato “cane dell’Ade” perché estremamente velenoso. Una razionalizzazione neanche troppo radicale, che punta ad una risistemazione semplificata e meno contraddittoria del molteplice.
L’incipit delle Genealogie utilizza il verbo grapho, “scrivo”. La redazione scritta e in prosa è necessaria a un’opera come questa, che in un certo senso disarticola l’elemento più vitale del mito, la sua forza di affabulazione narrativa, per ridurlo a nuova credibilità. Ma agisce su tradizioni che hanno circolazione orale, logoi che traggono la loro forza anche dall’essere ascoltati. Un’operazione nuova che, se non saprà scalfire le suggestioni che il mito ha continuato ad esercitare sulla cultura greca, aprirà la strada ad un accantonamento della questione relativa alla sua “storicità”. Se una cosa Ecateo ha dimostrato, paradossalmente, è che del mito non si può fare una storia.
Grande viaggiatore è anche Erodoto, nato intorno al 485 a.C. ad Alicarnasso, colonia greca della Caria, soggetta all’impero achemenide fin quando, dopo le guerre persiane, entra nella Lega delio-attica. Un luogo di confine della grecità, a stretto contatto con il mondo orientale. Erodoto deve presto abbandonare, per ragioni politiche, la sua patria: partecipa alla fondazione della colonia panellenica di Thurii nel 444-443 a.C.; è presente ad Atene, in contatto con i circoli intellettuali vicini a Pericle. I suoi viaggi lo portano a visitare il mondo ellenico, l’Oriente (Egitto, Mesopotamia, Scizia), l’Occidente greco. Ignoriamo data e circostanze della morte, avvenuta certamente dopo lo scoppio della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), forse intorno al 420 a.C.
L’opera di Erodoto ci resta per intero: le Storie, divise dagli alessandrini in nove libri, ognuno intitolato a una Musa. L’oggetto della narrazione è il conflitto greco-persiano, come l’autore indica nel proemio: “Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso, perché gli eventi umani non svaniscano con il tempo e le imprese grandi e meravigliose compiute sia dai Greci che dai barbari non restino senza fama; in particolare, per quale causa essi si fecero guerra”.
La guerra è dunque il punto d’arrivo della narrazione. In effetti, nella struttura dell’opera gli eventi bellici sono raccontati dal VI libro in avanti; prima, Erodoto si dedica alla descrizione dei territori progressivamente caduti sotto il controllo dei Persiani, secondo una successione che è topografica e cronologica insieme: Lidia e Persia nel libro I, accomunate dalla figura di Ciro il Grande, fondatore della dinastia achemenide, che nel 546 a.C. annette il regno di Creso; l’Egitto, conquistato dal successore di Ciro, Cambise, nel 525 a.C. (libri II-III, 38); poi, dopo un excursus dedicato a Samo (III, 39-60), di nuovo la Persia, riorganizzata da Dario I (fine libro III); Scizia e Libia, oggetto dell’espansione di Dario (libro IV). Il libro V descrive la rivolta ionica, premessa storica immediata allo scoppio del conflitto.
Un lungo dibattito ha impegnato gli studiosi moderni circa la struttura dell’opera: si tratta della raccolta di logoi composti separatamente e solo in seguito riassemblati (Jacoby), in un percorso che conduce progressivamente Erodoto dalla geografia alla storia (von Fritz)? È la tesi degli analisti, oggi complessivamente superata a favore di una considerazione unitaria come di un progetto complessivamente coerente. Semmai, la struttura risente delle modalità di esposizione che la caratterizza, destinata com’è alla recitazione pubblica. Erodoto ebbe grande fortuna con le sue performance, per le quali era molto richiesto e generosamente pagato. Tale destinazione si coglie nell’articolazione interna, con la distinzione dei logoi e con i continui inserti di excursus e digressioni che possono rappresentare altrettanti soggetti autonomi da presentare al pubblico; ma anche nello stile, limpido, paratattico, capace di esaltare le qualità narrative dell’autore e adattissimo alla recitazione. In questo Erodoto si allinea a una pratica che era propria della poesia e il debito verso l’epica si ritrova in molti aspetti della sua opera: nel celebrare la grandezza di imprese (erga) che sono anzitutto – ma non solo – militari e nel proposito di trasmettere il ricordo di tale grandezza. A differenza dell’epica, tuttavia, Erodoto per primo separa il mondo degli dei da quello degli uomini: la divinità fa parte dell’orizzonte spirituale dello storico ma non agisce direttamente nei fatti che narra. Il mito è fuori dal racconto: così, Erodoto crea uno spazio storico entro il quale muoversi, con un limite cronologico che non risale oltre la metà del VI secolo a.C., al momento della fondazione dell’impero achemenide con Ciro il Grande. Le occasionali incursioni nel passato più remoto (come nella narrazione dell’episodio di Candaule e Gige; o nel richiamo alle tradizioni sugli scontri tra la Grecia e il mondo orientale) non incrinano questo assetto cronologico complessivo.
Come afferma nel proemio, al centro dell’interesse sono gli eventi umani. Greci e barbari sono menzionati insieme, perché la grandezza si trova in entrambi. In un’opera che celebra la magnifica vittoria greca sui Persiani, questo può apparire sorprendente; e apparve certamente irritante per molti Greci, che accusarono Erodoto di essere philobarbaros. Ma è un dato caratteristico dell’apertura culturale erodotea, capace di avvicinarsi a culture “altre” con un rispetto e una libertà di giudizio che rappresentano un lascito duraturo. Mazzarino parlava di “relativismo etnografico” condensato nella considerazione che “ogni popolo ritiene i suoi costumi i migliori”. Dei popoli e delle culture che descrive Erodoto ha conoscenza diretta, grazie ai suoi viaggi: la sua è una “esposizione delle ricerche” compiute, in certo senso, “sul campo”. In un celebre passo del II libro egli espone i suoi strumenti di indagine. Anzitutto la vista (opsis), cioè quanto ha potuto verificare direttamente; in secondo luogo l’ascolto (akoè), la raccolta di tradizioni locali relative a fatti storici ma anche ad abitudini, usanze, credenze. Sono queste ultime le fonti di gran lunga preponderanti, pazientemente raccolte nel corso dei viaggi e riportate in quantità nell’opera. Su di esse Erodoto non esercita filtri: ripropone le tradizioni perché il suo dovere è “riferire quanto si dice” (legein ta legomena), anche se non tutte gli appaiono convincenti o verosimili. Erodoto registra più che giudicare criticamente, in una dimensione, per usare categorie moderne, quasi più da antropologo che da storico. Gli ambienti da cui attinge le informazioni sono comunque selezionati: ambienti aristocratici, autorevoli, colti, dove trovare uomini logioi, sapienti. Piuttosto raramente si serve di testi scritti, iscrizioni (sia greche che straniere), opere letterarie, per lo più poetiche, da Omero fino ai tragici; quasi inesistenti i riferimenti ai logografi precedenti, se si escludono alcune menzioni di Ecateo, lodato per la sua cultura e saggezza ma criticato per la sua opera. La storiografia greca privilegia complessivamente le fonti orali rispetto a quelle scritte, per le quali non dimostra grande fiducia, utilizzando il lavoro dei predecessori soprattutto in chiave critica.
Nelle Storie torna spesso, anticipato nel proemio, una nozione decisiva: il meraviglioso (thomastà). Non è contrapposizione con il reale, ma ricerca di quanto esula dalle nozioni comuni. Nella descrizione di popoli lontani, di culture diverse dalla greca Erodoto sa di avere una chiave potente per catturare il suo pubblico: lo stupore. È questo che indica il termine: ciò che suscita meraviglia, perché inatteso, inconsueto, diverso. “Altro”. Stupefacente eppure reale; stupefacente perché reale. Lo storico di Alicarnasso sa coniugare la narrazione dei fatti politici e militari di una guerra così vicina con l’esposizione di realtà così lontane, l’affidabilità delle informazioni con il piacere del racconto.
Erodoto è un grande innovatore: la sua storia definisce un modello di storiografia erudita, curiosa, ghiotta di realtà sorprendenti e lontane ma attendibile nei fatti. C’è anche una profonda convinzione etica alla base del suo lavoro: all’inevitabile incertezza dei destini umani, fragili e caduchi, si affianca il riconoscimento delle strutture solide, quelle che si mantengono a lungo nel tempo, nell’organizzazione delle società, nelle forme mentali, nelle convinzioni religiose. Una prospettiva capace di superare le barriere delle identità specifiche per gettare il proprio sguardo sull’umanità nel suo complesso.
Con Tucidide il campo di indagine dello storico si restringe drasticamente: la sua è una storia monografica, selettiva, incentrata sulle vicende politico-militari.
Se pure si deve riconoscere un debito importante di Tucidide verso l’opera di Erodoto, la natura intima delle sue Storie si contrappone a quella del grande predecessore. Si tratta in effetti di due modelli antitetici di storiografia: l’erudizione della narrazione erodotea, l’ampiezza dei suoi interessi, la felicità espressiva, il gusto del meraviglioso lasciano spazio in Tucidide alla precisione della ricostruzione, all’accuratezza dell’indagine, alla critica rigorosa delle fonti. La storia come narrazione aperta a tradizioni di varia natura e derivazione, dal carattere enciclopedico, contrapposta alla storia come magistra vitae, severa maestra di lezioni politico-militari, che limita strettamente il proprio oggetto. Per gli antichi, se Erodoto rappresentava il “padre della storia”, Tucidide ne era il nomothetes, il codificatore delle regole fondamentali.
Nato ad Atene intorno al 460 a.C., Tucidide proviene da una famiglia aristocratica; cresciuto nell’epoca di Pericle, ha un atteggiamento, piuttosto diffuso tra i nobili, di critica degli aspetti radicali del sistema democratico, che non ama, ma al quale si mantiene complessivamente leale. Quando scoppia la guerra del Peloponneso Tucidide vi partecipa in prima persona, fin quando, stratego nel 424 a.C., si imbatte in una sfortunata azione militare, non riuscendo a impedire a Brasida la conquista di Anfipoli. Ne seguono la condanna all’esilio e la fine della vita politica attiva, condizione ideale per dedicarsi al racconto di questo evento pienamente contemporaneo, di cui lo storico è stato testimone e, parzialmente, protagonista. Una scelta caratteristica, che definisce il metodo di Tucidide: muoversi all’interno di vicende coeve che possano essere verificate e controllate nel modo più minuzioso e analitico.
Già Erodoto aveva in parte seguito quella direzione, privilegiando un evento del passato recente. Si impone così il principio dell’autopsia come criterio di attendibilità storica che assegna maggiore autorevolezza alla narrazione di ciò che lo storico ha visto con i propri occhi. Il termine stesso dal quale deriva il nostro storia, il greco historie, ha a che fare con la vista: indicava in origine la “ricerca” che lo storico conduce in prima persona, andando a vedere quel che c’è da raccontare, oppure interrogando chi ne sa più di lui, chi “ha visto”.
Tucidide parte dalla sua esperienza, integrandola con informazioni che verifica e sottopone a puntuale critica. Come dichiara nel suo incipit: “Tucidide di Atene ha scritto la guerra tra Peloponnesiaci e Ateniesi, narrando come combatterono tra loro. Iniziò subito, non appena la guerra scoppiò, e previde che sarebbe stata grande e degnissima di essere narrata a fronte delle precedenti: lo congetturava dal fatto che entrambi i contendenti muovessero al conflitto all’apice del loro potere”.
Tutte le azioni connesse con l’attività storiografica sono espresse in prima persona: Tucidide prevede, congettura, considera. La molteplicità di voci che era dato cogliere nel testo erodoteo è sparita. Ne resta una sola, quella dell’autore, che non si limita a raccogliere materiale utile, ma impone con maggior decisione le sue scelte. Tucidide indaga gli avvenimenti per cogliere dietro i fatti i “sintomi” che rivelino la natura degli accadimenti (esemplare, in tal senso, l’uso di un lessico assai vicino a quello ippocratico nella grandiosa descrizione della peste di Atene, nel II libro). Inoltre, la guerra che descrive non è solo quella della sua epoca. È anche “la più degna di essere narrata”: si inaugura l’affermazione di un criterio di selezione degli avvenimenti che vale la pena narrare, che diventerà presto un topos della letteratura storiografica. Tucidide non si limita ad affermarlo: lo dimostra. Dapprima stabilendo i parametri della grandezza storica di una guerra: il potere dei contendenti (la dynamis) e lo sconvolgimento provocato (la kinesis). Poi, su questa base, ripercorrendo in vertiginosa sintesi la storia più antica del mondo greco nei primi capitoli del primo libro, l’archaiologia (storia antica), per stabilire l’eccezionalità delle condizioni che portano alla guerra del Peloponneso. Una deroga al principio di attenersi a fatti contemporanei, di cui Tucidide è consapevole, tanto da chiudere l’excursus con densi capitoli sul metodo utilizzato. Il passato si ricostruisce in base alle tracce (i tekmeria) di varia natura che lascia nel presente: archeologiche, letterarie, epigrafiche, antropologiche perfino. Sono indizi nascosti, che spetta allo storico rintracciare e interpretare correttamente. Il passato è terreno di una faticosa indagine indiziaria, dove lo storico agisce come un moderno detective.
La narrazione della guerra vera e propria inizia con il libro II e prosegue, scandito secondo una divisione annalistica, fino al libro VIII, l’ultimo, che si interrompe bruscamente nel 411 a.C., dopo aver riferito dell’oligarchia dei Quattrocento.
La lotta tra Atene e Sparta è tutta dominata dall’idea che siano i rapporti di forza a determinare l’esito degli eventi. L’espressione più piena di questa convinzione si ha nel libro V, nel dialogo tra Ateniesi e Melii. Gli Ateniesi sono più forti, quindi, secondo una logica inevitabile, impongono il proprio volere, seppure ingiustamente. Anche il comportamento dei singoli è letto da Tucidide alla ricerca delle motivazioni che ne spingono l’agire: paura, ambizione, avidità si rivelano le più diffuse. L’idea della storia che ne emerge è quella di una macchina infernale, in una visione pessimistica, quasi tragica, del suo fluire.
L’opera non è conclusa, perché da diversi riferimenti interni è chiaro che Tucidide conosceva l’esito finale del conflitto e non riuscì a terminare la narrazione. Inoltre, all’interno del testo conservato si avverte una certa diseguaglianza tra parti che paiono pienamente completate e altre meno rifinite. Ne è nata una “questione tucididea” sulla composizione dell’opera, che ha messo in luce la presenza di diverse fasi compositive. Questo nulla toglie alla coerenza di fondo delle Storie: l’impianto complessivo, i principi che la muovono mostrano che si trattava di un progetto unitario. È molto probabile che Tucidide sia morto – forse di morte violenta, come la tradizione biografica asseriva – prima di poter completare la sua opera.
In una celebre formulazione l’autore definisce la propria opera un “possesso perenne” (ktema es aiei). È la rivendicazione di un modo nuovo di fare storia. Non più destinato ad allietare un uditorio, come i poeti o i logografi, ma indirizzato all’utile, per svelare le dinamiche dell’agire umano, che, anche in circostanze diverse, si rivelano costanti. Tucidide sa di non poter muovere la curiosità del vasto e generico uditorio delle recite pubbliche – come sapeva fare così bene Erodoto; è in una lettura più attenta e prolungata che il suo testo rivela tutto il suo potenziale. Coerentemente adotta uno stile assai lontano dai modi dei suoi predecessori: ipotattico, denso, complesso, pieno di rimandi interni, più adatto a essere letto che ascoltato. L’autore sa che non è nel contesto delle performance che troverà il suo successo: ma rivendica con determinazione la sua scelta, per quanto inattuale. L’allontanamento di Tucidide dalla sua città – se vero – e quello dalle pratiche comunicative diffuse nel mondo classico, attestata dallo stesso autore, paiono descrivere una figura di intellettuale separato dalla collettività. Non così l’opera che ci ha lasciato, testimonianza di uno sforzo davvero monumentale di comprendere le ragioni profonde degli avvenimenti del suo tempo.
L’incompiuta opera tucididea trova un suo continuatore in Senofonte, ateniese appartenente al ceto dei cavalieri e dotato di una raffinata cultura, allievo di Socrate. Nato intorno al 430 a.C., dopo la fine della guerra del Peloponneso si compromette con la fazione più estremista degli oligarchici vicini ai Trenta Tiranni (404-403 a.C.) e si allontana da Atene. Segue Ciro il Giovane nella rivendicazione al trono di Persia contro il fratello Artaserse; ucciso il pretendente nella battaglia di Cunassa, guida l’esercito mercenario greco attraverso l’Anatolia verso la patria (401-399 a.C.). Il suo punto di riferimento politico è Sparta e in particolare il re Agesilao, a fianco del quale combatte, pare, a Cheronea nel 394 a.C. contro la sua vecchia polis. Condannato all’esilio dalla sua città, si ritira per vent’anni a Scillunte, in Trifilia. I rapporti con Atene migliorano a partire dagli anni Settanta, portando alla revoca dell’esilio – ma probabilmente Senofonte non torna mai di fatto in patria. Muore a Corinto intorno alla metà del secolo.
Scrive opere di diversa natura: dalle memorie socratiche (i Memorabili, un’Apologia di Socrate e due dialoghi, il Simposio e l’Economico), ai testi encomiastici (Agesilao, Ierone, Ciropedia) alle dissertazioni militari (Ipparchico). Una produzione davvero estesa e differenziata, testimonianza di una pluralità di interessi supportata da uno stile sempre chiaro, asciutto, ma al tempo stesso vivace. A differenza di Erodoto e Tucidide, Senofonte non è autore di un’unica opera; è perciò carattere complesso da cogliere nel suo insieme. La sua produzione a carattere storiografico è particolarmente legata alle vicende biografiche.
Nell’Anabasi Senofonte racconta l’esito infelice della spedizione contro Artaserse cui parteciparono contingenti di mercenari greci. La sconfitta a Cunassa del 401 a.C. infatti dà inizio al vero cuore della narrazione: la marcia attraverso l’Anatolia fino alle coste del Mar Nero e al rientro in Grecia di un’armata sbandata, senza risorse, assediata dal freddo e dalla fame, priva di capi, in un territorio ostile. È una sorta di diario personale, nel quale Momigliano salutava la nascita della memorialistica di carattere apologetico e militare (per un ovvio confronto si pensi ai Commentarii di Cesare). Senofonte illustra le sue capacità di comando, l’attenzione psicologica verso i soldati, la gestione dei complessi rapporti diplomatici e si pone al centro della scena, parlando di sé in terza persona (e riferendosi a quest’opera, nelle Elleniche, con lo pseudonimo di Temistogene); eppure sa creare intorno a sé un’avvincente epopea collettiva – tutti ricordano la celebre pagina in cui i Greci vedendo il mare esultano al grido di “Thalatta thalatta”. Ma forse la nota più suggestiva dell’opera risiede nell’incontro con popolazioni sconosciute, esotiche, che popolano l’interno dell’Asia Minore, lontane dai luoghi delle frequentazioni greche. Senofonte le accosta con sguardo curioso, a volte addirittura divertito, descrivendone usi e tradizioni e insieme testimoniando la difficoltà nell’interazione reciproca tra mondi tanto distanti.
Opera storicamente più ambiziosa sono le Elleniche, che narrano in sette libri la storia del mondo greco tra il 411 e il 362 a.C. La data d’inizio scelta per la narrazione parla già della volontà di ricollegarsi direttamente a Tucidide; una scelta resa evidente dall’incipit dell’opera: “Dopo questi fatti”; inizio altrimenti inconcepibile, specie se confrontato con la pregnanza dei proemi di Erodoto e Tucidide. I primi due libri in effetti concludono il racconto della guerra del Peloponneso, fino alla sconfitta finale di Atene nel 404 a.C. e all’ingresso di Lisandro in città “al suono dei flauti”. Non solo il tema ma anche la composizione di questi primi libri è di ispirazione tucididea (monografia politico militare, scansione annalistica, presenza di discorsi diretti), tanto che si è ipotizzato che Senofonte abbia potuto utilizzare materiale raccolto dal predecessore. Nei libri successivi le Elleniche ripercorrono l’egemonia spartana e la successiva egemonia tebana (371-362 a.C.), conclusasi a Mantinea nel 362 a.C. Senofonte lascia trapelare le sue simpatie per Sparta e il suo re Agesilao, il fastidio per la democrazia ateniese nel drammatico racconto del processo ai generali delle Arginuse (406 a.C.), l’ostilità per Tebe e il suo leader Epaminonda. Pare mancare lo spessore critico e la profondità di analisi di Tucidide, come gli è stato spesso rimproverato dai moderni.
La nozione di egemonia è centrale; l’analisi in successione di quella ateniese, spartana e tebana rappresenta un tema unitario – benché molti invece vedano una profonda divisione tra i primi due libri “tucididei” e i successivi di minor spessore storiografico. Se Senofonte si attiene nel complesso alle “leggi” di Tucidide sulla storia, è pronto tuttavia a tradirle: rispetto al criterio “assiologico”, ad esempio, si sofferma in una lunga digressione sulla piccola città di Fliunte e introduce eventi la cui rilevanza non pare sempre ovvia; oppure sparge aneddoti e indugia su descrizioni inedite (l’incontro tra Agesilao e Farnabazo su tutti, IV I, 1-15). Anche l’epilogo pare caratteristico di Senofonte: l’ultima battaglia, quella di Mantinea, non vede vincitori, lascia anzi confusione e disordine nel mondo greco. La sua è una storia che non si chiude. Denunciando l’aspirazione ad entrare nella catena storiografica che lo aveva saldato a Erodoto e Tucidide, lo storico chiosa: “forse altri si occuperanno degli avvenimenti successivi”.