La storiografia tra passato e futuro
Per tutto l’Ottocento, e ancora nella prima metà del Novecento, la storiografia è stata in prevalenza storiografia nazionale, nel senso che gli storici non soltanto hanno dedicato un’attenzione preminente alle vicende del proprio Paese, ma si sono proposti soprattutto di delineare il processo che ha condotto alla formazione dello Stato nazionale al quale appartenevano. Essa è servita a conservare la «memoria» del passato nazionale, e spesso anche a «inventarla» (nel senso di Eric J. Hobsbawm), facendo della costruzione dello Stato l’approdo più o meno necessario del corso degli eventi. Ciò è avvenuto in forme diverse, correlate al modello di nazione che la storiografia si proponeva di legittimare. Da un lato, c’era infatti il modello francese, il modello della nazione in armi in difesa della Rivoluzione e della sua eredità, il quale veniva non di rado presentato come la prosecuzione del centralismo amministrativo e della politica antifeudale della monarchia borbonica. Dall’altro c’era invece il modello tedesco – che sarà più tardi codificato da Friedrich Meinecke – di una «nazione culturale» che doveva pervenire all’unità politica e costituire la base dello Stato nazionale: un modello largamente condiviso da molti storici italiani, da Cesare Balbo a Benedetto Croce. A questi modelli si collegava la tendenza a sottolineare, per un verso, la continuità dello sviluppo storico della nazione, anche in tempi remoti, per l’altro, la singolarità del percorso che aveva condotto alla formazione dello Stato nazionale: tipica, sotto questo rispetto, fu la prospettiva tedesca di un Sonderweg differente rispetto al processo di formazione degli Stati dell’Europa occidentale. Meno marcata fu l’impronta nazionale nella storiografia britannica (che pure aveva prodotto, a metà del 18° sec., opere come la History of England di David Hume), alla cui attenzione si imponevano piuttosto fenomeni nuovi come la Rivoluzione industriale e la creazione di un impero coloniale oltremare.
In questa maniera gli storici ottocenteschi lasciarono cadere, o posero in secondo piano, il progetto di «storia universale» coltivato dalla storiografia illuministica, a partire da Voltaire fino agli esponenti della scuola di Göttingen come Johann Christoph Gatterer e August Ludwig von Schlözer. Anche chi, come Leopold von Ranke – il maggiore esponente della ricerca storica tedesca nel 19° sec. – si propose di scrivere una Weltgeschichte, la concepì soprattutto come storia di una pluralità di nazioni, per di più circoscritta alle nazioni romano-germaniche. Dall’orientamento prevalente verso il passato nazionale discendeva anche il carattere eurocentrico di questa storiografia: il che ben si comprende, se teniamo presente che lo Stato nazionale, fondato sulla (vera o presunta) omogeneità etnica della popolazione e sulla sua coincidenza con il territorio abitato da quest’ultima, era una creazione specificamente europea. Da tale orientamento discendeva, in primo luogo, la fiducia nella superiorità delle nazioni europee nei confronti delle società extraeuropee, intesa anche a giustificare il dominio coloniale. Se negli anni della Rivoluzione il marchese di Condorcet aveva preconizzato il diffondersi dei «lumi» non soltanto tra le classi inferiori, ma anche in tutte le regioni della terra, la storiografia ottocentesca considerò le società extraeuropee come società irrimediabilmente arretrate, spesso formate da razze inferiori, destinate a non pervenire mai a un livello di civiltà. Su un altro versante, la storiografia ottocentesca cercò di far valere il «primato» di una singola nazione rispetto alle altre, in uno sforzo condiviso anche da filosofi come Johann Gottlieb Fichte o Vincenzo Gioberti, o da letterati come Novalis e Friedrich Hölderlin. Ci fu invero anche chi, come François Guizot nell’Histoire de la civilisation en Europe (1828), vedeva nella civiltà europea il prodotto di varie componenti – la società municipale romana, la società cristiana fondata sulla Chiesa, la società barbarica – a cui avevano collaborato popoli diversi; ma anch’egli finiva per privilegiare il contributo francese, attribuendogli un carattere di universalità assente altrove.
E tuttavia già verso la metà del secolo cominciò a delinearsi un orientamento storiografico concorrente, che rivolgeva lo sguardo non già al passato nazionale, ma alla peculiare struttura di classe della società europea. Del resto, la nascita degli Stati Uniti d’America – luogo di approdo di emigranti provenienti da Paesi diversi, e dalla diversa confessione religiosa – non era certamente riconducibile a una prospettiva nazionale. Il quadro che Alexis de Tocqueville ne tracciò nella sua grande opera De la démocratie en Amérique (1835-40) aveva infatti posto in luce quanto differenti fossero le istituzioni politiche d’oltre Atlantico, e come esse dovessero venire spiegate in base a una vicenda storica differente da quella europea. Fu però Marx a offrire non soltanto una visione generale della moderna storia europea come trapasso dalla società feudale a una nuova formazione economico-sociale, ma anche – in scritti in cui l’intento storiografico prevaleva su quello teorico – un’analisi delle diverse classi della società francese di metà Ottocento. Questa visione si affermerà particolarmente nello studio dei rivolgimenti politico-sociali, come le rivolte sociali dell’antichità e delle città medioevali, i movimenti contadini dell’Età moderna, o ancora, e soprattutto, le rivoluzioni sei-settecentesche. Il baricentro della considerazione storiografica si spostava così dalle vicende politiche (e culturali) ai rapporti e alle lotte tra i diversi strati sociali. Anche al di fuori della storiografia marxista la considerazione dello sviluppo economico divenne parte integrante del lavoro degli storici, dando luogo a un profondo rinnovamento dell’immagine del mondo antico e dei rapporti tra economia e forme giuridiche, come nel caso di Theodor Mommsen e di altri studiosi della sua generazione.
In realtà, l’interesse per la struttura di classe non era nuovo; era presente già nelle indagini sulla situazione degli operai inglesi – che Marx ben conosceva – e soprattutto nella nascente sociologia positivistica. Già negli anni Venti del 19° sec. Auguste Comte aveva delineato, sulla scia di Claude-Henri Saint-Simon, uno schema di sviluppo storico incentrato sull’emergere di due classi, quella degli industriali e degli scienziati positivi, destinate a soppiantare le classi detentrici del potere nell’antico sistema (feudalità e clero) e poi quella classe (giuristi e metafisici) che nel periodo «intermedio» ne aveva minato i fondamenti ideologici. Questo schema era però estraneo al lavoro degli storici, né trovò mai una legittimazione storiografica. Esso nasceva in seno a una disciplina nuova, la sociologia, ed era rivolto non tanto al passato quanto al presente: aveva anzi una valenza utopica, piuttosto che interpretativa. Alla competizione tra i due paradigmi storiografici, quello «nazionale» e quello che faceva riferimento alla struttura di classe, si congiungeva (e si sovrapponeva) il conflitto nascente tra la considerazione storica e un altro tipo di considerazione, lato sensu sociologica. Per la prima volta veniva meno il monopolio della storiografia come via di accesso alla conoscenza del passato. In questa prospettiva le differenze nazionali passavano in secondo piano ed emergevano i limiti di quello che fu chiamato il «paradigma rankiano», fondato sul presupposto del carattere individuale di ogni fenomeno storico: un paradigma sorto con la scuola storica tedesca, che si era spinta a postulare l’esistenza di uno «spirito del popolo» come soggetto permanente dello sviluppo delle singole storie nazionali. Processi come l’industrializzazione e il colonialismo, comuni – pur nella diversità del loro grado e delle loro forme – ai maggiori Paesi dell’Europa centroccidentale, si sottraevano inevitabilmente a questo paradigma.
Ma non era soltanto la sociologia (e, insieme a questa, anche lo sviluppo della scienza economica dopo la versione tipicamente tedesca della Nationalökonomie) a mettere in crisi l’impostazione nazionale prevalente nella storiografia ottocentesca. A essa si sottraeva pure lo studio delle popolazioni indigene con cui l’espansione europea era venuta in contatto. Una nuova disciplina, che aveva anch’essa le proprie radici – al pari della sociologia – nella cultura illuministica, cioè l’antropologia, metteva in luce l’esistenza di una «cultura primitiva» (come asseriva il titolo di un celebre libro di Edward Burnett Tylor, Primitive culture, apparso nel 1871), di una cultura anteriore alla nascita della scrittura che poteva essere ricostruita in base alle sue «sopravvivenze»; e poneva altresì in luce come i costumi e le istituzioni dei popoli selvaggi o barbari fossero, nelle loro caratteristiche fondamentali, i medesimi dei popoli antichi, greci o italici, in quanto appartenenti a uno stesso stadio di sviluppo dell’umanità. Essi si sottraevano agli strumenti della ricerca storica tradizionale, che aveva bisogno di documenti scritti e, a fortiori, a qualsiasi interpretazione in chiave nazionale.
La storiografia era così costretta a fare i conti con le scienze sociali in rapida ascesa. A lungo gli storici cercarono di rispondere alla loro sfida mettendo in opera una strategia di collaborazione e insieme di inglobamento: al pari delle vecchie «scienze ausiliarie» della storia, anche le nuove discipline dovevano essere messe al servizio della ricerca storica. Mentre la storiografia tedesca rimaneva legata al «paradigma rankiano» (e cercò anzi di giustificarlo filosoficamente con lo storicismo), fu soprattutto quella francese ad adottare tale strategia, attribuendo allo storico il compito di realizzare una «sintesi» che abbracciasse anche metodi e risultati delle scienze sociali. Fu questo il cammino imboccato all’inizio del Novecento da Henri Berr, e ripreso negli anni Cinquanta da Fernand Braudel: lo studio dei fenomeni di carattere «congiunturale», ma ancor più della «lunga durata», richiede l’apporto indispensabile di discipline come la geografia umana, l’economia, la demografia, l’etnologia e, non ultima, la linguistica, ma i loro contributi devono confluire in una «storia totale», che è il luogo della loro necessaria integrazione. Nuovi oggetti di indagine s’imponevano intanto allo storico: non più soltanto la nazione come unità geopolitica, ma anche la regione come unità economica e culturale, oppure – a un livello superiore – il Mediterraneo di Braudel, comprendente una pluralità di città e di formazioni statali, prima e dopo che le correnti del traffico si spostassero verso le coste atlantiche.
Nel frattempo si faceva però sempre più evidente l’esigenza di una comparazione storica, di quella comparazione che il «paradigma rankiano» aveva messo ai margini, se non addirittura escluso. Questa esigenza non emergeva soltanto nei tentativi di «storia universale» fondati – in opposizione alla tradizione sette-ottocentesca – su una visione pluralistica delle civiltà, come Der Untergang des Abendlandes di Oswald Spengler (pubblicato tra il 1918 e il 1922) o anche A study of history (1934-54) di Arnold J. Toynbee, di cui gli storici di professione subirono il fascino (basti pensare a Eduard Meyer), ma di cui per la maggior parte denunciarono l’arbitrarietà e le insufficienze. Nasceva anche, nei primi due decenni del Novecento, dall’incontro tra ricerca storica e sociologia realizzato dalla sociologia della religione di Max Weber, che si proponeva di studiare l’etica economica delle religioni universali e di far emergere la peculiarità del «razionalismo» occidentale. Ma la stessa esigenza veniva fatta valere dalla nuova scuola delle «Annales», che già nel 1928 avanzava – con Marc Bloch – la proposta di una storia comparata delle società europee: delle società, si badi bene, dove il termine perdeva qualsiasi connotazione nazionale, aprendo la strada allo studio delle diverse strutture economico-sociali presenti all’interno di una medesima formazione statale. Più tardi, mentre gli eredi di Bloch e di Lucien Febvre s’impegnavano in una rivendicazione di egemonia, la prima generazione postbellica di storici tedeschi (Wolfgang Mommsen, Hans-Ulrich Wehler, Jürgen Kocka ecc.) perveniva a concepire la storiografia come scienza sociale storica, riconducendola – pur nella sua specificità – all’ambito delle scienze sociali.
La comparazione storica era stata concepita da Weber come comparazione ad ampio raggio, tra le diverse religioni universali e le diverse direzioni del processo di razionalizzazione, considerate in rapporto con la struttura delle società di cui erano espressione; la storia comparata di Bloch si sviluppava in riferimento soprattutto a un’epoca nella quale le nazioni moderne ancora non esistevano, cioè alla società feudale e alle sue varianti regionali, affrontando altresì, ma solo marginalmente, il problema dell’analogia con il feudalesimo giapponese. Nella seconda metà del secolo un nuovo indirizzo di ricerca (o, se vogliamo, una nuova disciplina, la sociologia storica, rappresentata da autori come Reinhard Bendix, Barrington Moore jr. o Theda Skopcol) collegava la comparazione a livello transnazionale con il problema della modernizzazione politica. Il suo intento era quello di indagare attraverso quale cammino, in Europa e fuori d’Europa, si fosse compiuto il passaggio alla modernità, cioè a un’economia su base industriale, quali fossero state le sue condizioni sociali e quale esito avesse avuto: un esito democratico nei Paesi dell’Europa occidentale e, all’opposto, un esito autoritario in Germania e in Giappone, ma anche nella Russia zarista e in quella sovietica.
Venivano meno, in tal modo, non soltanto il legame della storiografia con la tradizione nazionale, e la sua funzione legittimante nei confronti dello Stato nazionale, ma anche il suo orientamento idiografico, cioè l’accento posto sul carattere individuale (e irripetibile) di ogni fenomeno storico. La stessa prospettiva weberiana, che aveva tanto insistito sulla specificità, anzi sull’esclusività del processo di razionalizzazione proprio dell’Occidente rispetto sia al mondo antico sia alle società extra-europee, era messa in questione. Se la ricerca storica voleva contribuire alla comprensione del presente, essa doveva battere vie nuove, e anche dotarsi di nuovi strumenti. Né poteva servire a questo scopo la contrapposizione tra due tipi fondamentali di società, quella capitalistica e quella collettivistica, nei quali Raymond Aron aveva additato fin dall’immediato dopoguerra due varianti della società industriale; meno ancora poteva servire una storiografia ideologizzata, quale si sviluppò nella stagione della Guerra fredda. Negli ultimi decenni del Novecento si faceva strada la consapevolezza che il mondo stava cambiando, e in direzioni impreviste fino a poco tempo prima: la ricerca storica doveva cercarne il perché, risalendo a un passato spesso lontano e abbandonando una prospettiva eurocentrica. Del resto, anche fuori dell’Occidente cominciavano a formarsi scuole storiografiche che rivendicavano, contro il presupposto della centralità europea e l’assunzione dello Stato nazionale come forma privilegiata di potere, la specificità di altri percorsi e di altri esiti. Il riconoscimento dell’importanza del contributo della Cina per lo sviluppo del sapere scientifico e del commercio internazionale da parte di Joseph Needham (che risale agli anni Cinquanta), la denuncia dell’«orientalismo» da parte di Edward W. Said (1979) e la polemica cui essa diede luogo, la stessa rivendicazione ideologica delle origini africane della civiltà classica da parte di Martin Bernal (1987) aprivano prospettive nuove, ormai svincolate dagli schemi della contrapposizione tra storiografia borghese e storiografia marxista, e anche dalla nozione marxiana di un «modo di produzione asiatico» ripresa nel 1957 da Karl Wittfogel.
Nel congresso internazionale di scienze storiche di Oslo del 1928 Bloch aveva avanzato l’esigenza di una storia comparata delle società europee; a oltre settant’anni di distanza, nell’agosto del 2000, un analogo congresso tenutosi nella medesima città segnava ufficialmente la nascita di un nuovo approccio storiografico, la global history. In realtà, esso aveva avuto una lunga gestazione, e risaliva per lo meno al lavoro di uno storico statunitense, William McNeill, che nel 1963 aveva pubblicato un volume su The rise of the West. Come per Toynbee, anche per lui la storia è storia di civiltà, non di nazioni (o di Stati nazionali). Ma è soprattutto – a differenza di quanto riteneva Toynbee – storia dei rapporti tra società che sono portatrici di civiltà diverse ma non separate, dei loro incontri e dei loro scontri. Lo stesso sviluppo dell’Europa deve perciò essere riportato a un quadro più vasto, a quella che McNeill ha chiamato l’«ecumene eurasiatica», al cui interno si sono avuti migrazioni di popoli, scambi commerciali e anche scambi culturali come quelli, per es., tra Ellenismo e mondo indiano dopo le conquiste di Alessandro Magno.
Il risultato di questa svolta è stato un mutamento di orizzonte, dall’Europa all’Eurasia, della quale la prima costituisce l’estrema appendice occidentale, largamente dipendente dall’apporto delle società asiatiche. Questa svolta comportava anche uno spostamento del centro cronologico di gravità, dall’epoca dell’espansione europea ai secoli che l’avevano preceduta, a quella che Andre Gunder Frank ha chiamato, in ReOrient: global economy in the Asian age (1998), l’«età asiatica». L’interesse della global history si concentrava infatti sul ruolo che la potenza cinese aveva svolto, sotto la dinastia Ming e la dinastia Qing, negli equilibri di potere nell’area orientale dell’Eurasia, sull’importanza dell’Oceano Indiano per gli scambi tra Cina, India, Indonesia e mondo arabo, fino alle coste dell’Africa, sulla presenza secondaria – fino al 18° sec. – dei mercanti europei che cercavano d’inserirsi nelle reti commerciali preesistenti. Ma si concentrava anche sulle ascendenze orientali della civiltà europea, su quanto questa aveva appreso, nel Medioevo e ancora agli inizi dell’Età moderna, dalla scienza araba o indiana. La separatezza dei continenti veniva denunciata come un mito, mentre una rilevanza crescente assumevano i rapporti via mare: non soltanto tra le città mediterranee, ma anche tra le due sponde dell’Atlantico. Così Alfred B. Crosby poteva parlare, già nel 1972, di uno «scambio colombiano» e delle sue conseguenze devastanti per le società dell’America Centrale e Meridionale.
Un ultimo, ma non meno importante elemento della global history è stato l’ampliamento temporale dei confini della storiografia. Già Braudel aveva fatto valere l’importanza della longue durée, e quindi sottolineato il condizionamento geografico dei processi storici. Lungi dal contrapporsi alle scienze naturali, la global history ha allacciato nuovi rapporti con esse, cercando di determinare i modi in cui le vicende di continenti e di regioni sono condizionate anche dal patrimonio biologico dei popoli che li abitano. La relazione tra storia, geografia e genetica, inconcepibile fino a qualche decennio addietro, è ormai qualcosa di acquisito. A questo processo si è accompagnato l’interesse per quello che è stato definito «il tempo prima della storia», per i millenni che hanno preceduto la nascita di società dotate di scrittura, che fossero in grado di conservare il ricordo delle proprie vicende. Il risultato di tutto ciò è la consapevolezza che il passato «storico» è soltanto una fase, la più recente, del passato dell’umanità, così come l’epoca dell’egemonia europea è soltanto un’epoca, forse giunta al tramonto, di quella che veniva considerata la «storia universale».
Si vedano anche e La storiografia del Novecento