Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Lunga la gestazione del mezzo televisivo, e per certi versi entusiasmante. La radio con figure prende corpo attraverso un gareggiare di russi, americani, inglesi e conquista prima come una novità dal futuro, poi con la potenza di un contenitore totale della cultura preesistente e successivamente come un costruttore di realtà, un prisma nel quale convogliano tecnologia e industria, informazione e spettacolo, mercato e immaginario, comunicazione e democrazia.
La fiera del futuro
Francesco Casetti
Il coinvolgimento del pubblico nella neotelevisione
Mentre apprendimento e spettacolo continuano e continueranno ad essere presenti nel palinsesto televisivo, anche in dosi rilevanti, la neotelevisione ha affiancato ad essi gli altri due patti, dell’ospitalità e del commercio, maggiormente dotati di uno stretto contatto con la quotidianità. Nascono e si sviluppano così trasmissioni costruite appositamente sulla messa in scena e sulla attivazione di questi due patti: i vari talk show per quanto concerne il patto dell’ospitalità, le vendite promozionali e le aste televisive per quanto riguarda il patto del commercio [...] Questi due patti emergenti, oltre ad aggiungersi a quelli preesistenti dell’apprendimento e dello spettacolo, tendono anche a contaminarli, cioè a far loro assumere sembianze, regole, finalità, modalità di gestione del rapporto sempre più affini all’atto dell’ospitare o all’atto del commerciare. [Nei patti di spettacolo e di apprendimento] il momento dell’ascolto e della visione prevale su quello della partecipazione. [...] Entrambi questi patti [...]rappresentano in modo chiaro la divisione fra spazio dell’azione e spazio della ricezione [...]. Al contrario, il salotto e il negozio non creano suddivisioni spaziali forti, anzi tendono a facilitare la compenetrazione fra chi agisce e chi assiste. [...] Il pubblico assume un ruolo centrale, diventa il referente obbligato a cui il programma si rivolge, poiché solo in questo modo è assicurata la complicità di chi guarda e quindi la sua fedeltà al conduttore, al programma, alla rete, all’emittente.
Francesco Casetti, Tra me e te. Strategie di coinvolgimento dello spettatore nei programmi della neotelevisione, Torino, VPT/ERI, 1988
Pierre Bourdieu
Intellettuali televisivi e fast thinking
Per alcuni dei nostri filosofi (e dei nostri scrittori), essere significa essere visti alla televisione, cioè, in definitiva, essere visti dai giornalisti, essere ben visti, come si dice, da loro (cosa che implica una quantità di compromessi, in tutti i sensi del termine); ed è vero che non potendo contare troppo sulla propria opera per esistere nella continuità, costoro non hanno altra risorsa se non quella di apparire con la massima frequenza possibile sullo schermo. [...] Sulla televisione, l’auditel esercita un effetto del tutto particolare, ritraducendosi nella pressione dell’urgenza. [...] Forse la televisione, dando la parola a pensatori che si ritiene pensino a grande velocità, si condanna ad avere sempre e soltanto fast thinkers, pensatori che pensano più veloci della loro ombra. In effetti, bisogna chiedersi come siano capaci di rispondere a queste condizioni così particolari, come riescano a pensare in condizioni in cui nessuno riesce a farlo. La risposta, a mio avviso, è che pensano per luoghi comuni. I luoghi comuni, le idées recues di cui parla Flaubert, sono idee accettate da tutti, banali, convenute, comuni; ma sono anche idee che, quando le riceviamo, sono già ricevute, così che il problema della ricezione non si pone.
Pierre Bourdieu, Sulla televisione, Milano, Feltrinelli, 1997
Lo scenario è a dieci chilometri da Manhattan, dove si stende una grande area chiamata Flushing Meadows, che un tempo era una palude infestata dalle zanzare. È il 30 aprile del 1939: tra pochi mesi Hitler entrerà in Polonia e in Europa sarà l’inizio della seconda guerra mondiale. Ma anche qui, a Queens, sta per compiersi un evento di portata epocale. Si apre, tra grandi cerimonie, l’Esposizione universale di New York. Il titolo è impegnativo: Il mondo di domani. L’obiettivo delle grandi corporation americane che hanno prenotato uno “spazio”, qui a Queens, è stupire il mondo con qualcosa di straordinario. C’è la General Electric, colosso dell’elettricità, che presenta Elektro, una specie di robot attaccato alla presa della corrente che riesce a fare molte cose divertenti, persino fumare una sigaretta; la General Motors, regina delle automobili, presenta un’animazione delle autostrade del futuro, fiumi di macchine che, comandate a distanza, corrono velocemente lungo i grandi spazi del continente americano; c’è la Borden, che si spinge ancora oltre con Rotolactor, un bizzarro dispositivo a valvole in grado di lavare, asciugare e mungere ben 150 mucche.
C’è mezzo milione di persone, quel giorno, all’inaugurazione della grande Fiera. Alcune a bocca aperta, altre un po’ perplesse. E ce ne sono poi alcune migliaia sparse nell’area metropolitana di quella che diventerà la Grande Mela, alle quali è stato concesso il privilegio di partecipare in prima persona all’Evento. La RCA (Radio Corporation of America), la società che possiede la catena radiofonica NBC (National Broadcasting Corporation), ha scelto la Fiera del 1939 per presentare l’ultima meraviglia delle meraviglie, una “cosa” chiamata television. Una telecamera primordiale, montata su una struttura ingombrante quanto una gru, è stata installata su una piattaforma a poco meno di 20 metri dal palco degli speaker. Alle 12.30 si accende per inquadrare il sindaco di New York, il mitico Fiorello La Guardia che, curiosissimo, scende dal palco per avvicinarsi a quello strano trabiccolo. Subito dopo, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt viene inquadrato mentre pronuncia il discorso di inaugurazione.
Ci sono soltanto 200 televisori accesi quel giorno nell’area metropolitana di New York, per la gran parte posseduti da dirigenti della NBC o da eccentrici miliardari. Ma ci sono anche parecchi monitor nel grande atrio del quartier generale della RCA a Manhattan, in alcune vetrine di grandi magazzini e negli stand dell’Esposizione riservati alla società. Tutti coloro che vedono le prime immagini di La Guardia e Roosevelt rimangono impressionati dalla loro nitidezza. David Sarnoff, gran capo della RCA, rilascia subito una dichiarazione ai giornalisti, non esitando a definire la tv come una fresca invenzione e annunciando che, dal giorno dopo, la RCA avrebbe messo in vendita gli apparecchi necessari affinché tutti potessero goderne. Sono passati più di 60 anni da quel giorno. Di Elektro, il robot che fuma sigarette, non c’è traccia, le autostrade continuano a essere solcate da automobili guidate da esseri umani, e nessuna fattoria si è dotata di quel dispositivo ideato per lavare e mungere i bovini. Quanto alla tv, come sappiamo, è andata diversamente. Le parole di Sarnoff non erano esagerate: ha cambiato il mondo in cui viviamo.
Europei e Americani: prove tecniche di trasmissione
La tv non viene inventata nella primavera del 1939, né dai tecnici della statunitense RCA. In realtà decine e decine di scienziati, tecnici, accademici e inventori da salotto sparsi in mezzo mondo hanno contribuito nel cinquantennio precedente a far sì che allo spettacolo di Flushing Meadow potesse arridere il successo. La storia delle origini della tv è la storia di un progetto collettivo, elaboratosi in parte in modo involontario, come capita spesso per le grandi scoperte o le grandi svolte dell’umanità. Ed è una storia poco conosciuta, forse proprio perché non è legata a un singolo evento né a un personaggio di grande spicco.
La tv vede la luce al termine di quel mezzo secolo straordinario per la storia dell’umanità che ci ha regalato tra l’altro la fotografia, il cinema, la radio, il telefono. La sua non ha rappresentato una svolta così straordinaria rispetto alle precedenti dal punto di vista tecnologico: ne è stata una perfetta sintesi. Non è un caso che ipotesi e fantasie si siano sviluppate prima dell’invenzione della radio, sulla base invece delle meraviglie viste al cinematografo. O che qualcuno, non potendo ancora immaginare le possibilità offerte dalla trasmissione di un segnale elettromagnetico via etere, abbia pensato prima che alla tv al videotelefono, cioè a una tecnologia che si è sviluppata solo da qualche anno. L’invenzione della tv, dunque, è molto controversa e circa la sua paternità non sono mancate accese polemiche. Se la sono disputata gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, ma un ruolo decisivo è stato svolto da alcuni studiosi di origine russa.
Proprio perché legata allo sviluppo di tecnologie, l’evoluzione del mezzo televisivo ha attraversato fasi alterne, con accelerazioni e stasi, complici gli eventi economici e politici del secolo. In sintesi, si possono indicare quattro periodi fondamentali nella fase pionieristica. Quello compreso tra il 1870 e il 1890, nel quale si inizia a configurare la trasmissione di immagini a distanza come tecnologia a se stante, mentre procede lo sviluppo del cinema e del telefono. Gli anni che vanno dal 1920 al 1935, durante i quali la sperimentazione conosce un’accelerazione grazie alla crescita collaterale della radiofonia. Il periodo compreso tra il 1935 e la seconda guerra mondiale, che vede la nascita dei primi servizi di diffusione pubblici e privati nel mondo anglosassone. Infine, dopo il conflitto, gli anni in cui decolla l’industria televisiva vera e propria, con al centro un proprio sistema produttivo piuttosto articolato, e si afferma lo show business americano.
La nascita dell’idea televisiva si può collocare approssimativamente attorno al 1870, cioè 25 anni prima dello storico esperimento di trasmissione di un segnale telegrafico di Guglielmo Marconi. Come si è accennato, in seguito all’invenzione e allo sviluppo della telefonia e della telegrafia appare naturale pensare di abbinare la rappresentazione delle immagini alla trasmissione della voce. Ma l’impulso decisivo a questa fase prepionieristica viene in realtà dalle ricerche nel campo dell’elettricità, che hanno già consentito la realizzazione di prodotti pronti per il consumo come i generatori, la pila, il parafulmine. L’ipotesi di una tele-visione (cioè di un vedere a distanza, come dice l’etimologia della parola) stimola anche la fantasia degli artisti. Nel 1879 la rivista britannica pubblica un disegno che mostra una giovane coppia davanti a un caminetto, intenta a guardare una partita di tennis su uno schermo. Tre anni dopo, sempre per restare nel campo della pura immaginazione, il francese Albert Robida disegna una serie di immagini raffiguranti una famiglia in salotto impegnata a seguire le fasi di una guerra lontana e, addirittura, a frequentare corsi universitari a distanza o a far shopping davanti a uno schermo. Robida scrive anche un romanzo, dal titolo Ventesimo secolo, nel quale il congegno immaginato viene chiamato telefonoscopio.
Quanto agli scienziati del tempo, essi sanno benissimo qual è la strada da percorrere per trasformare la fantasia in realtà. Pensiamo a una fotografia in bianco e nero pubblicata su un giornale. Ingrandendo l’immagine o usando una lente, la foto si scompone in una serie di puntini neri. Se i puntini in una certa area sono molto fitti, quella zona appare nera; se la concentrazione è inferiore avremo il grigio e infine, in assenza di puntini, si vedrà soltanto il bianco. Ebbene, se qualsiasi immagine si può sminuzzare in un certo numero di piccoli segnali elettrici, proprio come i puntini neri, trasmessi e quindi ricostruiti da un ricevitore, allora il gioco è fatto. Sembra semplice, ma ci sono voluti anni e anni per trasformare la teoria in un’apparecchiatura davvero funzionante.
Il problema principale è quello di trovare un mezzo capace di convertire in segnali elettrici le variazioni di luminosità delle immagini che si vogliono diffondere. I ricercatori, inoltre, sono in grado di risolvere il problema della trasmissione di immagini fisse, ma per quelle in movimento le cose appaiono notevolmente più complicate.
Un passo importante è la scoperta (1873) delle capacità fotoelettriche del selenio, dovuta a Joseph May. Esposto alla luce, questo elemento chimico rivela infatti la possibilità di trasformare l’energia luminosa in energia elettrica. Si arriva a una prima versione di sistema televisivo ideata nel 1875 dall’americano C. R. Carey: un mosaico di fotocellule trasforma l’immagine su di esso focalizzata da un obbiettivo in altrettante correnti elettriche proporzionali ai livelli luminosi incidenti su ciascuna fotocellula. Queste correnti accendono a distanza un insieme equivalente di lampade che in tal modo riproducono rudimentalmente l’immagine originale. Sfortunatamente, per inviare un’immagine di qualità almeno accettabile sarebbero state necessarie 250 mila piccole lampadine collegate con altrettanti sottilissimi fili. Bisogna escogitare un metodo più semplice: occorre esplorare l’immagine in modo sequenziale, elemento per elemento, invece che tutta in una volta, nel suo insieme. Ciò si può realizzare con una tecnica chiamata scanning (scansione), che è tuttora alla base del funzionamento del televisore.
Nel 1880 una nuova tecnologia rivoluzionaria, la lampada elettrica a incandescenza inventata da Thomas Alva Edison, spiana la strada, finché nel 1884 Paul Gottlieb Nipkow, un ricercatore tedesco di origine russa, giunge a una soluzione fondamentale per la nascita della tv. Realizza un disco rotante, munito di una serie di fori distribuiti su una spirale che, ruotando a grande velocità, trasforma l’immagine di un oggetto che gli sta di fronte in una successione di impulsi luminosi. Qualche metro più in là, un altro disco collegato con una cinghia si muove in sincronia con il primo, regolando la quantità di luce che filtra e, cadendo su uno schermo di selenio fotosensibile, viene trasformata in impulsi elettrici. Questi impulsi agiscono sull’accensione di un tubo al neon posto dietro al secondo disco, in modo che la luce modulata in intensità sia vista solo attraverso la successione dei fori, dando vita così all’immagine.
Considerato a buon diritto uno dei padri della televisione, Nipkow brevetta tale dispositivo, ma non riesce mai a costruire un modello che funzioni davvero. In realtà egli raggiunge un traguardo importante. Il disco di Nipkow, con opportune modifiche, rappresenta l’elemento chiave della tv “meccanica” (o, per meglio dire, elettromeccanica), che è alla base dei prototipi sviluppati fino alla metà degli anni Trenta, data in cui il mezzo televisivo diviene totalmente elettronico.
Altri ricercatori proseguono sulla strada di Nipkow. A San Pietroburgo un professore di fisica, Boris Rosing, studia un metodo alternativo al disco di Nipkow. Utilizzando un nuovo dispositivo, chiamato tubo a raggi catodici (o tubo di Braun), egli riesce a ricostruire una scena elettronicamente utilizzando un flusso di elettroni fatti scorrere sullo schermo fotosensibile sotto la guida di magneti. Anche Rosing brevetta la sua invenzione, che chiama “occhio elettrico” (1907). Quattro anni dopo riesce effettivamente, con questo sistema, a inviare un’immagine grezza. Sfortunatamente il suo lavoro viene interrotto dallo scoppio del primo conflitto mondiale e poi della rivoluzione russa (il geniale professore viene anzi arrestato ed esiliato). Il tubo di Braun, comunque, sarebbe rimasto la base per lo sviluppo dei moderni tubi da ripresa e cinescopi.
Per una di quelle straordinarie coincidenze che accompagnano le grandi scoperte dell’umanità, negli stessi anni un inventore inglese, Alan A. Campbell Swinton, è riuscito per conto proprio a costruire un dispositivo molto simile a quello di Rosing.
Alla fine della prima guerra mondiale, dunque, i principi teorici che sono alla base del funzionamento della tv sono stati di fatto già acquisiti e si sono anche effettuate alcune dimostrazioni pratiche con qualche successo. La parola comincia a circolare negli ambienti accademici, anche se in alternanza con altre possibili denominazioni. Nel frattempo, la prosecuzione degli studi sulla radio assicura il supporto necessario per la trasmissione delle immagini. Infine, con l’invenzione del triodo, progenitore dei tubi elettronici, inizia la tecnica di generazione, amplificazione e modificazione della forma d’onda dei segnali.
Dai laboratori al grande pubblico
I dieci anni di gran lunga più importanti per lo sviluppo della televisione sono gli anni Venti, nei quali i progressi vanno di pari passo con la crescita della radiofonia. Ed è una storia quasi tutta americana. Si ricordano alcune delle tappe principali: l’ideazione di una tecnologia tv a scansione meccanica, pratica ma di vita breve; lo spostamento delle sperimentazioni dai laboratori dei singoli inventori a quelli di grandi compagnie come RCA e General Electric; infine, la conquista del futuro business da parte dell’industria radiofonica. Negli Stati Uniti, in effetti, né il mondo hollywoodiano dello spettacolo né l’amministrazione federale di Washington colgono l’importanza della novità. È così che il sistema televisivo si sviluppa a immagine e somiglianza di quello radiofonico.
In questa fase evolutiva, comunque, si incontrano alcuni “padri”. Negli Stati Uniti Charles Francis Jenkins, un inventore geniale che ha già ideato un proiettore di immagini in movimento e ha trovato il modo di spostare il motore dell’automobile da sotto i sedili alla parte anteriore, inizia a occuparsi di quella che chiama “radiovisione”. Nel 1925, utilizzando un nuovo sistema a scansione, riesce a trasmettere un segnale a distanza di 10 chilometri.
In Gran Bretagna, nel gennaio del 1926, lo scozzese John Logie Baird presenta al pubblico nella vetrina di un negozio un aggeggio da lui battezzato “televisore” (è il primo a usare il termine). Utilizzando il disco di Nipkow, riesce a mandare in onda tre spettacoli al giorno per tre settimane e il risultato è così incoraggiante che Baird trova subito un finanziatore interessato ad arricchirsi vendendo quegli apparecchi. Baird ha realizzato un’evoluzione del famoso disco grazie all’utilizzo di tubi elettronici che consentono un’adeguata amplificazione dei deboli segnali emessi dalla cellula fotoelettrica. Il suo televisore rudimentale trasmette una minuscola immagine analizzata su 28 righe in ragione di 12,5 volte al secondo.
È grazie a Baird che la Gran Bretagna, insieme agli Stati Uniti, conquista la leadership della nuova tecnologia. Nel 1929 un trasmettitore a Daventry realizza trasmissioni con un’immagine scandita su 30 righe. Ricerche sulla scia di quelle di Baird vengono compiute in altri paesi europei, tra cui l’Italia con Banfi e Castellani.
In America, Jenkins pensa subito come trasformare in business le sue invenzioni e dà vita a una società per la costruzione sia di trasmettitori sia di apparecchi di ricezione tv. Nel 1929, la FRC (Federal Radio Commission) ha già concesso il nulla osta a 18 emittenti. L’audience di queste emittenti sperimentali, naturalmente, non è né ampia né di buon livello, essendo composta in prevalenza da ingegneri elettrici e da eccentrici ricconi in grado di pagarsi ricevitori prototipo.
Un episodio curioso, in quegli anni, si svolge alla NBC. Uno dei primi programmi sperimentali diffusi da quello che sarebbe diventato un colosso televisivo dei nostri giorni ha per protagonista il gatto Felix. La scelta non è casuale: per collocare sotto il calore terribile dei riflettori un oggetto che non si fonda, i tecnici della NBC hanno scelto un gatto di legno posto sul piatto di un fonografo: né un gatto vero né un essere umano avrebbero potuto disporsi sotto i riflettori di allora senza finire arrosto. L’immagine di Felix è comunque in movimento e, nonostante la primitiva scansione a sole 60 righe (gli standard attuali sono di 525 linee negli USA e 625 in Europa), la sagoma del felino risulta abbastanza riconoscibile.
Alla fine degli anni Venti la televisione sembra in ogni caso avviata negli Stati Uniti verso un’ascesa folgorante. Ma così non è. La tecnologia meccanica, a causa dei limiti cui s’è fatto cenno sopra, presenta troppi inconvenienti. Trasmettere “ombre” di gatto rotante non può bastare, nonostante l’impegno profuso nel campo dell’elettronica da diverse società, desiderose di accrescere il proprio raggio d’azione. Gli schermi televisivi hanno le dimensioni di pochi centimetri quadrati, le immagini (tendenti al rosa o all’arancione) sono molto disturbanti, e l’intera apparecchiatura necessaria è grossolana e rumorosa. Dopo il 1929, con la grande depressione, diviene sempre più difficile per le imprese trovare risorse da destinare a un’attività dal futuro così incerto. Le autorità pubbliche ci credono così poco che l’agenzia governativa FRC non fa nulla per definire gli standard della nascente industria. Occorre, insomma, un passo in avanti tecnologico, il salto verso l’elettronica. E ancora una volta sono singoli inventori che lo renderanno possibile.
I due personaggi che più hanno contribuito allo sviluppo della tv sono Vladimir Kosma Zworykin – ancora un russo emigrato – e Philo Farnsworth. Il primo è stato allievo di Boris Rosing a San Pietroburgo. Emigrato negli Stati Uniti dopo la prima guerra mondiale, viene assunto nei laboratori di ricerca della Westinghouse. Lì inizia il suo lavoro su quello che chiama l’“iconoscopio”, cioè l’occhio di una telecamera elettronica, messo a punto nel 1923. Nel 1929 convince David Sarnoff della RCA che il futuro della televisione non può che essere nell’ambito della tecnologia elettronica. Viene assunto e prosegue le sue ricerche nel campo dei ricevitori e delle apparecchiature di ripresa. Nei primi anni Trenta, sotto la guida dei due sperimentatori russi, i progressi tecnici nei laboratori RCA risultano di tutto rilievo.
Più affascinante la storia di Philo Farnsworth. Cresciuto nell’Idaho, lontano dalle grandi società della East Coast, da ragazzo stupisce i suoi insegnanti tracciando su una lavagna lo schema di funzionamento di un’apparecchiatura che è già una vera e propria tv elettronica. Nel 1926 Farnsworth si trasferisce a Salt Lake City, nell’Utah, e cerca di convincere investitori privati a finanziare le sue ricerche. Il giovane inventore sviluppa ben presto l’image disector, che raggiunge gli stessi risultati dell’iconoscopio di Zworykin, in base però a una progettazione diversa. La depressione costringe Farnsworth e i suoi soci a passare più tempo a cercare fondi che a promuovere ulteriori esperimenti. Alla fine il progettatore passa alla Philco, una produttrice di radioricevitori concorrente della RCA.
Negli anni Trenta negli Stati Uniti la corsa continua a ritmi accelerati. Zworykin perfeziona il suo dispositivo interamente elettronico, NBC e CBS inaugurano le prime emittenti sperimentali a New York con le sigle W2XBS (oggi WNBC) e W2XAB (oggi WCBS). A guidare l’industria del settore resta comunque David Sarnoff della RCA. Nel 1935, all’assemblea degli azionisti della società, egli annuncia un piano da un milione di dollari per portare la tv dai laboratori di ricerca al grande pubblico. Ma il passo necessario ancora da compiere è quello di migliorare la qualità delle immagini. Il sistema di Zworykin ha aumentato le righe di scansione da 120 a 240 (il gatto Felix, ricordiamo, era a sole 60) e già nel 1937 le trasmissioni si effettuano a 441 righe, percentuale molto vicina agli standard attuali. In soli dieci anni, comunque, la tv si trasforma da un arcaico sistema di cinghie, specchi e fari in un sistema elettronico con una singola parte meccanica in movimento.
Già all’inizio degli anni Trenta, come si è detto, le strategie per il controllo del nuovo business sono ben avviate. Sul carro della tecnologia tv in America si sono insediate le grandi corporation come Westinghouse, RCA e Philco, mentre sul fronte del broadcast tutto è in mano alle catene che già offrono radiofonia. Nel 1937 hanno luogo i primi esperimenti di network, cioè reti di emittenti in catena. Collegate da cavi presi in affitto dalla compagnia telefonica, due stazioni a New York e Filadelfia iniziano a dividersi la programmazione.
Nel frattempo anche la Gran Bretagna ha avuto il suo giorno storico: il 2 novembre 1936 all’Alexandra Palace di Londra il ministro delle Poste e telegrafi del governo Baldwin inaugura la prima trasmissione televisiva quotidiana della BBC (British Broadcasting Corporation). Così il Regno Unito conquista la palma del primo Paese al mondo con una programmazione regolare. La prima emissione copre solo la capitale e gli immediati dintorni: due ore, una al pomeriggio e una la sera, con i discorsi di circostanza e una canzone di Adele Dixon. Il debutto ufficiale della BBC è seguito naturalmente da quelle poche centinaia di londinesi che si sono potuti permettere l’acquisto dell’unico tipo di televisore allora in commercio: dieci pollici di schermo, costo pari a quello di un’utilitaria. Ma già nel 1937 la cerimonia di incoronazione di Giorgio VI viene seguita, si stima, da 10 mila spettatori.
La guerra, effetti collaterali
Senonché il 1° settembre 1939 una telefonata dal quartier generale della BBC all’Alexandra Palace ordina di spegnere tutto. È scoppiata la guerra e in onda c’è un allegro cartone animato di Topolino. La tv britannica si riaccenderà solo il 7 giugno 1946, ma avrà accumulato, dal punto di vista tecnologico, dieci anni di ritardo.
Negli Stati Uniti, intanto, dopo la storica presentazione di Flushing Meadows nel 1939, il gruppo RCA-NBC avvia una programmazione regolare di dieci ore alla settimana, che trasmette prevalentemente film ed eventi sportivi. Per stimolare le vendite di televisori, unico modo per creare una audience, CBS (Columbia Broadcasting System) e RCA si rendono conto che occorre puntare sulla qualità tecnologica e presentano alle autorità di Washington due progetti concorrenti per l’introduzione della tv a colori. La FRC, divenuta nel frattempo FCC (Federal Communication Commission), si decide infine a stabilire gli standard tecnici per la produzione di televisori, ma boccia le richieste per il colore, definendole premature. Al 1941 risale un altro passo avanti importante, con l’approvazione delle licenze per tv commerciali a pieno tempo. Il 1° luglio dello stesso anno, la stazione della NBC a New York trasmette il primo spot pubblicitario della storia della tv mondiale. Viene inquadrato per un minuto un orologio Bulova: la società versa nelle casse del network quattro dollari. Alla fine del 1941 le licenze concesse negli Stati Uniti sono salite a 32. Scoppiata la seconda guerra mondiale, le nuove stazioni tv sono pronte a riprendere tempestivamente gli eventi. Nel giorno dell’attacco giapponese alla flotta USA a Pearl Harbor a New York si sparge la voce che aerei tedeschi sono in volo sull’Atlantico con l’obiettivo di bombardare la città. Alla CBS viene montata in tutta fretta una telecamera su una finestra che dà sull’oceano per riprendere il nemico in arrivo. A un certo punto lo staff del network pensa che i bombardieri tedeschi possano utilizzare il segnale tv come faro e smonta l’apparecchiatura. I nazisti, naturalmente, non arriveranno mai.
La guerra ha un doppio effetto sul nascente business tv. La costruzione di molte stazioni viene bloccata e quasi tutte quelle esistenti abbandonano l’etere. Ma, al tempo stesso, i migliori scienziati del Paese si dedicano alla ricerca militare studiando soprattutto l’elettronica delle alte frequenze. Il loro lavoro migliora notevolmente la tecnologia del radar e, di riflesso, ha influssi positivi sulla tv. Lo stesso sta avvenendo in Germania, dove viene impiantato un sistema di controllo televisivo a distanza per seguire i lanci di prova dei razzi V2, destinati a piovere sulla Gran Bretagna. A differenza degli Stati Uniti, dove l’affare è nelle mani delle grandi corporation private, l’Europa si caratterizza subito per l’impegno dello Stato nel nuovo settore. Oltre che in Gran Bretagna e Germania, esperimenti pubblici vengono condotti in Italia a partire dal 1930 e in Francia nel 1932. Nel nostro Paese le prime trasmissioni di carattere sperimentale si effettuano nel 1939, in un padiglione della Fiera di Milano: un quindicennio prima del varo ufficiale della tv italiana.
Le conoscenze tecnologiche accumulate da molti Paesi grazie all’economia di guerra vengono subito applicate nell’industria televisiva, in forte sviluppo. Le linee di produzione sono riconvertite per costruire apparecchi di ricezione e valvole e i militari esperti nelle operazioni radar trovano un nuovo posto di lavoro grazie alla preparazione acquisita nel campo dell’elettronica.
Pochi televisori, tanti televisori
Ora che tutto è pronto resta il problema di che cosa trasmettere. La scelta cade sulla programmazione sportiva. Nel 1947, negli Stati Uniti, il 60 percento delle trasmissioni sono di sport. Per ragioni tecniche si parte con il pugilato e il wrestling, più facili da riprendere; poi si passa al football e al baseball. Il livello qualitativo, però, resta modesto; il pubblico è abituato alla ricchezza della programmazione radiofonica, ai suoi personaggi più popolari. Il 1947, al di là della modesta audience, può essere comunque considerato l’anno di nascita della tv in America. Il televisore standard per eccellenza era un RCA, modello 630 TS, schermo di dieci pollici, 30 valvole. Più che a un moderno televisore, assomiglia a una vecchia radio da tavolo con un piccolo schermo in mezzo. Bisognerà aspettare il 1950 per vedere apparecchi dall’aspetto a noi familiare, rettangolari, dalle dimensioni di almeno 20 pollici.
L’anno di svolta è però il 1948. Viene introdotta la programmazione in network e alcuni popolari show radiofonici partoriscono la propria versione televisiva. Il più amato diviene Texaco Star Theater della NBC, con Milton Berle, la prima star televisiva d’America. È il boom: nel 1948 la FCC riceve richieste di autorizzazione a trasmettere da 300 stazioni, oltre alle 29 già funzionanti. In soli due anni, dal 1946, i televisori nelle case americane passano da 8 mila a 172 mila, in gran parte sulla costa orientale atlantica. Mentre gli anni Quaranta volgono al termine, le “potenze televisive” al mondo sono soltanto quattro: Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Francia. Nel 1953 la rivoluzione si può considerare compiuta negli Stati Uniti, dove si contano 328 stazioni televisive che servono un pubblico di 27 milioni di famiglie. In soli due anni, tra il 1954 e il 1956, ben 19 altri paesi europei avviano ufficialmente servizi televisivi. In Italia la data ufficiale di nascita è il 3 gennaio del 1954.
La tv come industria culturale
La riflessione storica e teorica sul mezzo televisivo si è modellata sulla base di due fondamentali sguardi: lo si è considerato ora come “offerta” o “prodotto”, ora come “specchio” o “canale” attraverso il quale la società rende leggibile la propria forma. In questo secondo senso la tv appare soprattutto come “discorso”, strumento linguistico attraverso il quale una società può parlare di sé, raccontarsi e riflettere. Approfondire, invece, il primo aspetto – la tv come offerta – significa considerare il mezzo soprattutto come apparato produttivo, istituzione, industria culturale. Da qui deriva l’idea di televisione come produttrice di effetti sociali.
La riflessione sull’industria culturale è avviata senz’altro dalle tesi “apocalittiche” – per riprendere la emblematica e ormai classica contrapposizione presentata da Umberto Eco in Apocalittici e integrati (1964) della scuola di Francoforte, che descrivono e analizzano la nuova e specifica fase della rivoluzione industriale, caratterizzata dall’applicazione delle tecnologie e delle procedure industriali di lavorazione a oggetti immateriali e simbolici. L’industria culturale si può definire come sistema compatto e integrato per la produzione di “merci culturali”, siano esse riviste a stampa, dischi, film, programmi radiofonici o televisivi. Dopo aver coinvolto merci materiali, riflette Edgar Morin, “la seconda industrializzazione si rivolge alle immagini e ai sogni. La seconda colonizzazione, non più orizzontale, ma stavolta verticale, penetra nella grande riserva che è l’anima umana”.
L’ottica dei francofortesi è fortemente critica per quanto riguarda la valutazione dei prodotti, sul piano sia estetico che politico: la standardizzazione e la ripetizione – cioè il predominio della produzione seriale secondo formule fisse e ampiamente collaudate, sul modello della grande fabbrica fordista – sono le caratteristiche più evidenti dei prodotti mediali e più contrastanti con il valore di unicità e sacralità attribuito tradizionalmente all’oggetto artistico; l’unidirezionalità dei processi comunicativi e la perdita del senso critico da parte del fruitore, sempre più passivo, sono le conseguenze più importanti sottolineate dai teorici critici. L’industria culturale, insomma, segna la morte dell’arte.
Nello stesso tempo, la teoria critica – così è definito l’insieme di assunti e posizioni che fanno capo alla scuola di Francoforte – pone alcune imprescindibili basi all’analisi del mezzo in quanto industria: l’industria culturale viene considerata in quanto sistema composto da settori specifici (cinematografico, televisivo, radiofonico, pubblicitario, editoriale), di cui si considerano le diverse attività di produzione, distribuzione e consumo; si focalizza, inoltre, lo sguardo su alcuni generi, come ad esempio il giallo, inaugurando una prospettiva di studio trans-mediale.
Nel corso degli ultimi cinquant’anni le tesi dei francofortesi sono state riprese, sviluppate, ma anche corrette nei loro accenti più apocalittici. Particolarmente significativa è la posizione di Edgar Morin, che pone l’industria culturale, e in particolare quella cinematografica, in stretta relazione all’immaginario collettivo, inteso come insieme di bisogni, valori e pratiche sociali. Morin avvicina la produzione e il consumo: l’industria culturale non costruisce il proprio pubblico di fruitori passivi, come pensavano i francofortesi, ma è posta al servizio dell’immaginario collettivo, come un nuovo alimento non molto diverso, sul piano funzionale, dal teatro classico, dal poema epico-cavalleresco e dal romanzo popolare.
Il caso italiano, 1954-1975: il monopolio come istituzione
Per comprendere meglio come si possa intendere la tv come industria culturale, è utile considerare alcune tappe cruciali dello sviluppo del mezzo nel nostro Paese, per rilevarne alcune caratteristiche principali.
La tv italiana, come quella di altri paesi europei, intende informare, educare e divertire i suoi spettatori. Quello delle origini appare come un progetto pedagogico ambizioso: con il nuovo mezzo che entra nelle case, i cittadini possono imparare a leggere e scrivere (in quegli anni, in Italia, la percentuale di analfabetismo è di circa il 10%), ma anche a divertirsi, attraverso spettacoli che non hanno e non potrebbero mai vedere in altre occasioni, con intrattenitori che ben presto diventeranno amici fedeli e compagni di una vita. C’è chi vede nella separatezza la peculiarità dell’industria televisiva italiana rispetto all’emittenza di altri Paesi. Separatezza della tv all’interno dell’industria culturale in quanto specifico sottosistema che si dota di proprie regole di funzionamento. Separatezza come regola d’oro della tv italiana (che segue in questo il modello britannico) tra apparati produttivi e pubblico.
Infatti, mentre negli USA la radio e la tv nascono e si sviluppano come network privati, il modello che si impone in Italia è quello del public service broadcasting di derivazione britannica. Negli Stati Uniti quello televisivo è un segmento all’interno del più vasto sistema dell’industria culturale: majors cinematografiche, case editrici, etichette discografiche ed emittenti televisive hanno come scopo comune quello di soddisfare la stessa domanda. Ciò che cambia sono gli apparati produttivi e distributivi e i prodotti sul piano linguistico ed espressivo, ma quello che si offre è comunque un prodotto-merce elaborato in base ai bisogni espressi dai consumatori culturali. La tv americana trova nel cinema un modello organizzativo: è la struttura dello studio system. E il network diviene broadcaster, semplice distributore di programmi.
La strategia d’impresa utilizzata dalla televisione italiana si fonda invece sul concetto del pubblico servizio, considerato come segmento separato dell’industria culturale: differenziandosi da quanto offerto da altri settori dell’industria culturale, essa intende piuttosto orientare il consumo, non farsi condurre da questo. Si crea un mercato, prima unico e indifferenziato, poi via via più specifico e articolato in gruppi – si pensi alla programmazione “dell’accesso”, un settore che rende disponibili spazi televisivi a istituzioni e gruppi sociali anche se siamo, non a caso, già nel momento di trasformazione della tv istituzionale del monopolio Rai e di passaggio a una nuova epoca.
Sul piano produttivo, la strategia della separatezza si traduce nello sviluppo di una produzione autonoma, gestita in proprio attraverso propri centri di produzione e utilizzando professionalità specifiche. Questo implica l’adozione del modello “grande fabbrica”: un forte centro decisionale (Roma) con alcuni stabilimenti decentrati (Milano, Torino, Napoli). Ciò implica, anche, una produzione connessa a luoghi specifici (gli studi, gli interni), e l’utilizzo di professionalità che si sviluppano all’interno: se la tv italiana deve comunque guardare al cinema, e soprattutto al Centro Sperimentale di Cinematografia, per trovare tecnici, registi, programmisti, fin dagli anni Cinquanta, cerca al contempo di organizzare propri corsi di preparazione (strategia nota come il “reclutamento dei corsari”).
Dal 1975 al nuovo secolo. Identità televisiva fra commercio e nuove tecnologie
Con lo sviluppo delle televisioni locali e private, la storia del mezzo come industria culturale entra in una fase nuova: quella commerciale. È una tv orientata all’evasione che si avvale delle strategie del marketing moderno, non più rivolto al prodotto ma al consumatore, che presta attenzione ai bisogni del pubblico e degli investitori pubblicitari, sviluppa la cronaca quotidiana e pone la “gente comune” come oggetto privilegiato di discorso, considera i sondaggi e gli ascolti fondamentali strumenti di orientamento e di verifica. L’industria culturale televisiva entra nella sua fase di mercato, prima artigianale (le piccole tv commerciali e locali che nascono a cavallo degli anni Settanta e Ottanta), poi di vero e proprio sistema, che si sviluppa attraverso diverse e progressive tappe: la creazione dei network, come nel caso di Fininvest, negli anni Ottanta; la definizione di una situazione di “duopolio imperfetto” e i relativi riconoscimenti legislativi con la legge Mammì, nel 1990; lo sviluppo di strutture verticali e integrate che coordinano attività diverse, di produzione, emittenza, gestione del mercato pubblicitario.
Il modello commerciale influenza fortemente anche l’attività produttiva del servizio pubblico che è costretto ad adeguarsi alla nuova realtà. L’aumento delle ore di programmazione e la politica di articolazione e differenziazione dell’offerta portano così a soluzioni di compromesso più o meno efficaci, che comunque collidono con la tradizione sviluppata fino a quel momento: uso e abuso dei contenitori, della diretta e della fiction cinematografica o importata dall’estero; paradossale sotto utilizzo delle professionalità e delle risorse interne; allentamento dell’attività produttiva nell’area della fiction (teatro, serie, spettacoli); tendenza a reperire altrove mezzi, professionalità e strutture produttive sino ad appaltare sempre di più le produzioni a società esterne. In Rai si studiano soluzioni nuove: il gruppo Ricerca e Sperimentazione Programmi riflette sulla necessità di rilanciare la produzione seriale, mettendo a punto una nuova macchina industriale, leggera, basata su un modello di società consociate a rete.
Con l’avvento della rivoluzione digitale e satellitare, la televisione italiana è spinta ancora di più alla trasformazione e a un ripensamento del proprio modello aziendale: la multimedialità, i processi di convergenza fra diversi media (computer, telefonia, tv) e di integrazione degli apparati produttivi (con la nascita di grandi colossi mondiali della comunicazione, come Time Warner-American Online, o Viacom-Blockbuster-Paramount), il sempre maggiore sviluppo di strutture piccole e medie, come gli studi di produzione e postproduzione, sono alcune delle tendenze più evidenti che marcano questa nuova fase dell’industria culturale televisiva. Anche sul piano sociale la tv cambia il proprio mandato, moltiplicando e modificando l’ambito del suo intervento: potenzia il range delle prestazioni, integrandosi con altri strumenti tecnologici (radio, telefono, videofonia, reti informatiche), e diventa nello stesso tempo uno degli strumenti utilizzabili per comunicare, conoscere, divertirsi. La creazione di nuove piattaforme per la diffusione di canali digitali satellitari, con la nascita di pay tv e pay-per-view , cioè canali che prevedono il pagamento di un abbonamento fisso o variabile a seconda dell’uso effettivo, del digitale terrestre, l’integrazione delle tecnologie attorno al personal computer e il diffondersi di nuove forme di “consumo culturale” – sempre meno generalista e sempre più mirato o di nicchia – è storia di questi anni: si stanno delineando i nuovi assetti dell’industria culturale nazionale ed europea.
Il “nodo” del servizio pubblico
La televisione come industria culturale appare in Italia “travestita” da servizio pubblico. Il concetto di servizio pubblico si fonda sull’idea che la produzione e la diffusione di programmi radiofonici e televisivi costituisca un “bene pubblico”, di importanza nazionale, e non semplicemente un fatto privato, interamente demandato al mercato, un po’ come la gestione dell’energia elettrica, del gas o dei trasporti ferroviari. A partire dagli anni Venti, con la nascita della radio, l’esperienza europea del public service broadcasting si è radicalmente differenziata da quella americana, caratterizzata dalla libera iniziativa – sul modello della competizione fra più catene televisive finanziate dagli investimenti pubblicitari – e ha cercato la propria legittimazione nella rilevanza strategica della comunicazione di massa, nella necessità di assicurare piena rappresentanza alle differenti istanze politiche, sociali e culturali che costituiscono le società democratiche, nella volontà di assicurare un servizio d’informazione, di educazione e d’intrattenimento a tutte le fasce della popolazione.
Il concetto di servizio pubblico non è comunque unitario, monolitico, a-temporale: è piuttosto un’idea guida che ha subìto numerose modificazioni nel corso dei decenni, e a seconda dei contesti nazionali in cui è stato formulato e applicato.
L’originario intervento dello Stato in campo radiofonico, negli anni Venti, è motivato da due ordini di problemi: la limitatezza delle frequenze disponibili e la questione del finanziamento. Quanto al primo punto, lo Stato è costretto in ogni caso a intervenire per regolamentare gli spazi, contesi da diverse istanze (fra cui quelle militari), e negoziare accordi internazionali con i Paesi confinanti. Il finanziamento, poi, non può ricalcare meccanismi già in vigore in altri comparti dell’industria culturale, per i quali è il consumatore stesso a pagare il prezzo del biglietto di un film, un concerto o una rappresentazione teatrale. Dal momento che la radio – come poi la tv – arriva direttamente nelle case delle persone (come, appunto, l’elettricità o il gas), le uniche formule percorribili sono la tassazione diretta (il “canone”) oppure la pubblicità.
L’esperienza inglese è paradigmatica: ha inizio con la fondazione della British Broadcasting Company (BBC), autorizzata in esclusiva – cioè in regime di monopolio – alla trasmissione di programmi radiofonici da parte del ministero delle poste e finanziata con un canone annuale, pagato da tutti i possessori di apparecchi di ricezione. La formulazione dell’idea di servizio pubblico si deve, però, soprattutto a John Reith, primo direttore generale della BBC, la cui influenza si risente tutt’ora, anche in contesti diversi da quello britannico. Nella sua interpretazione, la BBC deve porsi compiti di alto livello: il broadcasting ha “la responsabilità di portare nel numero più ampio possibile di case il meglio di ciò che è stato formulato in ogni area della conoscenza umana”; non deve perciò adeguarsi ai gusti del pubblico, ma semmai orientarli, in una missione educativa che faccia della radio un nuovo centro diffusore del sapere. In quanto servizio nazionale, la BBC è inoltre uno strumento di rafforzamento dell’identità e dell’unità del Paese (per la prima volta, la voce del re poteva essere udita in ogni parte del regno, simultaneamente). Alla base dell’idea di servizio pubblico formulata da Reith stanno inoltre ideali democratici: il broadcasting rende possibile una più ampia diffusione dell’informazione e delle opzioni politiche, contribuendo alla formazione di un’opinione pubblica più consapevole. In questo senso si comprende l’insistenza reithiana in difesa della più piena autonomia della BBC dal potere politico: sottratto alle logiche del mercato, e perciò alle influenze economiche e dei gruppi di potere, il servizio pubblico, pur dipendendo dallo Stato, deve mostrarsi indipendente dalle pressioni governative o partitiche. Come si può capire, quella dell’autonomia dai poteri – politici o economici – è una questione tuttora all’ordine del giorno.
In ben altro contesto nasce il servizio radiofonico in Italia: in continuità con una prima legge del 1910, il governo Mussolini riserva allo Stato l’impianto e l’esercizio di radiocomunicazioni e stabilisce la facoltà di accordare il servizio in concessione (1923). Quest’ultima viene stipulata nel 1924 tra il ministero delle Comunicazioni e la neonata URI (Unione Radiofonica Italiana): nasce in questo modo il sistema monopolistico nelle radiocomunicazioni in Italia. In queste prime normative vengono fissate alcune delle caratteristiche che resteranno costanti nel broadcasting italiano: l’esclusività del servizio demandato alla concessionaria (URI) sull’intero territorio nazionale (monopolio), la subordinazione all’autorità politica, e in particolare all’esecutivo, specie per quanto riguarda l’informazione (sebbene un uso propriamente propagandistico della radio avvenga solo più tardi), un sistema di finanziamento del tutto originale, che comprende sia il canone di abbonamento sia la pubblicità commerciale (sistema misto). Nel 1927 viene rinnovata una concessione di 25 anni in favore dell’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche), nata dalla trasformazione dell’Uri. Essa resta valida fino al 1952, quando viene rinnovata per vent’anni, sebbene l’EIAR cambi nuovamente denominazione con la caduta del regime fascista: nel 1944 nasce la Rai (Radio Audizioni Italia).
Il concetto di servizio pubblico viene allora a giustificarsi sulla base dei principi della nuova Costituzione repubblicana: la legittimità del monopolio si basa sull’idea che “a fini di utilità generale la legge può riservare [...] allo Stato [...] determinate imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali [...] e abbiano carattere di preminente interesse generale” (art. 43); quest’affermazione non è in contraddizione con gli articoli costituzionali di tutela della libertà di pensiero, d’espressione dell’arte e della scienza e di iniziativa economica privata (art. 21, 23, 41), come stabilito da una sentenza della Corte Costituzionale del 1960. Come si vede, vengono ribaditi il monopolio – che dal 1954 riguarda anche la televisione – un sistema di finanziamento misto, comprendente canone e pubblicità (Carosello nasce nel 1957), nonché la dipendenza diretta dagli organi dello Stato, rafforzata dal passaggio dell’IRI (Istituto per la ricostruzione industriale) ad azionista di maggioranza assoluta della Rai.
La riformulazione del concetto di servizio pubblico nel dopoguerra è ispirata da ideali democratici: assicurare un servizio radiofonico e televisivo accessibile a tutti, sull’intero territorio nazionale, concorrere alla crescita culturale del Paese, rendere possibile la formazione di un’opinione pubblica consapevole, garantendo accesso e visibilità alle diverse forze politiche e culturali presenti nella società e rappresentando i fatti con imparzialità e completezza, tutelare le minoranze, sulla base, ancora una volta, di un articolo costituzionale (“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, art. 21).
La storia del servizio pubblico italiano si è tuttavia allontanata frequentemente da questi principi, specie in relazione alla corretta informazione politica. A partire dagli anni Sessanta e, in misura crescente, nei decenni successivi, si è andata diffondendo la pratica della “lottizzazione”, cioè della spartizione delle cariche secondo l’appartenenza partitica. Una malintesa interpretazione del rapporto fra lo Stato e la concessionaria pubblica, e un’eccessiva sottomissione giuridica al potere esecutivo, hanno trasformato la Rai in un vero e proprio “feudo dei partiti”. La riforma del 1975, che ha trasferito il controllo del sistema radiotelevisivo dal Governo (responsabile fin dai tempi di Mussolini) al Parlamento, non ha che rafforzato la dipendenza della Rai dal potere politico. Di tutto ciò ha seriamente risentito la credibilità della concessionaria e la qualità dei programmi.
Quando, negli anni Ottanta, i tre maggiori partiti (Dc, Psi, Pci) hanno avuto ciascuno un canale a disposizione, sono naufragate definitivamente le idealità del servizio pubblico; quando poi, il cosiddetto CAF (l’asse di potere formato da Craxi, Andreotti e Forlani) ha favorito la piena legittimazione del duopolio Rai-Fininvest (sancito dalla legge Mammì, 1990), il servizio pubblico ha cercato la sua identità nel proclamarsi unico argine allo strapotere di Berlusconi (una perfetta mostruosità logica, oltre che giuridica che si è perpetuata negli anni: il sistema radiotelevisivo italiano sarà un sistema bloccato nelle mani di Rai e Mediaset; ben tre leggi, la Mammì, la Maccanico e la Gasparri hanno sancito questa sacra alleanza, dopo una serie infinita di compromessi). Intanto alla Rai sono cessate da tempo le assunzioni per concorso, la struttura si è trasformata in una specie di ministero conservando però una duplice anima (Azienda in quanto fondata sull’azionariato, con la maggioranza detenuta dall’IRI; Ente, in quanto servizio pubblico), che le ha permesso ogni arbitrio gestionale: dagli appalti al non licenziamento, dalle assunzioni fantasma, alle fulminee carriere interne, alla conseguente progressiva perdita di professionalità.
La neotv
Il dissolvimento del concetto di servizio pubblico coincide con il trionfo della neotv. La neotv si afferma nel panorama televisivo americano già dagli anni Settanta, quando viene individuato dalla critica e dagli studi mediali, ma raggiunge l’Italia solo durante gli anni Ottanta. A parlare per la prima volta di “neotv” è Umberto Eco nel 1983. Per analizzare e definire questo complesso fenomeno – e comprendere nello stesso tempo lo scarto temporale nella sua emergenza in diversi contesti geografici e culturali – bisogna innanzitutto considerare gli aspetti salienti che caratterizzano la storia del mezzo televisivo sul piano della produzione, della distribuzione e del consumo durante gli anni Settanta e Ottanta, e in particolare: gli sviluppi della tecnologia e del mercato dei media (a partire dall’affermazione del telecomando e del videoregistratore); l’aumento degli apparecchi domestici e la loro diversificazione (televisore casalingo – spesso più d’uno – monitor portatile, videoproiettore per locali pubblici); la moltiplicazione dei canali, con l’emergere di emittenti private locali e poi nazionali, cui si lega lo sviluppo impetuoso della pubblicità televisiva; l’aumento dei tempi di trasmissione, fino alla copertura totale (24 ore al giorno); la polifunzionalità dello schermo televisivo e l’introduzione di nuovi terminali collegabili (televideo, regolazione a distanza, videoregistratore, telecamere a circuito chiuso); la concorrenza delle reti tra loro, e in particolare tra emittenti private e servizio pubblico Rai; la conseguente evoluzione del concetto stesso di servizio pubblico.
Su questi macrofenomeni, visibili principalmente sul piano socio-economico della produzione (relativi, cioè, all’apparato tecnologico e produttivo), si innestano tutte le modifiche e le novità che riguardano in modo specifico il mezzo come istituzione e linguaggio. Col tramonto del monopolio Rai, che ha caratterizzato il panorama televisivo fino agli anni Settanta, si segnalano importanti trasformazioni linguistiche. Un primo aspetto di novità è la crescente autoreferenzialità della tv, che parla sempre meno del mondo esterno e sempre più di se stessa e del proprio rapporto con lo spettatore, per costruire prove della propria verità, con un effetto di totale autolegittimazione.
È la tv che fa di sé l’oggetto privilegiato del proprio discorso e pone le basi per l’elaborazione del proprio culto, organizzandone i riti (le gare e i premi televisivi), i miti (la costruzione e il rafforzamento dell’immagine dei personaggi televisivi – nuovi “divi” – attraverso celebrazioni in cui i volti televisivi sono presentati come ospiti illustri in programmi-vetrina che promuovono altri programmi), i rituali sociali (come quei programmi contenitore e game show in cui compaiono personaggi che hanno fatto del ruolo di ospite una professione).
Una modalità fondamentale che testimonia di questa funzione mitopoietica della tv è costituita da quei programmi che lavorano sulla storia della tv o, più spesso, dell’emittente. Il discorso è piuttosto complesso perché incrocia un tema “caldo” e cruciale quale quello del medium come archivio e costruttore della memoria sociale.
L’autoriflessività del mezzo e la ostentazione dei propri apparati enunciativi avviene anche attraverso strategie come l’esibizione degli strumenti tecnici e degli operatori (la telecamera inquadrata, il tecnico in campo, il microfonista aitante che diventa una star), i “provini”, gli errori, e i ciak sbagliati – messi in onda come una golosa chicca alla fine del programma o della serie – lo svelamento di alcune routine di produzione, come le telefonate tra il conduttore e la regia, l’applauso del pubblico in sala a richiesta o, infine, la pratica, davvero poco corretta, del fuori-onda.
Un’altra importante caratteristica della neotv è la tendenziale dissoluzione del sistema dei generi e dei rigidi confini che li distinguevano, attraverso la loro commistione: si pensi al reality show, ibrido che mescola fiction e realtà, o l’infotainment, sottogenere che alterna e confonde informazione e intrattenimento, che costituisce buona parte della programmazione generalista della fascia del tardo pomeriggio e che si caratterizza anche per l’indebolimento delle marche di confine tra i singoli testi che compongono la programmazione. Tutte queste pratiche concorrono alla modalità di presentazione dell’offerta e dello stesso atto di fruizione definita come “flusso”.
Anche il rapporto tra emittente e destinatario della comunicazione viene a trasformarsi con l’avvento della neotv: rispetto alla programmazione della tv degli anni Cinquanta, l’emittente si propone al pubblico non più, o meglio non solo, come fonte autorevole, strumento per l’apprendimento, portatore di un punto di vista istituzionale (la politica, lo Stato, la Chiesa), ma come un interlocutore alla pari amichevole e di fiducia, quasi un complice, ammiccante e un po’ goliardico. È la tv in cui domina il genere del talk show e del reality show.
Il pubblico è chiamato a interagire con il mezzo, attraverso le telefonate in cui può esprimere la propria opinione, fare domande a esperti, tele-votare, rispondere all’irresistibile invito del “giocate con noi” e chiedere, senza timore di sembrare insistente o inopportuno, “un aiutino”. Ma lo spettatore può anche intervenire concretamente nel programma, occupando con il proprio corpo, le proprie esperienze e, soprattutto, con la narrazione della propria quotidianità uno spazio in cui il privato, sia dell’uomo qualunque sia del vip, domina, diventando di pubblica visibilità.
Si modificano anche le pratiche di fruizione: il flusso della neotv richiede un comportamento erratico, una ricezione distratta e ondivaga, modulata attraverso l’uso del telecomando. È la tv dello zapping come pratica privilegiata di fruizione, vivisezionata da certa critica televisiva in specifiche pratiche, analizzate ed elevate al rango di pratica decostruzionista e al paradosso di nuova testualità tipo il programma Blob di Enrico Ghezzi. Questa modalità di fruizione tipica della neotv va però anche considerata in chiave storica e dinamica come l’affermazione di uno stile di consumo mediale e culturale discontinuo, non sequenziale, multimediale che appare, probabilmente come forma più tipica, con i new media, con l’avvento della tv satellitare.
Negli ultimi anni, con l’introduzione della rilevazione dell’audience, l’opinione del pubblico è entrata stabilmente a far parte della produzione di un sapere televisivo. È l’audience, di fatto, che seleziona le trasmissioni gradite al pubblico e presiede quindi alla formazione dei palinsesti televisivi. Gli studi sulla tv riguardano principalmente l’impatto che il mezzo provoca nel sociale, le trasformazioni culturali, l’interpretazione e l’uso nei contesti domestici, la condivisione o la creazione di un nuovo ambiente, le mutazioni della struttura spaziale e temporale all’interno della quale si diffondo i programmi stessi, le modalità con cui gli individui si rapportano a un sapere condiviso o, più semplicemente, a una forma di vita affettiva, i processi di costituzione dell’identità nazionale e, prima ancora, di un universo valoriale.
L’Auditel, una società costituita nel 1984 col concorso di Rai e Fininvest, fornisce quotidianamente i dati d’ascolto, minuto per minuto, delle reti nazionali, attraverso indicatori appositamente elaborati che misurano l’entità del pubblico e la durata della sua permanenza su una certa emittente, grazie a un campione rappresentativo della popolazione italiana.
Entro questa cornice, che prescrive di elaborare un sapere che considera l’audience televisiva come una categoria che “oggettiva un pubblico da controllare” è possibile distinguere diverse declinazioni del punto di vista istituzionale. E tuttavia, il concetto di audience – un aggregato di individui o gruppi sconosciuti a cui si indirizza la comunicazione di massa – sembra ora un artificio da abbandonare, per dedicarsi allo studio dei contesti specifici in cui si svolgono le pratiche molteplici delle audience effettive: l’essere posizionati da particolari forme di comunicazione di massa, con specifiche possibilità di interattività e impegno, e con l’emergere di particolari serie di significati preferiti e legittimati rispetto ad altri, è un fatto cruciale per l’esperienza vissuta dell’uomo del XX secolo. La sfida futura degli Audience Studies, definitivamente entrati in una nuova fase, è di non chiudersi entro analisi microsociologiche delle pratiche di ricezione, ma di domandarsi la rilevanza macrosociologica – economica, politica, sociale e culturale – di queste pratiche.
Abbassare il tiro è la maledizione della tv, il suo Geist, il demone inquieto scosso dall’Auditel. In questi anni la tv non ha fatto altro che spostare i confini, dell’accettabile, del visibile, del sopportabile. Succede anche altrove, è vero, ma su dieci film se ne trovano sempre due o tre che per storie, stimoli, rimescolamenti emotivi danno l’impressione di non aver buttato via il tempo. Così coi libri o con la musica. Sulla buona tv c’è rassegnazione intellettuale. In tv, quando si tratta di “spessore”, siamo abituati all’indigenza, alla mendicità, alla ristrettezza.
Quattro immagini di repertorio commentate da un giornalista “della carta stampata”, molto bianco e nero, una scrivania presa a prestito dal trovarobato, un guitto ingemmato da intellettuale e così via. I libri ormai li recensisce un “simpatico” giullare. Gli uomini di pensiero sono presentabili se accettano la guitteria di un talk show. La prosopopea è soverchiante rispetto all’essenziale. E dire che fino a poco tempo fa (ce lo ricorda una riproposta di RaiSat Album) la Rai mandava in onda un programma in cui Beniamino Placido e Indro Montanelli parlavano dei grandi problemi dell’Italia fingendo di essere due pensionati seduti su una panchina dei giardini pubblici.
Qualcosa si sta muovendo, timidi segnali di cambiamento increspano la solida superficialità della tv. È la tv di coloro che sanno quello che dicono: partire dalla concretezza, aggrapparsi a un’immagine mentale, sviluppare un discorso e, infine, “tendere all’alto, dalla storia al mistero” (e non al basso, come normalmente avviene). È una tv per pochi? Sì, è una tv per pochi, perché troppo spesso si dimentica che, anche in video, molti sono i chiamati e pochi gli eletti. È una tv per intellettuali? Niente affatto, perché la capacità intellettiva non è un’esclusiva di chi ha letto qualche libro in più, anzi. L’importante è che un intellettuale, anche quando è in video, rispetti il suo obbligo morale: quello di tenere alto il discorso e non di abbassarlo per diventare un personaggio del circo mediatico e fare dell’ospitata televisiva una professione.
Non è il caso qui di riaprire l’annosa questione sul rapporto fra intellettuali e tv o sulla consolidata tesi secondo cui la tv deprime la cultura dei colti ma innalza quella degli incolti ma è doveroso sottolineare come da almeno vent’anni la tv generalista, in nome dell’audience, abbia deciso di abbandonare il pubblico più istruito. Se l’Auditel attesta che la fascia d’ascolto più consistente è rappresentata da spettatori che hanno superato i 65 anni questo significa che tali persone hanno molta disponibilità di tempo ma anche che la tv si rivolge prevalentemente a loro, spesso in modo maniacale. E significa anche che un pubblico di ultra-sessantacinquenni non fa impazzire di gioia i pubblicitari, coloro cioè da cui dipendono gli investimenti. È come se la tv italiana avesse deciso che il suo meglio è il suo peggio, è come se il mediocre fosse diventato un valore positivo. E la mediocrità rende potenti i mediocri.
Tempo fa in Francia si è acceso un dibattito su questo tema: il ministro Catherine Clément si è chiesta se sia ancora praticabile una tv d’autore o, meglio, se sia possibile riabilitare il servizio pubblico attraverso la cultura e di iscriverlo fra i diritti costituzionali. Argomento non da poco ed estremamente affascinante. Anche per le facili obbiezioni che si possono muovere. La tv non promuove beni culturali, ma consumi materiali, anzi trasforma il consumo in un valore. Fare della cultura in tv un valore a sé vuol dire tornare a uno schema pedagogico del passato, che ha fatto il suo tempo. La tv commerciale è condannata alla ripetitività, a un linguaggio semplice, corporeo, ridondante. E poi il rapporto Clément mette ancora una volta in luce la debolezza di ogni progetto illuministico, di ogni tentativo di identificare la ragione con il progresso. Il peggior nemico della buona tv è il perbenismo culturale di cui la tv generalista non riesce a liberarsi: e perché non si fa più il teatro in tv? e perché non si dà più spazio agli scrittori? e perché non si affida alla famiglia Angela un intero canale? Il perbenismo culturale è il virus che ha infettato in questi anni la tv, che ha trasformato la cultura in noia, pavidità, melensaggine, nell’infernale buona volontà dell’ educational. Il perbenismo culturale è solo feconda e faconda bêtise, genera a dismisura comitati di tutela e vigilanza, disseppellisce i fantasmi dei ministeri della cultura.
Negli anni la tv ha allargato il suo bacino e si è, letteralmente, spostata: dal centro città (via dei Giardini di Monopoli) si è trasferita in periferia (dove abitano quelli che ancora guardano la tv): “È passata dall’universo simbolico del consumo intellettuale all’universo concreto del consumo materiale” (Carlo Freccero). Così, la tv oggi è soprattutto un miraggio per la persona comune che sogna di diventare eroe per un giorno. Nel libro Questa è la tua vita di John O’Farrell si racconta la storia di una persona che riesce a far credere a tutti di essere un’autentica celebrità: è il romanzo del reality show, l’epopea di Scherzi a parte, la saga della fama effimera: “Sapevo che puoi scoprire la cura per il cancro o portare la pace in Medio Oriente, ma non saRai mai davvero qualcuno finché non compari in televisione. È questa la moderna definizione di prestigio”.
Indietro non si torna: la pay tv sta sottraendo pubblico alla tv generalista, ma tra il perbenismo culturale alla Clément e la nostra ferale indifferenza, si spera di trovare ancora una via di mezzo, la vecchia mainstreet della tv.