La teoria dell’ordinamento giuridico: Santi Romano
Al di là del giudizio che se ne può dare, è innegabile che a nessuna opera di un giurista italiano contemporaneo la comunità degli studiosi ha dedicato un interesse paragonabile a quello suscitato in essa da un piccolo volume, inevitabilmente definito da più d’uno, con espressione forse abusata, ma in questo caso non abusivamente usata, 'aureo libretto': L’ordinamento giuridico di Santi Romano. Pubblicato a Pisa nel 1918, con il sottotitolo Studi sul concetto, le fonti e i caratteri del diritto (dopo che il testo era apparso in due puntate negli «Annali delle Università toscane» del 1917 e del 1918), dall’editore Spoerri, che qualche anno prima aveva dato alle stampe anche I fondamenti della filosofia del diritto di Giovanni Gentile, sintesi di un corso tenuto in quella stessa facoltà giuridica pisana alla quale apparteneva Romano, L’ordinamento giuridico venne riedito a Firenze nel 1946 dalla Sansoni.
Questa nuova edizione, che conteneva integrazioni e aggiunte limitate alle note a piè di pagina, venne poi ripetutamente ristampata inalterata, refusi compresi, e fu tradotta in spagnolo (El ordenamiento jurídico, 1963), francese (L’ordre juridique, 1975), tedesco (Die Rechtsordnung, 1975), portoghese (O ordenamento jurídico, 2008). In inglese, invece, nessuna traduzione: a conferma della tradizionale ignoranza (un giudizio di fatto, non un giudizio di valore) che caratterizza la cultura giuridica angloamericana rispetto a quella italiana, come è stato constatato una volta di più proprio a proposito di Santi Romano (N. Bobbio,Teoria e ideologia nella dottrina di Santi Romano, 1975, in Id., Dalla struttura alla funzione, 1977, p. 168).
A testimonianza dello straordinario interesse suscitato dall’'aureo libretto' basterà sottolineare come praticamente tutti i maggiori giuristi italiani della prima metà del 20° sec. e una buona parte di quelli della seconda metà abbiano avvertito il bisogno di prendere posizione sulle tesi in esso contenute. Ed è avvenuto che tra opera e autore sia andato stabilendosi un collegamento tanto stretto che per molti, ormai, il titolo della prima evoca quasi automaticamente il nome del secondo e viceversa. Cosa non infrequente, certo, ma quanto mai discutibile in questo caso. Intanto, perché rischia di avallare l’impressione di un Santi Romano auctor unius libri, che più fallace non potrebbe essere, giacché quand’anche non avesse scritto L’ordinamento giuridico, egli sarebbe ugualmente uno dei più grandi giuristi del suo tempo; e poi perché proprio la sua sostanziale identificazione con L’ordinamento giuridico ha contribuito a far sì che la prospettiva teorica legata al suo nome sia nota come 'teoria dell’ordinamento giuridico’.
Questa sorta di associazione pavloviana tra Romano e teoria dell’ordinamento giuridico, per quanto spiegabile, risulta comunque discutibile. Accanto alla teoria dell’ordinamento giuridico di Romano, infatti, non poche altre potrebbero essere denominate allo stesso modo; e allo stesso modo sono state anzi denominate, pur essendo tanto diverse da essa da poterle venire non semplicemente affiancate, ma contrapposte. Ciò innanzi tutto a causa delle diverse accezioni nelle quali è adoperato il sintagma ‘ordinamento giuridico’, e cioè, per usare parole dello stesso Romano, per le difficoltà «generate dall’indeterminatezza e dalla povertà del linguaggio, che sono causa di inesattezze nelle definizioni dei concetti molto astratti»; per ovviare alle quali «basterebbe sostituire alla parola ‘ordinamento’ qualche altra» (L’ordinamento giuridico, 1918, 19462, p. 25). Una sostituzione peraltro mai effettuata da chi pure mostrava di ritenerla opportuna, con la conseguenza che oggi si può parlare di teoria dell’ordinamento giuridico di Romano e insieme di teoria dell’ordinamento giuridico, per es., di Hans Kelsen; cosa non poco fuorviante perché può sembrare che si tratti di due teorie diverse, sì, ma aventi pur sempre un oggetto comune: l’ordinamento giuridico, appunto, mentre la diversità riguarda, prima ancora che le teorie, proprio il loro rispettivo oggetto.
L’ordinamento giuridico di Romano non è infatti in alcun modo l’ordinamento giuridico di Kelsen: questo si risolve in un sistema di norme, quello è cosa tanto diversa da poter essere prospettato proprio in alternativa all’idea di un ordinamento giuridico inteso come sistema di norme.
La soluzione preferibile potrebbe forse consistere nel definire la teoria di Romano ricorrendo a un termine da lui stesso adottato per designarla, e cioè istituzionistica, che ha il pregio di esprimerne l’aspetto peculiare nei confronti delle altre teorie ordinamentali, vale a dire l’equazione in essa presupposta tra diritto e istituzione, senza per questo ignorarne la specificità mescolandola con tante altre, e di tanto minore spessore, nel calderone delle teorie istituzionali (o istituzionalistiche).
Un luogo comune da sfatare, a proposito della riflessione teorico-generale di Romano, è quello della sua presunta appartenenza al novero delle teorie sociologiche del diritto; in conseguenza della quale è stato possibile, per es., farle posto in un manuale di sociologia del diritto particolarmente diffuso, dovuto allo studioso che appunto della sociologia del diritto italiana è considerato il padre (quanto meno accademico); anche se si deve riconoscere che Romano vi è comunque presentato come «un giurista puro, privo di interessi sociologici» (R. Treves, Introduzione alla sociologia del diritto, 1977, p. 62): dopo la filosofia dei non filosofi, come proprio la sociologia fu sprezzantemente definita, si sarebbe dunque avuta in Italia, per opera e virtù di Romano, anche la sociologia dei non sociologi.
L’accusa di essersi macchiato di 'sociologismo' in effetti, non fu risparmiata a Romano da giuristi e filosofi. Ma era un’accusa infondata, se il solo fondamento su cui poteva poggiare era costituito dal legame indissolubile tra diritto e società, ribadito da Romano facendo proprio il dittico ubi societas, ibi ius e ubi ius, ibi societas, senza peraltro mai tradire il minimo interesse per indagini e metodi di carattere sociologico. Da indagini e metodi di questo genere, anzi, Romano sembra quasi farsi un punto d’onore di rimanere sempre a debita distanza, dimostrandosi tanto scrupolosamente attento a occuparsi (solo) di diritto positivo e (solo) con gli strumenti e nella prospettiva della scienza giuridica, che a quanti indicano nella sua concezione una teoria sociologica del diritto verrebbe la tentazione di replicare (ma è una tentazione alla quale occorre naturalmente resistere) che se mai la sua è, se così si può dire, una teoria giuridica del diritto, giacché in essa l’attenzione è interamente concentrata sul diritto, senza incursioni in campi diversi, anche se limitrofi. Non fu forse lo stesso Romano a sottolinearlo con parole che accrescono il rischio di cedere alla tentazione or ora confessata («io ho tentato di dare del diritto una definizione giuridica», L’ordinamento giuridico, cit., p. 41)?
Per lontana che sia dalla ‘dottrina pura del diritto’, della quale anzi appare come una sorta di contraltare preventivo, non pare stravagante, da questo punto di vista, affermare che la teoria romaniana si ispira e rimane fedele, non meno coerentemente di quanto non faccia la reine Rechtslehre, a quella stessa istanza di purezza che di questa costituisce l’ostentato sigillo; con la differenza che Kelsen si occupa solo di norme perché per lui il diritto è costituito solo da norme, mentre Romano non si occupa solo di norme perché per lui il diritto non è costituito solo da norme. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che già in un’importante opera giovanile del giurista siciliano si ritrovino contrapposti il filosofo, il sociologo e il politico da una parte, e il «puro – per dir così – giurista» dall’altra (S. Romano, L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale, in Id., Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, 1969, p. 41).
Più che a una sociologizzazione del diritto, la prospettiva romaniana appare funzionale a quella che è stata definita una giuridicizzazione della società. L’incisivo chiasmo ubi societas, ibi ius/ubi ius, ibi societas, valeva per lui a sottolineare non tanto che non ci può essere diritto se non c’è società – osservazione, invero, non precisamente senza precedenti – quanto che non ci può essere società se non c’è diritto, tesi assai meno scontata, e comunque sviluppata da Romano in modo del tutto personale, all’interno di un discorso condotto non a partire dalla società e guardando alla società, come era in genere quello dei suoi presunti predecessori, ma a partire dal diritto e guardando al diritto.
In questo, Romano rimaneva fedele a quella che si può considerare una costante della sua cinquantennale attività di giurista, vale a dire l’obbedienza ai canoni del metodo giuridico. Una fedeltà alla quale corrispondeva, come altra faccia della medaglia, un atteggiamento guardingo fino alla diffidenza (e oltre) nei confronti di tutto ciò che da uno scrupoloso impiego di tale metodo sembrava esulare, a cominciare da quanto era da ricondurre alla filosofia, fosse pure una filosofia del diritto. Era forse un retaggio, se non proprio un imprinting, risalente agli anni della sua formazione alla scuola di Vittorio Emanuele Orlando, capofila della battaglia per il rinnovamento degli studi pubblicistici all’insegna, appunto, del metodo giuridico, intesa a far sì che anch’essi acquistassero il rigore tecnico attribuito a quelli privatistici.
Questa scelta metodologica di fondo era destinata ad accomunare Romano al suo antico maestro anche quando le loro strade si sarebbero differenziate, e si potrebbe anzi dire che sotto questo aspetto egli era destinato a rivelarsi anche più orlandiano di Orlando. Solo sotto questo aspetto, però, giacché troppo forte era la sua personalità di giurista perché egli rimanesse nell’orbita del maestro, dalla cui influenza si affrancò praticamente da subito, al di là di un’inevitabile condivisione iniziale di idee e spunti, tutto sommato più apparente che reale. Il rapporto tra il maestro e l’allievo presto divenuto lui pure maestro rimane comunque esemplare, anche per il reciproco rispetto e la stima senza ombre che li legò sempre, pur nelle differenza di vedute, come testimoniò da ultimo la commemorazione dell’allievo che innaturalmente, come rilevò lui stesso, toccò al vecchio maestro di fare. Con Gaetano Mosca, praticamente coetaneo e compagno di studi di Orlando, che alla sua morte fu invece Romano a commemorare, essi costituirono una straordinaria triade di personalità, tra loro diversissime, che muovendo dall’Università di Palermo tanta strada avrebbero percorso e fatto percorrere agli studi costituzionalistici, sia pure seguendo itinerari più spesso divergenti che paralleli.
Prima di prenderne in esame i contenuti, può essere interessante sottolineare una particolarità che colpisce nell’opera di Romano, quella costituita dall’uso frequente di termini come postulato e corollario; un uso che ha questo di singolare, che perlopiù sono detti postulati i punti di partenza (ritenuti discutibili) dai quali muovono i ragionamenti altrui, e corollari i punti d’arrivo (ritenuti indiscutibili) ai quali approdano i suoi. Ma non per questo gli si potrebbe attribuire la pretesa di proporre, con L’ordinamento giuridico, una concezione del diritto more geometrico demonstrata. Ciò che gli interessava era spiegare quello che, giunto alla sua piena maturità di studioso, si era convinto che fosse il diritto. Che poi, nello spiegarlo, la contrapposizione tra il modo di concepire il diritto a cui era pervenuto e altri possibili modi di concepirlo, fosse espressa in più occasioni come una contrapposizione tra verità ed errore, non era in alcun modo una forma di arroganza intellettuale, ma una semplice gaffe terminologica, che tutt’al più valeva a denotarne il convinto attaccamento non a un astratto enunciato teorico, ma a quello che era per lui un dato dell’esperienza troppo evidente per essere seriamente messo in discussione.
In estrema sintesi, e a costo di incorrere in una semplificazione che confina con il semplicismo, e in esso, anzi, forse sconfina, l’essenziale della concezione del diritto di Romano si può ricondurre a due tesi, tra loro tanto strettamente congiunte da poter anche essere considerate una sola: a) «ogni ordinamento giuridico è un’istituzione, e ogni istituzione è un ordinamento giuridico»; e b) «ci sono tanti ordinamenti giuridici quante istituzioni» (L’ordinamento giuridico, cit., pp. 27 e 106).
La seconda affermazione è presentata da Romano come un corollario della prima, e mai il termine corollario è stato da lui tanto a ragione adoperato. Se essa non può essere giudicata del tutto pleonastica, è solo perché vale a mettere in luce aspetti e problemi certamente impliciti anche nell’altra, ma da questa lasciati, per così dire, nell’ombra, mentre non c’è dubbio che esigono una particolare attenzione, e dunque una trattazione a parte; che è poi quello che l’autore dell’Ordinamento giuridico fu il primo a comprendere, visto che l’articolazione in due parti dell’opera era intesa appunto a trattare separatamente le due tesi o, se si vuole, le due distinte formulazioni della sua tesi fondamentale.
Se in una prospettiva sincronica il principio della pluralità degli ordinamenti giuridici può essere effettivamente considerato un corollario dell’equazione tra diritto e istituzione, nella quale se ne può quindi indicare il prius logico, in una prospettiva diacronica il rapporto risulta rovesciato, perché chi ripercorra il processo di sviluppo della riflessione romaniana non può non riconoscere che è stata la presa d’atto della molteplicità degli ordinamenti giuridici esistenti nella realtà a costituire il prius (cronologico, appunto) dell’equazione tra diritto e istituzione formulata da Romano.
Un’affermazione, questa, assai meno stravagante di quanto possa sembrare, se è vero, come è vero, che nel testo nel quale è preannunciata la concezione del diritto alla quale il nome di Santi Romano sarebbe rimasto legato, vale a dire Lo Stato moderno e la sua crisi, dell’equazione tra ordinamento giuridico e istituzione non c’è ancora traccia, mentre, sia pure in termini di registrazione di un fenomeno in atto e non (ancora) come tesi di carattere generale, alla tendenza da tempo imperante, che ri(con)duceva tutto il diritto al diritto dello Stato, viene già opposta la constatazione dell’esistenza di una molteplicità di organizzazioni sociali che ritrovano nella loro stessa ragion d’essere, e non in un riconoscimento da parte del diritto statuale, il fondamento della propria legittimità.
Di fronte a Lo Stato moderno e la sua crisi potrebbe sorgere più di un dubbio sulla fondatezza di quanto si è detto a proposito della coerenza con cui Romano rimase sempre fedele ai canoni del metodo giuridico. Nell’affrontare la crisi dello Stato alla quale aveva deciso di dedicare il discorso inaugurale dell’anno accademico 1909-1910 a lui affidato dall’ateneo pisano, l’autore dava infatti l’impressione di voler metaforicamente spalancare ai rumori del mondo le finestre dell’aula magna nella quale lo leggeva. Non erano testi normativi, principi e dogmi giuridici quelli che prendeva in esame, ma i dati concreti di una tumultuosa realtà sociale, economica, politica di fronte alla quale nessuna certezza poteva ormai rimanere fuori discussione. A essere chiamati in causa non erano legislatori e giuspubblicisti del suo tempo (con l’unica eccezione di Léon Duguit, peraltro citato in veste di sociologo, e al solo fine di prenderne le distanze), ma Friedrich Karl von Savigny e Jean-Jacques Rousseau, Ugo Grozio e Pierre-Joseph Proudhon, John Stuart Mill e, addirittura, Friedrich Nietzsche! Né il linguaggio adoperato obbediva a un’esigenza di assoluto rigore tecnico se non mancavano espressioni come «mostruosa formulazione», «sano idealismo», «esagerato egoismo», «stupenda creazione del diritto» (Lo Stato moderno, cit., pp. 11, 16, 8), e così via.
In realtà, mai come in questo caso, il testo non può non essere visto nel suo contesto. Lo Stato moderno e la sua crisi non era un saggio teorico, e nemmeno la prolusione a un corso universitario, ma il discorso inaugurale di un anno accademico. Con sensibilità tanto più apprezzabile quanto meno diffusa tra gli oratori chiamati a parlare in occasioni simili, Romano teneva evidentemente conto del fatto di doversi rivolgere non (solo) a studiosi e studenti, ma (anche) a un più ampio pubblico di non specialisti, comprendente esponenti di spicco della società civile. Era una sensibilità della quale Romano aveva del resto già dato prova in un’analoga circostanza: quando, cioè, aveva tenuto il discorso inaugurale dell’anno accademico 1906-1907 nell’Università di Modena, nel quale pure, a essere citati, non erano giuristi e legislatori, ma Thomas Hobbes e Stuart Mill, Jean Bodin e Montesquieu, Rousseau e Tacito.
A prima vista, lo ‘Stato moderno’ al quale è fatto riferimento nel discorso non è lo Stato moderno tout court, ma la particolare forma da esso assunta nell’ultimo secolo. Solo con la Rivoluzione francese, infatti, secondo l’autore, sarebbe sorto lo Stato moderno, «come divelto dal passato, quasi come creazione ex nihilo». Sulla sua discontinuità rispetto alle precedenti forme politiche, ivi comprese quelle che in realtà erano altrettante forme di Stato moderno, Romano insiste, lamentando che
lo schianto violento della rivoluzione francese e i suoi contraccolpi avevano distrutto istituzioni che, senza dubbio, erano state elaborate dallo spirito secolare delle varie nazioni, e le istituzioni nuove, che sorgevano sulle loro rovine, sembravano piuttosto chiamate a vita dalla bacchetta magica di capricciosi legislatori sotto gli auspici e i dettami della dea ragione.
Ciò in stridente contrasto con la legge storica formulata da Savigny, secondo la quale «il diritto e la costituzione di un popolo rappresentano sempre il genuino prodotto della sua vita e della sua intima natura» (pp. 6-7).
Sarebbe difficile immaginare una presa di distanze più netta dall’astratto razionalismo giusnaturalistico, non meno che dal volontarismo giuspositivistico: per Romano, si potrebbe dire modificando il ben noto aforisma hobbesiano, nec auctoritas, nec veritas facit legem. Insieme con la denuncia del mito dell’onnipotenza del legislatore, da un lato, e della dea Ragione, dall’altro, egli accoglieva implicitamente dalla scuola storica il connesso rifiuto della riduzione del diritto alla legge. Non accoglieva, invece, la concezione del diritto come espressione dell’individualità di un popolo, che ne comportava una visione inevitabilmente monistica. Non di 'popolo', infatti, si faceva menzione nel discorso come dell’elemento determinante dei contenuti e dell’evoluzione del diritto, ma di «struttura sociale», di «forze sociali» e di «contrasti sociali».
Era appunto il particolare andamento dei contrasti sociali a dar origine alla crisi dello Stato moderno, al cui interno si andavano formando raggruppamenti e associazioni caratterizzati dalla condivisione di interessi particolari, essenzialmente di natura economica: corporazioni sindacali, innanzi tutto, ma non solo. A tali raggruppamenti e associazioni lo Stato nato dalla Rivoluzione non poteva dare alcun riconoscimento o spazio, imperniato com’era sulla polarizzazione individui/Stato, il cui presupposto era una società atomistica che non trovava riscontro nella realtà.
Il pericolo era che il prevalere delle spinte particolaristiche determinasse una decomposizione dello Stato, solo ente, per definizione, in grado di farsi carico degli interessi generali. Ma non per questo il proliferare di organizzazioni sociali che rischiavano di minarne l’unità doveva essere combattuto dallo Stato con la forza, fosse pure la forza della (sua) legge. Esse infatti trovavano nella loro stessa ragion d’essere il fondamento della propria legittimità, che non era da cercare in qualche astratto criterio formale di validità, ma nelle cose, o meglio, nei fatti, vale a dire nel fatto che si avvertisse il bisogno di organizzazioni nuove, in aggiunta all’organizzazione statuale, la quale tradiva per ciò stesso la propria inadeguatezza (p. 13).
Anche in questo caso, come sempre, era l’assetto giuridico a doversi conformare a quello sociale e alla sua evoluzione, e non viceversa. Se «la trasformazione del fatto in uno stato giuridico si fonda sulla sua necessità, sulla sua corrispondenza ai bisogni ed alle esigenze sociali» (L'instaurazione di fatto di un regime costituzionale, p. 97), e solo su essa, come Romano aveva sostenuto in un importante scritto giovanile, era evidentemente impensabile che una tale trasformazione potesse essere impedita dallo Stato con un atto di imperio. Da questo punto di vista, la crisi presa in esame nel discorso era davvero la crisi dello Stato moderno, e non solo di quella particolare forma da esso assunta con la Rivoluzione francese, che con un’inconsapevole sineddoche Romano chiamava «Stato moderno», perché è lo Stato moderno tout court, e non solo la particolare forma da esso assunta con la Rivoluzione francese, a essere caratterizzato dalla pretesa di esercitare un controllo monopolistico della legalità.
Quello che, sviluppando autonomamente una prospettiva riconducibile proprio a Romano, Paolo Grossi ha chiamato l''assolutismo giuridico' non è frutto di una svolta repentina, o di condizioni storiche venute in essere solo con la Rivoluzione francese, ma il portato di un lungo processo le cui origini sono una cosa sola con le origini dello Stato moderno, che nasce, non a caso, come Stato assoluto. E può sembrare paradossale (ma nessun fenomeno storico è in realtà paradossale) che quell’assolutismo giuridico, sicuramente consentaneo all’assolutismo politico come efficace instrumentum regni, proprio con la sconfitta dell’assolutismo politico abbia trovato più compiuta attuazione, sia pure per ragioni e con fini sicuramente diversi, nello Stato di diritto continentale e nella sua rivendicazione, anche formale, del monopolio della produzione normativa nelle forme della legge.
Nell’analisi di Romano, la crisi dello Stato moderno era comunque presa in considerazione non come crisi della forma-Stato, ma come crisi di una forma di Stato. Proprio per rimanere all’altezza della propria ragion d’essere, e di quella che, non solo tra le righe, era prospettata come la sua ancora insostituibile missione storica, lo Stato doveva tuttavia abbandonare l’inadeguata struttura monolitica che lo caratterizzava per trasformarsi in «un’organizzazione superiore che unisca, contemperi e armonizzi le organizzazioni minori in cui la prima va specificandosi» (p. 24). Basta sostituire al termine organizzazione il suo quasi-sinonimo adoperato nell’Ordinamento giuridico per vedere adombrata in questo auspicio una concezione dello Stato come istituzione di istituzioni.
«La così detta crisi dello Stato moderno implica […] la tendenza di una serie grandissima di gruppi sociali a costituirsi ciascuno una cerchia giuridica indipendente»: il nucleo del discorso pisano era riproposto in questi termini nell’Ordinamento giuridico. Il pluralismo economico-sociale, in esso prospettato come uno dei tratti salienti del tempo, veniva ora preso in considerazione come pluralismo giuridico, giacché «ogni forza che sia effettivamente sociale e venga quindi organizzata, si trasforma per ciò stesso in diritto» (L’ordinamento giuridico, pp. 113 e 44). Di qui il nuovo modo di guardare al diritto al quale perveniva l’autore.
A questo nuovo modo di guardare al diritto Carl Schmitt avrebbe ricondotto uno dei tre «tipi di pensiero giuridico» accanto a quello normativistico e a quello decisionistico: l’istituzionalismo, del quale Romano veniva indicato come uno dei principali esponenti, in aggiunta a Maurice-Jean-Claude-Eugène Hauriou (C. Schmitt, Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens, 1934; trad. it. I tre tipi di pensiero giuridico, in Id., Le categorie del 'politico', 1972, p. 260).
Fino ad alcuni anni prima, veramente, Schmitt aveva parlato di due soli tipi di pensiero giuridico, il normativismo e il decisionismo; e qualche anno dopo, dando prova di notevole disinvoltura anche come teorico, avrebbe lasciato cadere quello decisionista, nel quale in precedenza si era riconosciuto, per passare con armi e bagagli nel campo dell’istituzionalismo, senza peraltro sbarazzarsi del credo volontaristico che era alla base del suo decisionismo. Quale potesse essere in proposito l’opinione di Romano è difficile ipotizzare; ma non difficilissimo. Egli si limitò a inserire Schmitt nell’elenco di quanti avevano dimostrato di condividere la sua concezione istituzion(al)istica; ma è da dubitare che potesse avere grande considerazione di un giurista che non meno dei normativisti indicava pur sempre in un atto di volontà il fondamento del diritto, ignorando il ruolo essenziale dello jus involuntarium. Per non aggiungere che chi, come Romano, respingeva fermamente la riduzione del diritto all’economia rivendicata da Croce, non meno che la riduzione del diritto all’etica operata da Gentile, non poteva non respingere altrettanto fermamente la riduzione del diritto alla politica di fatto prospettata, se non si vuole dire perpetrata, da Schmitt.
A ogni modo, i tre tipi di pensiero giuridico dovevano essere (almeno) quattro se nel delineare la propria concezione istituzion(al)istica Romano sentiva il bisogno di metterla a confronto, oltre che con la tendenza a identificare il diritto con l’insieme delle norme giuridiche, anche con quella a identificarlo con l’insieme dei rapporti (giuridici, appunto) intersoggetivi. Nei confronti di entrambe la concezione di Romano non era presentata però come un’antitesi, ma come qualcosa di simile a un superamento dialettico, visto che era intesa non a escludere «il carattere normativo e relazionale del diritto» ma a «integrare […] questo carattere con quello istituzionale» (L’ordinamento giuridico, cit., p. 102).
Per il fatto stesso che «il rapporto giuridico attiene alla concezione soggettiva del diritto» (p. 66), non può essere una teoria che esaurisce il diritto nell’insieme dei rapporti giuridici a consentire una definizione dell’ordinamento giuridico ‘in senso obiettivo’; e d’altra parte, anche a non voler tenere conto del fatto che nessun rapporto giuridico può trovare in se stesso la ragion d’essere e la fonte della propria giuridicità, la riduzione del diritto a un insieme di rapporti tra soggetti può apparire comprensibile per qualcuno dei suoi rami, ma non certo per l’ordinamento nel suo complesso. La definizione del quale, per Romano, come in seguito per Kelsen, oltre a non dover essere in contrasto con ciò che è comunemente considerato diritto (per es., il diritto internazionale o quello ecclesiastico) deve valere per tutti gli ordinamenti giuridici, e per tutti i rami di essi. Di qui l’inadeguatezza anche dell’orientamento che concepisce il diritto come un insieme di norme, che può forse valere per quanto riguarda il diritto privato o il penale, ma non certo per il diritto pubblico che, secondo una metafora cara a Romano, costituisce il fusto da cui gli altri rami traggono sostegno.
Tanto meno la concezione del diritto come insieme di norme può abbracciare tutti gli ordinamenti giuridici, visto che possono ben esserci ordinamenti senza norme, che non conoscono la figura del legislatore, ma solo quella di un giudice che decide sulla base di criteri equitativi, o della coscienza popolare. Proprio i normativisti che indicano l’elemento peculiare della giuridicità nella sanzione, del resto, riconoscono inconsapevolmente che il diritto non si esaurisce nelle norme, giacché, più che in una singola norma, il luogo della sanzione è «negli stessi ingranaggi, nell’apparato organico dell’ordinamento giuridico considerato nel suo complesso». E quanto a ciò che si intende comunemente per diritto, quello che si ha in mente quando si parla, per es., di diritto italiano, francese e così via è un insieme di norme, o non piuttosto «i numerosi meccanismi o ingranaggi, i collegamenti di autorità e di forze, che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme giuridiche, ma non si identificano con esse» (pp. 23 e 15)?
Quando si è detto che il diritto è un insieme di norme o di rapporti giuridici, poi, non si è detto ancora nulla sul quid che tiene insieme le une e gli altri e conferisce loro il carattere della giuridicità: un quid che per Romano è costituito appunto dall’«apparato organico dell’ordinamento giuridico» e dai numerosi meccanismi e ingranaggi che ne fanno parte; in una parola: dalla sua organizzazione. In questo senso,
il diritto, prima di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di rapporti sociali, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge e che esso costituisce come ente per sé stante (p. 27).
Esso non può dunque essere solo la norma posta dall’organizzazione sociale, perché è l’organizzazione sociale che pone la norma. E che il diritto sia qualcosa di più e di diverso da insieme di norme o di rapporti sociali, è dimostrato dal fatto che anche se via via mutano le norme che ne fanno parte, l’ordinamento mantiene la propria unità e individualità; mentre, anche se non mutano, le norme di un ordinamento possono acquistare un significato via via diverso in virtù della cosiddetta interpretazione evolutiva.
Quel tutto che è l’ordinamento giuridico non è quindi una somma di parti, ma qualcosa di unitario, un 'corpo sociale', sia pur immateriale, che si può ricondurre al concetto di istituzione, sempre che questo, come quello a esso corrispondente di organizzazione, sia inteso in un senso puramente giuridico, e dunque depurato da ogni residuo sociologico.
Ecco allora la via che porta alla soluzione del problema della natura dell’ordinamento giuridico, per usare un’espressione adoperata dallo stesso Romano. Come si legge nei Frammenti,
se per ordinamento giuridico si intende un’istituzione, un ente sociale, un’organizzazione, un sistema non di sole norme e di altri elementi più o meno inerti, ma anche di uomini, di persone, che lo reggono e lo governano […] si comprende facilmente che esso è, per definizione, qualcosa di vivo, che, appunto perché vivo, continuamente si modifica, si rinnova, si evolve, pur rimanendo fermo nella sua identità continuativa e durevole (Frammenti di un dizionario giuridico, 1947, p. 124).
All’opposto di quella delle norme, insomma, la natura dell’ordinamento giuridico è una natura naturans, se così si può dire, e non una natura naturata.
Rimaneva, naturalmente, la questione di quello che con non piccola concessione al linguaggio filosofico Romano chiamava «il cominciamento», che guardando all’ordinamento/istituzione invece che alle norme appariva però tutt’altro che insolubile. Di qualsiasi ordinamento/istituzione, infatti, e non solo di quello statuale, si può dire che «esiste perché esiste e dal momento in cui ha vita». La sua origine non può essere «un procedimento regolato da norme giuridiche: è […] un fatto» (L’ordinamento giuridico, cit., p. 51): per il giurista «un ordinamento c'è perché c'è e quando c'è» (Frammenti, cit., p. 69).
I suoi conti con il principio di effettività Romano aveva cominciato a farli fin dal lavoro sull’Instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale; e non a spese del metodo giuridico, ma facendone un canone fondamentale di questo. Quando individuava nel diritto positivo l’oggetto della scienza giuridica, per positività del diritto Romano non intendeva altro che la sua effettività. E all'accusa di ri(con)durre il diritto al fatto, poteva replicare a ragione che il fatto al quale faceva riferimento non era il fatto bruto, per dir così, ma un fatto che solo in presenza di particolari condizioni poteva diventare diritto; mentre a chi trovasse tuttora da ridire sull'idea da lui avallata che ex facto oritur ius, si potrebbe provare a rispondere per lui che non sembrerebbe esserci meno da ridire sulla sola alternativa possibile, e cioè che ex nihilo oritur ius.
Anche se non esitava a riconoscere a Hauriou il merito di aver introdotto in campo giuridico «il concetto di istituzione ampiamente inteso» affrancandolo da quello di personalità giuridica, in realtà Romano intendeva quel concetto in modo ben diverso. A suo parere, infatti, in Hauriou quel concetto risultava modellato solo su un particolare tipo di istituzione, lo Stato moderno (vale a dire, allora, che era da lui restrittivamente, e non «ampiamente inteso»), e «la sua essenza» era espressa in modo nient’affatto soddisfacente. In sostanza, non identificando l’ordinamento giuridico con l’istituzione, ma intendendo il primo come un prodotto della seconda, Hauriou non superava in alcun modo l’impostazione dualistica propria del normativismo (L’ordinamento giuridico, cit., pp. 32-33).
Da questo punto di vista, anche il riconoscimento di debito venuto da Romano (soltanto) nei confronti di Otto von Gierke appare allora eccessivo, perché proprio nel sostenere che ogni comunità umana produce diritto, Gierke dimostrava di rimanere legato lui pure all’impostazione dualistica (e normativistica) imputata a Hauriou. Se egli davvero fosse da considerare un predecessore dell’istituzionismo di Romano, quanti altri predecessori si dovrebbero con lui ricordare, soprattutto tra i filosofi, che Romano, proprio in quanto filosofi, si guardava bene dal considerare propri predecessori! Stando così le cose, la conclusione da trarre è che un Romano meno misurato di quanto non fosse, avrebbe ben potuto apporre all’Ordinamento giuridico l’epigrafe che Montesquieu trasse da Ovidio per L'esprit des lois: prolem sine matre creatam.
Uno dei principali aspetti positivi della concezione istituzionistica era indicato da Romano nella sua idoneità a sciogliere positivamente la questione dell’appartenenza o meno del diritto internazionale e di quello ecclesiastico al novero degli ordinamenti giuridici, giacché entrambi corrispondevano alla nozione di istituzione, come del resto infiniti altri ‘enti sociali’: dall’azienda alla scuola, dallo stabilimento industriale al circolo di divertimento. Ma il riconoscimento dell’esistenza di un numero potenzialmente illimitato di istituzioni indipendenti l’una dall’altra comporta una ben precisa conseguenza concreta: se ogni ente sociale è un’istituzione, e ogni istituzione è (non ‘ha’) un ordinamento giuridico, non ci sono ordinamenti giuridici ‘più giuridici’ degli altri, nemmeno gli Stati: il giudizio sulla liceità di un’istituzione/ordinamento, quindi, non può che essere un giudizio sempre e solo di portata relativa, valido, cioè, non in assoluto, ma solo in relazione a una determinata altra istituzione/ordinamento.
La repulsione di fronte a un’organizzazione criminale è perciò moralmente comprensibile, ma non può certo tradursi in un disconoscimento del suo carattere di istituzione/ordinamento giuridico, che comporta un giudizio tecnico al quale il giurista non può non attenersi.
Dopo quello che Grossi ha chiamato ‘assolutismo giuridico’, affermatosi sul piano pratico-teorico nella modernità e imperniato sulla tendenziale identificazione del diritto con il diritto dello Stato, nelle pagine dell’Ordinamento giuridico si inaugurava così una prospettiva che si potrebbe ben dire di relativismo giuridico che si può ricondurre a quella stessa esigenza di riaffermare la piena autonomia dello studio del diritto che costituiva la ragion d’essere della mai smentita opzione romaniana per il metodo giuridico.
A trent’anni di distanza, in alcune pagine dei Frammenti, Romano riproponeva sostanzialmente immutate le tesi esposte nell’Ordinamento giuridico: il suo ritorno alla teoria generale avveniva dunque all’insegna di un implicito heri dicebamus. Della validità della concezione istituzionistica, egli appariva, se possibile, più convinto di prima, anche per le conferme venutegli dalle riflessioni delle quali i Frammenti erano il frutto, oltre che dal confronto con i suoi critici al quale aveva dedicato le aggiunte alla seconda edizione dell’Ordinamento giuridico.
Di quelle conferme, una almeno merita di essere messa in rilievo, perché costituisce quello che, se in questa sede fosse lecito adoperare un linguaggio poco paludato, si potrebbe chiamare un colpo da maestro. A sostegno del proprio modo di concepire il diritto, infatti, Romano chiamava in causa addirittura il legislatore, citando l’art. 31 delle Disposizioni preliminari del nuovo Codice civile:
in nessun caso le leggi e gli atti di uno Stato estero, gli ordinamenti e gli atti di qualunque istituzione o ente […] possono avere effetto nel territorio dello Stato, quando siano contrari all’ordine pubblico o al buon costume (Frammenti, cit., p. 73).
Perfino nell’ipotesi in cui ne sia esclusa la compatibilità col diritto italiano, il legislatore non mette in dubbio che «gli ordinamenti […] di qualunque istituzione o ente» siano e rimangano comunque tali: si potrebbe immaginare avallo più eclatante per la teoria dell’istituzione/ordinamento e della pluralità degli ordinamenti giuridici? Anche se, a ben riflettere, più che di una conferma della validità di quella teoria, si trattava in realtà di una conseguenza e di una riprova del suo avvenuto recepimento nella nostra cultura giuridica; sulla quale si può ben dire anche per questo che nessun giurista italiano ha esercitato nell’ultimo secolo un’influenza paragonabile a quella di Romano.
Nessun giurista; e nessun filosofo del diritto, d’altronde; perché non si spiegherebbe altrimenti come mai nelle varie storie della filosofia giuridica del Novecento all’autore dell’Ordinamento giuridico sia dedicato più spazio che non alla maggior parte dei filosofi del diritto italiani. Come per una sorta di contrappasso, anche da un punto di vista strettamente filosofico-giuridico tanti filosofi del diritto comme il faut, dai quali le riflessioni romaniane erano state considerate con malcelata sufficienza, rimangono nell’ombra di fronte a un filosofo del diritto che non aveva inteso in alcun modo essere tale.
Non sarebbe giusto tuttavia non aggiungere che una sorta di opposto contrappasso sembra aver operato anche a carico di Romano, coerente assertore del metodo giuridico che per tutta la vita volle sempre essere giurista e solo giurista, guardandosi bene dall’indulgere a discorsi da filosofo del diritto. In un ricordo degli anni trascorsi a Pisa come studente di giurisprudenza, Antonio Cassese ha raccontato una significativa scena alla quale aveva assistito personalmente. Richiesto della sua opinione sull’Ordinamento giuridico dal collega di ateneo Massimo Severo Giannini, uno dei più grandi giuristi italiani del 20° sec., Virgilio Andrioli, rispondeva, non senza una sfumatura di perfidia: «Quel libro?... È un romanzo!» (cfr. Il conferimento ad Antonio Cassese del Campano d'oro 2009, «Il Rintocco del Campano», 2010, 1, p. 22).
La più autorevole e completa bibliografia su Santi Romano è la Nota bibliografica su Santi Romano di A. Romano in P.Grossi, A. Romano, Ricordando Santi Romano in occasione dell’inaugurazione dei corsi dell’a.a. 2010-2011 nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, a cura di E. Ripepe, Pisa 2012, pp. 80-85.
Si vedano inoltre:
A. Catania, Teoria e filosofia del diritto, Torino 2006.
G. Itzcovich, Teoria e ideologie del diritto comunitario, Torino 2006.
S. Lariccia, Santi Romano: l’ordinamento giuridico, «Ritorno al diritto», 2008, 7, pp. 82-109.
G. Azzariti, Diritto e conflitti. Lezioni di diritto costituzionale, Roma-Bari 2010.
C. Pinelli, La costituzione di Santi Romano e i primi maestri dell’età repubblicana, «AIC. Rivista telematica giuridica dell’Associazione dei Costituzionalisti», 2012, 2, pp. 1-26.