Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La teoria della relatività speciale nasce dall’esigenza di estendere all’elettromagnetismo il principio di relatività galileiano, al quale Einstein ha aggiunto l’invarianza della velocità della luce in qualunque sistema inerziale, cosa che implica modifiche profonde al concetto di tempo. Alla base della teoria della relatività generale c’è, invece, l’equivalenza tra sistemi non inerziali uniformemente accelerati e sistemi che cadono liberamente in un campo gravitazionale uniforme. Questa teoria, sviluppata da Einstein dal 1907 al 1916, ha geometrizzato la forza di gravità utilizzando uno spazio-tempo curvo e ha permesso di formulare vari modelli cosmologici. Nel corso del Novecento la relatività generale ha trovato numerose conferme sperimentali.
L’estensione del principio di relatività galileano all’elettromagnetismo: il grande contributo di Einstein
È noto che le leggi della meccanica newtoniana, e in particolare le forze, non dipendono dalle differenti velocità di un sistema fisico, ma solo dalle differenze di velocità, ovvero dalle accelerazioni. Questo fatto rende tutti i sistemi inerziali fisicamente equivalenti: in particolare, un sistema considerato in quiete e uno che si muova di moto rettilineo uniforme relativamente a esso sono sperimentalmente indistinguibili, dato che all’interno di uno dei due sistemi è impossibile stabilire se siamo fermi o se ci muoviamo con velocità costante. Tale principio, noto anche come principio di relatività galileiano, sembra rendere non verificabile l’ipotesi che esista un sistema inerziale privilegiato in quiete assoluta (lo spazio assoluto di Newton).
Tuttavia, le equazioni di Maxwell, che sono alla base dell’elettromagnetismo classico, e che sono scoperte nella seconda metà dell’Ottocento, non solo assegnano alla velocità della luce c un ruolo fondamentale, ma mettono in evidenza anche una dipendenza della forza elettromagnetica dalla velocità v di un corpo rispetto a un sistema inerziale. L’elettromagnetismo, a differenza della meccanica classica, sembra richiedere l’esistenza di un sistema di riferimento inerziale privilegiato, in cui il mezzo perfettamente elastico nel quale si pensa si propaghino le onde elettromagnetiche, l’etere, sia in quiete assoluta. Poiché si scopre che la luce è un particolare fenomeno elettromagnetico, ne segue che la sua velocità può essere pari a c solo rispetto all’etere stazionario. La meccanica sembra quindi basarsi su un principio di relatività (quello galileiano) smentito poi dall’elettromagnetismo.
Uno dei grandi contributi della relatività speciale di Albert Einstein (1905) è proprio l’eliminazione del profondo conflitto concettuale generato tra queste due branche della fisica di fine Ottocento. Tale eliminazione, ottenuta attraverso l’estensione del principio di relatività anche all’elettromagnetismo, comporterà una modifica profonda della natura dello spazio e del tempo fisici.
Alla fine dell’Ottocento sono approntati esperimenti, per l’epoca assai precisi, proprio allo scopo di determinare l’ipotetica velocità relativa della Terra rispetto all’etere stazionario. Tali esperimenti, dovuti a Albert Abraham Michelson e Edward Morley, utilizzano un precisissimo interferometro, caratterizzato da due aste tra loro ortogonali su cui viaggiano raggi di luce. Nel caso l’ipotesi dell’esistenza dell’etere si verificasse, tali raggi, opportunamente riflessi, dovrebbero interferire tra loro, dovrebbero cioè generare zone di luminosità alternate ad altre di buio. L’esperimento ripetuto più volte in vari mesi dell’anno non dà però alcun esito. Il primo notevole tentativo di spiegare tale risultato nullo è, qualche anno dopo, quello di George Fitzgerald e di Hendrick Lorentz (1892): indipendentemente l’uno dall’altro, essi postulano che il braccio parallelo alla direzione del moto terrestre in moto nell’etere si contragga di un fattore proporzionale alla velocità della Terra: ciò sarebbe sufficiente a spiegare l’assenza di interferenza, mantenendo l’ipotesi che la luce viaggi a velocità c solo rispetto all’etere. Per Lorentz si tratta dunque di spiegare perché la velocità della luce sembri la stessa in ogni sistema di riferimento inerziale, un fatto certamente “innaturale” e controintuitivo, perché quando andiamo verso un raggio luminoso e quando ce ne allontaniamo, in base alla legge dell’addizione della velocità, la velocità della luce relativa a noi nei due casi dovrebbe cambiare.
Plausibilmente la mancata rilevazione sperimentale di una velocità relativa della Terra rispetto all’etere, ma assai di più il tentativo di eliminare “fastidiose” asimmetrie legate ai fenomeni elettromagnetici che conseguono dalla postulazione di un sistema in quiete assoluta, inducono Einstein a costruire una nuova teoria basandola su due principi fondamentali. Il primo, detto appunto di “relatività”, estende la già vista relatività dei fenomeni meccanici anche all’elettromagnetismo e potenzialmente a tutta la fisica, eliminando con ciò il bisogno di ipotizzare un sistema inerziale privilegiato. Il secondo, che riguarda la velocità della luce, è quello più profondamente innovativo dal punto di vista concettuale, visto che afferma ciò che Lorentz e gli altri fisici non volevano credere, ovvero che la luce ha la stessa velocità costante in tutti i sistemi di riferimento inerziali, indipendentemente dalla velocità della sorgente che la emetta.
Relatività, simultaneità e unificazione di tempo e spazio
È proprio il secondo postulato che spinge Einstein nella direzione di rinunciare all’assolutezza della relazione di simultaneità tra eventi distanti, il passo che Henri Poincaré, uno dei matematici più creativi di tutti i tempi, non era riuscito a compiere, malgrado fosse arrivato assai vicino alla formulazione della teoria (1905). Il nuovo problema che si genera con il secondo postulato è infatti quello di spiegare come è possibile che la luce, emessa nel punto in cui due osservatori inerziali in moto reciproco si incontrano, possa percorrere due distanze diverse nei due sistemi, se si suppone che la velocità che ha rispetto ai due sistemi sia identica e che scorra allo stesso modo anche il tempo associato ai due sistemi. Solo se gli orologi (e dunque i tempi) relativi ai due sistemi inerziali scorrono diversamente, ovvero se la simultaneità tra eventi distanti dipende dai due sistemi, che la luce può avere la stessa velocità in entrambi i sistemi, come richiesto dal secondo postulato, senza che le distanze percorse dalla luce nei due sistemi debbano essere uguali.
La tesi che il tempo scorra in modo diverso per osservatori inerziali diversi, ovvero che la simultaneità sia relativa a sistemi inerziali diversi, è la prima delle due radicali innovazioni introdotte dalla relatività speciale: mentre nella teoria newtoniana esiste un presente cosmicamente esteso e identificato dalla classe di eventi simultanei al nostro “qui-ora”, classe che non dipende da un particolare stato di moto inerziale, nella relatività speciale la dipendenza della simultaneità da un particolare stato di moto fa sì che il presente di un evento si riduca all’evento stesso.
La seconda grande innovazione è l’unificazione di spazio e tempo in un tutto quadridimensionale, lo spazio-tempo, fatto che risulta particolarmente evidente nell’interpretazione geometrica della teoria della relatività speciale dovuta a Hermann Minkowski. Pur seguendo la meccanica newtoniana classica nel considerare come privilegiati i moti non accelerati o inerziali, e nell’operare dunque una distinzione assoluta tra moti inerziali e moti non inerziali, la relatività speciale non assegna un significato invariante né alla separazione spaziale tra eventi né a quella temporale, separatamente prese. È solo un’opportuna “somma” tra tali separazioni che mantiene un significato assoluto o indipendente dall’osservatore inerziale considerato. È per questo che, come scrisse Minkowski, “lo spazio preso separatamente e il tempo preso separatamente sono condannati a dissolversi in mere ombre, e solo un tipo di unione tra i due manterrà una realtà indipendente”. L’insistenza sugli aspetti della teoria che rimangono invariati in seguito a opportune trasformazioni (rotazioni, traslazioni, passaggi da un sistema inerziale all’altro) costituisce la preziosa eredità del programma di Erlangen (1873), che Minkowski consegna al XX secolo e sulla quale si costruirà la futura geometrizzazione di altre teorie fisiche. Oltre che a definire una particolare geometria, tali invarianti corrispondono, come è chiaro dalla citazione di cui sopra, alle grandezze fisiche indipendenti od oggettive.
Sotto l’influenza del pensiero di Ernst Mach, che ritiene che tutti i tipi di movimento siano relativi, ovvero siano moti di un corpo rispetto a un altro, il passo successivo di Einstein (1907) è quello di provare a generalizzare ulteriormente il principio di relatività sopra esposto (valido solo per sistemi inerziali) anche a sistemi uniformemente accelerati. L’equivalenza locale tra un sistema in caduta libera in un campo gravitazionale uniforme e un sistema inerziale, il cosiddetto principio di equivalenza, considerato da Einstein “il pensiero più felice della sua vita”, è la chiave che porta alla teoria della relatività generale, alla quale Einstein lavora indefessamente fino al 1916. Evidenza per questo principio viene dalla proporzionalità tra massa inerziale (quella che si oppone all’accelerazione di un corpo) e massa gravitazionale (quella soggetta all’attrazione gravitazionale), nota già ai tempi di Galilei, e responsabile del fatto che tutti i corpi immersi in un campo gravitazionale sono soggetti alla stessa accelerazione. Tale misteriosa proporzionalità era stata misurata da Lòránd Eotvös con precisione crescente già a partire dalla fine dell’Ottocento e il nuovo principio di equivalenza di Einstein è in grado per la prima volta di spiegarla: la proprietà “inerziale” mostrata da un oggetto fisico in un sistema di riferimento che, in assenza di gravità, è accelerato uniformemente di una quantità –a è la proprietà “gravitazionale” dell’oggetto che cade con un’accelerazione a in un sistema fermo in un campo gravitazionale uniforme. Come conseguenza del nuovo principio di Einstein, questi diventano due modi diversi per riferirsi a un’unica proprietà.
Dal principio di equivalenza già nel 1907 Einstein trae due conseguenze osservabili, ovvero che la gravità deve incurvare i raggi di luce e che la frequenza della radiazione è spostata verso il rosso o verso il blu, a seconda che risalga o scenda un campo gravitazionale. Di qui la prima evidenza che la geometria dello spazio-tempo (in questo caso lo scorrere del tempo) può dipendere dal campo gravitazionale locale, e può dunque variare (a differenza di quel che succede con lo spazio-tempo di Minkowski) con la distribuzione della materia.
Assai probabilmente già nel 1912 a Zurigo, e certamente nel 1913 in un saggio scritto con il matematico e vecchio amico del politecnico di Zurigo Marcel Grossman, Einstein esprime per la prima volta l’idea che il campo gravitazionale non uniforme di una porzione anche larga dell’universo possa essere descritto da una superficie a curvatura variabile (si pensi a una sella, o a una palla da rugby, che a differenza di una sfera, non ha una superficie a curvatura costante). Tale superficie è costituita localmente da tempi, ossia “pezzettini” in cui il campo può essere considerato quasi uniforme. Nell’analogia suggerita da Einstein, l’uniformità locale del campo gravitazionale corrisponde a un piccolissimo intorno della superficie curva che può essere messo in corrispondenza con una superficie euclidea o piatta (si pensi a un piano tangente a una sfera). In tale intorno vale la relatività ristretta con le sue leggi, mentre l’intera superficie dell’universo, in cui il campo non è uniforme, ha caratteristiche non euclidee (esistono più parallele o nessuna parallela a una “retta data”).
Sviluppate già nell’Ottocento da Gauss, Lobacevskij, Riemann e poi studiate da un punto di vista differenziale dalla scuola matematica italiana di Gregorio Ricci Curbastro e Tullio Levi-Civita, le geometrie non euclidee erano “già pronte” per essere utilizzate per applicazioni fisiche. E infatti nel saggio del 1913, scritto a quattro mani con Grosmann la forza di gravità viene assorbita nella geometria dello spazio-tempo curvo, nel senso che la linea “più diritta possibile” in tale spazio-tempo curvo, detta geodetica (si pensi a un arco di cerchio massimo sulla superficie di una sfera), che per definizione denota il moto inerziale, rappresenta la traiettoria di una particella in caduta libera soggetta solo alla forza di gravità; mentre due geodetiche che accelerano reciprocamente definiscono la curvatura dello spazio-tempo.
Già in questo saggio del 1913 è dunque presente la vera, grande novità concettuale della relatività generale: la geometria dello spazio-tempo dipende dalla distribuzione di materia, e spazio e tempo non sono dunque più inerti spettatori del dramma rappresentato dalla storia dell’universo, ma vi partecipano attivamente. La materia, generando il campo gravitazionale, influenza la curvatura dello spazio-tempo ma quest’ultima a sua volta guida il moto della materia: in una metafora dovuta all’astrofisico Arthur Stanley Eddington, un telo elastico (lo spazio-tempo) incurvato dalla presenza di una biglia di ferro (la materia) ne determinerà il moto deviandone la traiettoria. Ultimo, importante punto: tutte le equazioni che compaiono nella teoria sono in forma covariante, ovvero hanno una forma che non dipende dal particolare sistema di coordinate prescelto, cosa che corrisponde all’esigenza di non far dipendere la descrizione del mondo dal particolare sistema.
Conferme sperimentali della relatività generale
In varie memorie del 1915 Einstein va modificando, fino alla forma attuale, le equazioni di campo, riuscendo a derivare la predizione corretta per il cosiddetto avanzamento del perielio di Mercurio, di cui la teoria newtoniana non riusciva a dar conto; Mercurio, infatti, non si muove sempre lungo la stessa traiettoria: esso giunge al perielio, ossia al punto più vicino al Sole, un po’ dopo aver compiuto un’intera rivoluzione a partire dal perielio precedente. Il valore calcolato con la meccanica newtoniana mostrava che l’influenza complessiva di tutti i pianeti conosciuti produceva una rotazione dell’orbita di Mercurio di 531 secondi d’arco per secolo, mentre l’osservazione conduceva a un valore di 574 secondi d’arco per secolo. Vi era quindi una differenza di 43 secondi d’arco per secolo che rimaneva senza spiegazione. Einstein osserva che la discrepanza fra dato teorico e osservazione scompare se si sostituisce la legge di gravitazione di Newton con quella spazio-temporale e si convince così che la sua teoria è fondamentalmente giusta e che la teoria di Newton – che presenta in più lo svantaggio di presupporre un’azione a distanza che allo stesso scienziato britannico era apparsa inaccettabile – dev’essere abbandonata. Ancora oggi, la predizione corretta dello spostamento del perielio di Mercurio costituisce un test assai importante che conferma la relatività generale nei confronti di altre teorie rivali.
Il secondo test classico della relatività generale, quello che ha reso Einstein famoso a livello mondiale, riguardava la deflessione delle traiettorie luminose in presenza di corpi massivi. Nel 1919 viene confrontata la fotografia di una stella scattata nel momento in cui gli effetti del Sole sono trascurabili con una fotografia ottenuta durante un’eclissi totale; ciò permette di osservare che l’immagine apparente della stella è spostata rispetto all’immagine reale ottenuta in precedenza di un angolo che coincideva con le predizioni della teoria.
È importante ricordare che la relatività generale è alla base della possibilità di descrivere l’universo osservabile a larga scala attraverso modelli matematici precisi, fatto che ha trasformato la cosmologia da disciplina puramente mitica o congetturale a branca della scienza.
Conseguenze della relatività generale sul modello cosmologico
Nel 1917 Einstein propone il primo modello cosmologico di un universo statico, finito e illimitato, in cui non esiste materia infinitamente lontana da altra materia (si pensi a una sfera), e in cui esiste un campo repulsivo che bilancia l’attrazione gravitazionale, descritto dalla cosiddetta costante cosmologica. Negli anni successivi si scoprono altri modelli cosmologici dinamici: il russo Alexander Friedmann tra il 1922 e il 1924 postula un modello omogeneo (in cui ogni superficie spaziale ha valori costanti) e isotropo (in cui, cioè tutte le direzioni dello spazio sono equivalenti), che ammette un tempo cosmico, già studiato da Hermann Weyl nel 1918, e dunque la possibilità di un’evoluzione cosmica. Nel 1929 le assunzioni simmetriche del modello di Friedmann, che inizialmente passate inosservate, saranno poi giustificate da Howard Percy Robertson facendo ricorso al principio cosmologico, che afferma che nessun osservatore deve essere in grado di distinguere attorno a lui qualche direzione privilegiata. Nel modello di Robertson le curve che descrivono l’evoluzione della materia o divergono tutte da un inizio, o convergono, o fanno entrambe le cose in successione. Tale osservazione, coniugata alle osservazioni di Edwin Powell Hubble (1929) sulla recessione delle galassie, cominciò a portare al modello standard del big bang, che prevede all’origine un universo caldissimo e assai denso (Lemaître, 1927).
Nel 1935 Robertson e Arthur Geoffrey Walker derivano l’espressione più generale dei modelli cosmologici standard, che pongono l’accento sulla densità di materia come elemento critico capace di determinare o un big crunch (se l’attrazione gravitazionale avesse prevalso sull’espansione iniziale l’evoluzione futura dell’universo avrebbe comportato una specie di implosione) o, nell’ipotesi contraria, un’espansione illimitata dell’universo. Per una ventina d’anni il modello Friedmann Robertson Walker (FRW) non avrà alcuna chance di essere preso seriamente: a causa di un errore nel calcolo delle distanze intergalattiche dovuto allo stesso Hubble, si penserà che il tempo trascorso dall’espansione cosmica sia stato di due miliardi di anni, fatto incompatibile con la datazione geologica delle rocce terrestri assai più elevata. La correzione di questo dato a opera delle osservazioni di Walter Baade (1956), insieme alla scoperta della nucleosintesi a opera di Alpher, Bethe e Gamow (1948), che porterà alla predizione di una radiazione isotropa a circa 2,7 gradi Kelvin (poi scoperta per caso nel 1965 da Penzias e Wilson), rafforzeranno gradatamente la fiducia nel modello standard del big bang.
Ulteriori successi sperimentali
Parallelamente a questi successi nell’ambito cosmologico, e a ulteriori raffinamenti matematici della teoria, come per esempio alla dimostrazione di teoremi sulle singolarità iniziali dovuti a Geroch Hawking e Penrose (1970), a partire dagli anni Sessanta la relatività generale conosce anche grandi successi sperimentali.
Tra i risultati più significativi da questo punto di vista vale la pena di ricordare le pulsar binarie, stelle collassate che ruotano su orbite ellittiche attorno al comune centro di massa, scoperte a metà degli anni Settanta. L’avanzamento del periastro (il punto in cui una delle due stelle è più vicina al comune centro di massa) di uno dei due corpi è previsto con grande accuratezza dalla teoria di Einstein: si è sperimentato che, analogamente al caso del perielio di Mercurio, anche l’ellissi di una delle due stelle non è chiusa ma ruota nel tempo descrivendo un angolo di 4,2 secondi l’anno. Le pulsar binarie sono inoltre importanti per un altro motivo sperimentale: secondo la relatività generale l’energia dei corpi orbitanti viene gradatamente convertita in radiazione gravitazionale e tutte le orbite si rimpiccioliscono dunque con il tempo. Ma tale diminuzione varia con il tipo di moto dell’oggetto massivo ed è massima se l’oggetto vibra o ruota a velocità e frequenze altissime, come nel caso delle pulsar. Il tentativo di rivelare le onde gravitazionali attraverso antenne è iniziato negli anni Sessanta e sta attualmente proseguendo attraverso la tecnologia laser, che è in grado di individuare piccolissime diminuzioni nella distanza tra due masse, ma non ha ancora portato risultati positivi.
Nel 1936 Einstein aveva anticipato un altro importante effetto sperimentale di deflessione della luce: i raggi emessi da una stella che passano su bordi opposti di un corpo di massa molto grande interposto tra noi e la stella danno origine a due immagini dello stesso oggetto. Tale effetto di “lente gravitazionale” è stato poi verificato nei primi anni Ottanta con una quasar (oggetto che emette onde radio e che sembra una stella) i cui segnali, prima di arrivare a noi, venivano deviati da una galassia.
Infine, il grande problema ancora aperto della fisica teorica è la fusione delle due grandi teorie fisiche del Novecento, relatività generale e meccanica quantistica, entrambe sperimentalmente molto accurate nel loro dominio, ma tuttora recalcitranti a tentativi di unificazione che portino a predizioni empiriche realizzabili con la tecnologia odierna. Già nel 1916 Einstein aveva annunciato che la relatività generale doveva essere modificata se si doveva tener conto di effetti quantistici, e passò il resto della sua esistenza a cercare una teoria di campo unificata che fondesse relatività e meccanica quantistica. I progressi negli ultimi decenni nella teoria delle stringhe e nella cosiddetta loop quantum gravity sono in fondo un modo per continuare il programma unificatorio di Einstein, motore primo e ultimo della fisica del secolo scorso.