La teorica della ragion di Stato
Profondi cambiamenti interpretativi sono intervenuti negli ultimi decenni nel campo degli studi dedicati al complesso delle semantiche che rinviano alla nozione di ragion di Stato; conviene ripercorrerne rapidamente i passaggi più significativi, che confermano l’interesse della comunità scientifica per una categoria del pensiero politico che appare intramontabile.
Bisogna innanzitutto ricordare il convegno di studi di Tubinga su questo tema, svoltosi nel 1974 e promosso da Roman Schnür (Staatsräson, 1975); esso costituì un’esperienza di forte sinergia tra gli studiosi europei e produsse una serie di importanti risultati. Innanzitutto, in modo unanime venne espresso il congedo definitivo dall’interpretazione dell’idea di ragion di Stato offerta nel 1924 da Friedrich Meinecke (Die Idee der Staatsräson in der neuren Geschichte): nel suo contributo a Staatsräson, Michael Stolleis sostiene che bisogna interpretare la sovranità come Stato territoriale, «reale Machtpolitik», e non più – alla maniera di Meinecke – concettuale opposizione di etos e kratos, di morale e politica; rifiuto quindi di ridurre teorie e pratiche di ragion di Stato al genio di Niccolò Machiavelli, considerato da Meinecke inventore non dell'espressione ma dei fondamenti teorici della ragion di Stato.
In quegli stessi anni, con tonalità consonanti, Michel Foucault dedicava a questi temi un’indagine di grande rilievo. Sottoponendo a profonda critica la categoria moderna di sovranità nelle lezioni al Collège de France del 1975-76 che recano il titolo Il faut défendre la societé (1997) e dedicando al tema della ragion di Stato una parte importante nelle lezioni del 1977-78 su Sécurité, territoire, population (2004), Foucault veniva assegnando ai dispositivi di ragion di Stato caratteristiche e attributi di un modo specifico di pensare e agire la politica dello Stato moderno a partire dal 17° secolo. Teorie e tecniche di ragion di Stato rappresentano un nuovo modo di pensare e praticare la politica, che apre ai processi della moderna arte del «governo degli uomini», primo passaggio per la costituzione di strategie disciplinari di gouvernementalité.
Ancora, dagli inizi degli anni Novanta, in Italia dapprima e in seguito in molti Paesi europei, una vera e propria effervescenza di ricerche ha contribuito a promuovere ulteriori avanzamenti critici sui temi della ragion di Stato, provocando un’estensione e un superamento della classica stagione di studi che aveva visto gli importanti lavori che vanno da Meinecke a Rodolfo De Mattei (1950 e 1979), da José A. Maravall (1944 e 1972) a Étienne Thuau (1966), da Luigi Firpo (1960 e 1976) a George L. Mosse (1957). Si vedano a tal proposito gli atti dei convegni Ragion di Stato e ragioni dello Stato (secoli XV-XVII), 1996, Botero e la ragion di Stato, 1992, Aristotelismo politico e ragion di Stato, 1995, La Ragion di Stato dopo Meinecke e Croce, 1999, Prudenza civile, bene comune, guerra giusta, 1999.
Ragion di Stato non viene più interpretata solamente come prevalente esercizio della forza, come utilizzo normale del segreto e della deroga; soprattutto, si cerca di superare i limiti della letteratura critica che ancora riferiva in modo diretto le novità introdotte dagli scrittori di ragion di Stato alle teorie di Machiavelli e che interpretava univocamente discorsi e dispositivi di ragion di Stato come razionalizzazione del governo civile ispirato dalle esigenze religiose della Controriforma.
Agli inizi del nuovo secolo, si può dunque tentare di restituire il senso di quella innovativa stagione di ricerche: ragion di Stato è ora studiata come il complesso delle pratiche e delle scritture proprie di un autonomo paradigma di conservazione politica che viene a costituire parte integrante dei processi di modernizzazione che si affermano in Europa a partire dalla metà del Cinquecento; in breve, si tratta di uno tra i principali fenomeni di quella modernità politica che non bisogna identificare riduttivamente con il primato della ragione autoritativa di sovranità, ma che va considerata disseminazione composita di istanze paradigmatiche diverse (Borrelli 1993 e 2003). Seguendo tale prospettiva critica, risulta anche possibile comprendere quegli elementi che segnano interessanti novità nel merito delle relazioni complesse che vengono emergendo tra la funzione preminente del comando politico perseguito per ragion di Stato con l’esercizio specifico dei dispositivi giuridici posti in essere dall’autorità di governo. Gli autori che, per circa mezzo secolo, dialogano tra loro realizzando quel libro variamente argomentato della ragion di Stato, offrono pure pregnanti enunciazioni e definizioni relative al posto che il diritto viene chiamato a ricoprire nell’organizzazione della vita civile; di queste particolari acquisizioni, che segnano significative novità nella cultura giuridica italiana del Seicento, si può operare un'essenziale ricostruzione.
L’impegno critico più recente della ricerca ha indagato il fenomeno della ragion di Stato come l’arte di governo rivolta alla produzione dinamica di conservazione politica, improntata più alla razionalità che al buon governo, impegnata a offrire sostegno all’inedito artificio dello Stato moderno per vie diverse che vedono interagire nuovi saperi di governo, procedure diplomatico-militari, pratiche disciplinari in grado di produrre un efficace rapporto di comando-obbedienza. Grazie al complesso di pratiche e scritture di ragion di Stato, a fine Cinquecento, il laboratorio politico italiano mette capo alla produzione inedita di un programma di conservazione che afferma la centralità dello strumento autonomo della politica. Per porre in evidenza nel modo più conveniente l'originalità di questa produzione, bisogna sicuramente fare opera di ricostruzione degli elementi costitutivi di quel programma conservativo della situazione dei poteri esistenti che viene via via affermandosi in Italia all'interno degli Stati regionali, coinvolti fin dall'inizio del Cinquecento nel confronto diretto con gli Stati europei che fanno del territorio italiano un campo di conquista.
In particolare, per quanto concerne la storia italiana, nel momento più alto della civiltà rinascimentale, che coincide tuttavia con la crisi politica più acuta degli Stati regionali in Italia nei primi decenni del Cinquecento, la cultura italiana pone in essere un processo straordinario di trasformazione di linguaggi e comportamenti, con la precisa finalità di riconvertire tensioni antagonistiche e conflitti diffusi in percorsi di possibile pacificazione e di sicurezza materiale di vita. Questo programma coincide in prima istanza con il progetto di civil conversazione che prende avvio grazie a scritture di inestimabile valore: tra questi autori bisogna citare almeno Baldassarre Castiglione (Libro del cortegiano, 1528), Giovanni della Casa (Galateo, 1558) e Stefano Guazzo (Civil conversazione, 1574); l’obiettivo particolare è quello di attenuare i conflitti interni alle corti e di riconvertire in politica gli antagonismi vivi tra gli Stati italiani, resi ancora più drammatici nel contesto dei tentativi di conquista spagnoli e francesi. Questi autori lavorano alla codificazione di nuove regole di condotta, suggeriscono registri di buone maniere valide non solo per i cortigiani, bensì per tutti i sudditi; tali scritture vengono riprese in tutti i Paesi europei ed esercitano un’incidenza impressionante sulle condotte degli italiani, che si prolunga almeno fino agli inizi del 19° sec. (Quondam 2010).
Con questa letteratura prende corpo il progetto determinato di costruire codici di disciplina dei comportamenti individuali idonei a configurare rapporti efficaci di comando/obbedienza tra governanti e governati; per l’organizzazione della vita civile viene argomentata l’inevitabile rinuncia all’ossequio delle virtù tradizionali fondate sui principi non più efficaci delle leggi morali del giusnaturalismo cristiano, di fatto smentite dalla serie interminabile dei sanguinosi avvenimenti dell’epoca; piuttosto, bisogna praticare quelle tecniche di dialogo, di commercio comunicativo, suggerite dalle cosiddette virtù minori – quali, per es., grazia, piacere, utilità – al fine di razionalizzare e raddolcire la condotta dei soggetti interessati a conservare la situazione dei poteri esistenti: in breve, attraverso le pratiche del governo di sé, contribuire a realizzare il governo degli altri, con positivo effetto di disciplinamento sociale (Borrelli 2000).
In realtà, le scritture italiane di ragion di Stato possono essere innanzitutto considerate il compimento di quel progetto di civil conversazione. E in partenza conviene offrire qualche utile precisazione: ragion di Stato non è l’imperativo assoluto in nome del quale si può e si deve stravolgere ogni genere di norma al fine dell’interesse dello Stato; si tratta piuttosto di una nuova arte razionale del governo, quindi esercizio della ragione come mezzo di conoscenza e volontà di orientamento nelle cose che riguardano in modo esclusivo lo Stato inteso come dominio su di un ambito territoriale, che include anche la giurisdizione sulle condizioni di vita degli individui e dei corpi.
Peraltro, le scritture italiane di ragion di Stato costituiscono un complesso sicuramente non omogeneo per le modalità espositive utilizzate e per le tensioni politiche proprie dei contesti storici di provenienza; tuttavia, questo corpo di testi prodotti in continuità per alcuni decenni fin quasi alla metà del Seicento costituisce la messa a punto formale per un modello inedito di praticare la politica. Nelle teorie/pratiche di ragion di Stato non troviamo alcun riferimento a un ordine strutturato del mondo naturale, a leggi fondamentali della natura o della creazione divina; l’arte di governo per ragion di Stato opera in un tempo storico e politico che è un tempo indefinito, perpetuo e conservativo: non si tratta più del tempo escatologico, piuttosto il tempo della storia è – come scrive Foucault (2004) – l’indefinito di una gouvernementalité per la quale non è previsto un termine o una fine (cfr. anche Borrelli 2003).
Da un’altra prospettiva, risulta peraltro impossibile sostenere descrizioni dei percorsi delle argomentazioni e delle pratiche della ragion di Stato prescindendo dallo stretto riferimento alla storia interna della Chiesa di Roma a fine Cinquecento. Con rapida sintesi, si tratta delle specifiche ragioni della Chiesa: espressione attraverso la quale si vuole operare un riferimento diretto e circoscritto alle vicende della curia romana negli ultimi decenni del Cinquecento (Prodi 1982, 20062; Fragnito, in Ragion di Stato, 1996, pp. 15-73). Questa è impegnata nei difficili passaggi che riguardano l'accentramento crescente del potere papale, la ristrutturazione delle gerarchie interne, quindi le manovre della Congregazione del Sant'Uffizio nei confronti della giurisdizione episcopale e degli ordini religiosi; insieme, i vertici ecclesiastici sono all'opera per salvaguardare e rinforzare l'autorità della Chiesa cattolica sul piano dei rapporti tra gli Stati, anche se questi stessi vertici sono divisi nei diversi fronti interni delle parti filospagnole e di quelle filofrancesi.
In questo quadro, la riflessione cattolica applicata alla politica rimane ancorata a un duplice obiettivo, come dimostrano esemplarmente gli scritti pubblicati dal gesuita Antonio Possevino (Iudicium de Nuae militatis Gallis scriptis [...]. De Ioannis Bodini methodo historiae [...]. De Nicolao Machiavello, 1592), dall'oratoriano Tommaso Bozio (De signis ecclesiae Dei, 1591; De jure status, sive de jure divino et naturali ecclesiasticae libertatis et potestatis, 1600) e da Fabio Albergati (De i discorsi politici [...] ne i quali viene riprovata la dottrina politica di Gio. Bodino [...], 1602): da una parte, apprendere a utilizzare quella funzione autonoma della risorsa politica così come rimaneva iscritta nella riflessione e nella pratica della politica nuova che si faceva risalire a Machiavelli, neutralizzando però al contempo la forte carica innovativa in essa contenuta; contemporaneamente, combattere quel modo, anch'esso inedito, di pensare e di organizzare il governo secondo il modello del sistema giuridico-politico della sovranità assoluta proposto da Jean Bodin e sostenuto nella lotta che i politiques portavano ai liguers (Baldini 1989).
L'impresa intellettuale di Botero costituisce il tentativo, positivamente condotto a termine, di porre in relazione le esigenze e i problemi vissuti dalla curia romana a fine Cinquecento con discorsi e codici della politica provenienti dall'esterno della tradizione di pensiero del cattolicesimo: innanzitutto, con la cultura tardorinascimentale, e ancora con le suggestioni nuove prodotte dal vivo dibattito in corso in terra francese. Botero percorre questi obiettivi attraverso uno stretto confronto teorico con gli autori e gli scritti di entrambe queste parti: grazie a un lavoro di prudente e coperta contaminazione, viene emergendo un inedito progetto, espresso attraverso una serie notevole di scritture e anche tramite l'impegno politico diretto.
Innanzitutto, la nozione di prudenza politica assume il complesso delle trasformazioni semantiche addotte dagli autori rinascimentali, in particolare quindi da parte di Machiavelli e, soprattutto, di Francesco Guicciardini. Prudenza politica è ars practica: il principe deve vivere direttamente l'azione politica e deve poter contare sull'approfondita notizia delle cose e delle pratiche di governo; allo scopo di realizzare il maneggio del governo, la prudenza esalta la via conoscitiva dell'esperienza. Al fine di conseguire tale capacità di esercizio, il principe deve utilizzare ogni sorta di quei saperi utili al comando; di questi saperi governamentali – che vanno dall'antropologia alla morale, dalla geografia alla scienza dell'amministrazione, dall'economia all'urbanistica, dalla statistica all'arte militare – Botero offre un importantissimo saggio in Delle relazioni universali (1588), opera che ebbe un successo enorme in tutta Europa e che dev'essere immediatamente affiancata a Della ragion di Stato (1589) per potere intendere il complesso del progetto boteriano.
La vicinanza di Botero a Machiavelli e a Guicciardini è rappresentata dal fatto che, non solo la categoria di prudenza politica viene utilizzata ormai con unico riferimento alle condizioni tecniche dell'agire politico, ma soprattutto per quegli aspetti secondo i quali l'uomo di governo deve esercitarsi a intervenire con modalità e tempi appropriati nell'applicazione dei dispositivi prudenziali, inclusi i mezzi di dissimulazione/simulazione: di qui la necessità della codificazione dei dispositivi tecnici, dei cosiddetti capi di prudenza. In questo modo, Botero sintetizza gli snodi principali degli strumenti propri dell'agire dissimulativo, specificando funzioni e possibilità applicative del fattore tempo/tempi nelle decisioni politiche (Della ragion di Stato, rist. 1948 dell'ed. 1598, pp. 104-12).
Il programma conservativo boteriano utilizza le proposte che provengono dalla trattatistica della civil conservazione. L'attenzione rivolta a questa precettistica viene motivata dal fatto che al centro delle pratiche e dei discorsi di ragion di Stato viene posta la produzione del rapporto di comando/obbedienza: Botero intende infatti descrivere il complesso dispositivo di comando grazie al quale «i popoli si sottomettono volentieri al Prencipe» e gli uomini affidano il «governo di se stessi ad altri» (pp. 18, 15); da una parte, sui periodi brevi, il principe interviene con le tecniche determinate della decisione politica a seconda delle circostanze particolari e nei tempi idonei all'applicazione; insieme, sulla durata media e lunga, lo stesso soggetto del comando deve porre in esecuzione tutti i dispositivi efficaci a produrre ordine e disciplina, partendo dall'assicurazione materiale della vita dei sudditi, grazie ai divertimenti del popolo attraverso giochi e premi, fino alla cura dell’interiore salvezza spirituale. Il governo prudente persegue allora un’organizzazione della vita della città in cui abbiano pieno riconoscimento le rationes interessate e gli artifici idonei alla disciplina politica e all’obbedienza civile: e in realtà, in questa comunità politica certamente non più naturale, ragion di Stato è poco altro che ragion di interesse; in modo coerente, Botero collega alla funzione del governo le tecniche del lavoro e dell'industria, che esaltano la produzione artificiale degli individui.
Dunque, da un lato, bisogna razionalizzare e orientare le condotte dei soggetti interessati a conservare la situazione dei poteri esistenti; su di un altro versante, il principe deve combattere il malcontento, la mala sodisfattione, che dà origine alle contenzioni e alle guerre civili. Queste cattive disposizioni provengono da un duplice fronte: da parte dell'ambizione smisurata dei grandi e anche dalla parte dei poveri, che
non avendo che perdere, si muovono facilmente nell'occasione di cose nuove, e abbracciano volentieri tutti i mezi, che si appresentan loro di crescere, con la rovina altrui (Della ragion di Stato, cit., p. 127).
Queste parti diverse sono avvicinate dalla comune propensione a essere disobbedienti nei confronti dell'autorità di governo, mentre scopo principale della politica prudenziale è quello di togliere ai sudditi «l'occasione, e la commodità delle rivolte» (p. 114).
L'autorità politica istruisce allora una gerarchia differenziata di poteri, costituita dai corpi aristocratici e da alcuni strati del popolo che possono aderire con consenso al programma dell’autorità civile; per questi aspetti, la ragion di Stato prudenziale crea un riferimento positivo all'articolazione dei corpi costituiti sulla base di interessi mezani: infatti, assumendo in partenza che i mezani sono «ordinariamente i più quieti e facili a governare» (pp. 115-27), il principe dovrà poi procedere nei confronti dei ceti che hanno notevoli privilegi da conservare e da promuovere nello Stato, adottando le misure idonee per ridurre l'ambizione e l'autorità dei più potenti. Per quanto riguarda i poveri, pericolosi alla quiete pubblica poiché non hanno interessi da salvaguardare: «deve dunque il re assicurarsi di costoro, il che farà in due maniere, o cacciandoli dal suo Stato, o interessandoli nella quiete di esso» (p. 128).
In definitiva, ragion di Stato consiste delle tecniche attivamente poste in essere dalle capacità prudenziali che mirano a razionalizzare al massimo le potenzialità del comando soggettivo. Solamente nei casi di estrema difficoltà delle condizioni del comando verrà applicata per necessità la forza, che deve rimanere sempre pronta, strutturata ed esibita; tuttavia, la principale finalità della politica risulta quella di riconvertire in termini di pace e di stabilità la guerra permanente, gli antagonismi in atto, attivando con le opportune cadenze temporali i dispositivi idonei a rinvigorire il rapporto comando-obbedienza.
La proposta boteriana di ragion di Stato esalta l'elemento essenziale e propulsivo della politica, attività che tende ad affermare il suo primato su tutte le altre sfere, e in particolare sullo stesso elemento giuridico. In questo contesto, Botero segna con precisione il posto del diritto come strumento indispensabile al servizio permanente del potere esecutivo, del principe. Diritto è innanzitutto sapere utile all’amministrazione del governo e tecnica necessaria di espressione e di registro delle decisioni politiche; peraltro, tutto il complesso del sistema della giustizia civile e penale deve fare riferimento all’autorità civile. Botero presta dunque attenzione concreta all’esercizio del primato della prudenza politica: la prudentia iuris resta invece direttamente sottoposta alla decisione e al controllo del principe.
Discorsi e pratiche di ragion di Stato contribuiscono ad aprire percorsi teorici e dispositivi tecnici che si riveleranno utili ai processi di razionalizzazione che saranno propri della politica moderna. Attraverso un lavoro a più voci, questi autori affrontano la crisi dell’aristotelismo politico di tradizione cattolica e operano essi stessi nel senso del superamento del pensiero politico classico: non secondo i moduli sistematici della riflessione filosofica tradizionale, ma attraverso la proposizione di ragionati modelli di intervento pratico.
Non ci troviamo propriamente di fronte all’argomentata teoria della separazione funzionale di morale e politica, tuttavia questa molteplicità d’interventi apre a prospettive sicuramente originali: oltre il potere pastorale, accanto ai differenti dispositivi che sono propri degli ordinamenti politico-giuridici di sovranità, un’economia politica del «governo degli uomini» attraverserà corpi e anime dei soggetti, procurando di separare i percorsi della disciplina dei comportamenti dalle interiori credenze religiose. Secondo Foucault, la ragion di Stato rappresenta il corpus di saperi/pratiche che collega il micro dei dispositivi disciplinari al macro della sovranità giuridico-politica sotto la forma delle scienze della politica e dello Stato. Quindi, tra le modalità proprie delle procedure governamentali avviate dalla ragion di Stato e le procedure proprie degli ordinamenti di sovranità – che sfoceranno nella costruzione degli apparati istituzionali di governo dello Stato e del sistema di diritto pubblico – viene a realizzarsi un’intricata storia costituita dalle modalità delle relazioni e degli intrecci tra queste due dimensioni: l’obiettivo è certamente quello di costruire un nuovo tipo di ordine per la società europea travagliata da guerre religiose e conflitti civili.
Teorie e tecniche di ragion di Stato rendono più razionale l’azione di governo, grazie all’opera di neutralizzazione e di relativizzazione dei carichi imponenti di cui fino a quell’epoca il potere politico si rivestiva; viene innanzitutto argomentato che l’autorità di comando deve escludere qualsiasi condizionamento voglia farsi valere sul piano della virtù morale e della giustizia. Non esiste pertanto una iustitia universale cui il principe possa fare riferimento e sulla quale possa essere fondato il rinnovato esercizio dello ius; in questo senso, ragion di Stato contribuisce a sottrarre potere ai re che utilizzavano un corpo di leggi fondamentali che rinviava ex ante a una fondazione morale e giuridica precedente alla formazione del regno. Sul piano della politica non possono valere i principi delle leggi naturali morali, e nemmeno le pretese che provengono dagli impianti della legislazione civile; conservazione dell’ordine esistente significa far crescere il corpo politico grazie a saperi, tecniche e tempi che agiscono in proprio.
Peraltro, nemmeno può essere accolta quella nozione del giusto naturale che nell’ultima stagione di ricerca della scolastica aveva indotto Francisco Suárez (Tractatus de legibus ac Deo legislatore, 1612) a offrire articolata e razionale giustificazione alla preminenza della epieikeia: ius è forma di equità che interviene in rapporto alle leggi civili, ordinarie e consuetudinarie, per garantire l’applicazione del giusto ai casi particolari anche a costo di contravvenire alle forme della giustizia legale e agli istituti giuridico-politici; secondo questo autore, l’agire prudenziale dell’epieikeia interviene modificando il diritto naturale e il diritto positivo al fine di ristabilire la mensura iustorum et iniustorum, rafforzando pure l’accordo di religione e politica (I, 10).
Da parte loro, gli autori di ragion di Stato smentiscono con precise argomentazioni il necessario incontro tra prudenza politica e astratta definizione morale del giusto: Federico Bonaventura (Della ragion di Stato et della prudenza politica, 1623) scrive che l’equità è solamente esecutiva della legge morale, mentre la capacità consultativa del principe costituisce la concreta creativa funzione rivolta a interpretare i casi indefiniti e indeterminati dell’agire umano. La ragion di Stato «muta, e altera sempre, e corregge secondo il bisogno» (p. 579), riguarda tutti gli affari del civil governo e ha specialmente luogo nelle cose dubbie.
Anche Lodovico Settala (Della ragion di Stato, 1627) distingue diverse attribuzioni della prudenza politica: consultiva, legislativa, giudiziaria; questi tre diversi termini non richiamano contesti specifici del diritto civile o della scienza giuridica, piuttosto vogliono significare l’ambito esclusivamente autonomo della capacità del principe rivolta a interpretare e a giudicare in proprio i singoli avvenimenti oggetto del giudizio; ancora per questo autore, preminente è la funzione consultiva attraverso cui si esprime la decisione del principe per i casi particolari in cui resta impegnato il fine principale della conservazione dello Stato (p. 10).
In definitiva, il primato della prudenza politica riattiva l’antico assunto: «eius est interpretari cuius est condere legem»; già Tommaso d'Aquino aveva argomentato questo principio (Summa theologiae, IIa IIae, qq. 1-3), e lo stesso avevano sostenuto acuti glossatori e insigni giuristi fino a tutto il 16° sec. (De Mattei 1979, p. 250). La novità introdotta nella teoria dai trattatisti della ragion di Stato e praticata ora normalmente dai principi consiste appunto nella consapevolezza di affermare la preminenza assoluta della politica che vuole rendersi ragione e pratica di una radicale frattura; oltre il pluralismo del diritto romano riattivato nei secoli ma ridotto ormai a guscio inutilizzabile, oltre le pretese delle leggi morali e religiose adesso in evidente tracollo, oltre il diritto che si configura come espressione di una condizione naturale originaria degli esseri umani: una schiera interminabile di autori motiva che il principe è insieme interprete e legislatore, può utilizzare e anche rompere a suo piacere la legge ordinaria e introdurre elementi straordinari nelle deliberazioni di pubblico interesse.
Albergati, Pier Maria Contarini (Compendio universal di republica, 1602), Girolamo Frachetta (Il seminario de’ governi di stato et di guerra, 1613): tra fine Cinquecento e i primi anni del secolo successivo, da parti diverse e con motivazioni pure discordi, un coro di autori sostiene le ragioni del primato della decisione politica e della subordinazione del diritto alla volontà del principe. Nella produzione dei decenni seguenti, a tutti gli scrittori di ragion di Stato risulterà comune la convinzione della mediazione necessaria e interminabile della politica, che bisogna tenere distinta da ogni genere di interferenza morale o religiosa.
L'esaltazione del primato della ragione politica, attraverso l'attribuzione al principe delle funzioni di interprete e legislatore, pone le condizioni per pervenire all’affermazione del possibile esercizio di poteri discrezionali da parte dei soggetti che intendono operare per ragion di Stato.
Al fine di comprendere l’articolazione dei percorsi e le aperture rese possibili dalle decisioni prudenziali che possono operare con criteri di piena discrezione, conviene richiamare l’importante contributo offerto da Scipione Ammirato (Discorsi sopra Cornelio Tacito, 1594); nei suoi scritti troviamo le più chiare definizioni delle categorie che costituiscono gli strumenti differenti cui il soggetto del comando politico ricorre allo scopo di perseguire con modalità straordinarie d’intervento la finalità conservativa del suo programma. Nel merito di questi delicatissimi contenuti dell’agire politico, il punto di partenza è dato dalla definizione della ragion di Stato come «contraventione di ragione ordinaria per rispetto di publico beneficio, overo per rispetto di magiore e più universal ragione» (XVII, p. 231).
In effetti, l’opera di contravvenzione della legge ordinaria assume molteplici aspetti che si intersecano in modo complesso. Nelle argomentazioni di Ammirato bisogna soffermarsi in particolare su due punti: le argomentazioni rivolte a specificare i caratteri propri della finalità pubblica che rende possibile la messa in opera della procedura discrezionale, e la serie determinata degli strumenti che sono a disposizione del principe.
Seguendo questo autore, conviene innanzitutto prendere in considerazione il carattere publico della personalità politica del principe, che si pone al di sopra dei privati interessi fino a rappresentare una specie di bene universale, astratto rispetto ai beni privati. In effetti, è il principe stesso che, grazie all’adeguato esercizio della funzione prudenziale, realizza quel bene comune, appunto universale. In questa espressione non bisogna intendere un’attribuzione di carattere morale: piuttosto, la comunità riconosce l’abilità del principe nell’offrire ai sudditi quelle opportune riputazioni che riescono ad attivare una gerarchia di valori entro cui ciascun soggetto risulta impegnato con obbedienza nelle cariche, nei mestieri, nel rispetto della legge ordinaria. Laddove il governo del principe si presenta così bene costituito per cui vengono cedute, scrive Ammirato, «molte delle private ragioni al ben publico» (XII, p. 240), allora si deve riconoscere a quel soggetto una posizione di preminenza: egli stesso diventa figura di bene pubblico, avendo ottenuto il riconoscimento per il risultato positivo della sua azione prudente. Questa è dunque buona ragion di Stato, distinta dalla cattiva ragion di Stato non per criteri di natura morale, ma solo in considerazione delle capacità del principe nel conseguire quel risultato di attiva conservazione politica; in realtà, nella seconda e terza edizione (1589 e 1590) della Ragion di Stato, Botero aveva già provveduto ad annullare la possibilità stessa di quella distinzione nel riferimento a criteri di natura morale (Borrelli 1993, p. 86).
Secondo Ammirato, il riconoscimento del principe come bene pubblico viene a costituire il fondamento di ciò che chiamiamo privilegio o prerogativa per la sua persona. Argomentando esplicitamente una sorta di ius politico, l’autore congettura una figura che assegna al soggetto che detiene il comando un potere di ampia discrezionalità per le decisioni che riguardano situazioni emergenziali in cui venga messo in pericolo lo stato delle cose esistenti, e in particolare il comando del soggetto politico. Si tratta di un potere che unisce la funzione legislativa con quella esecutiva, offrendo al principe strumenti particolari per la conservazione di «dominio, o signoria, o regno, o imperio, o qualunque altro nome gli si piaccia dare» (Discorsi sopra Cornelio Tacito, cit., XII, p. 240). Ragion di Stato viene dunque a significare gli strumenti straordinari che assume la ragione del dominio in quanto prerogativa: decretazioni extra legem, norme di secretazione, concessioni di grazia, e così via; si tratta di interventi tempestivi e imprevedibili che eccedono la legge e il diritto naturale, posti in essere dal principe per motivi di necessità conservativa.
Per un altro versante, l’azione discrezionale del principe assume la veste della deroga: in questo caso ci troviamo di fronte a pratiche di governo che producono sottrazioni di legalità all’ordinamento giuridico; si tratta di una funzione già riconosciuta e formalizzata nei Digesta: «derogatur legi cum pars detrahitur». In questi casi, la sottrazione viene agita rispetto al complesso delle norme che costituiscono la tradizione delle regole comportamentali, codificate in termini di legge, propria di un contesto comunitario. La forma estrema della deroga è rappresentata dalla sospensione di parti dei codici vigenti, in forma dichiarata o meno; prima ancora della definizione di un diritto internazionale delle genti riconosciuto almeno tra alcune grandi potenze europee, ogni atto di guerra rendeva immediatamente implicito questo tipo di abolizione (parziale o totale) dei principi giuridici, con buona pace dei teorici dello ius belli, del diritto di resistenza o del diritto di conquista (Bazzoli 2005).
Infine, ancora a proposito dell’esercizio di potere discrezionale da parte del principe, conviene richiamare la differente lettura di teorie e discorsi di ragion di Stato che prende origine dall’elaborazione particolarissima che ne fece, già nella prima meta del Seicento, Gabriel Naudé; nell’opera Considerations politiques sur les coups d’Éstat (1639), questi interpreta l’esercizio di ragion di Stato come possibilità da parte del sovrano di operare la rottura repentina, netta e efficace, dell’ordinamento giuridico costituito nel contesto della situazione straordinaria che ne mette a repentaglio il potere; con le sue argomentazioni l’autore intende discostarsi dalla trattatistica corrente di ragion di Stato, ed esalta il principio del colpo di Stato. Questo genere di assolutizzazione del colpo di Stato è in realtà estraneo agli autori che contribuirono, in Italia e in Europa, a dare forma teorica a discorsi/pratiche di un nuovo genere di governo degli uomini, che deve contare invece sulla regolarità di una molteplice serie d’interventi che assumono forma giuridica e non; piuttosto, come pure è stato bene individuato dalla letteratura critica, questo tipo di lettura apre a teorizzazioni sulle condizioni di situazioni straordinarie che possono presentarsi al soggetto della sovranità di diritto costituzionale che si trova a gestire il punto determinato della crisi che mette a rischio di sopravvivenza l’ordinamento politico-giuridico (Freund, in Staatsräson, 1975, pp. 141-64; La théorie politico-constitutionnelle du gouvernement d’exception, 2000; Pandolfi 2000).
Al termine del nostro percorso, conviene anche richiamare l’attenzione critica sulle diversità degli svolgimenti teorici che vengono offerti da autori che comunque condividono i termini essenziali di un progetto politico a lungo meditato, messo in opera con incredibile duttilità di pratiche, corretto e migliorato nel corso di decenni grazie a un metodo sperimentale e a una straordinaria capacità di comunicazione letteraria e retorica (De Mattei 1950; Borrelli 2003); la stessa questione delle relazioni tra diritto e ragione politica troverà impostazioni differenti nelle argomentazioni di questi scrittori delle diverse ragioni degli Stati. Basti considerare il contributo di Lodovico Zuccolo, il quale – nelle Considerationi politiche e morali sopra cento oracoli d'illustri personaggi antichi (1621) – sostiene esplicitamente che la ragion di Stato non esaurisce tutte le possibilità offerte dalla politica; viene difatti esclusa la gestione dei fenomeni civili sotto l’espressione univoca delle tecniche prudenziali: ne deriva una concezione di maggiore autonomia per la legge civile, che viene chiamata a istituire un rapporto di più articolato confronto con l’autorità politica di governo. Nelle argomentazioni di Zuccolo, il beneficio pubblico segnato dall’autorità non coincide in tutto con la volontà del principe, e viene confermato il bisogno di riconoscere a fondamento dell’arte politica una razionalità segnata dal consenso che proviene dalle parti diverse della comunità.
Su un piano radicalmente diverso, a fine Seicento, si muove la proposta del cardinale Giovanni Battista De Luca (Theatrum veritatis et justitiae, 15 voll., 1669-1673; Il dottor Volgare, overo il compendio di tutta la legge civile, canonica, feudale e muncipale nelle cose più ricevute in pratica, 1673), rivolta ad assumere gli elementi di razionalità e la metodologia sperimentale di discorsi/dispositivi di ragion di Stato all’interno delle pratiche giurisprudenziali e dei saperi giuridici del cattolicesimo. In linea di continuità con le posizioni della seconda scolastica, rifiutando tuttavia di ancorare i saperi giurisdizionali alla scienza teologica, De Luca analizza le funzioni concrete svolte dal cardinale pratico, dal vescovo pratico. La finalità del progetto resta quella conservativa, da applicare in questo caso a vantaggio della società cristiana in crisi; da qui prende corpo il tentativo di costruire un organico sistema di jus publicum ecclesiasticum da porre in opera all’interno del governo e della giurisdizione dello Stato pontificio (Zanotti 1983).
Emerge dunque sui tempi lunghi una pluralità di posizioni che rende conto ulteriormente della ricchezza di riflessione da parte di questi autori; infatti, oltre la condivisione dei fondamenti dell’agire prudenziale, lo spettro di considerazioni pure differenti restituisce una ricchezza di flessibilità nella teoria che rende conto dei successi notevoli conseguiti nelle pratiche. Certamente, nel quadro storico italiano queste diverse teorizzazioni non intendono costituire aperture agli impianti della moderna sovranità politico-giuridica, nelle forme della riflessione e dei percorsi storici che questa sta assumendo in Inghilterra e in Francia; anzi, questi autori, che hanno finissime competenze nei saperi che riguardano le cose politiche, con consapevolezza hanno dato corpo a un modello duttile e multiforme che rende variabili le applicazioni pratiche a seconda delle differenze dei contesti regionali.
A questo punto, conviene ribadire che dispositivi e discorsi di ragion di Stato costituiscono solamente le premesse di quell’insieme di processi che conducono nella storia occidentale alla piena governamentalizzazione dello stato. Lo Stato moderno prende via via corpo come complesso dei dispositivi politico-diplomatico-militari, spesso ricoperti dal segreto, posti in esercizio da un personale tecnico fortemente specializzato; per un altro versante, le funzioni del paradigma conservativo aprono ai processi governamentali di police in quanto complesso delle strategie e delle tecniche di razionalizzazione economica e amministrativa della popolazione (Schiera 1968; Napoli 2003).
In effetti, gli autori di ragion di Stato esaltano normalmente le possibilità proprie della prudenza politica e congetturano con giustificazioni teoriche differenti una particolare configurazione del governo come sfera di pubblico riferimento in cui il principe assume contemporaneamente le vesti diverse di decisore e legislatore. Da questo consegue non solo l’impegno nella migliore organizzazione delle istituzioni e dei saperi che devono sostenere il compito del principe, ma anche il riconoscimento della necessità della produzione interminabile di dispositivi giuridici che possano, per via ordinaria e straordinaria, rispondere con regolarità alle esigenze poste da casi individuali, eventi inattesi, repentine emergenze: tutto questo viene prefigurando quella produzione tecnico-giuridica che contribuirà alla formazione del moderno diritto amministrativo. Tutti costoro sovrappongono consapevolmente il ruolo della decisione politica alla funzione ineliminabile del diritto; essi sono anche consapevoli che, grazie alle pratiche prudenziali, la preminenza della ragione politica produce inevitabilmente una zona d’ombra in cui l’esercizio discrezionale di deroghe e prerogative apre nelle attività dei governi al possibile impiego dei dispositivi di dissimulazione e simulazione, di nascondimenti e inganni. Tuttavia, nel periodo del tracollo della storia rinascimentale, questa appare come l’unica strada percorribile per salvaguardare un patrimonio inestimabile di civiltà.
Da parte sua, la ragione giuridica reagirà a questi eccessi, e via via costruirà limiti definiti ai carichi abnormi della ragione politica; in modo conseguente, il diritto amministrativo entrerà a far parte del sistema di diritto pubblico posto alla base degli ordinamenti politico-giuridici di sovranità. L’ulteriore persistenza di interventi di ragion di Stato verrà allora riconosciuta come la principale contraddizione all’interno delle pratiche costituzionali, laddove l’esercizio del potere discrezionale da parte dei governanti rischia in permanenza di invalidare i fondamenti universalistici delle norme civili e la stessa legittimazione dell’autorità pubblico-statuale (Friedrich 1957; Bobbio 1980).
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