La Terrasanta
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Lo stabilirsi in Terrasanta, in seguito alle prime crociate, di nobili provenienti da innumerevoli regioni dell’Europa continentale e settentrionale favorisce la fioritura di un originale linguaggio artistico nel quale si fondono l’antico retaggio locale paleocristiano, bizantino e arabo con i più recenti apporti transalpini.
Ci sono un condottiero fiammingo e il conte di Vermandois e Valois, un conte delle Fiandre e un duca normanno, un conte di Tolosa, nonché marchese di Provenza, e l’italo-normanno principe di Taranto. È questo lo spaccato dell’eterogenea congerie di aristocratici che, sollecitati da papa Urbano II a difendere l’impero d’Oriente minacciato dai Turchi Selgiuchidi, finiscono per occupare i territori della Terrasanta a suo tempo conquistati dai musulmani e vi insediano una rete di domini tra cui, in primis, il Regno di Gerusalemme (1099-1187).
Gerusalemme è la città più santa dell’intera cristianità, meta internazionale di pellegrinaggi, depositaria di un’ormai plurisecolare tradizione che ha visto succedersi gli interventi promossi sul Santo Sepolcro dall’imperatore Costantino, poi quelli nel segno dell’impero romano d’Oriente cui subentrano al principio del VII secolo i califfi delle diverse dinastie arabe. Su questo complesso e stratificato retaggio si innesta il portato culturale di segno occidentale, con un fenomeno di assimilazione che nel giro di una, massimo due generazioni, dà luogo a una nuova esperienza, immediatamente percepita come tale. Già nel 1124 circa Fulcherio di Chartres, autore della Historia Hierosolymitana, scrive: “Dio ha trasformato l’Occidente in Oriente, perché noi che eravamo occidentali siamo divenuti orientali. [...] Già abbiamo dimenticato il nostro luogo di nascita; già la maggior parte di noi non lo ha conosciuto o addirittura non ne ha mai sentito parlare”.
Questa testimonianza, però, parrebbe non priva di una qualche esagerazione retorica, quantomeno alla luce degli esiti dell’imponente ristrutturazione del complesso ecclesiastico del Santo Sepolcro intrapresa negli anni Quaranta del XII secolo. Infatti l’ingresso principale del santuario, aperto all’estremità meridionale del transetto, con i suoi portali strombati sormontati da slanciati archi acuti e adorni di sculture, in un caso addirittura un architrave con episodi della vita di Cristo, rende il Santo Sepolcro non troppo dissimile dalle principali chiese di pellegrinaggio di Francia o Spagna. Segno che quantomeno per la scultura architettonica si continuava a guardare agli esempi della madre patria. D’altro canto, bisogna viceversa riconoscere che un fedele della Chiesa orientale si sarebbe trovato del tutto a proprio agio di fronte a soluzioni architettoniche e ornamentali come le grandi cupole o i mosaici allestiti nei punti focali dell’aula. Perduta la dominante abside orientale della chiesa, la testimonianza meglio conservata della decorazione musiva dell’epoca resta nella cappella del Calvario. Qui l’Ascensione del Cristo sulla volta della campata sud-orientale del vano offre un esempio della riuscita sintesi tra la padronanza tecnica musiva orientale e un’iconografia non esente da ascendenze occidentali.
La cerimonia di consacrazione del rinnovato Santo Sepolcro si celebra il 15 luglio 1149, in coincidenza con il cinquantesimo anniversario della presa di Gerusalemme. Secondo una recente ipotesi la celebre Bibbia di San Daniele (San Daniele del Friuli, Udine, Biblioteca Guarneriana, ms. 3) potrebbe essere stata appositamente approntata per l’occasione. Si tratta di una congettura suggestiva ma indimostrabile, almeno allo stato attuale delle conoscenze su questo manoscritto che per il suo eccezionale eclettismo è stato protagonista di un vivace dibattito circa origini e datazione. In alternativa alla sua attribuzione allo scriptorium di un regno crociato, magari quello di Antiochia, è stato suggerito di collocarne la produzione in Sicilia o in Puglia, regioni a stretto contatto con i territori crociati. Alla fine, però, la sintesi tra tutte le caratteristiche formali della Bibbia di San Daniele, dal tipo di scrittura al repertorio ornamentale e al registro stilistico, torna a indicare come più probabile una sua esecuzione nella poliglotta e cosmopolita Gerusalemme di metà XII secolo. È infatti difficile localizzare altrove un atelier nel quale coesistono stilemi figurali e forme decorative derivate da tradizioni diversificate tanto di radice occidentale, dall’Inghilterra all’area mosana e francese, che bizantina, o meglio, costantinopolitana, con intonazioni cromatiche che sembrano ricordare gli smalti, ancor più che pagine miniate, e con un’impaginazione e una grafia chiaramente indebitate ai territori della Francia di prima metà del secolo. Quel che è sicuro è che si tratta di un prodotto di lusso, come certificato dal grande formato e dall’abbondanza di iniziali decorate, per di più impreziosite da un generoso impiego di oro.
Altrettanto sontuoso è il Salterio di Melisenda (Londra, British Library, Egerton ms. 1139), di piccole dimensioni, come si conviene a un codice finalizzato a un uso privato, ma corredato da un imponente apparato illustrativo comprensivo di ben 24 episodi della Vita di Cristo a piena pagina, in apertura, oltre alle iniziali decorate e a un ciclo zodiacale nel calendario. La predominanza di santi inglesi nel calendario del manoscritto indica che a fornire il modello deve essere stato un testo inglese, del tipo del noto Salterio di St Albans (Hildesheim, Dombibliothek). L’ascendenza insulare è però bilanciata dal contestuale ricorso a un codice illustrato greco di XI secolo, del tipo sicuramente reperibile presso la biblioteca del Patriarcato di Gerusalemme. Il salterio prende il nome dalla regina Melisenda, sua probabile committente, moglie di Folco, conte d’Angiò, imparentato alla corona inglese e dal 1131 sovrano del regno latino di Gerusalemme. Guglielmo, arcivescovo di Tiro, nella sua cronaca sottolinea il vivace mecenatismo di Melisenda a favore di istituzioni religiose, con ovvie implicazioni artistiche, non ultima il patrocinio di una serie di codici in dotazione al convento di Betania da lei fondato. L’attivismo della regina, reggente per anni al posto del figlio Baldovino III, fa da volano a una brillante stagione, con un fiorire della produzione nei più diversi campi artistici. A partire dagli anni Trenta presso il Santo Sepolcro si stabilisce un’officina di orefici alla quale sono state ricondotte tre stauroteche destinate a contenere reliquie della Vera Croce. In conformità al contenuto i tre reliquiari hanno ovviamente la forma di croce e includono pietre del Santo Sepolcro, incastonate come gemme e alternate a pietre preziose colorate, tra volute di filigrane in oro. Due delle stauroteche sono inviate in Germania, la terza, quella meglio conservata, fa da secoli parte del tesoro della chiesa del Santo Sepolcro di Barletta, conferita fin dal 1144 ai canonici dell’omonima sede gerosolimitana.
La pittura monumentale di quest’epoca risulta decisamente più lacunosa. Negli anni di regno di Folco e Melisenda sulle colonne della chiesa della Natività di Betlemme iniziano a comparire grandi pitture votive con le consuete rappresentazioni della Madonna con Bambino, profeti o santi. Si tratta di ex voto fatti realizzare per la salvezza della propria anima da pellegrini in visita al luogo santo, il secondo per importanza dopo il Santo Sepolcro. Accanto alle effigi dei santi Cosma e Damiano o Giorgio, ovvie in una regione orientale, compaiono le esotiche raffigurazioni dei santi scandinavi Olaf e Knut, a ennesima testimonianza dello statuto davvero internazionale dei luoghi santi, visitati nel corso degli anni Cinquanta da numerosi aristocratici provenienti dalla Danimarca o dalla Norvegia.
Purtroppo, poco rimane, invece, del ciclo musivo fatto realizzare attorno al 1169 lungo la navata della basilica grazie all’iniziativa congiunta di re Amalrico I, dell’imperatore bizantino Manuele I Comneno e del vescovo anglo-normanno Ralph (?-1174), come solennemente rivendicato dall’iscrizione bilingue, in greco e in latino, conservata nel bema. Le firme insolitamente pervenuteci di tre artefici, un monaco Efraim, un Basilio diacono siriano e uno Zan (Giovanni) di ipotetica estrazione veneziana, parlano di un assortito atelier. I brani superstiti del ciclo cristologico nel transetto manifestano nella scansione narrativa una diligente adesione alle consuetudini bizantine. Gli episodi dell’Incredulità di Tommaso e dell’Ascensione, nella gestualità concitata e nei panneggi dinamicamente mossi sembrano addirittura tradire un aggiornamento sulle contemporanee espressioni costantinopolitane di cosiddetto “stile comneno”.
Nazareth non può competere con i due precedenti luoghi sacri e dunque non può rivendicare committenze e interventi di pari prestigio. Ciò nonostante, i pochi resti della basilica dell’Annunciazione scampati alla distruzione duecentesca testimoniano della straordinaria originalità delle opere imputabili alla ricostruzione promossa dall’arcivescovo Letard, probabilmente in seguito al terremoto del 1170. Si tratta di una serie di frammenti scultorei ormai decontestualizzati tra cui cinque capitelli figurati, custoditi presso il locale museo del convento, e tre busti ad altorilievo acefali, uno dei quali finito nella Devonshire Collection di Chatsworth.
I capitelli sono incompleti e con ogni verosimiglianza non sono mai stati posti in opera, forse a causa della brusca interruzione dei lavori provocata dalla riconquista musulmana di Gerusalemme, nel 1187. La loro originaria destinazione d’uso è dibattuta, ma tra le varie possibilità non si esclude che possano essere stati concepiti per un portale monumentale. Quattro capitelli illustrano i miracoli di altrettanti apostoli, il quinto, a sezione differente, raffigura un’insolita personificazione della Chiesa che trae in salvo un altro apostolo insidiato dai demoni. A completare l’assieme, con l’eventuale funzione di pilastro centrale, avrebbe trovato posto il busto del personaggio chiaramente identificato dalla vistosa chiave come san Pietro. Ne risulterebbe così un programma dal significato ecclesiologico straordinariamente eloquente. Per un apparato di scultura figurata tanto articolato è inevitabile il rinvio alla Francia, suffragato da alcune soluzioni formali condivise con esemplari di plastica architettonica del Berry o della Borgogna. I precedenti francesi, tuttavia, non esauriscono la trama di referenze stilistiche dei capitelli di Nazareth le cui figure dai panneggi dinamicamente scomposti non possono ignorare i coevi modelli bizantini di stile “tardo comneno”. Si tratta, evidentemente, di nuovo della bipolarità culturale caratteristica della Terrasanta. La diaspora delle maestranze in fuga da Gerusalemme dopo la sconfitta del 1187 favorirà la feconda esportazione di questo complesso linguaggio artistico lungo gli approdi mediterranei, con vistosi effetti nel meridione italiano.