Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Quattrocento si assiste a una vera e propria “rinascita” dell’aristotelismo. Infatti gli umanisti, oltre a recuperare testi filosofici ignoti o poco studiati nel Medioevo, si propongono anche di ristudiare il pensiero aristotelico per recuperarne l’autentico significato, a loro avviso deformato dai “barbari” commenti del XIII e del XIV secolo. Grazie a nuove traduzioni dale greco dei testi dello Stagirita, allo studio e alla pubblicazione dei suoi commentatori ellenistici, all’applicazione delle tecniche di analisi testuale offerte dalla filologia e all’uso di nuovi metodi interpretativi, gli umanisti promuovono una profonda trasformazione degli studi aristotelici, che ben presto contagia anche gli ambienti universitari, legati alla tradizione scolastica. Pur confrontandosi con il platonismo, l’epicureismo, lo stoicismo e lo scetticismo, l’aristotelismo conferma il suo ruolo di tradizione filosofica predominante e conosce, per tutto il Rinascimento, una fase di grande vitalità.
Il sostegno papale all’aristotelismo come fondamento della formazione universitaria
Vespasiano da Bisticci
Messer Palla introduce la “grecità” a Firenze
Vite di uomini illustri
Essendo in Firenze bonissima notizia delle lettere latine, ma non delle greche, diterminò che l’avessi ancora delle greche; e per questo fece ogni cosa che poté, che Manuello Grisolora, greco, passassi in Italia, pagando buona parte della ispesa. Venuto Manuello in Italia, nel modo detto, col favore di messer Palla, mancavano i libri; ché sanza i libri non si poteva fare nulla. Messer Palla mandò in Grecia per infiniti volumi, di libri, tutti alle sua ispese: la Cosmografia colla pittura fece venire infino da Costantinopoli; le Vite del Plutarco, l’opere di Platone, e infiniti libri degli altri. La Politica d’Aristotile non era in Italia, se messer Palla no l’avessi fatta venire lui di Costantinopoli; e quando messer Lionardo tradusse la Politica, ebbe la copia di messer Palla.
in Prosatori volgari del Quattrocento, a cura di C. Varese , Milano, Ricciardi, 1955
Leonardo Bruni
Nuova traduzione dell’etica di Aristotele
Ho deciso di tradurre in latino i libri dell’Etica di Aristotele non perché non fossero già tradotti, ma perché erano stati tradotti in modo da sembrare più barbari che latini. È chiaro infatti che l’autore di quella traduzione – chiunque sia stato certo fu dell’ordine dei predicatori – non conosceva adeguatamente né il greco né il latino. Infatti in molti luoghi ha compreso malamente le parole greche e le ha tradotte in latino in modo così puerile e indotto che ci si deve vergognare di tanta supina e crassa ignoranza; anzi spesso si mostra ignaro persino di ottime e probatissime parole latine, e povero pur nella ricchezza della lingua nostra, non essendo capace di porre una parola latina in luogo di una greca. E quasi disperato e incapace di prendere una decisione lascia parole greche.
Così finisce per essere mezzo greco e mezzo latino, manchevole nell’una e nell’altra lingua, in nessuna completo.
[…] Io dunque, mosso da un’infinità di errori siffatti, ritenendo cose indegne di Aristotele e di noi e della nostra lingua, vedendo la dolcezza di questi libri – che è massima in greco – cambiata in asprezza, i nomi contorti, le cose oscurate, i concetti sviliti, ho intrapreso la fatica di una nuova traduzione: in questa, per tralasciar altre considerazioni, ritengo di aver ottenuto di render per la prima volta in latino questi libri, giacché prima tali non erano.
in Grande Antologia Filosofica, a cura di T. Gregory, Milano, Marzorati, 1964
Angelo Ambrogini detto Poliziano
Studi difficili
Il problema dei rapporti tra filosofia e teologia
Perciò, dopo aver pubblicamente letto d’Aristotile prima l’Etica; e in appresso le Cinque voci di Porfirio, e del medesimo Aristotile i Predicamenti, co’ sei Principii di Gilberto Porrettano, e la Periermenìa o Dell’interpretazione; poi come fuor del programma, gli Elenchi Sofistici, opera mai più tocca da altri e quasi indecifrabile; or ecco che pur mi chiamano a sé i due libri analitici detti le Priora, ne’ quali si contengono le leggi del ben ragionare. Ché se questi libri sono in qualche parte spinosi e inviluppati d’assai difficoltà sí pel soggetto come pel testo, per ciò stesso io mi accingo tuttavia di miglior voglia e con più pronto animo perché quasi in tutti gli Studii i moderni filosofi se ne passano, come di parte non già meno utile ma troppo scabrosa. E poi venitemi intorno a fiottare, quand’io mi piglio la briga di interpretar le cose più difficili, e ad altri lascio il nome di filosofo! Già, chiamatemi come vi pare, grammatico, filosofastro; e se neanco così, padroni.
in Grande antologia filosofica, a cura di C. Vasoli, Milano, Marzorati, 1964
Secondo una vecchia tradizione storiografica la filosofia di Aristotele, diffusasi nella cristianità “latina” in seguito alla grande ondata di traduzioni dal greco e dall’arabo iniziata intorno al 1125, avrebbe raggiunto la sua massima diffusione nel XIII secolo, avrebbe conosciuto una fase di profonda crisi dal XIV secolo e sarebbe stata sostituita, nel XV secolo, dal platonismo. Di conseguenza, durante questo secolo l’aristotelismo sarebbe sopravvissuto solo in qualche roccaforte “conservatrice” come le università di Padova, Coimbra o Cracovia, prima di essere definitivamente travolto dall’avvento della filosofia e della scienza moderna. Oggi sappiamo che una simile immagine dello sviluppo del pensiero europeo è così parziale da risultare sostanzialmente falsa. Non solo è ormai accertato che l’aristotelismo nel XIV secolo, lungi dall’attraversare una fase di riflusso, ha conosciuto una fase di espansione, grazie anche all’aperto sostegno del papato. Risulta anche sempre più evidente che, pur essendo vero che la maggiore novità del pensiero del Quattrocento e del Cinquecento consiste nella riscoperta di tradizioni filosofiche (il platonismo, lo scetticismo, l’epicureismo e lo stoicismo) poco note o sconosciute al Medioevo, l’aristotelismo rimane ciononostante la tradizione filosofica predominante per tutto il Rinascimento. Lo dimostra il numero dei manoscritti, delle edizioni a stampa, delle traduzioni, dei volgarizzamenti delle opere di Aristotele. Lo conferma, per esempio, il numero dei commenti: quelli aristotelici composti fra XV e XVI secolo sono almeno dieci volte più numerosi di quelli ai Dialoghi platonici.
Ciò deriva, anzitutto, dal quasi monopolio che le opere di Aristotele continuano ad avere nei curricula universitari, dove l’inserimento delle opere di Platone rimane lento e contrastato. È vero che già intorno alla metà del Quattrocento Teodoro Gaza utilizza il Gorgia nell’insegnare retorica a Ferrara, ma per trovare corsi sui maggiori Dialoghi platonici bisogna attendere i primi decenni del secolo successivo, con Leonico Tomeo a Padova e Cornelio Agrippa a Pavia, mentre solo fra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento si giunge all’attivazione di cattedre di filosofia platonica. Sarebbe però un errore vedere nella perdurante influenza della tradizione aristotelica il semplice frutto dell’inerzia delle istituzioni scolastiche, della loro reticenza a riformare i programmi. Il grande impulso che lo studio del corpus aristotelicum riceve nel Quattrocento dipende infatti anche e soprattutto dal grande interesse che non solo i professori di filosofia di formazione scolastica, ma anche molti umanisti mostrano per il pensiero di Aristotele e dei suoi seguaci.
La “rinascita” di Aristotele nel Quattrocento: le traduzioni
In effetti, agli umanisti italiani e ai maestri bizantini immigrati in Italia si deve la realizzazione di un grande progetto di ritraduzione delle opere di Aristotele e dei suoi commentatori greci che segna una svolta rispetto all’approccio medievale a queste opere. È perciò lecito parlare di una “rinascita” di Aristotele, che però si differenzia profondamente dalla contemporanea “rinascita” di Platone, dell’atomismo o dello scetticismo antico, innescata dal ritrovamento di testi precedentemente inaccessibili.
Indubbiamente gli umanisti contribuiscono a rimettere in circolazione anche alcuni scritti di (o attribuiti a) Aristotele che non erano noti (o erano noti solo in parte) al Medioevo: basti pensare all’ Etica Eudemia , ai Magna moralia , alle Quaestiones mechanicae, o al caso davvero emblematico della Poetica, che malgrado la traduzione di Guglielmo di Moerbeke aveva suscitato scarsissimo interesse nel XIII e XIV secolo, divenendo invece un vero “best seller” quando viene stampata a Venezia, nel 1498, nella nuova versione di Giorgio Valla. Resta, ciononostante, che la “rinascita” di Aristotele non consiste tanto nella riscoperta di testi sconosciuti, bensì nel rinnovato interesse per testi da tempo tradotti in latino ma poco studiati (come la Poetica e la Retorica), e soprattutto nel “restauro” di testi familiari da secoli, che ci si proponeva di leggere in modo nuovo, per recuperarne il significato autentico.Gli strumenti adottati dagli umanisti per perseguire quest’obiettivo sono sostanzialmente tre: nuove traduzioni, uso delle tecniche di analisi testuale offerte dalla filologia, nuovi principi e nuovi metodi interpretativi. In effetti, gli umanisti cercano in primo luogo di restituire agli scritti di Aristotele l’eleganza che – sulla base di una credenza risalente a Cicerone e Quintiliano diffusa da Petrarca – essi ritenevano avessero nell’originale greco. Il progetto di ritradurre l’intera opera dello Stagirita – sostenuto dal mecenatismo di signori notoriamente attenti allo sviluppo degli studi filosofici come Cosimo e Lorenzo de’ Medici, e soprattutto dall’azione di pontefici come Eugenio IV, Niccolò V e Sisto IV – nasce perciò dall’idea (o, come ha scritto Eugenio Garin dall’“equivoco”) che mettere in bello stile latino testi come l’ Etica Nicomachea , la Fisica e la Metafisica equivalesse a “risuscitare il vero Aristotele”.
Rispondendo a questa parola d’ordine umanisti come Leonardo Bruni, Giannozzo Manetti, Francesco Filelfo, Giorgio Valla ed Ermolao Barbaro, nonché dotti greci come Giovanni Argiropulo, Giorgio da Trebisonda, Teodoro Gaza e il cardinal Giovanni Bessarione, producono nuove traduzioni di Aristotele, destinate a rimpiazzare quelle medievali, giudicate non solo brutte, ma poco accurate. Rifiutato il metodo di traduzione parola per parola (verbum e verbo), si cerca di riprodurre in latino tanto il contenuto concettuale (rerum doctrina) quanto la forma stilistica (scribendi ornatus) delle frasi di Aristotele, esprimendone il significato complessivo tramite una versione ad sensum (o ad sententiam). Apertamente teorizzato intorno al 1420 da Leonardo Bruni, questo metodo viene di fatto applicato in modi molto diversi: mentre alcuni mirano anzitutto al bello stile, anche a costo di trasformare le loro traduzioni in parafrasi poco fedeli, altri ricercano un equilibrio fra leggibilità e accuratezza, spesso limitandosi ad abbellire e revisionare le versioni medievali.
La filologia e i nuovi metodi di interpretazione dei testi
Il secondo strumento tramite il quale gli umanisti cercano di recuperare l’Aristotele “autentico” è la filologia. L’insegnamento dei maestri bizantini trasferitisi in Italia fra XIV e XV secolo, che riservano grande attenzione alla terminologia di Aristotele e alle differenti lezioni tramandate dai codici, la riscoperta delle testimonianze storiche sulle travagliate vicende della sua biblioteca, la conseguente consapevolezza che il corpus aristotelicum è un prodotto storicamente determinato, costituitosi in seguito all’attività “editoriale” dei grandi eruditi ellenistici, spinge infatti gli umanisti a spostare progressivamente l’attenzione dalle dottrine di Aristotele ai suoi testi, letti nell’originale greco e affrontati con i nuovi metodi di analisi testuale.
È in questo contesto che vede la luce l’ editio princeps dell’intera opera di Aristotele in greco, stampata a Venezia fra il 1495 e il 1498, grazie all’iniziativa di Aldo Manuzio, il più celebre editore del Rinascimento. Avvalendosi di un’équipe internazionale di studiosi (fra cui spiccano l’italiano Francesco Cavalli e l’inglese Thomas Linacre), Manuzio riesce a realizzare un’impresa grandiosa, che rappresenta a lungo un modello: ““cinque volumi in folio di circa 2000 pagine complessive, quando pochissimi libri greci erano stati ancora stampati, con una eleganza unica di tipografia, magnifica carta, legatura, cura tipografica, ottima correzione di bozze ecc., tutti caratteri che soddisferebbero anche un editore recente di testi greci”” (Lorenzo Minio Paluello).
La terza, decisiva innovazione introdotta dagli umanisti negli studi aristotelici consiste nell’elaborazione e nella diffusione di nuovi principi e metodi interpretativi. Guidati dall’ideale del “ritorno alle fonti”, essi promuovono la lettura diretta – e preferibilmente nell’originale greco – delle sue opere; criticano l’abuso di parafrasi e commenti; polemizzano in particolare con i commentatori scolastici del XIII-XIV secolo, accusandoli di aver cercato nei testi di Aristotele il semplice pretesto per affrontare, attraverso il metodo della disputa, problemi astratti e spesso oziosi; sostengono che, come ogni autore del passato, Aristotele vada invece letto per trovarvi testimonianza di un diverso modo di concepire l’uomo e il mondo, comprensibile solo se ricollocato nella sua determinatezza storica. Si spiega così il loro tentativo di ridefinire i principi, gli scopi, i metodi dell’attività del commentatore di testi filosofici: egli deve adottare uno stile sobrio e chiaro, ma elegante; deve perciò evitare eccessivi tecnicismi filosofici, mentre è libero di illustrare il contenuto dottrinale dei passi esposti anche ricorrendo a exempla tratti dalla letteratura, dalla storia e dalle belle arti; deve studiare l’insieme delle opere di Aristotele, possibilmente nella loro lingua originale; deve controllare l’esattezza delle varie traduzioni e lezioni, individuare i passi corrotti, distinguere le opere autentiche da quelle spurie; deve infine privilegiare gli interpreti greci, considerati le fonti secondarie più affidabili, non solo perché cronologicamente più vicine, ma perché culturalmente più affini ad Aristotele.
Pur incontrando forti resistenze, specie da parte di alcuni maestri di formazione scolastica, questo nuovo approccio si diffonde sempre più largamente, tanto che dalla fine del Quattrocento troverà accoglienza anche all’interno delle università. Il fenomeno si manifesta dapprima in Italia. L’incarico conferito nel 1497 a Niccolò Leonico Tomeo affinché tenga a Padova corsi su Aristotele a partire dal testo greco è spesso considerato il simbolo del trionfo dell’“aristotelismo umanistico”. Impatto non minore ottengono i corsi che Angelo Poliziano tiene a Firenze sull’Organon, inaugurati da due celebri orazioni (la Praelectio de dialectica , del 1491, e Lamia, del 1492), nelle quali viene delineato un programma di lavoro che generazioni di umanisti avrebbero ripreso e sviluppato: oltre a riproporre i motivi dominanti della polemica umanistica contro gli espositori scolastici (il rifiuto del metodo della quaestio disputata, la critica del gergo specialistico, la ricerca dell’eleganza e della chiarezza espositiva), Poliziano, infatti, insiste sul fatto che il corpus aristotelicum vada studiato con i metodi che, nella tarda Antichità, erano stati messi a punto dai “grammatici” ellenistici, capaci di coniugare la perizia filologica con una solida conoscenza della lingua e della cultura greca.
La riscoperta dei commentatori greci e la perdurante influenza dell’esegesi medievale
Si spiega così come uno dei maggiori contributi recati dalla cultura umanistica allo studio di Aristotele, e più in generale allo sviluppo della cultura filosofica, sia costituito dal rinnovato interesse per gli interpreti greci: Teofrasto, Alessandro d’Afrodisia, Porfirio, Temistio, Ammonio, Simplicio e Filopono. È Teodoro Gaza ad attirare l’attenzione su di essi, traducendo nel 1452-1453 i Problemata dello pseudo Alessandro di Afrodisia. Ispirandosi a lui, Ermolao Barbaro traduce nel 1472-1473 le parafrasi di Temistio agli Analitici posteriori , alla Fisica e al De anima, che però verranno pubblicate solo nel 1481. Amico e discepolo del Barbaro, Gerolamo Donato segue il suo esempio mettendo in latino vari frammenti di Alessandro di Afrodisia, fra cui il primo libro del De anima, che filosofi come Nicoletto Vernia e Agostino Nifo consulteranno ancor prima della pubblicazione (1495). Si apre così una nuova fase nella storia della tradizione aristotelica, durante la quale vengono riscoperti, tradotti e pubblicati quasi tutti i superstiti commentari greci, solo in parte noti al Medioevo.
Un ruolo decisivo riveste, anche in quest’occasione, Aldo Manuzio, che nel 1495, mentre licenzia il primo volume delle opere di Aristotele in greco, annuncia l’intenzione di pubblicare anche i commenti di Alessandro di Afrodisia, Porfirio, Temistio, Simplicio e Filopono. Ribadito in forma ancor più estensiva nelle prefazioni dei volumi successivi e sponsorizzato dal principe di Carpi Alberto Pio, quest’ambizioso progetto viene solo iniziato da Manuzio, ma è portato a termine dai suoi eredi fra il 1520 e il 1530. La disponibilità di questi nuovi commenti ha un forte impatto sul dibattito filosofico: per limitarsi a due esempi, il recupero dei commenti di Alessandro d’Afrodisia e di Simplicio al De anima alimenta le già aspre controversie sulla corretta interpretazione della psicologia aristotelica, mentre la migliore conoscenza dei commenti di Filopono, ricchi di critiche alle dottrine della Fisica e del De caelo, provoca un profondo ripensamento della filosofia naturale aristotelica. Ciò, tuttavia, non significa che i commenti medievali, arabi e latini, cessino di esercitare la loro influenza. Per tutto il XV secolo i commenti di Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Egidio Romano, Giovanni di Jandun, Walter Burley e Giovanni Buridano continuano a essere studiati e utilizzati non solo dagli aristotelici di formazione scolastica, ma anche da quelli di formazione umanistica che, malgrado le loro invettive contro i “barbari” maestri del XIII e del XIV secolo, ne riprendono spesso le idee, magari senza dichiararne l’origine.
All’indomani dell’invenzione della stampa, i commenti dei grandi aristotelici del Medioevo latino vengono ripetutamente pubblicati e conoscono un grande successo editoriale, che comincia a declinare solo intorno al 1535. Malgrado proprio Poliziano auspichi che le opere degli interpreti greci prendano il posto di quelle dei commentatori medievali, la profonda trasformazione che la “biblioteca peripatetica” conosce nel Rinascimento non si realizza tanto per sostituzione, quanto per giustapposizione. Le differenti tradizioni esegetiche prodotte nell’arco di 15 secoli in contesti culturali, linguistici e religiosi diversi diventano tutte contemporaneamente accessibili e confrontabili fra loro. Proprio questa sovrabbondanza di materiali e di tradizioni interpretative, mentre da un lato testimonia della grande vitalità dell’aristotelismo rinascimentale, dall’altro crea non pochi problemi e dà vita a un nuovo genere della letteratura aristotelica: le “bibliografie aristoteliche”, che segnalano, talvolta con qualche giudizio critico, le principali edizioni, traduzioni e commenti delle diverse opere dello Stagirita.
La contrastata fortuna di Averroè
Discorso a sé merita la fortuna quattrocentesca di colui che i medievali avevano considerato “il commentatore” di Aristotele per eccellenza, cioè Averroè. Diffusi in Italia, Francia, Inghilterra dalla prima metà del XIII secolo, i commenti del grande filosofo arabo hanno conosciuto un notevole successo nell’Italia del XIV secolo, sia negli ambienti scolastici, sia in alcuni circoli letterari – basti pensare a Dante.
In Italia, in particolare, lo sviluppo tardo e il peso limitato dell’insegnamento della teologia nelle università favorisce la diffusione di un approccio naturalistico e razionalistico, pronto ad assorbire anche quelle idee averroiste (unità dell’intelletto possibile, comune all’intera umanità; eternità del mondo; funzione politica delle religioni ecc.) che appaiono in conflitto con l’ortodossia cristiana. Se Gaetano di Thiene, che detiene la cattedra di filosofia naturale a Padova fra il 1430 al 1462, si sforza di interpretare il De anima di Aristotele in senso compatibile con la dottrina dell’individualità e dell’immortalità dell’anima, maestri della generazione successiva, come Nicoletto Vernia e Agostino Nifo, negano la dimostrabilità di questa dottrina, inclinando apertamente per la posizione “averroista” dell’unità dell’intelletto. Si spiegano così le reazioni delle autorità ecclesiastiche. Il 4 maggio 1489 il vescovo di Padova Pietro Barozzi intervenne, vietando pubbliche dispute sull’unità dell’intelletto. Sia Vernia sia Nifo ritrattano, ma ciò non segna certo la fine della scuola averroista, che nel corso del XVI secolo conoscerà un grande sviluppo, articolandosi in diverse correnti ed entrando in conflitto con i teorici dell’interpretazione alessandrista della psicologia aristotelica, che sostiene l’individualità, ma anche la mortalità dell’anima. È significativo che entrambe queste posizioni, convergenti nel mettere in questione la sopravvivenza ultraterrena dell’anima di ogni singolo essere umano, vengano condannate congiuntamente nella bolla Apostolici regiminis, promulgata da papa Leone X nel 1513.
Sarebbe comunque errato pensare che l’influenza di Averroè nel Quattrocento si sia esaurita nelle controversie relative alla natura dell’intelletto. Certo il suo pensiero suscita fortissime ostilità. Per alcuni egli resta il prototipo del pensatore “empio”, che Tommaso d’Aquino aveva definitivamente sconfitto, secondo uno stereotipo diffuso dai Domenicani del Trecento e visualizzato nei tanti “trionfi di Tommaso” che si continuano a dipingere ancora per tutto il Quattrocento: basti pensare a quello celebre di Benozzo Gozzoli. Per altri, fra cui si annoverano umanisti illustri come Ermolao Barbaro, Averroè aveva dato una lettura di Aristotele del tutto inaffidabile, perché si era fondato su scorrette versioni arabe, “rubando” dagli interpreti greci quel poco che aveva correttamente inteso. Ciononostante le opere filosofiche, scientifiche e mediche di Averroè vengono tradotte e pubblicate in numerosissime edizioni a stampa, continuano a essere utilizzate nell’insegnamento e giocano un ruolo decisivo nelle discussioni di logica, di fisica e cosmologia, di filosofia morale e politica. Si apre così una nuova fase dell’influenza di colui che i medievali chiamano “il commentatore”, e che gli uomini del Rinascimento imparano a riconoscere come un pensatore autonomo e originale, degno a sua volta di essere commentato.