Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra il il X e il XII secolo, nei monasteri benedettini, la grande considerazione per il valore del lavoro determina la redazione di nuovi ricettari e libri di mestiere in cui sono raccolte le ricette provenienti dalla tradizione bizantina e romana. Accanto a essi cominciano a trovare spazio anche le nuove acquisizioni originarie del Nord Europa, nonché alcuni echi della tradizione alchemica araba.
Accanto alle copie della Mappae Clavicula, un ricettario risalente al secolo VIII, tra il X e il XII secolo fanno la loro comparsa altri due trattati dedicati alle arti meccaniche destinati, specialmente il secondo, ad avere un notevole successo. Il primo di questi è il De coloribus et artibus Romanorum, attribuito a un certo Eraclio, ma che in realtà è un’opera a più mani, la cui redazione più antica sembra risalire al X secolo; la dedica a un generico fratello nel prologo, ci consente di inserire quest’opera nel contesto della cultura monastica.
Il trattato si compone di due libri in versi, a loro volta divisi in venti capitoli, e uno in prosa, il cui argomento principale, come è specificato nel titolo, sono le ricette per la preparazione dei colori. L’opera, tuttavia, si presenta come un trattato sulle arti di più ampio respiro nel quale si affrontano anche problematiche tecniche relative alla pulizia delle gemme, al taglio dei cristalli e alla lavorazione a sbalzo del rame. Eraclio enfatizza la propria destrezza nelle operazioni manuali e sottolinea la superiorità tecnica del suo tempo rispetto a quella di epoca romana, affermando che la conoscenza tecnica dei moderni non è un’eredità dei Romani ma un dono scaturito direttamente da Dio. Di Eraclio non possediamo nessuna nota biografica e le uniche notizie sulla sua formazione le possiamo trarre indirettamente dalla sua opera, nella quale emerge come alcune ricette e informazioni relative alle pietre e i minerali trovino parziale riscontro nella Naturalis Historia di Plinio, nel De architectura di Vitruvio e nelle Ethimologiarum libri, sive Origines di Isidoro di Siviglia.
Le ricette proposte da Eraclio sono simili a quelle della Mappae Clavicula, ma mentre quest’ultimo è un prodotto degli scriptoria monastici nel quale sono state perpetuate le informazioni di un manoscritto originario interrompendo ogni relazione con il contesto artigianale delle origini, l’opera di Eraclio, pur essendo anch’essa frutto degli scriptoria, non mutua le ricette in maniera passiva; come afferma l’autore, infatti, queste sono il frutto di una selezione e di un adeguamento realizzato sulla base della propria esperienza professionale di miniatore di manoscritti. Questa rivendicazione del valore “epistemologico” della prova empirica costituisce un segnale importante di come, dopo il X secolo, scriptorium e laboratorium mostrino una reciprocità immediata.
Rispetto a opere come la Mappae Clavicula il libro di Eraclio cerca di andare oltre la scarna dimensione ricettaristica, sforzandosi di offrire anche informazioni di carattere storico-letterario. Questo tentativo di arricchire un manuale essenzialmente operativo con storie e aneddoti legati all’esercizio delle artes mechanicae emerge già dalla scelta di scrivere l’opera in versi ed è ribadito con l’inserimento nel testo di alcune ricette di storie emblematiche come quella della scoperta del vetro mutuata da Plinio, secondo la quale questa sostanza sarebbe stata scoperta casualmente nelle ceneri del fuoco da dei mercanti fenici, o episodi avvenuti ad artigiani, come la storia di un vetraio che per impedire la divulgazione della ricetta del vetro flessibile fu fatto decapitare dall’imperatore Tiberio.
Un altro trattato sulle arti meccaniche è la Schedula diversarum artium, che per contenuti e completezza della trattazione costituisce probabilmente la fonte più importante per lo studio delle tecniche nel XII secolo. Purtroppo il manoscritto originario è andato perduto e le copie più antiche in nostro possesso non sembrano andare oltre la terza generazione, tutte collocabili nella Germania del XII secolo. Non siamo neanche in grado di esprimere con certezza la data della prima redazione dell’opera, né l’identità dell’autore, anche se, nel testimone più antico (manoscritto 2527.V, Vienna Nationalbibliothek) la paternità dell’opera è attribuita a un certo Teofilo presbitero, descritto come un monaco benedettino.
Sulla base di questa attribuzione lo storico tedesco Geburtstag von Hermann Degering ha individuato in Teofilo un artigiano di nome Ruggero di Helmarshausen, attivo intorno al 1100 a Colonia. Teofilo sarebbe quindi uno pseudonimo di origine bizantina scelto molto probabilmente per sottolineare l’eccellenza delle tecniche descritte nell’opera. Questo manoscritto costituisce il primo tentativo di realizzare un compendio sulle tecniche da parte di un artigiano sulla base della propria esperienza di bottega. Rispetto alla Mappae Clavicula e al De coloribus et artibus Romanorum, il contenuto della Diversarum artium schedula si caratterizza per la decisa impronta realistica e per la scrupolosa descrizione dei procedimenti e delle attrezzature necessarie per l’esecuzione di un lavoro. L’importanza di questo manoscritto, oltre alle numerose informazioni tecniche, risiede anche nel valore positivo che viene attribuito alle arti in generale. Il lavoro dell’artista assume qui anche un valore spirituale poiché le opere d’arte a carattere religioso sono per l’autore un modo per rendere palpabile la magnificenza di Dio. Per questo motivo, secondo Teofilo, i segreti delle arti devono essere divulgati in modo da permettere agli artigiani di realizzare opere meravigliose che esprimano la potenza e la bellezza di Dio. Nell’etica benedettina del XII secolo il lavoro manuale non è più visto come una distrazione per sottrarre i monaci alle tentazioni della vita “oziosa”, ma come un’attività positiva che coniuga l’utilitas dell’operare con una meditazione sulle novità tecniche. Questa rivalutazione del lavoro manuale sul piano religioso, morale e sociale emerge chiaramente dai prologhi di apertura anteposti alle tre sezioni in cui è divisa la Diversarum artium schedula, nei quali si postula un rapporto tra attività creatrice dell’artigiano e creazione divina. Si tratta di una fonte di eccezionale rarità perché la classe sociale degli artigiani era sostanzialmente analfabeta e non abituata a registrare verbalmente le proprie conoscenze professionali che, al massimo, tramandavano sotto forma di ricette o brevi annotazioni in molti casi per noi oggi incomprensibili. Per avere una fonte per la storia delle tecniche che superi la Diversarum artium schedula per chiarezza e completezza delle informazioni, dobbiamo aspettare i trattati sulle arti del XV e XVI secolo, come il Libro dell’arte di Cennino Cennini del 1437 e il De la pirotechnia di Vannoccio Biringuccio del 1540. Tuttavia, nonostante il forte sviluppo delle tecniche durante il periodo tardomedievale e rinascimentale e il consolidamento di una tradizione letteraria sulle arti, l’opera di Teofilo continua a essere copiata fino al XIX secolo.
La prima parte della Diversarum artium schedula è un manuale per la preparazione dei colori per la pittura, nel quale si forniscono consigli per miscelare i pigmenti e sul loro uso su vari tipi di superfici. Teofilo menziona vari metodi per l’applicazione dei colori e tra questi l’olio di lino, la chiara e il tuorlo d’uovo, l’acqua di calce e alcune resine e succhi di origine vegetale. Vengono inoltre fornite informazioni sulla chimica dei colori minerali come il bianco di zinco, il minio, il verde rame e il vermiglione, compresa una descrizione puntuale delle tecniche per la preparazione e applicazione delle sfoglie d’oro e dell’inchiostro in polvere d’oro per la crisografia.
La seconda parte è dedicata alle lavorazioni di vetreria, dove accanto a un nutrito ricettario per la colorazione del vetro viene dedicato molto spazio alle tecniche per la produzione delle lastre di vetro da finestra, del vasellame e delle tessere per i mosaici. Teofilo offre anche un’accurata descrizione degli utensili, compresa quella che sembra essere la prima descrizione conosciuta delle canne per la soffiatura del vetro.
Nella terza parte, infine, Teofilo tratta le arti metallurgiche. Per prima cosa descrive l’allestimento dei locali della fonderia, della fucina e del laboratorio per la lavorazione dei metalli preziosi, sottolineando che quest’ultimo fosse realizzato in un ambiente separato da quelli per il trattamento dei metalli di base. Nelle pagine dedicate alla lavorazione dei metalli troviamo anche la descrizione di numerose macchine utensili come il trapano, il tornio, la trafila, le matrici metalliche per lo stampaggio, una macchina per l’intarsio dei metalli, compresi numerosi utensili per la carpenteria. Alcuni capitoli sono dedicati alla preparazione delle leghe metalliche e alle tecniche di fusione, compresa una dettagliata descrizione del processo per la fusione delle campane.
Molta attenzione viene data alle tecniche per l’affinamento dei metalli preziosi (coppellazione, cementazione) senza però mai avventurasi sul piano della teoria dei metalli e della loro origine minerale, a esclusione di un breve passo sull’oro fluviale, nel quale si afferma che gli arenili di certi fiumi sono luoghi ideali per la formazione dell’oro che si materializza sottoforma di piccole scaglie. Molto interessante è anche la descrizione delle tecniche di fusione del rame nella quale Teofilo menziona un processo di separazione dal piombo che potrebbe essere il primo riferimento alla tecnica della liquazione, che solitamente si ritiene un’invenzione più tarda. Teofilo menziona anche alcune leghe (stagno-piombo, rame-argento e rame-oro) da impiegare per le saldobrasature nell’ambito dell’oreficeria.