La tradizione peripatetica: Aristosseno di Taranto e la nascita delle scienze armonica e ritmica
Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Ad Aristosseno di Taranto, filosofo peripatetico, si fa tradizionalmente risalire la nascita di uno studio scientifico della musica e delle sue componenti costitutive (melodiche e ritmiche), per la prima volta indagate sistematicamente e con criteri metodologici esplicitamente dichiarati.
Se, nel mondo greco, una riflessione teorica sulla musica è testimoniata già tra V e IV secolo a.C., l’autore con cui si fa tradizionalmente coincidere la nascita di uno studio “scientifico” della grammatica musicale è Aristosseno, nativo di Taranto, la cui attività si colloca principalmente ad Atene nella seconda metà del IV secolo a.C. Aristosseno è filosofo di formazione pitagorica che presto diventa uno tra gli allievi più prominenti di Aristotele al Peripato, tanto da sperare di succedergli nella direzione della scuola (gli verrà invece preferito – con suo grande disappunto – Teofrasto). Tale formazione è fondamentale per capire il suo approccio “dinamico” allo studio della musica, percepita come un elemento della natura in perenne movimento/mutamento e quindi come potenziale oggetto di analisi da parte di una scienza teorica (theoretike episteme) che, come una “fisica” aristotelica (la disciplina che, secondo Aristotele, studia gli elementi in divenire del reale), osservi o, per meglio dire, percepisca con l’orecchio i fenomeni musicali (ritmi e melodie) prodotti nella realtà fenomenica e ne astragga, per induzione, le strutture costitutive intrinseche (quali patterns ritmici e intervallari). Una volta astratti i principi (archai) che stanno alla base della costituzione di tali strutture, è poi per Aristosseno possibile passare a dimostrare (apodeiknymi) in maniera puntuale le leggi che regolano il “meraviglioso ordine” (thaumaste taxis) della musica. Come nella concezione aristotelica, osservazione e dimostrazione sono fasi complementari di un procedimento scientifico integrato, la cui applicazione al campo musicale vale al filosofo tarantino la fama di teorico musicale più famoso dell’antichità.
La consapevolezza della necessità di una scienza della melodia che ne studi separatamente i diversi elementi costitutivi attraverso varie discipline specialistiche (tra cui le scienze armonica e ritmica, appunto, alle quali egli dedica due trattati distinti) è da Aristosseno esplicitamente dichiarata nell’incipit della sua opera più famosa e meglio conservata (pur se giunta a noi incompleta, come tutta la sua produzione), gli Elementi armonici: “la scienza della melodia è multiforme e si divide in più parti; una di esse si deve considerare la scienza detta armonica, che è, secondo l’ordine, la prima ed ha una funzione elementare. Infatti essa è la prima delle trattazioni teoriche e ad essa appartiene quanto concerne lo studio delle scale e delle tonalità. Nulla più di questo si deve pretendere da chi possiede la suddetta scienza, perché questo è il suo fine. Tutti i problemi di un grado più elevato, che si presentano quando l’arte adopera già le scale e i toni, non appartengono più all’armonica, ma alla scienza più generale che comprende l’armonica e le altre scienze particolari che riguardano la completa conoscenza della musica. Ed è il possesso di questa ultima scienza che fa il musico” (Elementi armonici, 5, 4-6, 5, traduzione Da Rios 1954).
Oggetto di studio specifico della scienza armonica è il melos hermosmenon, la “melodia armonizzata”, vale a dire quell’andamento di suoni e intervalli che si succedono in una “composizione determinata e non casuale” generata dalla natura (physis) stessa della melodia, responsabile di quel meraviglioso ordine musicale che la scienza armonica – tramite la combinazione di facoltà quali percezione (aisthesis), ragione (dianoia) e memoria (mneme) – cerca di scoprire.
Elemento minimo delle aggregazioni melodiche (e primo oggetto di studio della harmonike episteme) è il suono, da Aristosseno rappresentato non più – come nell’acustica pitagorica – quale prodotto di un impatto sull’aria causato da un corpo in movimento (e di conseguenza indagato in termini numerico-quantitivi), ma quale “punto” incorporeo (asomatos), privo cioè di dimensione e larghezza, posizionato ad una determinata “altezza” su un continuum lineare (di qui l’idea del movimento del suono nello “spazio” sonoro, rappresentato metaforicamente come un “percorso” o un “cammino”). Con questa formulazione il filosofo si ricollega alle ricerche di teorici a lui precedenti che egli chiama harmonikoi, i quali indagavano le diverse altezze sonore (phthongoi) fissandole su una linea immaginaria detta “diagramma”, dove le distanze tra i suoni erano concepiti come “intervalli spaziali” (diastemata, appunto) tra due punti del continuum. Oltre ai suoni e agli intervalli, la scienza armonica elaborata da Aristosseno classifica e studia i “sistemi” (systemata, cioè le scale, concepite come “aggregazioni di intervalli”), i generi (gene, cioè le possibili articolazioni intervallari delle scale), le tonalità (tonoi, le cosiddette “scale di trasposizione”), le modulazioni (metabolai, i cambiamenti di genere, tonalità ecc. che è possibile operare in un brano musicale) e la composizione melodica (melopoiïa), vale a dire la messa in pratica degli elementi precedentemente menzionati da parte dei musicisti.
Il sistema scalare alla base dell’organizzazione musicale aristossenica (che è poi diventata per noi la teoria musicale classica tout-court) è il tetracordo, un insieme di quattro suoni di cui il più acuto (mese) e il più grave (hypate) sono posti a una distanza di quarta, un intervallo dell’ampiezza di due toni e mezzo (ad esempio, su un pianoforte moderno Mi/Si, dall’acuto al grave, secondo la concezione discendente delle scale da parte dei teorici greci). Queste note sono dette suoni “fissi”, mentre le due note intermedie (lichanos e parhypate) sono i cosiddetti suoni “mobili”, perché la loro intonazione varia a seconda del “genere” di tetracordo: di qui l’impossibilità di una corrispondenza univoca tra i nomi delle note antiche e le note moderne. Essendo l’unità di misura intervallare greca il quarto di tono (che ha, quindi, la stessa funzione ricoperta nella musica moderna dal semitono temperato), i tre generi principali descritti da Aristosseno sono l’enarmonico, nel quale gli intervalli procedono, in senso discendente, per ditono, quarto di tono, quarto di tono (Mi/Do/Si+/Si); il cromatico, dove si avvicendano un tono e mezzo, semitono, semitono (Mi/Do diesis/Do/Si); il diatonico, in cui si succedono tono, tono, semitono (Mi/Re/Do/Si). Nell’ambito del tetracordo è importante ricordare il concetto di pyknon (alla lettera “ciò che è compresso”), termine che indica la somma dei due intervalli più gravi di un sistema tetracordale nel caso in cui tale somma non superi il restante intervallo. Tale compressione è presente solo nei generi enarmonico e cromatico ed è la probabile spia di una più antica struttura tricordale dell’ampiezza di quarta (secondo alcune fonti, il tipo più antico di enarmonico era originariamente un tricordo del tipo Mi/Do/Si, con il pyknon semitonale al grave non suddiviso in due quarti di tono). Il genere cromatico e quello diatonico possono inoltre presentare alcune sfumature (chroai) di genere, cioè variazioni intervallari rispetto alle tre categorie principali già enumerate. Oltre al cromatico tonico (toniaion) sopra descritto, vi sono il cromatico “emiolio” (hemiolion, in cui i due intervalli del pyknon sono una volta e mezzo la diesis enarmonica, vale a dire: 7/4 di tono, 3/8 di tono, 3/8 di tono) e il “molle” (malakon, nel senso di “allentato”, detto di corda che produce un suono d’intonazione più grave: 11/6 di tono, 1/3 di tono, 1/3 di tono). Anche il diatonico ha una sua variante “molle” (cioè con la lichanos abbassata), che procede per 5/4 di tono, 3/4 di tono, semitono.
I tetracordi possono inoltre associarsi tra di loro andando a formare sistemi scalari più ampi: per congiunzione (synaphe, quando la nota più grave del tetracordo più acuto coincide con la nota più acuta del tetracordo più grave) o per disgiunzione (diazeuxis, quando tra i due tetracordi si ha un intervallo di tono), come nel cosiddetto “sistema perfetto maggiore”, una scala che in tutto copre l’ampiezza di due ottave, formata da quattro tetracordi variamente associati tra loro più un tono aggiunto al grave (vedi figura 1, dove sono indicati i nomi antichi delle note e le loro articolazioni in tetracordi).
Il “sistema perfetto minore”, invece, è formato da tre tetracordi congiunti più un tono aggiunto al grave. L’unione di sistema perfetto maggiore più minore forma il cosiddetto “sistema perfetto immutabile”. Tali strutture sono chiamate “perfette” perché contengono tutte le scale parziali di quarta, quinta, ottava, con tutte le loro forme o specie. Le “forme” o specie (eide) di quarta, quinta e ottava sono scale che si ottengono quando cambia l’ordine degli stessi intervalli semplici in una certa grandezza, mentre il numero e la grandezza rimangono gli stessi. La particolarità delle specie di ottava è quella quindi di essere tipi di ottava che differiscono tra loro per la successione di intervalli interni, essenzialmente per la posizione del tono di disgiunzione, l’unico intervallo che non cambia modulando tutto il sistema ad un diverso genere. Nella trattazione di Aristosseno, esse assumono i nomi etnici delle scale più antiche, vale a dire specie d’ottava misolidia (ad esempio Si/Si’, che nel genere diatonico presenta la successione S T T S T T T, dove S = semitono e T = tono), lidia (Do’/Do’’, T T S T T T S), frigia (Re’/Re’’, T S T T T S T), dorica (Mi’/Mi’’, S T T T S T T), ipolidia (Fa’/Fa’’, T T T S T T S), ipofrigia (Sol’/Sol’’, T T S T T S T), ipodorica (La’/La’’, T S T T S T T). Tali scale non devono però essere confuse con le vecchie harmoniai, moduli scalari tradizionali di ampiezza variabile (più verosimilmente a sette o otto note) sulla cui successione intervallare non sappiamo in realtà molto.
Il testo di Aristosseno è purtroppo sopravvissuto solo fino alla trattazione di questi argomenti, ma grazie agli epitomatori della sua scuola siamo in grado di conoscere, pur sommariamente, il contenuto del resto dell’opera. Molto importante è il concetto di tonos o “tonalità” (più tardi detto anche tropos), con il quale si intendevano le cosiddette “scale di trasposizione”, in sostanza gli ambiti sonori “nei quali sono poste le scale per eseguirle” (Elementi armonici, p. 46, 17-18 Da Rios). I tredici tonoi aristossenici si ottengono trasponendo lungo i dodici semitoni di un’ottava l’intero sistema perfetto, ricavando così una serie di scale caratterizzate semplicemente da una differenza nel registro sonoro, e non nella distribuzione di intervalli interni (da non confondersi quindi con le specie d’ottava, con cui i tonoi condividono i nomi etnici). Tale sistema fu successivamente ampliato a tavolino dagli epigoni aristossenici fino a raggiungere un numero totale di quindici tonalità, dove alle cinque scale con il nome base (lidio, eolico, frigio, ionico e dorico) corrispondono in maniera simmetrica cinque hypo-scale (tono ipolidio, ipoeolico, ipofrigio, ipoionico e ipodorico) e cinque hyper-scale (tono iperlidio, ipereolico, iperfrigio, iperionico e iperdorico), rispettivamente una quarta sotto e una quarta sopra le scale base.
L’autorità di Aristosseno in campo musicale è tale che, dopo di lui, la polemica musicale in campo teorico si articola sostanzialmente in un contenzioso tra aristossenici (tra cui ricordiamo Cleonide, Gaudenzio, Bacchio il vecchio) e pitagorici (Pseudo-Euclide, Nicomaco di Gerasa, Teone di Smirne), gli uni sostenitori della percezione sensibile, gli altri della ragione quali criteri di giudizio dei fenomeni musicali, con un evidente appiattimento della complessità intellettuale dell’opera del filosofo di Taranto. Il terreno di scontro principale tra le due scuole è la possibilità di suddividere il semitono in due esatte metà, negata dai pitagorici su basi matematiche (essi infatti riconoscono un semitono maggiore, detto apotome = “taglio”, e un semitono minore detto leimma = “resto”), creduta invece possibile da Aristosseno grazie alla sola percezione (nella dimostrazione dell’ampiezza della quarta, Aristosseno afferma che “ci si deve rimettere al giudizio dell’orecchio”). Ma, al di là delle polemiche, il sistema scalare da lui delineato diviene il sistema scalare greco per eccellenza, che giungerà però al Medioevo essenzialmente attraverso la mediazione della trattatistica latina: bisognerà infatti attendere l’età rinascimentale perché la sua opera sia di nuovo letta in lingua originale.
Parallelamente all’elaborazione della scienza armonica, Aristosseno concepisce uno studio sistematico delle forme di movimento ritmico più comunemente applicate alla melodia (alla lettera rhythmos significa appunto forma) dedicando un trattato a sé stante alla rhythmike episteme: gli Elementi ritmici.
La nascita di tale disciplina rende evidente quel divorzio tra metro verbale e ritmo musicale che cominciava a manifestarsi già da almeno un secolo: se nella pratica musicale antica, infatti, l’alternanza di sillabe lunghe e brevi nel testo poetico forniva l’ossatura della partitura musicale (in virtù del fatto che nella lingua greca antica le quantità sono chiaramente percepite e l’opposizione lunga-breve ha valore distintivo – una lunga corrisponde a due brevi come, nella musica moderna, un quarto corrisponde a due ottavi –), una progressiva differenziazione tra valori prosodici e durata temporale delle note musicali stava lentamente portando tra V e IV secolo a.C. all’autonomia del “ritmo” dal “metro” poetico. Nella dizione, dice infatti Aristosseno, il ritmo è dato dalle sillabe (per la scienza metrica i piedi non sono altro che “combinazioni di sillabe”), mentre nel canto dai rapporti tra le arsi e le tesi, cioè dalle proporzioni numeriche tra tempi in levare e tempi in battere.
L’unità di misura, minima e indivisibile, posta a fondamento di ogni brano musicale è quindi, secondo il filosofo di Taranto, il protos chronos o “tempo primo” (“la più piccola delle durate che l’esecutore attribuisce a ciascuna nota”, Elementi ritmici, 2, 11), da lui descritto quale principio formale astratto che, nella sua applicazione materiale, può avere realizzazioni differenti (come possono essere, ad esempio, l’ottavo o il quarto in un brano musicale moderno). Una volta stabiliti i rapporti ritmici (logoi) tra battere e levare musicale (che possono essere di genere pari, come nel dattilo o anapesto, due tempi in battere e due tempi in levare, 2:2; doppio, come nel trocheo o nel giambo, due tempi in battere e un tempo in levare, 2:1; emiolio, come nel cretico o nel peone, tre tempi in battere e due tempi in levare, 3:2), fermi restando tali rapporti, possono mutare le grandezze che li compongono, cioè la durata effettiva della loro esecuzione e percezione: in una parola il loro tempo o “andamento” ritmico (agoge). Per il genere pari si va da un piede minimo di quattro tempi ad un massimo di sedici tempi; per il doppio da un minimo di tre tempi ad un massimo di diciotto; per l’emiolio da un minimo di cinque ad un massimo di venticinque. Il limite massimo di numero di tempi è da Aristosseno stabilito sulla base della capacità sensoriale dell’uditore di continuare a percepire il genere ritmico come tale. È ormai chiaro che, all’epoca di Aristosseno, i generi ritmici più comuni, pur originatisi sui principali metri della versificazione poetica, sono ormai liberamente applicati alle melodie senza più alcun obbligo di assumere, quale unità di misura per la scansione ritmica, le quantità sillabiche del testo poetico.