Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Se la tragedia spagnola cinquecentesca tenta, pur nella costante ricerca di innovazione, soluzioni di compromesso tra il modello classico e la tradizione popolare, in ambito francese l’affermarsi del prestigio della cultura italiana rende possibile la codifica di un linguaggio tragico di ascendenza classica. La tragedia tedesca, invece, estranea ad ambientazioni tipiche del modello antico, è legata alla storia del’Europa cristiana minacciata dal pericolo turco. Nell’Inghilterra elisabettiana, accanto alle tragedie bibliche classicheggianti, vengono rappresentati drammi neolatini di ambientazione classica; tuttavia debuttano anche le prime tragedie regolari in lingua inglese con forti influssi senechiani insieme ai cosiddetti chronicle play. Sono gli esordi della grande stagione teatrale inglese che avrà i suoi massimi risultati nel secolo successivo.
Fermenti anticlassici della scena iberica: il trionfo della tragedia popolare
Durante il Cinquecento nella penisola iberica una drammaturgia tragica di ispirazione classica fatica a imporsi tanto sulla scena dei corrales quanto sui carros allegorici delle festività religiose: il pubblico pagante delle città è infatti radicalmente estraneo a quella cerimonia aristocratica ad ammaestramento dei potenti in cui di fatto si risolve il sacrificio dell’eroe nella tragedia “regolare” moderna. D’altra parte la religione cattolica con la sua esaltazione degli umili e le sue promesse di redenzione distrugge le gerarchie retoriche su cui si fonda lo stile elevato del linguaggio tragico e converte il lutto della catastrofe nel tripudio della resurrezione.
La tragedia spagnola cinquecentesca si definisce quindi in forme originali sul filo di un inevitabile compromesso tra il canone classico e la tradizione locale religiosa e popolare.
La tragedia biblica Josephina (1523) opera dell’attore Miguel de Carvajal, autore anche di drammi sacri di gusto popolareggiante come Las Cortes de la muerte, è un tipico esempio di questa geografia tragica complessa in cui l’altare è attiguo alla scena dei professionisti.
L’irregolarità dei primi esempi “laici” di drammaturgia tragico-religiosa si trasmette alla produzione teatrale dei gesuiti. Alle “moralità” animate da personaggi simbolici, quale la Metanea di padre de Acevedo recitata a Cordova nel 1556, si affiancano esperimenti tragici di insolita ispirazione “realistica” come la Tragoedia Patris familias de vinea recitata a Medina de Campo tra il 1560 e il 1566. Caratteristica manifestazione del criticismo di genere tipico della drammaturgia tragica dei collegi iberici è la propensione dei padri drammaturghi portoghesi per la forma tragicomica. Padre Luís de Cruz è autore di tragicommedie famose per la grandiosità della loro azione e per lo sfarzo dell’allestimento (Prodigus, 1568; Sedecia, 1570; Vita humana, 1571); con il suo dramma ispirato alla vita di San Paolino di Nola, recitato a Coimbra nel 1604, padre Alfonso Mendez trascrive sul palinsesto tragicomico la tradizionale fabula agiografica medievale. Nei teatri gesuitici portoghesi la tragicommedia si avvia poi a trasformarsi in epopea nazionale, si pensi alla Tragicomedia do Descobrimento e Conquista do Oriente pelo felicissimo Rei D. Manuel recitata a Lisbona nel 1619.
Nell’ambito del teatro “laico”, anche quando maggiore è lo sforzo di adesione alla struttura tragica antica, i drammaturghi spagnoli continuano a innovare: è questo il caso di Andrés Rey de Artieda che, componendo Los amantes de Teruel, non esita a sopprimere il coro.
L’incapacità di aderire totalmente alle convenzioni classiche è ben documentata da El cerco de Numancia di Miguel de Cervantes (1583). Ponendo mano a una tragedia di ambientazione classica, il futuro difensore del teatro “regolare” contro gli abusi dei drammaturghi professionisti mescola personaggi storici e figure allegoriche e crea una struttura episodica di carattere più epico che drammatico. In Spagna, come nel resto d’Europa, la via “classica” per la creazione di una forma tragica moderna è rappresentata dal teatro di Seneca. I loci communes della drammaturgia dell’orrore, dai crimini efferati agli eccessi erotici, sono inventariati nelle tragedie di Cristóbal de Virués. Se in Elisa Dido il parossismo emotivo è piegato da Virués al rispetto delle regole, ne La gran Semíramis, ne La cruel Casandra e in Atila furioso il rispetto delle unità di tempo e di luogo viene meno. Con il dramma La infelice Marcela cade invece il principio di distinzione dei generi e Virués approda alla forma tragicomica (il corpus delle tragedie di Virués è pubblicato a Madrid nel 1609). La teoria dei delitti e delle scelleratezze si sviluppa parallelamente nelle tragedie di Lupercio Leonardo de Argensola che si compiace di mostrare in scena le atrocità commesse dai suoi tiranni (Filis, perduta; Alejandra, 1585; Isabela, 1585).
Miguel de Cervantes
Entrano in campo Guerra, Peste e Fame
L’assedio di Numanzia, Atto IV
Allarme concitato. Fermento. Allo strepito, entrano Scipione, Giugurta e Mario, stupiti e irritati, alla rinfusa.
SCIPIONE: Che c’è, capitani? Che allarme è questo in un momento di così piena calma? Qualcuno pazzo o scimunito o stanco di giorni viene a chiederci sepoltura? O non sarà, piuttosto, qualche ammutinamento tra le nostre file a provocare questi improvvisi allarmi? Ché io non sono così tranquillo sul conto del nemico, quanto, e più, malsicuro sul conto dei miei.
(Entra Quinto Fabio a spada sguainata, e dice):
QUINTO FABIO: Non preoccuparti, prudente generale; già si è scoperta la cagione che ha fatto sguainare la daga a chi, dei tuoi, era più fornito di coraggio e di forza. Due numantini con superbo impeto - e lodarne l’ardimento è dovere - superando fosso e muraglie, ci han dato, poco fa, un assalto furibondo. Travolte le sentinelle, si son trovati davanti a più di mille lancie nostre, e con tal furia ci si sono buttati contro, da aprirsi un varco fino in mezzo al campo. E lì con gran valore e indomabile forza hanno assalito la tenda di Fabrizio: sei dei nostri in un punto cadono trafitti. Non così fulminea la folgore solca e divide l’alto cielo; né così presto stella cadente è vista e perduta, come quei due han solcato le schiere dei nostri, tingendo il duro suolo di sangue romano spillato a ogni colpo di spada: trafitto il petto di Fabrizio, squarciato il cranio di Erazio, staccato il braccio destro di Olmìda a cui di vita poco più avanza; vana riusciva al prode Stazio la sua sveltezza, ché il correre lesto contro il numantino, solo gli valse ad accorciargli la via alla tomba. Con pronta manovra, da tenda a tenda sorvolando, riuscirono ad impadronirsi d’una corba di pane; afferratala, arretrarono; del passo, ma non di valore. Uno di loro riuscì a scampare con la fuga; l’altro cadde trafitto da mille spade. Tutto mi fa supporre che sia stata la fame a infondere in quei due un coraggio così temerario.
SCIPIONE: Se rinserrati e affamati, stremati come sono, danno prove di un così smisurato ardimento, quando fossero liberi e in pieno possesso delle forze e del coraggio loro, che farebbero? Indomiti! Ma sarete pur domati, ché contro al vostro violento furore, sta il nostro ingegno industrioso, che è maestro nel domare i superbi.
Escono tutti. Arriva Marandro ferito e coperto di sangue, con una corba di pane.
MARANDRO: Non vieni, Leonizio? Che è questo, dolce amico? Se tu non vieni con me, dove vado io da solo? Amico che mi hai lasciato, amico che ti sei fermato, non tu me, hai lasciato; io, ho lasciato te. Possibile che siano le tue carni dilaniate già il segno manifesto di quanto è costato questo pane? Possibile che la ferita, che ti ha steso morto, in quel punto e momento, non m’abbia tolto la vita? Mi lasciò il crudo fato vivo unicamente per dare a me maggior pianto e mostrare te più fedele. Tu avrai nel corso del tempo la fama d’amico sincero; io, a discolparmi, in cielo, ti manderò la mia anima. E presto, ché già l’affanno a morte mi ha quasi tratto, mentre porto alla mia dolce Lira questo amarissimo pane. Pane strappato ai nemici; ma no, strappato no: pane comprato col sangue di due amici senza fortuna.
Entra Lira recando roba da gettar nel fuoco, e dice:
LIRA: Che vedono gli occhi miei?
MARANDRO: Quello che più non vedranno; ché han fretta i miei affanni, di veder la mia fine. Guarda, ho tenuto parola, Lira, e la mia promessa: che tu non saresti morta, finché restavo io vivo. Meglio era forse dire che presto avresti veduto a te avanzare il cibo, a me mancare la vita.
LIRA: Che dici, Marandro caro?
MARANDRO: Che tu trattenga la fame, finché mi tronchi la vita il mio destino amaro; che questo pane intriso del sangue che ho versato, non ti risulti, a mangiarlo, un cibo triste e amaro. È il pane che custodivano ottantamila romani ed è costato a due amici la vita che adoravano. Per dare a te la prova che merita l’amor tuo, Marandro - vedi? - si muore e Leonizio è già morto. Quest’anima pura e vera, accoglila con amore: è la vivanda che all’anima riesce più gradita. Poiché, alla tormenta e al sereno, fosti sempre signora di me, accetta il mio corpo, ora, come accettasti il mio bene.
Cade morto in grembo a Lira.
LIRA: Marandro, dolce mio bene, che ti hanno fatto, che hai? Come d’un tratto, ti sei così disanimato? Povera me, sventurata, ecco che è morto il mio sposo: chi mi darà conforto, vita mia triste e grama? Perché ti hanno fatto, amore, pieno di raro coraggio, innamorato e prode soldato senza fortuna? Un’impresa, hai compiuta, o sposo mio, di tal sorta, che per risparmiarmi da morte, m’hai tolto, o amato, la vita. O pane intriso di sangue, per me conquistato col sangue, sei stato e sarai pel mio sangue, non pane, no, ma veleno. Lo accosto alla bocca, amor mio, non certo per sostentarmi, ma solo per baciare il sangue delle tue vene.
Entra un ragazzo, fratello di Lira; parla a stento, con un fil di voce.
RAGAZZO: Lira, sorella, la mamma è morta; in punto di morte è nostro padre, e anch’io mi sento morire di fame. Sorella, ma tu lì hai del pane? O pane! Come tardi ci arrivi! Non ci passa ormai più il boccone per la gola, così serrata come è dalla fame, che non passerebbe quel pane neanche se fosse acqua. Mangialo tu, sorella cara, ché per colmo d’affanno, vedo avanzarmi il pane quando mi manca la vita.
Cade morto.
LIRA: Morto, sei, fratello adorato? Non hai più né vita né alito. Buono è un male, se arriva solo, non accompagnato. Ma perché, mio destino, mi torturi con un male, e subito un altro, sicché in un sol punto rimango orfana e vedova e sola? Ah dura potenza romana, che con la tua fiera spada m’hai circondata di morti! Ecco, qui: mio fratello e il mio sposo. A chi volgersi in questa desolata agonia, se nella vita ciascuno di loro mi fu cara gioia dell’anima? Dolce sposo, fratellino mio bello, tanto amore vi voglio portare ora che verrò a trovarvi in cielo o nell’inferno. Nel modo di morire voglio imitare il vostro esempio, ché presto di ferro o di fame dovrei ugualmente perire. Voglio prima una daga nel seno, che un boccone di questo pane amaro: la morte è l’unico acquisto per chi vive in così atroce pena. Che aspetto? Così vile sono? O mio braccio sei tanto fiacco? Dolce sposo, fratello adorato, aspettatemi, vi seguo al riposo. Entra una donna che fugge inseguita da un soldato numantino a daga sguainata, per ucciderla.
DONNA: Aiuto! Giove pietoso, eterno Padre, aiutami!
SOLDATO: Anche se tu metti l’ali, a volo ti colgo e ti scanno. La donna è uscita fuggendo.
LIRA: Il duro ferro e il tuo braccio minaccioso, buon soldato, volgili contro di me. Lascia libero chi gradisce la vita, e togli a me la mia, che mi pesa.
SOLDATO: Benché sia decreto del Senato che non abbia da sopravvivere neanche una donna, chi avrà un petto tanto ribaldo che osi il vostro, bellissimo, ferire? Non sono, io, signora, così malcreato da compiacermi di essere il vostro assassino; altra mano, altro pugnale potrà farlo: io no, che nacqui solo per adorarvi.
LIRA: Questa misericordia che vuoi usarmi, valoroso soldato, ti giuro - e chiamo testimoni gli dei - che per me è peggio di qualunque crudeltà. Perciò mi appariresti miglior amico se con braccio e animo deliberato volessi trafiggere questo mio cuore gonfio di disperazione, e liberarmi da questa mia vita amara. Ma giacché vuoi mostrarti con me pietoso - anche se di una pietà così contraria al mio animo d’ora - dammi una mano a comporre nella pace della tomba questo mio sposo sventurato. E anche questo mio fratello che giace libero del suo alito vitale. Il mio sposo è morto per dare a me la vita; fu, mio fratello, ucciso dalla fame.
SOLDATO: Quello che tu mi chiedi di fare, per me è agevole: ma ti prego, mentre andiamo, di raccontarmi che fu a trarre il tuo caro sposo e il tuo dolce fratello a questo passo estremo.
LIRA: Amico, già sento mancarmi anche la forza di parlare.
SOLDATO: Che? Già così stremata, sei? Così ti senti? Allora prendi tu questo tuo fratellino che è di meno peso; e io il tuo sposo che pesa di più. Sollevano i corpi e li portano via. Appare una figura di donna armata con in mano la lancia e lo scudo, che sta a significare la Guerra; e tiene al suo seguito la peste e la fame. La Peste si sostiene con una gruccia, ha il capo fasciato di bende, sul viso una maschera gialla. La Fame entrerà con una spoglia di morticino, un vestito di cenci gialli e una maschera color di muffa.
LA GUERRA: Fame e Peste: strumenti dei miei crudi e spietati comandi, distruttori di vite e di fibre umane, contro cui non valgono preghiere né imposizioni né minacce; poiché dei miei disegni siete già edotte, non vi ripeterò di quanto compiacimento e contentezza mi sarà il vedere presto eseguiti da voi i miei ordini. La forza ineluttabile del destino di cui gli influssi nessuna potenza annulla, mi costringe ad aiutare queste sagaci milizie romane. Per qualche tempo saranno esse innalzate, di quanto saranno abbassati questi spagnoli. Ma verrà poi un giorno che, mutato metro, darò danno ai superbi e aiuto ai mansueti. Perché io, che sono la gagliarda Guerra, odiata invano da tante madri e spesso a torto maledetta da chi non conosce il valore della mia mano, so bene che in tutto l’orbe della terra verrà esaltato l’eroismo spagnolo nel felice periodo in cui saranno sul trono della Spagna un Carlo, e un Filippo e un Ferdinando.
LA PESTE: Se già la Fame, nostra amica del cuore, non avesse insistito per assumersi lei l’ambito compito di sterminare quanti esseri viventi sono adesso in Numanzia, io avrei già da un pezzo eseguito il tuo comando, e si sarebbe già vista, la vittoria dei romani, più facile più ricca e migliore di quella che si aspetta. Ma la Fame, che col suo gran potere tanto incalza i numantini, a tale estremo li ha condotti, che a loro ha chiuso ogni adito e sentiero alla speranza di conoscere una sorte migliore. Più che il furore delle funeste lance, l’influsso della loro maligna stella li travaglia con una così spietata asprezza che non occorre ormai più né fame né altra calamità e sterminarli. Il furore e la rabbia, tuoi seguaci, hanno preso un tal potere nell’animo di loro che ciascuno, quasi fosse un romano, è assetato del sangue dei suoi. Morti, incendi e iracondi furori sono oramai la loro unica contentezza; hanno posto nella morte ogni loro letizia, e, per togliere al romano la gloria del trionfo, rivolgono i pugnali contro se stessi.
LA FAME: Volgete gli occhi e vedrete fiammeggiare gli eccelsi tetti della città. Udite i sospiri che mille e mille petti dolenti e tormentati vanno esalando: odi le voci, i grandi strepiti e i lamenti di belle dame a cui - già in fiamma e cenere risolte dal fuoco le floride membra - non giovano né padre, né amico, né amore, né preghiera!
Come le pecorelle sgominate
Fuggono innanzi dal vorace lupo
E qua e là si perdono, tremando
In sé di perder l’innocente vita,
Tali i fanciulli e le donne diserte
Sentendo già la punta della spada
Fuggon di calle in calle - Oh fuga insana
E a ritardar la certa morte, vana.
Il petto dell’amata
Sposa novella trafigge lo sposo;
Contro la madre - cosa non mai vista -
Si mostra di pietà spogliato il figlio
E contro il figlio, il padre con rabbiosa
Clemenza, alzando lo spietato braccio,
Le viscere che ha generato infrange
Partendosi placato e lacrimante.
Piazza non v’è, angiporto, strada o casa
Che di sangue e di morti non sia piena.
Il ferro uccide, il fiero fuoco imbragia
E il rigore fierissimo condanna.
Presto vedrete tutte a terra sparse
Le dimore già ricche e doviziose
E le case ed i templi più pregiati
Tutti in cenere e in polvere tornati.
Vieni a veder Teògene che affila
Contro le care gole
Dei dolci figli e dell’amata sposa
Il taglio vivo della cruda spada.
E perché ormai, morti quei cari pegni
Poco gli giova la squallida vita,
Cercando va di morte un modo strano
Che porterà, col suo, molto altro danno.
LA GUERRA: Andiamo, amiche: nessuna trascuri di fare dal canto suo il massimo sforzo; e solo quello che dico io si osservi e si curi, attenendovi in tutto ai miei comandi.
Escono. Entra Teògene con due figlioletti, una figlia e la moglie.
in Teatro spagnolo del secolo d’oro, presentato da A. Monteverdi, trad. it. di C.V. Lodovici, Torino, Edizioni Radio Italiana, 1957
Nel loro lavoro di ricodificazione del genere tragico, gli autori iberici non tralasciano di cimentarsi nella drammatizzazione dei soggetti storici. La patetica vicenda di Donna Inês de Castro – promessa sposa del principe Pedro, fatta uccidere dal padre di lui Alfonso I di Portogallo – è raccontata in tre differenti tragedie: la Tragedia muy sentida e elegante de Dona Inês de Castro del portoghese Antonio Ferreira, scritta nel 1558, pubblicata nel 1587 e tradotta in spagnolo prima dell’edizione portoghese, la Nise lastimosa e la Nise laureada, entrambe opera di Jerónimo Bermudez, alias Antonio De Silva, pubblicate a Madrid nel 1577. Alla storia contemporanea guarda invece il Cervantes de Los tratos de Argel (1583-85).
La tragedia spagnola trova forse la propria espressione più caratteristica nelle opere del sivigliano Juan de la Cueva.
Poeta petrarcheggiante, Cueva è il primo drammaturgo colto che, pur non trascurando le consuete variazioni teatrali su temi classici convenzionali (Tragedia de Ayax Telamón, La muerte de Virginia, La libertad de Roma par Mucio Scévola), attinge per la composizione delle proprie tragedie al ricchissimo patrimonio di narrativa epico-lirica popolare rappresentato dai romanceros. Nel 1579 debutta presso il teatro della Monteria Los siete infantes de Lara; negli anni successivi le compagnie di Pedro de Saldaña e di Alonso Capilla portano in scena La muerte del Rey don Sancho (1588) e La libertad de España por Bernardo del Carpio. Alimentata da soggetti desunti dalla tradizione nazionale, la macchina spettacolare concepita da Cueva è in grado di produrre un forte impatto emotivo sul pubblico. Nascono in tal modo tragedie “popolari” ideologicamente improntate a un cupo pessimismo, che tocca il proprio vertice ne El principe tirano: la crudeltà totalmente immotivata del protagonista del dramma impedisce infatti di trarre da quest’opera qualsiasi insegnamento morale (i testi di Cueva, tra i quali va ricordata anche la tragedia storica El Saco de Roma, sono editi per la prima volta nel 1588; al 1595 risale una seconda edizione perduta). Il modello della tragedia nazionale e popolare col suo codice etico fondato sull’onore e la fedeltà a Dio, al re e alla donna amata è trasmesso in eredità al teatro del siglo de oro da Guillén de Castro y Bellvis, autore del dramma “senechiano” El conde de Alarcos, della tragicommedia El perfecto caballero e soprattutto della fortunatissima epopea teatrale Las mocedades del Cid composta nel 1618 (la prima parte delle opere di Guillén de Castro è edita nel 1621, la seconda nel 1625).
Il teatro dei collegi: la nascita della tragedia classica in Francia
In Francia la fioritura degli studi umanistici sotto la protezione di Francesco I, il progressivo consolidamento a corte del prestigio della cultura italiana e l’affermazione presso i collegi delle maggiori città del regno di un’intensa vita teatrale a carattere non professionale, rendono possibile nel corso del Cinquecento la codificazione di un linguaggio tragico “regolare” di chiara ascendenza classica.
Oscillando tra tematiche religiose e soggetti tratti dal mito o dalla storia antica, i drammaturghi francesi del Cinquecento gettano dunque le fondamenta del teatro tragico del grand siècle.
Reggente del collegio della Guyenne a Bordeaux tra il 1539 e il 1544, il francescano scozzese George Buchanan inserisce nel suo programma pedagogico la messa in scena di testi in latino.
Per gli spettacoli scolastici da lui curati egli traduce due drammi di Euripide (Medea e Alcesti) e compone due tragedie originali di argomento biblico strutturate secondo il modello greco: Baptistes e Jephtes.
Il talento drammaturgico di Buchanan sottrae queste opere all’effimera esistenza dei drammi scolastici: rappresentato per la prima volta nel 1539, Jephtes sarà replicato parecchie volte nel corso del secolo anche fuori Bordeaux e nel 1567 verrà pure tradotto in francese. Dopo Buchanan numerosi autori protestanti scrivono tragedie bibliche. Fondendo reminescenze del dramma sacro medievale a citazioni classiche dall’Ifigenia in Aulide, il calvinista Théodore de Bèze compone intorno alla metà del secolo l’Abram sacrifiant; strutturato secondo uno schema di imitazione greco-latina con prologo e cori, l’Abram è la prima tragedia scritta in francese.
Echi dell’Abram, che debutta a Losanna nel 1550, si colgono nella trilogia ispirata alla vita di Davide, pubblicata a Ginevra da Des Masures nel 1553 (David combattant, David triomphant e David fugitif). Un minor impegno dottrinario caratterizza l’Aman di Rivaudeau (1566) che contiene semplici accenni alle persecuzioni per motivi confessionali.
Alle tragedie religiose si contrappongono nel corso del secolo quelle di ambientazione classica. Anche il canone dei drammi ispirati all’antichità è inaugurato da un testo latino.
Nel 1545 Marc-Antoine Muret, editore di Terenzio e Orazio, fa rappresentare agli allievi del collegio della Guyenne a Bordeaux la tragedia in cinque atti Julius Caesar: tra gli interpreti figura il giovane Michel Eyquem de Montaigne che già aveva preso parte agli spettacoli del Buchanan. A seguito del grande successo il Julius Caesar sarà pubblicato nel 1553.
La venerazione per l’antichità romana è trasmessa da Muret ai suoi allievi: confortato dalla favorevole accoglienza riservata dal pubblico ai suoi primi testi comici, Etienne Jodelle compone nel 1553 la tragedia Cléopâtre captive, rappresentata per la prima volta a Parigi presso il palazzo degli arcivescovi di Reims alla presenza di Enrico II, quindi replicata al collegio di Boncourt durante le feste di Carnevale. L’opera, divisa in cinque atti, è composta parte in decasillabi e parte in alessandrini. Seguendo l’esempio dei tragici greci, Jodelle stende gli interventi corali in versi brevi articolati in strofe, antistrofe ed epodo. Se la fonte della Cléopâtre erano state le Vite di Plutarco, per la successiva tragedia, Didon se sacrifiant (edita nel 1574, ma composta tra il 1553 e il 1558), Jodelle si ispira invece al IV libro dell’Eneide. Tra gli allievi di Muret la tragedia di ambientazione romana è sperimentata anche da Jacques Grévin, autore di un César in alessandrini. Appellandosi al mutamento dei gusti del pubblico, Grévin sopprime nella propria opera i cori cantati della tradizione classica. Sul piano più strettamente teatrale la fortuna delle rappresentazioni tragiche romaneggianti era già stata sancita dal successo riscosso a Blois nel 1554 dall’allestimento della Sofonisba di Trissino curato dalle figlie di Caterina de’ Medici. Al principio degli anni Sessanta le solenni prospettive sceniche della Roma tragica, teatro dei capolavori secenteschi di Pierre Corneille, sono dunque già state accuratamente progettate. Anche i drammaturghi formatisi alla scuola di Muret non disdegnano però i soggetti biblici: nel 1562 il protestante Jean de la Taille porta in scena al collegio di Reims Saül le furieux.
Il teatro di Seneca, il cui influsso era già evidente nella Cléopâtre di Jodelle, condiziona profondamente l’articolazione del linguaggio tragico per tutta la seconda metà del Cinquecento. Jean Bastier de la Péruse, che nel 1553 era stato tra gli interpreti della Cléopâtre, compone nel 1556 una Médée di imitazione senechiana, nella quale la maga della Colchide uccide in scena i propri figli. Al modello di Seneca, più ancora che a quello di Sofocle o Euripide, guarda Robert Garnier nelle sue tragedie: Porcie (1568), Hippolyte (1573), Cornélie (1574), Marc-Antoine (1578), Troade (1579), Antigone (1580) e Les Juives (1583), opera da molti considerata il capolavoro del teatro tragico francese del Cinquecento.
Ripetutamente pubblicati, i testi di Garnier, autore anche della tragicommedia Bradamante (1582), godettero di scarsa fortuna scenica: solo dopo la morte dell’autore il colto capocomico Adrien Talmy tenterà la messa in scena dei drammi di chi, per Les Juives, aveva meritato il titolo di “principe dei poeti tragici francesi”. Retorica senechiana e salmodie bibliche si intrecciano infine nelle opere di Antoine de Montchrestien.
Riprendendo il soggetto dell’omonima tragedia di Trissino, Montchrestien fa rappresentare a Caen nel 1596 Sophonisbe; l’opera è pubblicata a Rouen cinque anni dopo insieme ad altre tragedie. In una successiva edizione del 1604 il corpus tragico di Montchrestien è arricchito da Hector, dramma composto sull’onda dell’interesse per l’epica greca originato dalla traduzione dell’Iliade.
La stessa attenzione per il teatro che aveva contraddistinto i collegi francesi del primo Cinquecento caratterizza le scuole gesuitiche della seconda metà del secolo. I drammaturghi gesuiti francesi sono tra i primi in Europa ad abbandonare il latino e a scegliere la lingua nazionale per la composizione delle loro tragedie. Anche le opere dei drammaturghi gesuiti quali padre Tristan (Mariamne, 1579 a imitazione del Dolce), padre Fronton du Duo (Histoire tragique de la pucelle de Domrémy, 1581) e padre Morel (Alexandre Sévère, 1600) risentono dell’influsso senechiano e alternano i soggetti classici a quelli religiosi. A differenza dei colleghi “laici” i tragediografi della Compagnia di Gesù non si limitano però a drammatizzare la materia biblica, ma traggono le loro trame anche dagli Acta martyrum.
Alle origini del Trauerspiel barocco
Sin dalle sue origini umanistiche la drammaturgia tragica tedesca presenta tratti di forte irregolarità. Stimolato dalla lettura dell’Historia Baetica di Carlo Verardi a occuparsi della storia contemporanea, Jakob Locher, noto come Philomuseus, scrive nel 1495 una Historia de rege Franciae sulla calata di Carlo VIII in Italia, la Tragoedia de Thurcis et Suldano, rappresentata all’università di Friburgo nel 1497, e la Tragoedia de regibus et proceribus christianis qui contra Thurcorum insultus arma parant, messa in scena all’università di Ingolstadt nel 1502.
Estranea alle consuete ambientazioni classicheggianti sospese tra il mito e la storia greco-romana, la tragedia umanistica tedesca muove dunque i suoi primi passi sullo sfondo di un Europa cristianissima minacciata dall’incombente pericolo di un’occupazione turca.
Quando non assume la forma di violenta satira anticattolica, l’ispirazione religiosa dei primi autori protestanti tedeschi, innestandosi sulla tradizione del teatro sacro medioevale, tende a orientare la produzione drammaturgica “seria” verso il genere tragicomico piuttosto che verso il genere tragico in senso stretto. In risposta all’Hecastus del cattolico olandese van Langhveldt (1538), Thomas Kirchmeyer compone nel 1539 il Mercator, libera rielaborazione della Leggenda di Ognuno. La tragicommedia è destinata a riscuotere un grosso successo presso il pubblico protestante: ancora nel 1560 il dramma è recitato a Strasburgo nella versione francese Le marchand converti. La drammaturgia sacra è arricchita nella seconda metà del secolo dai contributi degli autori gesuiti. Padre Jacobus Gretserus compone e dirige a Friburgo i drammi De Lazaro resuscitato (1584), De regno humanitatis (varie versioni) e De Naaman Siro (1585). Nel 1597 viene inoltre presentata nei teatri dei collegi tedeschi la tragedia biblica Tobia.
Sulla scena “secolare” il tentativo compiuto da Hans Sachs di dotare i Paesi tedeschi di una drammaturgia genuinamente tragica non sortisce buoni risultati. Sarà l’arrivo delle compagnie teatrali inglesi a metà degli anni Ottanta a creare in Germania i presupposti per l’affermazione di un’originale drammaturgia “seria”. Suggestionato dal repertorio degli attori inglesi che recitano in versioni più o meno fedeli agli originali opere come The Spanish Tragedy di Thomas Kyd o Doctor Faustus di Marlowe, il duca e mecenate Heinrich Julius di Braunschweig compone drammi violenti in cui gli atroci peccati dei protagonisti trovano una loro giustificazione morale nell’immancabile conclusione edificante. Sulla base del proteiforme canone “serio” della drammaturgia cinquecentesca Andreas Gryphius codificherà il genere del Trauerspiel barocco.
Al di là del sistema dei generi: la tragedia elisabettiana
Coniugandosi alla vivace tradizione degli interludes di maggiore impegno religioso, la riscoperta del teatro antico promossa nelle università inglesi sin dai primi decenni del Cinquecento dai filologi umanisti, approda intorno agli anni Quaranta alla stesura e alla rappresentazione delle prime tragedie bibliche classicheggianti. Nel 1540 presso il Saint John College di Cambridge viene messo in scena l’Absalon di Thomas Watson e quattro anni dopo al Trinity College si allestisce Jephtes di John Christopherson.
Negli ambienti universitari l’interesse per la drammaturgia di ispirazione biblica non viene meno anche nei decenni successivi: ancora nel 1594, in pieno periodo elisabettiano, un autore appartenente alla cerchia degli University Wits di Oxford come George Peele scrive per la scena professionistica David and Bethsabe.
Accanto alle tragedie bibliche e ai testi degli autori antichi nei collegi universitari vengono anche rappresentati drammi neolatini di ambientazione classica; è il caso di Dido di Edward Haliwell messa in scena al King’s College di Cambridge nel 1564 o di Progne di James Calfhill, libero adattamento dell’omonima tragedia di Gregorio Correr, allestita presso la Christ Church di Oxford nel 1566.
Tra il 1561 e il 1562 viene nel frattempo allestita, dapprima all’Inner Temple quindi a Whitehall alla presenza della regina Elisabetta I, la prima tragedia regolare scritta in lingua inglese: Gorboduc, or Ferrex and Porrex, opera di Thomas Norton e Thomas Sackville. Scandita in cinque atti intervallati dal coro, la tragedia è stesa utilizzando il blank verse e risente, come i coevi drammi neolatini, di un forte influsso senechiano.
In ossequio alla precettistica di Orazio, i fatti di sangue più violenti non sono rappresentati in scena, ma semplicemente narrati. Nel 1580 la drammaturgia neolatina inglese si arricchisce dell’insolito dramma Richardus Tertius di Thomas Legge, versione latina del modello del chronicle play.
Un primo significativo esempio di dramma storico cinquecentesco inglese è rappresentato dal Kynge Johan di John Bale (1538). L’ex-carmelitano passato al protestantesimo utilizza il dramma storico in funzione propagandistica: nel testo di Bale re Giovanni è infatti rappresentato come un’innocente vittima delle macchinazioni del pontefice.
Sin dal Kynge Johan il dramma storico rivela la sua estrema duttilità formale: l’opera di Bale è continuamente sospesa tra aspirazioni tragiche e suggestioni medievaleggianti, evidenti nel ricorso ai personaggi allegorici tipici dei morality plays.
Inserendo dopo la morte di re Giovanni un’appendice in cui si racconta del trionfo di Enrico VIII su Clemente VII, Bale crea poi un’equazione ideologica tra le coppie Giovanni Battista/Cristo e re Giovanni/Enrico VIII che, sul piano formale, converte la tragedia in tragicommedia. Nel 1588 l’ondata di orgoglio nazionalistico seguita alla sconfitta dell’Invencible Armada di Filippo II, dà nuovo impulso alla produzione di chronicle plays volti a commemorare personaggi o episodi celebri della storia patria. A ridosso della sconfitta degli spagnoli viene rappresentato il dramma The Famous Victories of Henry V; due anni dopo, nel 1590, va in scena The Troublesome Reign of King John. Sul finire del secolo anche drammaturghi famosi si cimentano nei chronicle plays i cui soggetti cominciano ad essere tratti anche dalla storia delle altre nazioni occidentali. Robert Greene compone Alphonsus King of Aragon (1590) e James IV (1591), George Peele fa rappresentare The Battle of Alcazar (1588) ed Edward I (1593), Thomas Heywood è autore di Edward IV (1599). Prima della fine del secolo William Shakespeare e Christopher Marlowe compongono i veri capolavori di questo genere. Lavorando su materiali offertigli da The Chronicles of England, Scotlande and Irelande (1577) di Rapahel Holinshed, Marlowe compone nel 1591 Edward II; negli anni Novanta Shakespeare fa rappresentare Henry VI (parte II e III, 1590-91; parte I, 1591-92), Richard III (1592-93), Richard II (1595-96), King John (1596-97), Henry IV (parti I e II, 1596-97) e Henry V (1598-99).
Scaturiti dalla tradizione del teatro medievale, i chronicle plays, con l’andamento concitato delle loro azioni, sono sostanzialmente irriducibili alle misure della tragedia “regolare”: le vicende che vi vengono rappresentate, spesso complicate da digressioni e intrecci paralleli, eccedono sistematicamente la durata di un sol giorno prevista dalla precettistica di ascendenza aristotelica e violano con altrettanta metodicità l’unità di luogo. Liberatisi progressivamente dai personaggi allegorici, i chronicle plays sono per altro inscindibili dalla struttura simbolica del palcoscenico elisabettiano. La piattaforma destinata alla recitazione si protende nell’arena destinata al pubblico; sul lato posteriore del palco una struttura a torre sostenuta da colonne significativamente chiamata heaven (cielo) allude al sovramondo divino.
Dal 1595 sono aperte sul palco botole che mettono in comunicazione la “terra” con un inquietante mondo infero. La quasi totale assenza di ambientazione scenografica è all’origine delle dettagliate “scenografie verbali” inscritte nelle battute dei drammi elisabettiani. Capace di assicurare una forte presa sul pubblico per la spettacolarità dei suoi intrecci e perché teso a esaltare le tradizioni nazionali, il chronicle play è la prima e più immediata risposta dei drammaturghi inglesi all’impraticabilità della tragedia classica nei teatri professionistici.
Nella seconda metà del Cinquecento entrano stabilmente in circolazione nella cultura inglese alcuni autori continentali classici e moderni destinati ad avere un grosso peso nella codificazione della drammaturgia “seria” del periodo elisabettiano. Nel 1567 vengono tradotte alcune novelle di Bandello: ai drammaturghi inglesi si comincia così a schiudere lo straordinario repertorio di soggetti rappresentato dalla tradizione novellistica italiana medievale e rinascimentale. Negli anni Settanta Machiavelli diventa regolare oggetto di studio presso l’università di Cambridge: complice la polemica religiosa che fa dell’Italia cattolica la patria di ogni nefandezza, il Principe del grande politico fiorentino diventa il perfetto prototipo del personaggio malvagio dei drammi elisabettiani. Nel 1579 sono tradotte le Vite di Plutarco, nuova straordinaria riserva di trame per autori costretti a scrivere a ritmi sostenuti. Coronando un lavoro di riscoperta filologica e di divulgazione che si era snodato per tutta la prima parte del secolo, nel 1581 Thomas Newton completa la traduzione inglese del teatro senechiano.
La retorica della violenza e dell’orrore che domina nelle tragedie di Seneca – specie nel Thyestes – è un’inesauribile fonte di ispirazione per la composizione di drammi essenzialmente destinati a catturare l’attenzione di un pubblico di massa.
Proprio dal teatro di SenecaThomas Kyd trae l’idea di costruire un dramma sul progetto di una faida spietata: ispirandosi agli intrecci di Thyestes e Medea, egli compone intorno al 1585 The Spanish Tragedie, archetipo del fortunatissimo genere della “tragedia di vendetta”. A Kyd si attribuisce anche la prima parte della Spanish Tragedie, oggi perduta, ossia la “comedy” Oracio o Jeronimo, da non confondersi con il grottesco dramma anonimo The First Part of Jeronimo, with the Warres of Portugall and the Life and Death of Don Andrea (edito nel 1605), indiretta testimonianza del grande successo riscosso presso il pubblico dell’ultimo decennio del secolo dalla Spanish Tragedie.
Thomas Kyd
Il climax della vendetta
La tragedia spagnola
Scena III
RE: Parla, traditore! dannato, sanguinario assassino, parla! Perché ora ch’io t’ho, io ti farò parlare. Perché hai tu compiuto questa immeritevole azione?
VICERÉ: Perché hai tu assassinato il mio Balthazar?
CASTIGLIA: Perché hai tu macellato tutti e due i miei figli così?
HIERONIMO: Ma siete voi sicuro ch’essi son morti?
CASTIGLIA: Sì, schiavo, troppo sicuro.
HIERONIMO: Che, e il vostro anche?
VICERÉ: Sì, tutti son morti; non uno di loro sopravvive.
HIERONIMO: Allora non me n’importa; venite, e saremo amici; poniamo le nostre teste insieme: vedete, qui c’è un bel laccio che le terrà tutte.
VICERÉ: O dannato demonio, com’egli è sicuro!
HIERONIMO: Sicuro? Ebbene, ti fa meraviglia? Io ti dico, Viceré, oggi io ho visto la vendetta, e a questa vista son diventato un più altero monarca, di quanti mai sedettero sotto la corona di Spagna. Avess’io tante vite quante stelle ci sono, tanti cieli ai quali potessi salire, quante queste vite, io li darei tutti, sì, e l’anima mia per giunta, pur di vederti galleggiare in questo rosso stagno.
Oh buone parole! Così caro a me era il mio Horatio, come il vostro, o il vostro, o il vostro, mio signore, a voi. Il mio incolpevole figlio fu ammazzato da Lorenzo, e da Lorenzo e da quel Balthazar son io alfine vendicato pienamente, sulle cui anime possano ancora i cieli vendicarsi con afflizioni assai maggiori di queste.
CASTIGLIA: Ma chi furono in ciò i tuoi complici?
VICERÉ: Fu la tua figliuola Bellimperia; perché per sua mano il mio Balthazar fu ammazzato: io la vidi pugnalarlo.
RE: Perché non parli tu?
HIERONIMO: Quale minor libertà possono concedere i re, che l’innocuo silenzio? dunque concedimelo. Basta: io non posso né voglio parlare a te.
RE: Portate fuori gli ordigni di tortura: traditore come tu sei, io ti farò parlare.
HIERONIMO: Veramente tu mi potresti torturare, come il suo miserabile figliuolo ha fatto assassinando il mio Horatio: ma non mai mi forzerai a rivelare la cosa ch’io ho fatto voto di non violare. E perciò a dispetto di tutte le tue minacce, compiaciuto della loro morte, e acquetato dalla vendetta, prima prendi la mia lingua, e poi il mio cuore. (Si mozza la lingua coi denti).
RE: O mostruosa risoluzione d’un ribaldo! Vedete, Viceré, egli s’è mozzata la lingua coi denti, piuttosto di rivelare quel che noi chiedevamo.
CASTIGLIA: Pure può scrivere.
RE: E se in questo egli non ci accontenta, noi escogiteremo il più atroce modo di morte che mai fosse inventato per un ribaldo. (Allora egli fa segni per chiedere un coltello per temperare la sua penna).
CASTIGLIA: Oh, egli vorrebbe un coltello per temperare la sua penna.
VICERÉ: Ecco, e bada a scrivere il vero. - Guardate, mio fratello! tenete, Hieronimo! (Trafigge con un coltello il Duca e se stesso).
RE: Quale età ha mai udito così mostruose azioni? Mio fratello, e tutta la speranza di successione che la Spagna s’aspettava dopo la mia morte! - Su, portate via il suo corpo, che noi possiamo deplorare la perdita del nostro caro fratello morto: - ch’egli sia sepolto! - Qualunque cosa accada, io sono il prossimo, il più vicino, ultimo di tutti!
VICERÉ: E tu, Don Pedro, fa’ il simile per noi: raccogli il nostro sventurato figlio, innanzi tempo ucciso; poni me con lui, e lui con me infelice, sull’albero maestro d’un vascello disarmato, e lascia che il vento e il flutto mi trascinino al latrante e indomito vortice di Scilla, o alla fetida palude d’Acheronte, a piangere per la perdita del mio dolce Balthazar. La Spagna non ha alcun rifugio per un portoghese. (Le trombe suonano una funebre marcia; il re di Spagna lamentandosi dietro il corpo di suo fratello, e il re di Portogallo portando il corpo del suo figliolo).
Scena IV - Coro
Entrano l’OMBRA e la VENDETTA.
OMBRA: Sì, ora le mie speranze s’adempiono nei loro effetti, e il sangue e l’affanno compiono i miei desideri: Horatio assassinato nella pergola di suo padre; il vile Cerberino ammazzato da Pedringano; il falso Pedringano appiccato con un ingegnoso spediente; la vaga Isabella uccisa di propria mano; il principe Balthazar pugnalato da Bellimperia; il duca di Castiglia e il suo malvagio figliuolo, ambidue messi a morte dal vecchio Hieronimo; la mia Bellimperia caduta, come Didone cadde, e il buono Hieronimo ammazzato da se stesso: sì, questi erano spettacoli da compiacere alla mia anima! - Ora io chiederò all’amabile Proserpina che, per virtù del suo principesco giudizio, io possa essere unito ai miei amici in una piacevole sorte, e su’ miei nemici far giusta e acerba vendetta. Io guiderò il mio amico Horatio attraverso quei campi, dove incessanti guerre son sempre combattute; io guiderò la vaga Isabella a quel corteggio, ove la pietà piange, ma mai non sente dolore; i guiderò la mia Bellimperia a quelle gioie, che le vergini vestali e le vaghe regine posseggono; io guiderò Hieronimo dove Orfeo suona, aggiungendo dolce piacere ai giorni eterni. Ma di’, Vendetta - perché tu mi devi aiutare, o nessuno - contro gli altri come mostrerò io il mio odio?
VENDETTA: Questa mano li trascinerà giù nel più profondo inferno dove non dimorano se non furie, orrori e tormenti.
OMBRA: Allora, dolce Vendetta, fa’ questo alla mia richiesta: lasciami esser giudice e condannarli a non aver requie. Stacca il povero Tizio dagli artigli dell’avvoltoio, e fa’ che don Cipriano prenda il suo posto; poni don Lorenzo sulla ruota d’Issione, e fa’ cessare le infinite pene dell’amante (Giunone dimentica l’antica ira, e gli concede riposo); appendi Balthazar intorno al collo della Chimera, e lascia ch’egli colà deplori il suo sanguinoso amore, affliggendosi delle nostre gioie, che stan sopra di lui; fa’ che Cerberino vada a rotolare la pietra fatale, e tolga a Sisifo il suo infinito lamento; il falso Pedringano, per il suo tradimento, fa’ che sia trascinato per bollente Acheronte, e colà viva, morendo sempre in infinite fiamme, bestemmiando gl’iddii e tutti i loro santi nomi.
VENDETTA: Affrettiamoci dunque giù incontro ai tuoi amici e nemici: per porre i tuoi amici in agio, e gli altri ne’ guai; perché sebbene qui la morte abbia posto fine alla loro miseria, io comincerò colà la loro infinita tragedia. (Escono)
in Teatro elisabettiano, prefazione di M. Praz., trad. it. di R. Piccoli, Firenze, Sansoni, 1981
Il tema della vendetta doveva essere alla base di un’altra tragedia oggi perduta di Kyd: il drammaturgo londinese è infatti solitamente indicato come autore dell’Ur-Hamlet, fonte dell’omonimo dramma di Shakespeare.
Alla fine degli anni Ottanta si affaccia sulle scene londinesi Christopher Marlowe. Dopo il primo clamoroso successo nel mondo del teatro professionistico riportato con Tamburlaine the Great (I e II parte 1587-88) – straordinario ritratto del principe Tamerlano, feroce condottiero animato da un’inesausta sete di sapere – ponendo mano a The Tragicall Historie of Doctor Faustus (1588), Marlowe crea il tragico epilogo dei drammi religiosi protestanti del Cinquecento. Il prevalere dell’ideologia calvinista in opere quali The Life and Repentance of Mary Magdalene di Lewis Wager (composta negli anni Cinquanta) e The Historie of Jacob Esau (anonima, 1568) aveva indotto i drammaturghi a correggere in senso tragico l’impostazione tragicomica del King Johan di Bale. L’inclinazione alla tragedia implicita nella teoria della predestinazione si era poi venuta accentuando in The Conflict of Conscience di Nathaniel Woodes (1580 ca.), dramma di un reprobo che, consapevole della propria mancanza di fede, non può pentirsi ed è costretto alla dannazione eterna.
Sviluppando questa linea Marlowe, sulla base di fonti preesistenti, crea il personaggio del dotto che vende la propria anima al diavolo. Negli anni successivi al debutto del Doctor Faustus il successo di Marlowe è consolidato da opere quali The Jew of Malta (1589), The Massacre at Paris (1591-92) ed Edward II (1591).
Tra i grandi modelli della drammaturgia elisabettiana, accanto alle opere di Kyd e Marlowe, va infine ricordato l’anonimo dramma giudiziario Arden of Feversham (1592). L’opera, tratta dalle Chronicles di Holinshed, racconta di un delitto realmente commesso nel 1551: il ricco gentiluomo Arden è ucciso dai sicari assoldati dalla moglie e dal rozzo macellaio suo amante, ma la coppia di adulteri viene alla fine giustiziata. I personaggi borghesi e il disegno realistico della vicenda fanno dell’Arden il prototipo della “tragedia domestica” elisabettiana. Questo genere, il cui indiscusso capolavoro è A Woman Killed with Kidness (1603) di Thomas Heywood, è destinato a esercitare una forte influenza sulla drammaturgia borghese del Settecento.
Gli onnivori drammaturghi elisabettiani attingono per le proprie opere anche a soggetti desunti dalla storia antica. In una civiltà teatrale più attenta alle esigenze del pubblico che al rispetto dei precetti poetici – si pensi che l’Ars poetica di Orazio viene per la prima volta tradotta integralmente in inglese da Thomas Drant solo nel 1567 – il trattamento formale riservato alla materia classica è in tutto e per tutto analogo a quello utilizzato nei drammi storici per sceneggiare le epopee nazionali.
La commistione di contenuti antichi e forme medievali è già evidente nel Cambyses di Thomas Preston, ispirato alle storie di Erodoto, messo in scena a Eton nel 1569: l’azione “senechiana” di questa “lamentevole tragedia farcita di spassose piacevolezze”, continuamente al limite del grottesco, è articolata dall’autore in una serie di “quadri” da sacra rappresentazione. Filtrata dallo stile senechiano e calata nella sintassi dei chronicle plays, la storia antica è pure alla base del Titus Andronicus di Shakespeare (1593-94). Allo scadere del secolo il grande drammaturgo tornerà ad affrontare la storia romana nel Julius Caesar, dramma con cui viene inaugurato il Globe Theater (1599). La tragedia storica di ambientazione romana non poteva non attrarre il “classicista” Ben Jonson: nel 1603, poco prima della chiusura dei teatri causata dal dilagare di un’epidemia di peste, viene messo in scena a Londra Sejanus. Il dramma di Jonson ha fra i suoi interpreti Shakespeare, probabilmente alla sua ultima apparizione in scena come attore. Nel 1611 Jonson tenta nuovamente la tragedia di argomento classico componendo Cataline.
Attraverso la mediazione della liberissima traduzione francese di Boaistuau (Histoires tragiques extraites des œuvres italiens de Bandel, 1559) e delle versioni rielaborate inglesi di Arthur Brooke (The Tragicall Historye of Romeus and Juliet, 1562) e William Painter (The Palace of Pleasure, 1567), il racconto di Bandello degli amori di Romeo Montecchi e Giulietta Cappelletti (1554), tratto dall’Istoria novellamente ritrovata di due Nobili amanti di Luigi Da Porto (1530), è utilizzato da Shakespeare come fabula per la sua tragedia “romanzesca” Romeo and Juliet (1595-96). La Verona sul cui sfondo si consuma il dramma dei due amanti shakespeariani è un tipico esempio di quell’ambientazione italiana che gli autori inglesi mostreranno di prediligere per le loro più fosche tragedie. The White Devil (1610) e The Duchess of Malfi (1613) di Webster codificheranno agli albori del nuovo secolo la stereotipata immagine elisabettiana dell’immoralissima Italia rinascimentale, inscrivendola indelebilmente nell’immaginario artistico anglosassone.
William Shakespeare
Morte di Tibaldo
Romeo e Giulietta, Atto III, scena I
Una piazza di Verona.
Mercuzio, Benvolio, paggio, servi.
BENVOLIO: Ti prego, buon Mercuzio, ritiriamoci. La giornata è calda, i Capuleti sono in villa: se ci scontriamo con quegli altri non eviteremo la rissa; ché in questi giorni di caldo il sangue fa il matto e ribolle.
MERCUZIO: Tu sei uno di quei tali, che appena varcata la soglia di una taverna, ti buttan lì la spada sul tavolino, e dicono: “Faccia Iddio che non abbia da servirmi di te”; e poi, quando comincia a lavorare il secondo bicchiere, se ne servono magari contro il servo, il che, proprio non serve.
BENVOLIO: E che, sono così, io?
MERCUZIO: Vai, vai, che tu sei una testa calda se altre ce n’è in Italia; sempre in fantasia di menar le mani, e sempre a menar le mani per delle fantasie.
BENVOLIO: Hai finito?
MERCUZIO: No; se ce ne fossero due come te, farebbero presto a uscirci tutti e due dai piedi, perché l’uno ammazzerebbe l’altro. Tu! Ma tu saresti capace di far questione con uno perché ha un pelo meno o più di te nella barba; tu fai questione con quell’altro se schiaccia le noci, solo perché tu hai gli occhi color nocciola. Quale occhio se non il tuo scoverebbe appigli del genere per far questione? Hai la testa piena di questioni come un uovo è pieno d’uovo; eppure, a forza di litigare, la testa te l’hanno sbattuta come una chiara d’uovo. Tu hai litigato con uno perché tossendo per la strada, ti aveva svegliato il cane che dormiva sdraiato al sole. E con quel sarto, non hai leticato perché s’era messo il giubbetto nuovo prima di Pasqua? E con un altro perché si era messo le scarpe nuove con le stringhe vecchie? E proprio tu, ora, mi vieni a predicare che non si deve attaccar briga!
BENVOLIO: Se fossi io così pronto a leticare come sei tu, chiunque potrebbe comprarmi il feudo puro e semplice della mia esistenza con un’ora e un quarto di vita.
MERCUZIO: Puro e semplice? Ma va’ là, semplicione!
BENVOLIO: Per la mia testa, ecco i Capuleti.
MERCUZIO: Pel mio calcagno, non me ne importa un fico.
Entra Tibaldo con altri.
TIBALDO: Serrate sotto, che ora gli parlo io. Salute, signori. Una parola a uno di voi.
MERCUZIO: A uno di noi? Una parola sola? Accoppiamola con qualche cosa, e facciamo una parola e una stoccata.
TIBALDO: Voi mi invitate a nozze, signore, se vorrete darmene il pretesto.
MERCUZIO: Non potreste trovarvelo, il pretesto, senza farvelo dare?
TIBALDO: Mercuzio, tu tieni corda a Romeo.
MERCUZIO: Corda? E che ci hai preso, per violinisti? Se ci credi violinisti, non sentirai da noi che stonature. Ecco l’archetto del mio violino, che ti farà ballare. Altro che tener corda!
BENVOLIO: Non ci mettiamo a discutere qui: può passar gente. O appartiamoci in qualche luogo non frequentato, a ragionar con calma sui nostri dissensi, o separiamoci: qui abbiamo tutti gli occhi addosso.
MERCUZIO: E lasciali guardare! Gli occhi son fatti per questo. Non mi scomodo per i begli occhi di nessuno, io.
Entra Romeo.
TIBALDO (a Mercuzio): Andate in pace, buon uomo: ho qui chi mi serve.
MERCUZIO: Che io sia impiccato, padron mio, se egli porta la vostra livrea. Eh, perbacco, scendete prima in campo, lui vi seguirà; e allora vossignoria potrà dire che è al vostro seguito.
TIBALDO: Romeo, pel bene che ti voglio, il meno che posso dirti, è “vigliacco”!
ROMEO: Tibaldo, la ragione che ho di amarti supera anche la violenza di questo tuo saluto. Un vigliacco non sono. E dunque, addio. Vedo che mi conosci male.
TIBALDO: Così, ragazzo, non ripari le offese che mi hai fatto: mano alla spada e in guardia.
ROMEO: Dichiaro di non averti mai offeso, e di averti caro più di quanto tu non potrai immaginare finché non conoscerai la ragione del mio affetto per te. E con questo, buon Capuleti - nome che mi è più caro del mio stesso - tieniti soddisfatto.
MERCUZIO: O prona, calma, ignominiosa sottomissione! Alla stoccata, a cancellarla (snuda la spada). Tibaldo, gran chiappatopi, vuoi fartelo un balletto?
TIBALDO: Ma tu, che vuoi da me?
MERCUZIO: Gran re dei gatti, niente altro, per ora, che una delle tue nove vite per trastullarmici un po’. E dopo, le altre otto: - e strigliartele a dovere - se non farai giudizio. Vuoi compiacerti di pigliar per le orecchie la tua spada, e metterla a nudo fuori della sua pelliccia? Ma presto, che non ti ronzi alle orecchie la mia, prima che tu arrivi a sguainare.
TIBALDO (sguainando): Ai tuoi ordini.
ROMEO: Caro Mercuzio, giù la spada...
MERCUZIO: Para questa, a te!
Si battono.
ROMEO: Fuori la spada, Benvolio, dobbiamo separarli. Vergogna, signori! Non date scandalo! Tibaldo, Mercuzio, il principe ha severamente proibito le risse per le vie di Verona. Fermo, Tibaldo! E tu, mio buon Mercuzio...
Tibaldo, di sottobraccio a Romeo, ferisce a morte Mercuzio.
Fuggono Tibaldo e i suoi.
MERCUZIO: Sono ferito. Accidenti alle vostre due famiglie. Sono spacciato. E quell’altro, che è scappato, non ha nulla?
BENVOLIO: Oh! sei ferito?
MERCUZIO: Un graffio, un graffio, ma, perdio, quanto basta. Dov’è il mio paggio? Va’ a chiamare un dottore, manigoldo...
Il paggio esce.
ROMEO: Coraggio, amico, la ferita non sarà profonda.
MERCUZIO: No; non come un pozzo, né grande come la porta di una chiesa: ma è quanto basta, e basterà. Venite tutti da me, domani: mi troverete all’interrato. Sono condito a dovere, per questo mondo, ve lo assicuro. Accidenti alle vostre due famiglie. Per Giuda! un cane, un topo, un sorcio, un gatto, graffiare a morte un uomo! Un gradasso, un mascalzone, un ribaldo, che si batte coll’abbaco alla mano. Perché diavolo ti sei cacciato tra noi? Accidenti! Di sottobraccio a te me l’ha accoccata!
ROMEO: Volevo separarvi.
MERCUZIO: Aiutami ad arrivare a qualche casa, Benvolio, o vi casco qui. Maledizione alle vostre due famiglie! Di me hanno fatto pasto da vermi. Ah, la mia l’ho avuta e piuttosto soda. Le vostre famiglie!
Esce Mercuzio, sorretto da Benvolio.
ROMEO: Quel gentiluomo, parente prossimo del principe e mio intimo amico, si è preso quella ferita mortale per difendermi; il mio onore è macchiato per l’insulto di Tibaldo; di Tibaldo, diventato mio cugino da un’ora. Cara Giulietta! la tua bellezza mi ha dunque effeminato, e m’ha stemperato in cuore l’acciaio del mio ardimento.
Rientra Benvolio.
BENVOLIO: Romeo, Romeo, il coraggioso Mercuzio è morto; è approdato oltre le nuvole quello spirito generoso che innanzi tempo ha rifiutato la vita qui in terra.
ROMEO: La nera sorte di questo giorno peserà su molti giorni ancora; questo non è che il principio della sventura. Altri mali la porteranno a termine.
Rientra Tibaldo.
BENVOLIO: Ecco, ritorna il forsennato Tibaldo.
ROMEO: Vivo e trionfante: e Mercuzio ucciso. Via, in cielo, riguardosa indulgenza: guidami ora tu, furore dagli occhi di fuoco. Avanti, Tibaldo, ringoiati quel “vigliacco” che mi hai gridato poco fa; ché l’anima di Mercuzio è ancora poco più su delle nostre teste ad aspettare che tu vada a tenergli compagnia. O io, o tu, o tutti e due, dobbiamo ora andare a raggiungerla.
TIBALDO: Ci andrai tu lassù a raggiungerlo, che gli eri qui tanto amico.
ROMEO (trae la spada): Questa deciderà.
Si battono, Tibaldo cade.
BENVOLIO: Scappa, Romeo, scappa! La città è già a rumore. Tibaldo è morto. Non star lì imbambolato. Il principe ti condanna a morte se ti prendono. Scappa! Mettiti in salvo! Via!
ROMEO: Ah, io sono il trastullo della fortuna.
BENVOLIO: Che stai a far lì? Muoviti! Via!
Esce Romeo.
Entrano dei cittadini.
PRIMO CITTADINO: Per dove è scappato quello che ha ammazzato Mercuzio? Quel Tibaldo, l’assassino, per dove è fuggito?
BENVOLIO: Quel Tibaldo eccolo steso lì.
PRIMO CITTADINO: Andiamo, signore, venite con me. In nome e per ordine del principe, obbedite.
Entrano il principe col seguito; il Montecchi e il Capuleti con la moglie, e altri.
PRINCIPE: Dove sono quei furfanti che hanno accesa la rissa?
BENVOLIO: Nobile principe, posso riferirvi tutta la sciagurata vicenda di questa contesa mortale. Ecco là, steso a terra dal giovane Romeo, quel Tibaldo che ha ucciso il valoroso Mercuzio, vostro parente.
MADONNA CAPULETI: Tibaldo, mio nipote, il figlio di mio fratello! O principe! o nipote! o marito! Oh! hanno versato il sangue del mio caro nipote! Principe, se sei giusto, per il sangue dei nostri, fa’ che sia versato ora il sangue dei Montecchi. O nipote! Nipote!
PRINCIPE: Benvolio, chi ha accesa questa sanguinosa rissa?
BENVOLIO: Tibaldo, qui steso morto per mano di Romeo: di Romeo che l’aveva preso con le buone, pregandolo di considerare la inconsistenza di quella contesa, e soprattutto il vostro alto sdegno. E tutto ciò detto pacatamente, con lo sguardo tranquillo, e piegate le ginocchia in atto di umiltà, non valse a calmare l’ira sfrenata di Tibaldo, che vibrò un colpo della sua spada acuminata al petto del valente Mercuzio. Questi, con pari fuoco, risponde con botta mortale a botta mortale, e con un sangue freddo da soldato con una mano scosta da sé la fredda morte, e con l’altra la ributta a Tibaldo, che destramente gliela ritorce. Grida allora Romeo: “Fermi, amici! basta, amici!”, e prima della voce giunge il suo agile braccio ad abbattere la punta di morte, e poi si butta in mezzo a separare i contendenti; e allora fu che il sottobraccio a lui, con un colpo a tradimento Tibaldo tronca la vita al gagliardo Mercuzio. Tibaldo fugge, subito ritorna indietro contro Romeo che stava già meditando la vendetta, e alla vendetta, in un lampo, si scagliano entrambi con tanta foga, che prima che io potessi snudare la mia spada, il fiero Tibaldo era lì steso, morto. Caduto lui, Romeo si volse, e fuggì. Se questa non è la verità, mettete a morte Benvolio.
MADONNA CAPULETI: Quello lì è un parente dei Montecchi, e non dice la verità: l’affetto lo fa bugiardo. Erano almeno in venti a darsi manforte in questa rissa d’inferno; e ci si son messi tutti ad ammazzare un uomo solo. Io chiedo giustizia, e tu, principe, me la devi accordare. Romeo ha ucciso Tibaldo: Romeo non deve restare vivo.
PRINCIPE: Romeo ha ucciso Tibaldo: ma Tibaldo aveva ucciso, prima, Mercuzio; chi pagherà, ora, il prezzo di questo sangue generoso?
MONTECCHI: Non Romeo, principe, che era amico di Mercuzio. Col suo atto ha eseguito quanto la legge avrebbe ordinato: la morte di Tibaldo.
PRINCIPE: E per questa sua offesa alla legge, noi immediatamente lo mandiamo in esilio. Le conseguenze dei vostri odi toccano, questa volta, anche me. Il mio stesso sangue, hanno versato le vostre risse accanite; ma io vi punirò con una multa così forte, che dovrete pentirvi tutti della perdita che mi avete procurato. Sarò sordo a ogni ragione e scusa; né pianti né preghiere varranno a procacciarvi il perdono per le vostre infrazioni: fatene pure a meno. Romeo vada subito in bando; ché se si farà cogliere qui, in città, sarà la sua ultima ora. Portate via questo morto, e attenetevi agli ordini che vi do. La pietà altro non è che assassinio, quando perdona a quelli che hanno ucciso.
Escono.
in Il teatro di William Shakespeare, trad. di C.V. Lodovici, note di B. Pasternàk, Torino, Einaudi, 1960
Presso gli elisabettiani solo la cattolica Francia coi suoi massacri di protestanti è in grado di contendere all’Italia il primato nella perversione dei costumi.
Significativa è in tal senso l’immagine di Parigi che emerge da The Massacre at Paris di Marlowe. L’odio dei cattolici francesi verso gli ugonotti dissuade i comici inglesi dall’idea di allargare al regno di Francia le loro tournée continentali; negli anni novanta è attestata la presenza di compagnie inglesi a Strasburgo, ma per tutto il Cinquecento gli attori inglesi non si arrischiano a raggiungere Parigi. Proprio per questo motivo l’“irregolare” drammaturgia elisabettiana rimane sostanzialmente sconosciuta al teatro francese. Gli attori inglesi, massicciamente presenti sulle scene tedesche, condizionano invece con le loro rappresentazioni l’evoluzione della drammaturgia barocca in Germania.
Contaminando forme e contenuti tra loro eterogenei, la convulsa sperimentazione artistica dei drammaturghi inglesi a cavallo dei due secoli travolge il tradizionale sistema dei generi.
Le opere a quattro mani di Francis Beaumont e John Fletcher quali la tragicommedia romanzesca Philaster (1608) o il dramma avventuroso a finale tragico The Maid’s Tragedy (1611) sono un “classico” esempio del polimorfismo della drammaturgia elisabettiana irriducibile a ogni logica classificatoria. Riunendo sulla propria scena virtuosi condottieri, fools e villains, intrecciando le nobili imprese di Enrico IV alle bizzarrie di Sir John Falstaff, i drammaturghi inglesi schiudono nuovi orizzonti al teatro occidentale.