La transizione politica dell’Egitto post-Mubārak ha vissuto un passaggio intenso e molto controverso nel processo di redazione e successiva ratifica popolare della nuova Costituzione.
Il 15 e il 22 dicembre 2012 il popolo egiziano è stato chiamato alle urne per pronunciarsi sul destino della proposta di testo costituzionale presentata dall’Assemblea costituente, esprimendo un voto favorevole o contrario alla sua entrata in vigore. L’organizzazione di due turni elettorali si è resa necessaria per l’esiguo numero di giudici – categoria in netto contrasto con il presidente egiziano Mursi – disposti a supervisionare le operazioni di voto.
Ha vinto il ‘sì’ con una percentuale del 63,8%, a fronte del 36,2% dei votanti che ha espresso la sua contrarietà alla bozza. L’affluenza ai seggi si è attestata su un magro 32,9%, dato inferiore non solo a quelli registrati nelle elezioni per la camera bassa del Parlamento di fine 2011-inizio 2012 e nelle presidenziali di maggio-giugno 2012, ma anche rispetto a quello del referendum del marzo 2011 sugli emendamenti alla Costituzione del 1971 (poi confluiti in un’ampia dichiarazione costituzionale), quando il 41% degli aventi diritto si recò a votare. Prima di valutare gli esiti della consultazione, che pure hanno rilevanza fondamentale per aver impresso il sigillo sulla cornice normativo-istituzionale nella quale sarà modellato l’Egitto post-rivoluzionario, è interessante ricostruire brevemente le tappe del travagliato percorso che la Costituzione – e soprattutto chi l’ha redatta – hanno attraversato, esaminando le critiche che sono state avanzate.
La composizione dell’Assemblea che ha elaborato il testo sottoposto a referendum avrebbe dovuto essere la concreta traduzione di un compromesso negoziato fra le diverse fazioni dopo la sospensione della prima Costituente, decisamente sbilanciata a favore delle compagini islamiste e con una robusta presenza di parlamentari, chiamati ad eleggerne i componenti ma non legittimati a farne parte secondo la pronuncia della Suprema corte amministrativa che ne ha decretato lo scioglimento.
Le tensioni non si sono tuttavia affievolite neanche dopo la nomina del nuovo consesso, avvenuta nel mese di giugno 2012. Il tenore delle critiche non è mutato: le opposizioni hanno mosso le loro accuse contro un’assemblea che consideravano non realmente rappresentativa delle istanze del popolo di Piazza Tahrir, egemonizzata nella membership da ben identificabili forze politiche e con una componente giovanile e femminile molto esigua.
Il clima si è ulteriormente surriscaldato quando la Corte costituzionale, a soli due giorni dal ballottaggio per le elezioni presidenziali, ha predisposto lo scioglimento della camera bassa del Parlamento in virtù dell’incostituzionalità della legge elettorale, che ha consentito ai candidati di partito di conquistare una parte della quota di seggi (un terzo del totale) riservata ai candidati ‘indipendenti’ ed assegnata con collegio uninominale. Il destino della Costituente appena rinnovata tornava così ad essere messo in discussione, essendo questa stata nominata da un’assemblea parlamentare la cui elezione era stata riconosciuta costituzionalmente illegittima.
Da un primo esame del contesto politico della transizione post-rivoluzionaria egiziana sembra dunque trasparire che le divisioni sulla Costituzione siano state determinate da vizi di natura metodologica, procedurale e dall’‘ontologia’ dell’Assemblea costituente, ancor prima che dal merito del testo.
Un documento destinato a diventare l’architrave di uno stato non può essere percepito ab origine come espressione di posizioni partigiane, perché questo farebbe venir meno la ragione stessa della sua esistenza, nonché la pretesa di una sua universale validità e applicabilità nel sistema di riferimento. È in primo luogo su questo aspetto che si è concentrata la protesta del fronte contro la Costituzione, ed è questo ad aver condotto i rappresentanti laici, liberali e delle Chiese cristiane ad abbandonare l’Assemblea. Una Costituente la cui formazione non è improntata al criterio dell’inclusione delle diversità del paese reca in sé un vulnus di legittimità politica che trascende il profilo meramente giuridico e finisce per intaccare sin dalle fondamenta la validità del suo operato.
Focalizzando l’attenzione sul profilo testuale, la Costituzione che gli egiziani hanno votato in occasione del referendum si fa – quanto meno da un punto di vista formale – garante di una serie di diritti e libertà di natura civile, politica, economica e sociale. Inoltre, pur conservando una forte impronta presidenziale, la nuova Carta fondamentale introduce l’importante limite dei due mandati per il capo dello stato.
Nelle maglie larghe del tessuto costituzionale risiedono tuttavia pesanti criticità, che rischiano di portare ad una progressiva degradazione dei diritti formalmente riconosciuti in assenza di adeguati anticorpi difensivi. Il campo delle libertà e dei diritti è infatti spesso definito in maniera vaga ed impalpabile, lasciando alla legge il compito di meglio circostanziarne contenuti e limiti. Se dunque il potere politico dovesse rimanere saldamente nelle mani delle forze di matrice islamica e non sussistessero le condizioni per un compromesso fra le diverse sensibilità che attraversano l’Egitto, sarebbe quella maggioranza religiosamente orientata a disegnare i confini entro i quali le libertà e i diritti possono essere esercitati, con il conseguente rischio di una loro ‘conformazione’ ai valori religiosi che ne comporterebbe di fatto una compressione. In questo senso, nel corso dei lavori della Costituente è stato fortemente criticato l’approccio verso la tutela dei diritti delle donne, equiparati nel testo definitivo a quelli degli uomini, di cui vengono definite ‘sorelle’. Nelle prime bozze presentate, tuttavia, l’uguaglianza dei sessi era subordinata alla non conflittualità con i principi della sharia, una ‘clausola di condizionalità’ che, se interpretata in maniera restrittiva, avrebbe potuto compromettere l’effettiva parificazione fra uomo e donna.
Problematico appare poi il profilo collegato alla libertà di religione, che la Costituzione riconosce al primo comma dell’art. 43 quale ‘diritto inviolabile’, salvo poi contemplare già nel comma successivo evidenti restrizioni sui temi della pratica dei riti religiosi e degli edifici dedicati al culto, la cui libertà viene garantita solo per le religioni ‘divine’ (in altre traduzioni si parla di religioni ‘monoteiste’). Leggendo queste disposizioni alla luce del discusso art. 2, che riconosce i principi della sharia quale fonte principale della legislazione, e delle previsioni dell’art. 3 – che stabiliscono come i principi dei cristiani egiziani e degli ebrei rappresentino la principale fonte della legislazione per quanto concerne le leggi sul loro status personale, le questioni religiose e la scelta delle loro guide spirituali – sembra dunque emergere una sostanziale incompatibilità fra statuizione della libertà religiosa e stato di minorità di quelle fedi non riconducibili all’Islam, alla cristianità egiziana o all’ebraismo.
Ci sono poi le ansie connesse all’art. 2, che come si è detto riconosce i principi della sharia come ‘fonte principale della legislazione’, specificandosi all’art. 219 cosa debba intendersi con questa espressione. Alcuni analisti hanno evidenziato come la previsione non conduca di per sé ad una islamizzazione dell’Egitto secondo un rapporto di causa-effetto, visto che sotto il profilo letterale l’art. 2 non si discosta da quanto già previsto dal testo costituzionale precedentemente in vigore. L’ermeneutica ha però sempre rappresentato uno dei fondamenti dell’attività giuridica, e il contesto politico nel quale la Costituzione si troverà ad operare sarà decisivo. Le previsioni costituzionali potranno dunque prestarsi ad una interpretazione più progressista così come ad una più conservatrice, a seconda di chi deterrà il potere politico.
I decreti presidenziali dal sapore neofaraonico emanati da Mohammed Mursi nel novembre 2012, prima dell’entrata in vigore del testo costituzionale, non hanno contribuito a rasserenare il clima, e anzi hanno ulteriormente rinvigorito la protesta. Il panorama politico attuale porta a non poter escludere l’eventualità di uno slittamento verso una islamizzazione dell’Egitto o a una radicalizzazione dello scontro. La bassa affluenza alle urne e un consenso non plebiscitario per la Costituzione testimoniano come il paese sia ancora diviso, e se le forze di ispirazione islamista hanno confermato la loro capacità di presa nell’Egitto rurale, il voto urbano ha dimostrato come ci sia una porzione della popolazione che non intende accontentarsi di una democratizzazione di facciata. Al Cairo, il 57% della popolazione ha detto ‘no’ alla Costituzione, e nei governatorati di Alessandria e Port Said il ‘sì’ ha vinto con le non ampie percentuali del 55,6% e del 51,1%.
La situazione politica dell’Egitto appare dunque in continuo divenire, e i cleavage lungo i quali si è verificata la polarizzazione del consenso sono ancora profondi.