La variabilità del corpo nelle popolazioni
All'interno della specie, la circolazione dei geni è aperta in tutte le direzioni, dato che per definizione tutti gli individui che appartengono alla stessa specie sono tra loro fecondi e generano figli anch'essi fecondi. Tra i più di 5 miliardi di uomini, sparsi, seppure con fortissima sperequazione, su tutti i continenti, non esiste quindi alcun impedimento di natura biologica al libero scambio di geni. La straordinaria varietà di forme, dimensioni, sfumature di colore della pelle, delle iridi e dei capelli che contraddistingue l'umanità ("...non ci sono, tra migliaia di uomini, due facce perfettamente identiche..." faceva già osservare 2000 anni fa Plinio il Vecchio nel 7° libro della sua Naturalis historia) è infatti dovuta al contributo di ciascun individuo, nei confronti del quale l'ambiente (selezione) opera in maniera più o meno evidente, facendo di esso una realtà nuova e irripetibile. Gli uomini non vivono isolati, ma tendono ad aggregarsi, soprattutto sulla base dei caratteri culturali. Condividendo la lingua, il tipo di alimentazione, le tradizioni, le credenze, le abitudini di vita del gruppo, ogni componente si riconosce in esso, e in esso, di preferenza, cerca la sua compagna (o il suo compagno) di vita. Le possibilità di scambio genetico in questi aggregati diventano così numerosissime, portando come conseguenza la formazione di gruppi al cui interno gli individui si somigliano fisicamente. Il particolare quadro fisico che risulta da questa tendenza generale può essere rappresentato numericamente da una serie di valori medi di alcuni parametri caratterizzanti le popolazioni, espressi in unità di misura: centimetri di statura, di lunghezza della testa, di altezza del naso, oppure chilogrammi di peso corporeo e così via, o anche da frequenze relative, espresse in percentuale (per es., per quanto riguarda i gruppi sanguigni, 30% di gruppo A, 60% di gruppo 0 ecc.).
Descrivendo un gruppo in rapporto all'altro, si può perciò dire che una popolazione, rispetto a un'altra, ha in media la statura più alta, la testa più lunga, il naso più stretto, la frequenza del gruppo sanguigno A più bassa. Le differenze così espresse si presenteranno sotto forma di diversi valori percentuali di alcuni parametri, ma non per la presenza o l'assenza di caratteri che contraddistinguano una popolazione dall'altra. È a ciascuno di questi gruppi di popolazioni che viene solitamente attribuito il nome di 'razza'. Questa dunque, grazie alla variabilità individuale e alla possibilità d'incrocio tra un gruppo e l'altro, e secondo la definizione del genetista T. Dobzhansky, è comunque "un processo in continuo divenire", cioè un gruppo dinamico, e non una categoria sistematica statica.
Il termine 'razza' è stato introdotto alla metà del Settecento da G. Buffon, per indicare gruppi di individui morfologicamente simili tra loro e diversi dagli altri, ma i tentativi dell'epoca di dare una sistemazione naturale della variabilità caratterizzante la specie umana sono stati preceduti, fin dall'antichità, da moltissime osservazioni, più o meno oggettive. Gli egizi, e poi soprattutto l'arte greca, ne hanno lasciato una ricca documentazione, e nella letteratura classica troviamo innumerevoli esempi di descrizioni, anche molto precise, dei popoli allora conosciuti, accompagnate dai primi tentativi di interpretare la diversità dei caratteri morfologici. Come origine della diversità è stato chiamato in causa per primo l'ambiente geografico, con particolare riferimento al clima: Ippocrate afferma che, se nelle regioni settentrionali gli sciti hanno la pelle chiara, i capelli biondi e la statura alta, ciò è dovuto alla bassa luminosità e al clima freddo e umido, e aggiunge che nelle regioni meridionali gli etiopi hanno i capelli crespi e la pelle scura, perché 'bruciata dal sole'. Con le esplorazioni geografiche nei continenti extraeuropei, a cominciare dai viaggi di Marco Polo, l'interesse verso popoli ancora sconosciuti aumentò ulteriormente, e le notevoli differenze nell'aspetto fisico che essi presentavano nei confronti degli europei colpirono molto la fantasia di questi ultimi, che li classificarono come delle curiosità naturali. Se in un primo tempo Marco Polo riuscì nell'intento di restare obiettivo, riportando fedelmente le sue precise osservazioni sui mongoli e gli altri popoli, così non si può dire per la grande maggioranza dei viaggiatori delle spedizioni successive, fino alla scoperta delle Indie Occidentali: le descrizioni affidate alla penna dei viaggiatori nei diversi continenti, infatti, risultano spesso assai fantasiose.
Tuttavia, nelle mani dei naturalisti, il materiale raccolto cominciò ben presto a trovare una sistemazione organica, anche grazie ai progressi dell'anatomia umana. Alla fine del Seicento F. Bernier, sulla base dei caratteri morfologici, operò un primo tentativo di organizzare i dati distinguendo "quattro o cinque specie di uomini": gli europei, gli asiatici orientali, i neri e i lapponi. In seguito, Buffon, nel primo capitolo della sua opera (Histoire naturelle générale et particulière, 1749), dedicato alle varietà dell'uomo, descrive le razze umane come caratterizzate fisicamente da variazioni comuni, interpretate quali effetto dell'ambiente. È comunque con Linneo che, per la prima volta, venne data un'organizzazione sistematica alla specie, distinguendo le varietà aeuropeus (bianco, sanguigno), afer (nero, flemmatico), americanus (rosso, collerico), asiaticus (giallo, melanconico), collegando così alla definizione dei caratteri fisici anche le caratteristiche del temperamento, secondo la tradizione galenica.
Con J.F. Blumenbach, considerato il padre dell'antropologia descrittiva, per la precisione e la sistematicità con cui affrontò lo studio delle razze, il ruolo dell'antropologo cominciò a definirsi meglio. Nella sua opera De generis humani varietate nativa (1776), egli descrisse con grande precisione e obiettività i caratteri distintivi delle razze, che, come Buffon, considerava modificabili; nell'ottica di Blumenbach, inoltre, le variazioni da una razza all'altra si producevano secondo una gradazione, per cui è impossibile operare una suddivisione in categorie fisse. Egli prese in considerazione moltissimi caratteri fisici, sia esterni sia interni (fisiologici e psicologici), ma considerò in particolare la forma del cranio (craniologia). Osservando il cranio dall'alto, in base alla forma del contorno, Blumembach distinse cinque razze: caucasica (i bianchi dell'Europa, dell'Asia occidentale, dell'India e quelli dell'Africa settentrionale), mongolica (praticamente tutti i gialli dell'Asia), etiopica (i neri dell'Africa subsahariana), americana (gli abitanti del Nuovo Mondo) e, infine, malese (gli indigeni dell'Oceania e dell'Asia insulare).
Tra la fine del Settecento e per tutto l'Ottocento si fece urgente tra gli antropologi la necessità di mettere a punto tecniche di misurazione e metodologie di studio adatte a confrontare correttamente tra loro i caratteri morfologici razziali. La rilevazione dei caratteri antropologici attraverso la misurazione di dimensioni lineari e angoli sembrò infatti porre l'operatore in una condizione di vantaggio sull'osservatore a occhio, in quanto il giudizio di quest'ultimo avrebbe potuto risentire di una certa soggettività. Con i numeri ottenuti con la misurazione, invece, la classificazione delle razze sarebbe dovuta risultare più oggettiva, ponendo dunque l'antropometria come supporto indispensabile per affrontare la cosiddetta 'scienza delle razze'. La necessità di misurare le dimensioni assolute per calcolare le proporzioni corporee non è una novità del 18° secolo; l'utilizzazione dei canoni artistici stabiliti su base antropometrica, che risale ai tempi della scultura ellenistica e di cui si ha il maggior esempio in Policleto, aveva avuto infatti ampio seguito nell'elaborazione delle opere d'arte rinascimentali. Tuttavia, è a partire da quest'epoca che l'uso di queste misurazioni acquistò un significato naturalistico, per operare confronti sia tra le diverse popolazioni, che tra la specie umana e le specie più vicine a essa. Di tutte le parti del corpo, il cranio (la testa nel vivente) ha sempre focalizzato l'interesse degli antropologi; e non a caso, dato che si riteneva che esso contenesse l''organo pensante', l'anima, cioè la qualità umana per eccellenza. È quindi naturale che lo studio del corpo abbia cominciato proprio con la misurazione del cranio, passando così dalla craniologia di Blumenbach alla craniometria. Alla fine del Settecento, P. Camper mise a punto un metodo quantitativo, misurando l'angolo tra la linea orizzontale condotta dal foro acustico alla base del naso e la linea facciale, dalla fronte al margine del labbro superiore. Da queste misurazioni egli stabilì che i valori massimi dell'angolo si raggiungono nell'europeo, avvicinandosi ai canoni della scultura greca (100°), mentre l'angolo facciale è pari a 70° nella razza nera, che pertanto presenta un profilo della faccia prognato; un angolo più acuto è proprio delle scimmie (57° nell'orango).
Dal rapporto tra la larghezza e la lunghezza del cranio, l'antropologo svedese A.A. Retzius calcolò, nel 1842, il cosiddetto indice cefalico: esprimendo il rapporto in millesimi (oggi lo si esprime in centesimi) egli suddivise le razze in dolicocefale, con cranio relativamente stretto e lungo (indice tra 70 e 80%), brachicefale, con cranio relativamente largo e corto (indice superiore a 80%) e mesocefale, che presentavano valori intermedi. L'interesse presentato da questo tipo di approccio non sta tanto nella classificazione in sé, ma nell'aver introdotto l'uso degli indici antropometrici, ancor oggi attuali nella pratica antropologica, grazie alla possibilità di descrivere sinteticamente la forma con un unico valore numerico.
Con gli inizi dell'Ottocento si comincia a parlare di 'tipi' razziali. Secondo la visione di G. Cuvier, l'origine della diversità dell'uomo affonderebbe le sue radici nella dispersione geografica, seguita al diluvio universale, di tre razze, caucasica, mongolica e nera. In ognuna di queste razze i caratteri fisici, una volta insorti per effetto ambientale, si sarebbero mantenuti immutati, per cui esse si devono considerare in senso tipologico (i neri o i bianchi o i gialli si conservano tali a tutte le latitudini e con ogni clima). Per Cuvier, sostenitore del monogenismo, ovvero di un'origine unitaria della specie umana, nonostante la grande diversità tra i tipi razziali, l'interpretazione dell'origine dell'uomo è sempre su base biblica, con la creazione di Adamo ed Eva. Questo della diversità fissa e immutabile nell'umanità è un tema che ritorna anche nelle teorie di molti naturalisti della seconda metà del secolo, i quali, però, propendevano per una visione poligenista, per la quale l'uomo non risulterebbe creato come specie unitaria, ma in più specie separate; da questo punto di vista, naturalmente, il fenomeno della diversità fisica degli uomini era più facilmente comprensibile.
Nonostante il progressivo imporsi dell'interpretazione darwiniana della diversità tra le popolazioni, il poligenismo trovò ancora ampio seguito in America e in Europa tra molti eminenti antropologi, quali, tra gli altri, P.P. Broca e S. Morton. Broca, che fondò nel 1859 la Società di Antropologia di Parigi, rappresenta il punto di riferimento di tutta la moderna antropologia: uno dei suoi principali contributi a questa disciplina fu quello di mettere a punto un ampio strumentario antropometrico e rigorose tecniche di misurazione che si basavano su punti di riferimento anatomici rilevati sullo scheletro e sul vivente. Dettando precise norme di misurazione, tuttora valide, egli ha fornito agli antropologi il mezzo più idoneo per esaminare rigorosamente grandissime quantità di materiale scheletrico, in primo luogo di crani, così da effettuare confronti sistematici su basi corrette. Broca quantificò anche i caratteri pigmentari (colore della pelle, delle iridi e dei capelli) assegnando a ciascuna gradazione di colore un numero e costruendo così le prime scale cromatiche. Se la visione poligenista di Broca (egli riteneva che gli incroci tra alcune razze non fossero completamente fertili) e la sua fede nell'immutabilità dei caratteri razziali non sono più accettabili alla luce dell'evoluzionismo, il merito, suo e della sua scuola, rimane in ogni caso quello di aver conferito all'antropologia dignità di disciplina scientifica.
Ben diverso è il caso del poligenismo mortoniano, così chiamato dal nome del suo fondatore, S. Morton, il quale utilizzò la craniometria soprattutto per cercare di dimostrare che alla morfologia cranica poteva essere assegnata una scala di valori di merito: la forma del cranio dei neri era associata a qualità mentali scadenti mentre, tra i bianchi americani, gli emigrati dai paesi dell'Europa meridionale sarebbero risultati meno dotati rispetto ai discendenti degli anglosassoni. Morton si servì dei precetti della scuola di frenologia nata in Europa tra la fine del 18° e l'inizio del 19° secolo con F.J. Gall, che sosteneva che la conformazione cranica dovesse essere il segnale esterno del diverso sviluppo delle aree cerebrali. Poiché queste corrispondevano, secondo Gall, a funzioni intellettive diverse, la forma cranica dava una buona indicazione dello sviluppo della stessa intelligenza. Quale conseguenza diretta, le razze (che Morton considerava specie, in accordo alla sua visione poligenista) erano naturalmente diseguali, perché le facoltà intellettive erano anch'esse legate a una diversità organologica e, dunque, naturale.
Preceduto dal trasformismo lamarkiano, nella seconda metà dell'Ottocento cominciò a spirare il vento innovatore della teoria evoluzionistica di Darwin. Anche per Darwin l'origine dell'uomo deve essere intesa come unitaria: l'uomo e le scimmie antropomorfe rappresenterebbero infatti i rami di un tronco comune, diversificatisi in tempi geologici per effetto dell'evoluzione. Il problema della diversificazione delle razze costituisce un elemento fondamentale della teoria darwiniana sull'origine dell'uomo. Il punto di vista di Darwin è che le razze, da lui concepite come sottospecie, si assomigliano l'una con l'altra in modo assai stretto, se le si considera nella loro struttura di base, a riprova del fatto che esse derivano da un singolo ceppo primitivo. Inoltre, i caratteri distintivi razziali, estremamente variabili, una volta insorti quali variazioni spontanee si diffondono grazie alla selezione sessuale: attraverso continui mescolamenti, le razze si mutano gradualmente l'una nell'altra, tanto che è difficile scoprire chiari caratteri distintivi tra di esse.
Darwin non attribuisce dunque alcun valore sistematico alla razza, ma, già ai suoi tempi, la sistematica razziale si andava affermando. Per classificare i tipi umani, gli antropologi utilizzavano vari criteri, partendo dal principio generale che un 'buon' carattere razziale deve essere costante e deve variare poco all'interno della razza e molto, invece, tra un razza e l'altra, in modo da assicurare la stabilità della categoria. Il criterio più seguito è quello morfologico, rispetto al quale la suddivisione risulta più o meno articolata, a seconda del numero dei caratteri che si considerano. Così, prendendo in esame soltanto il colore della pelle, la forma del naso e la forma dei capelli, il naturalista inglese T. Huxley propose nel 1863 un sistema tripartito (leucodermi, razza bianca; melanodermi, razza nera; xantodermi, razza gialla); J. Deniker, agli inizi del 20° secolo, distinse invece ben 29 razze, raggruppate in rami in base alla variazione di molti caratteri morfologici.
La straordinaria ricchezza di dati che gli antropologi andavano raccogliendo nel secolo scorso sulle più diverse popolazioni, li indusse a cercare dei sistemi sintetici per rappresentare la variabilità dei caratteri misurabili; fu il matematico A.J.L. Quételet a operare questa sintesi (1835), applicando ai caratteri morfometrici metodi d'indagine statistico-matematici, con l'intento di fondare una vera e propria 'scienza dell'uomo'. Un importante apporto di Quételet allo studio quantitativo di alcuni parametri che differenziano le popolazioni fu quello di dimostrare che, in una popolazione, la distribuzione delle differenze individuali (nella statura, per es., o in qualsiasi altro carattere misurabile), rilevate su un numero sufficiente di individui, può essere rappresentata graficamente da un curva a campana. Attorno al valore medio centrale della distribuzione (per es., per la statura 175,5 cm su 100 individui), che è il più frequente, le variazioni si discostano con valori superiori o inferiori: gli individui progressivamente più alti (a destra del valore centrale) o più bassi (a sinistra dello stesso valore) sono via via meno numerosi avvicinandosi all'estremo destro e sinistro, rispettivamente, della curva. In seguito, F. Galton mise a frutto l'insegnamento di Quételet, insistendo sull'importanza dei metodi matematici nella pratica antropologica, e, alla fine del 19° secolo, uno dei suoi allievi, K. Pearson, elaborò metodi di rappresentazione grafica per più caratteri considerati contemporaneamente, basandosi su una tecnica d'indagine detta 'analisi multivariata' e gettando così le basi di una scienza dagli straordinari sviluppi, la biometria. Impostata anch'essa su un approccio di tipo matematico, la biotipologia, ovvero lo studio dei tipi costituzionali, è una scienza sviluppatasi soprattutto a partire dalla fine dell'Ottocento. In un primo tempo si cominciò con il valutare in modo semplice le proporzioni corporee, calcolando il rapporto tra lunghezza degli arti inferiori e altezza del busto (indice schelico) e distinguendo così un brevitipo, con arti inferiori relativamente corti, e un longitipo, con arti inferiori più lunghi. In seguito, furono considerate molte più dimensioni somatometriche, giungendo a definire quattro tipi costituzionali di riferimento, a ciascuno dei quali veniva associato un temperamento specifico con corrispondenti variabili fisiologiche e psichiche. A questo proposito, un ruolo particolarmente rilevante fu quello dei costituzionalisti G. Viola e N. Pende, negli anni Trenta, per i quali il biotipo risultava essere l'espressione sintetica dell'individuo.
Le classificazioni razziali sviluppatesi nel 19° secolo si basavano essenzialmente sul presupposto che i caratteri antropologici fossero stabili. Per tale ragione si utilizzavano quei caratteri che sembravano risentire meno delle sollecitazioni ambientali. La relazione tra variabilità individuale e ambiente era già stata messa in evidenza da molti antropologi, ma a essa non si attribuiva ancora un significato preciso: quel che contava infatti era il 'tipo' razziale cui gli individui tendevano nelle loro variazioni 'accidentali'. Tuttavia, nelle prime classificazioni geografiche di rilievo, per esempio quella di R. Biasutti degli anni Quaranta, l'ambiente fisico viene proposto ancora una volta nel tentativo di interpretare la diversità razziale. A questo punto, però, nella sistematica razziale vennero introdotti anche i cosiddetti caratteri monogenici, quelli cioè governati da un solo gene, la cui espressione fenotipica è indipendente dall'ambiente. In tal modo si tentava infatti di risolvere il problema dell'influsso della componente ambientale della variabilità e di definire in questo modo la razza nella sua essenza.
I primi studi sulle differenze razziali di caratteri genetici si devono a Galton, secondo il quale l'umanità poteva essere suddivisa in gruppi, dati da classi di frequenza percentuale, in base alle figure dei polpastrelli delle dita, i dermatoglifi. Le impronte digitali erano già utilizzate per l'identificazione individuale, ma Galton mise in evidenza che la presenza di queste figure era dovuta al diverso andamento di tre principali tipi di creste papillari (archi, anse e verticilli), che vennero poi studiati anche a livello del palmo della mano e della pianta del piede.
L'anno 1900 segnò poi una tappa fondamentale negli studi di sistematica razziale; l'immunologo austriaco K. Landsteiner, infatti, scoprì che l'uomo può essere classificato non solo per i suoi caratteri esterni, che sono per la stragrande maggioranza a base poligenica, ma anche in base a caratteri non osservabili direttamente a occhio. Mettendo a contatto una goccia di sangue di due individui, Landsteiner sperimentò che, in alcuni casi, si verificava il cosiddetto fenomeno dell'agglutinazione, che si manifestava con la formazione di macroscopici aggregati di globuli rossi. Tale fenomeno risultò dovuto all'incompatibilità tra i due individui, che possono essere diversi rispetto ai gruppi sanguigni A, B, AB e 0. In base alle frequenze relative di questi gruppi sanguigni, governati da un unico gene, si sviluppò quindi una nuova chiave di interpretazione delle razze e nell'antropologia si venne a individuare un settore specifico, l'antropogenetica, che studia in particolare la variabilità dell'uomo partendo dalla distribuzione di caratteri monogenici. Alla prima classificazione sierologica operata su queste basi dal biologo W.Ch. Boyd nel 1958 ne sono seguite così molte altre, che utilizzavano sistemi immunoematologici che si andavano via via identificando (Rh, MNSs, Duffy, Kell e decine di altri).
A partire dalla fine degli anni Cinquanta, la messa a punto di tecniche elettroforetiche specifiche per la tipizzazione di proteine eritrocitarie e plasmatiche ha permesso di studiare la variabilità anche a livello molecolare. Attualmente, grazie alle sofisticate tecniche utilizzate per rivelare la variabilità genetica direttamente a livello del DNA, questo settore ha trovato ulteriore sviluppo e costituisce uno dei principali campi di interesse della moderna antropologia evoluzionistica.
Molti caratteri fisici variano perché sottoposti a pressioni selettive: essi, pertanto, presentano una distribuzione correlata a determinati fattori ambientali, in primo luogo quelli geografici, e sono detti adattativi. Uno dei più evidenti caratteri adattativi è il colore della pelle, che presenta una particolare distribuzione geografica in rapporto alla latitudine. L'intensità della pigmentazione è infatti molto più alta alle basse latitudini, dove l'irradiazione solare è maggiore, e diminuisce poi gradatamente allontanandosi dall'equatore: questo carattere, dunque, si distribuisce secondo un cline (cioè una gradazione di tipo continuo nello spazio geografico). Il fenomeno è interpretabile sulla base del fatto che la pelle scura conferisce un vantaggio alle popolazioni sottoposte per tutto l'anno, o per gran parte di esso, a forte irradiazione solare. La melanina, il pigmento prodotto dai melanociti (cellule presenti nello strato profondo dell'epidermide), scherma infatti le radiazioni ultraviolette dannose e, nello stesso tempo, impedisce un'eccessiva sintesi di vitamina D, che serve a utilizzare il calcio della dieta per costruire o riparare il tessuto osseo. Per la produzione di questa vitamina le radiazioni ultraviolette sono indispensabili, ma una loro eccessiva quantità porterebbe a sintetizzarne troppa e ciò causerebbe danni all'organismo per ipervitaminosi.
Poiché l'uomo moderno sarebbe nato in Africa, la variante pelle scura potrebbe essere quella originaria; le mutazioni che avrebbero portato a una pelle chiara, una volta insorte, si sarebbero affermate perché il carattere non risulta svantaggioso alle alte latitudini; al contrario, la pelle chiara faciliterebbe la sintesi di vitamina D anche in ambienti a scarsa irradiazione solare. Inoltre, come riprova del significato adattativo della pigmentazione, per il fenomeno della convergenza evolutiva, è presente una colorazione scura della pelle anche nelle popolazioni di altri continenti alle basse latitudini, per es. tra gli aborigeni australiani e tra i gruppi del subcontinente indiano.
Legati al clima sono, in maggior o minor misura, anche altri caratteri esterni; per es., un naso alto e stretto sarebbe più vantaggioso in un clima freddo, permettendo un preriscaldamento dell'aria; d'altro canto, la stessa forma si riscontra anche nelle popolazioni del deserto sahariano, dove favorirebbe un'umidificazione dell'aria; sempre nel Sahara e nei deserti della Mongolia troviamo anche una rima palpebrale molto stretta, a causa di una plica della palpebra superiore, che si sarebbe affermata in seguito a mutazione perché utile per proteggere l'occhio contro i venti.
Ancor più significativa è la correlazione tra la morfologia corporea, sinteticamente espressa dal rapporto tra statura e peso, e il clima: alle basse latitudini, il peso è relativamente basso rispetto alla statura, il che indica un grande sviluppo della superficie corporea. Poiché questa è il filtro attraverso cui l'individuo entra in contatto con il suo microambiente, e le ghiandole sudoripare disseminate su di essa sono un efficace mezzo di termoregolazione, più estesa è la superficie, più efficiente è il sistema, che risulta quindi più vantaggioso nei climi caldi per favorire la dispersione del calore endogeno. Viceversa, nei climi freddi è vantaggioso avere una statura bassa e un peso relativamente alto, cioè presentare una superficie corporea minore, con una forma brevilinea opposta alla forma longilinea propria dei subsahariani.
Su basi adattative è da interpretarsi anche l'elevata frequenza, tra i neri, di una variante genetica detta Fy0: essa determina l'assenza dell'antigene Fy nei globuli rossi. Tale condizione, se allo stato eterozigote, cioè se ereditata da un solo genitore, risulta vantaggiosa in ambiente malarico, perché rende il globulo rosso più resistente all'attacco del plasmodio che produce la malattia. Lo stesso si verifica per la variante HbS dell'emoglobina, quella determinante negli omozigoti l'anemia falciforme, che si riflette in una diversa forma dei globuli rossi, tale da essere vantaggiosa negli eterozigoti rendendo difficile la riproduzione del plasmodio. Pertanto, gli individui portatori di Fy0 o HbS, in zone ad alta endemia malarica, come quelle dell'Africa equatoriale, hanno una probabilità più alta di sopravvivere e quindi di riprodursi, degli individui non portatori. Una situazione paragonabile alla precedente è quella che si è verificata nei tempi passati nel bacino del Mediterraneo (in Italia nelle regioni meridionali, nelle isole e nel delta del Po, caratterizzate da temperature elevate e un notevole grado di umidità durante molti mesi). In tale vasta area, dove prima degli anni Cinquanta la malaria era endemica, si sono affermate mutazioni a livello dell'emoglobina, con una conseguente forma di anemia detta β-talassemia, e di un enzima, il G₆PD (glucosio-6-fosfato deidrogenasi) necessario per il ciclo vitale del globulo rosso; negli eterozigoti tali mutazioni, che determinano la condizione di portatore sano, risultano vantaggiose in ambiente malarico, assumendo quindi significato evolutivo analogo a quello dell'HbS in Africa, anche se il globulo rosso viene protetto dal plasmodio con meccanismo diverso.
Seppure di grande importanza, il clima non è comunque l'unico fattore selettivo: esso, infatti, ha sempre interagito con i fattori culturali, direttamente o indirettamente. Un esempio di quest'ultimo aspetto sta nell'abitudine di nutrirsi di pesce, frequente nelle popolazioni che vivono alle alte latitudini: sebbene in queste zone la pelle sia chiara, la scarsa irradiazione solare non indurrebbe una produzione sufficiente di vitamina D. La carenza viene compensata dalla quotidiana assunzione di questo alimento, che di tale vitamina è invece ricchissimo. Alla diversità della dieta sono legati altri aspetti della diversità genetica tra popolazioni. Per es., in Africa, le indagini condotte sulla frequenza di una particolare enzimopenia, cioè la carenza genetica di un enzima, la lattasi, necessario per l'utilizzazione del lattosio presente nel latte, hanno messo in evidenza che tra le popolazioni nomadi di pastori delle savane orientali e della fascia sudano-saheliana (masai, fulbe), la cui dieta continua a basarsi sul latte anche nell'adulto, tale enzimopenia è assente, mentre tra le popolazioni costiere dell'Africa occidentale, a economia essenzialmente agricola, fra le quali il latte non viene consumato, l'alta frequenza di casi di enzimopenia non ha conseguenze.
Una funzione selettiva può essere esercitata anche da altri parametri comportamentali: la scelta matrimoniale, la mobilità, il tipo di economia di sussistenza ecc., sono tutte concause che interagiscono con il fattore selettivo primario rappresentato dall'ambiente geografico.
Dall'analisi delle diversità all'interno della specie umana emerge ancor oggi l'opportunità di classificare le diverse popolazioni, seppur con le dovute cautele e tenendo presente che, secondo l'espressione di Dobzhansky, ogni classificazione razziale è "una questione di convenienza". È dunque importante tentare di capire se sui raggruppamenti che si possono effettuare in base all'andamento della distribuzione dei caratteri antropologici giochino più le somiglianze dovute a un'origine comune o quelle derivate nel corso del tempo per adattamenti specifici.
Poiché tali somiglianze derivate, come si è detto, sono principalmente a carico dei caratteri esterni, al fine di analizzare in modo razionale le differenze tra le popolazioni si preferisce partire dall'analisi dei cosiddetti polimorfismi proteici. Questo genere di studio si basa sul fatto che determinate proteine contenute nel sangue umano si presentano con più varianti facilmente evidenziabili tramite elettroforesi. Sulla base di un quadro composto da numerosi polimorfismi, è possibile effettuare uno studio comparato, applicando la tecnica detta analisi multivariata, che permette di misurare la distanza genetica tra le popolazioni, cioè il grado di diversità tra esse, espresso in termini di frequenze geniche.
Questo tipo di approccio allo studio della diversità si basa sul presupposto che più due popolazioni appaiono diverse tra loro, più antica deve essere la loro divergenza da un antenato comune. In base a questo assunto si può dunque costruire un albero filogenetico in cui compaiono raggruppamenti creati in riferimento alla reale somiglianza genetica. Per fare ciò sono perciò da scartare i polimorfismi con significato adattativo, come i già citati HbS e Fy0. Secondo tale interpretazione, più i rami dell'albero su cui si dispongono i gruppi sono corti, minore è la distanza che li separa e dunque maggiore è la loro somiglianza genetica.
A.W.F. Edwards e L.L. Cavalli Sforza, gli studiosi che maggiormente hanno lavorato in questo campo, hanno costruito un albero in cui compaiono 42 popolazioni rappresentative di 9 grandi raggruppamenti razziali, rispetto alla frequenza di 110 geni polimorfici. Il dato più evidente che emerge da questa analisi è che la prima grande biforcazione dell'albero separa gli africani dai non-africani, a conferma dei risultati ottenuti dalle analisi paleoantropologiche. Questo stesso risultato si ottiene anche dagli studi effettuati da A.C. Wilson e R. Cann sul DNA mitocondriale (mtDNA), ereditato per via materna, che possiede velocità di mutazione più elevate del DNA nucleare, per cui è più utile ai fini di datare eventi evolutivi relativamente recenti.
Le costruzioni ad albero così ottenute sono dunque un modo nuovo di classificare l'uomo rispetto ai vecchi sistemi gerarchici e hanno l'enorme vantaggio di permettere lo studio del fenomeno della variabilità su base esclusivamente genetica, in maniera assai più informativa sull'origine delle diversificazioni e nel rispetto delle reali somiglianze genetiche. I geni sono stati messi a confronto anche con i dati dell'archeologia e dello studio delle lingue: questi ultimi due tipi di approccio, condotti in particolare dagli studiosi A. Piazza, P. Menozzi e L.L. Cavalli Sforza in questi ultimi anni, si sono rivelati di grandissimo interesse antropologico. Da essi, infatti, sono emerse impressionanti corrispondenze tra la storia biologica dell'uomo e la sua evoluzione culturale, che hanno permesso di costruire mappe sintetiche di distribuzione estremamente informative e di elaborare modelli in grado di descrivere le numerose ondate migratorie che hanno interessato tutti i continenti, fornendo, in definitiva, molte spiegazioni riguardanti la storia dell'umanità.
La distribuzione attuale dell'uomo, che presenta forte sperequazione tra i diversi continenti, è il risultato di migliaia di anni di migrazioni e mescolamenti, che hanno per così dire 'diluito' le differenze legate al primitivo territorio geografico di insediamento dei gruppi umani in seguito alla dispersione dall'Africa dell'Homo sapiens.
Laddove le espansioni demiche non si sono verificate, le popolazioni sono invece rimaste ai margini delle grandi vie di comunicazione, con minori opportunità di scambiare il proprio patrimonio genetico e culturale. Si sono prodotte così delle popolazioni per così dire 'relitte', nelle quali è possibile ancora identificare dei caratteri estremi, caratteri cioè che sono la testimonianza più evidente di antichi adattamenti. Si tratta di popolazioni nomadi o seminomadi che basano ancora la propria sussistenza su un'economia di caccia, raccolta e pesca o che sfruttano pratiche agricole di tipo neolitico. La loro organizzazione sociale non ammette alcuna struttura centralizzata. A contatto con il mondo industrializzato, tuttavia, tali popolazioni hanno subito o stanno subendo una radicale trasformazione della loro cultura.
Tra le comunità relitte, in Africa, nella foresta pluviale estesa tra 3° N e 3° S (Camerun, Gabon, Repubblica Centrafricana, Congo) vi sono i pigmei. I pigmei sono tipicamente caratterizzati da una statura mediamente bassa (compresa tra 144 e153 cm nel maschio), variante che non ha ancora trovato spiegazione conclusiva nonostante i molti studi condotti sull'ormone dell'accrescimento, l'attività tiroidea e il metabolismo del calcio. Tale carattere, cui si accompagnano proporzioni corporee armoniche e un peso corporeo basso, è comunque da considerarsi vantaggioso per spostarsi nel difficile ambiente di foresta, soprattutto durante le estenuanti battute di caccia. La morfologia dei capelli, molto leggeri e cortissimi, disposti a glomeruli (capelli a 'grano di pepe'), facilitando la traspirazione del cuoio capelluto, trova analoga spiegazione. La pigmentazione cutanea nei pigmei non è così accentuata come quella delle popolazioni nere di savana; ciò si spiega con il fatto che nella foresta pluviale la luce solare arriva al suolo filtrata dal fitto manto vegetale.
Nel deserto del Kalahari, in Sudafrica, vive un altro gruppo relitto, i san (boscimani o 'uomini della boscaglia'), nei quali è presente la steatopigia, cioè un accumulo di tessuto adiposo a livello delle natiche e delle cosce, un carattere che non ha ancora trovato spiegazione; comunque, la tesi secondo la quale tale accumulo costituirebbe una sorta di riserva energetica, analogamente a quanto si verifica per la gobba del cammello, non è più accettata. I boscimani presentano inoltre alcuni caratteri che li avvicinano agli asiatici orientali più che alle altre popolazioni subsahariane: la pelle è giallastra e nella palpebra superiore essi presentano una plica che, restringendo la rima palpebrale, ricorda la plica mongolica. Tuttavia l'origine asiatica dei boscimani e il loro insediamento in Africa in seguito a migrazione, ammessi da alcuni autori, non sono comprovati dagli studi di antropogenetica né si conosce il motivo per cui nella donna la vulva presenti uno sviluppo esagerato delle grandi labbra.
A parte i territori dei pigmei e dei boscimani, che probabilmente rappresentano il substrato più antico del popolamento dell'Africa, la regione sudano-saheliana a nord della foresta e le regioni a est e a sud di essa sono occupate dalle savane: nella prima sono stanziate popolazioni nere che parlano lingue sudanesi, mentre i territori sud-orientali della foresta pluviale sono il dominio dei locutori delle lingue bantu. In termini antropologici, tutti questi gruppi rappresentano senza dubbio un buon esempio di adattamento ai grandi spazi aperti; i nilotici, con la loro grande superficie corporea, derivante soprattutto dallo sviluppo in lunghezza degli arti, accompagnato da dimensioni trasversali relativamente ridotte, con un bacino stretto e un basso peso corporeo (morfologia longilinea), ne sono l'espressione più manifesta; in essi la pigmentazione è molto accentuata, i capelli sono molto fini e leggeri, il naso è basso e largo (assai impropriamente si parla di naso schiacciato). L'affermazione di questa morfologia può essersi verificata già nell'Homo ergaster, la forma africana più antica di erectus: lo scheletro di un ragazzo dodicenne ricostruito a partire dai molti resti rinvenuti recentemente a Nariokotomè (Kenya) è infatti di tipo longilineo. Le ossa dell'avambraccio e della gamba sono molto lunghe e relativamente sottili e la stima della statura che il ragazzo avrebbe raggiunto da adulto è di 182 cm, valore corrispondente a quello riscontrato tra i nilotici attuali.
Anche i tuaregh, i nomadi del deserto sahariano, hanno una corporatura nettamente longilinea e sono caratterizzati da una pigmentazione accentuata, ma la morfologia del naso (alto e stretto) e soprattutto gli elementi culturali, prima di tutto la lingua, li distinguono dai neri subsahariani della famiglia linguistica Niger-Kordofan. Origine diversa da questo gruppo hanno pure le popolazioni del Corno d'Africa (etiopi, eritrei) e quelle delle coste nordafricane. Queste ultime si sono stanziate a seguito delle migrazioni dall'Arabia, sovrapponendosi al substrato autoctono costituito dai berberi. Per trovare il tipo morfologico opposto a quello dei nilotici, bisogna spostarsi in Asia, nelle estreme regioni settentrionali, dove sono confinate le popolazioni relitte della Siberia e nelle steppe centrali, dominio dei mongoli. La morfologia corporea è nettamente brevilinea: la statura è bassa, il corpo è tarchiato con arti relativamente corti e la superficie è ridotta per limitare la dispersione di calore. Nella palpebra superiore è presente la plica mongolica, così chiamata perché essa è particolarmente evidente nei mongoli del deserto del Gobi, nell'altopiano centrale asiatico. Tale plica è un carattere ereditario, la cui affermazione viene interpretata, come si è detto, quale difesa dai gelidi venti che spirano in tali territori, limitando l'apertura della rima palpebrale. Le ossa nasali formano un angolo meno acuto che negli europei e la radice del naso è di conseguenza poco rilevata sul piano sagittale, mentre gli zigomi sono lateralmente molto salienti e nell'insieme danno alla faccia una forma appiattita, tale da ridurre al minimo le parti esposte. Il colore della pelle dei mongoli, e più in generale degli asiatici orientali, è stato in passato definito 'giallo', ma impropriamente: non esiste infatti un pigmento giallo; la tonalità giallastra è invece dovuta allo spessore dello strato corneo dell'epidermide, che non lascia trasparire i vasi sanguigni. In questo stesso gruppo di popolazioni la morfologia dei capelli è poi molto diversa da quella dei neri subsahariani: i capelli infatti sono molto lunghi, lisci e molto spessi, formando un insieme compatto interpretato come una protezione per la testa.
Sempre in Asia, nell'arcipelago delle Filippine, nella remota isola di Palawan, si trovano ancora i rappresentanti di una comunità originaria delle coste orientali asiatiche, i cui caratteri fisici e le abitudini di vita sono ancorati al passato, grazie a uno stretto isolamento genetico e culturale. Essi vivono sull'altopiano, abitando in caverne durante la stagione dei monsoni, ma periodicamente si spostano in aree deforestate abitando in capanne e coltivando la terra. Nell'isola più settentrionale del Giappone vivono ancora gli ainu, che rappresentano un'enclave europoide nel mondo orientale. La loro origine è oscura e attualmente sono molto mescolati con gli autoctoni asiatici.
Nella storia del popolamento austronesiano, l'Asia peninsulare e insulare (Malesia, Indonesia) ha costituito un centro di snodo tra espansioni di diversa matrice linguistica e antropologica: ne è risultata una grande ricchezza di forme di transizione tra l'asiatica e l'australoide. Con la Mesopotamia, l'Asia sudoccidentale è stata il centro di irradiazione neolitica dell'agricoltura in Europa e nel Nordafrica. Particolarmente favorevole agli scambi e al fiorire delle civiltà indoeuropee, a cavallo tra mondo occidentale e mondo asiatico, tale regione è rappresentata antropologicamente da popolazioni appartenenti al blocco degli europoidi, per utilizzare la terminologia di Biasutti.
Tra gli europoidi non troviamo alcun carattere peculiare; anche l'attributo 'bianco' comunemente utilizzato presenta in realtà tutte le sfumature, tra la tonalità più chiara delle popolazioni nordiche e quella più scura dei nordafricani e degli indiani. Anche la statura presenta grandi variazioni: dai valori più alti delle popolazioni settentrionali (scandinavi) si passa alle popolazioni del bacino mediterraneo (Italia meridionale e insulare, Grecia, Spagna), senza tuttavia che si possa delineare un gradiente regolare. Il biondismo (capelli e iridi chiare), poi, non è in realtà peculiare dei nordici, tra i quali la frequenza dei capelli biondi e degli occhi celesti è solo più alta in rapporto alle popolazioni dell'Europa meridionale.
Per quanto riguarda invece l'America, secondo linguisti e antropologi il popolamento del continente è avvenuto intorno a 15.000 anni fa da parte di popolazioni migrate dalle pianure siberiane attraverso lo stretto di Bering. I gruppi che si stabilirono nelle regioni più settentrionali del continente americano sono rappresentati oggi dagli inuit, ovvero gli eschimesi, che conservano morfologicamente i caratteri dei mongoli e la cui economia di sussistenza è basata sulla caccia e la pesca. Le grandi praterie dell'America settentrionale erano invece il dominio degli amerindiani, del tutto impropriamente definiti pellerossa, oggi ridotti a poche migliaia e confinati nelle riserve. Tra questi ultimi, solo pochi individui conservano i caratteri che testimoniano la loro antica origine asiatica (per es. una piega sulla palpebra che ricorda la plica mongolica), ma la diversa costituzione fisica (alta statura, corpo longilineo) è il risultato di migliaia di anni trascorsi nei grandi spazi aperti. In America centrale, vi sono poi gli indigeni lacandoni, di origine maya, che hanno dato il nome alla selva lacandona del Messico, tipica foresta pluviale nella quale essi vivono di caccia e pesca. Fisicamente essi conservano i caratteri ereditati dai loro ascendenti asiatici. Con una tecnologia agricola ancora ferma all'uso della zappa, usano coltivare mais, fagioli, zucca, pomodori e altre specie autoctone nelle aree deforestate.
In America meridionale, due sono le situazioni ambientali 'estreme': la regione delle Ande e il bacino delle Amazzoni. Tra le popolazioni andine sono presenti i caratteri peculiari legati all'altitudine: esse, stanziate a più di 3500 m s.l.m., devono far fronte non solo a temperature assai rigide, ma anche a una ridotta concentrazione di ossigeno nell'aria. A tal fine gli andini (peruviani, boliviani, cileni), oltre ad avere una corporatura bassa e tarchiata, presentano microcitemia, ovvero una riduzione delle dimensioni degli eritrociti accompagnata da un aumento del loro numero, così da ampliare la superficie adsorbente senza aumentare il volume totale del sangue. Anche il peso alla nascita è mediamente inferiore rispetto a quello alle basse latitudini, poiché una massa piccola necessita di minor quantità di ossigeno e di energia.
Nella foresta amazzonica vivono ancora i bororo e altri gruppi relitti, le cui caratteristiche fisiche rispecchiano in linea generale il quadro morfologico degli amerindiani. In Patagonia erano diffusi un tempo gli alacalúf (adesso il loro numero è molto ridotto), caratteristici per la loro statura gigante. Nomadi, dediti alla caccia (struzzo, guanaco) e alla raccolta di frutti, semi e bacche durante la breve estate, si vestivano di pelli abitando in ripari di frasche coperte anch'esse da pelli. I fuegini e gli ona dell'estrema punta meridionale (Terra del Fuoco) si sono dovuti scontrare con un ambiente estremamente inospitale (vento, neve e ghiaccio). Tuttavia la loro estinzione nella prima metà di questo secolo è legata ai contatti con gli europei, così come si è verificato per i tasmaniani.
Nei grandi arcipelaghi del Pacifico le popolazioni polinesiane sono verosimilmente migrate in tempi protostorici dalle coste dell'Asia sudorientale (penisola malese). Esse, così come i maori, sono molto eterogenee, rappresentando una lunga storia di migrazioni e mescolamenti.
In Oceania, infine, sono presenti, sempre secondo la terminologia di Biasutti, gli australoidi. Essi sono caratterizzati da statura alta e da una pigmentazione accentuata, che in alcuni casi, per es. nelle popolazioni del deserto occidentale australiano, assume una tonalità scurissima. Da questo punto di vista, tali popolazioni sono tanto simili ai neri subsahariani (dai quali differiscono però per i capelli, che non sono crespi, ma lunghi e ondulati) da costituire con essi un unico cluster nell'albero delle parentele filogenetiche costruito da Cavalli Sforza utilizzando i caratteri fisici, in primo luogo l'intensità della pigmentazione. Tuttavia se si utilizzano le somiglianze dei caratteri per così dire nascosti (proteine e DNA), questi due raggruppamenti sono molto distanti tra loro e ciò costituisce una delle tante dimostrazioni del fatto che i caratteri fisici, fortemente legati all'ambiente (in questo caso il fattore selettivo è la notevole irradiazione solare) possono ingannare, nascondendo le vere parentele genetiche, conseguenti a un cammino evolutivo comune.
Sull'altopiano centrale della Nuova Guinea vivono i papua di montagna. Tra questi, alcune comunità, per la statura media nella popolazione maschile, pari a circa 138 cm, vengono definite 'pigmei oceanici'. Essi hanno conservato pressoché intatta la capacità di fabbricare asce di pietra, così come facevano gli uomini preneolitici. A differenza dei pigmei africani, dediti per la maggior parte del tempo alla caccia e alla raccolta, questi gruppi, gli ultimi a sfruttare la tecnologia litica, praticano l'orticoltura (patate dolci e taro) e allevano maiali e pollame, cacciando saltuariamente selvaggina di piccola taglia. Le loro asce, ben rifinite e con il margine assai tagliente, vengono immanicate per essere utilizzate in varie attività, ma costituiscono anche oggetto di baratto con materiali quali pelli, fibre vegetali, piume dell'uccello del paradiso ecc.
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