Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Se nel Seicento la veduta si caratterizza già come soggetto autonomo tra i generi pittorici, ispirandosi alla cartografia, nel corso del Settecento si afferma sempre più come rappresentazione aderente al reale e differente dal genere del paesaggio. Con artisti come Canaletto e Bellotto, il repertorio iconografico della veduta varca i confini nazionali per diffondersi in tutta Europa.
Il vedutismo
Il termine “veduta” designa la rappresentazione in forma prospettica di una realtà architettonica o urbana: si distingue perciò dal più ampio genere del paesaggio che ritrae principalmente elementi naturali. In Italia, nel XVII secolo, “veduta ” è sinonimo di “prospettiva” e come riferisce il Baldinucci: “Dicono i nostri artefici talvolta veduta per lo stesso che prospettiva, o lontananza in prospettiva”. Nel Seicento essa si caratterizza già come soggetto autonomo, al sesto posto nella gerarchia dei generi pittorici del nobile “dilettante” Vincenzo Giustiniani (Discorso sopra la pittura, 1610 ca.). Nel corso del Settecento, poi, col perfezionarsi delle tecniche rappresentative e col diffondersi della “camera ottica”, la veduta tende a divenire “scientifica”, esatta e aderente al reale. Per il carattere stesso di “documento”, essa rappresenta uno dei generi più richiesti dai viaggiatori stranieri che giungono in Italia per il Grand Tour. Non solo le vedute dei monumenti antichi e moderni di Roma – meta privilegiata del viaggio in Italia – ma anche quelle delle piazze, delle chiese e dei luoghi delle città italiane (Venezia, Napoli, Firenze ecc.) divengono oggetto di un fiorente mercato che si prolunga fino all’Ottocento. Grazie ad artisti quali Canaletto e Bernardo Bellotto, il repertorio iconografico della veduta si estenderà alle maggiori capitali europee: Londra, Dresda, Vienna, Varsavia e San Pietroburgo. I precedenti della veduta, intesa come rappresentazione topografica, si ritrovano nell’opera di alcuni artisti olandesi del XVII secolo, tra cui Pieter Saenredam, Gerrit Berckeyde e Jan van der Heiden. Nell’ambito della pittura di genere, questi artisti introducono un repertorio specifico di vedute urbane e panorami, ricorrendo all’uso della “camera ottica”. Il carattere descrittivo, privo di enfasi e fedele al dato reale, reso con tecnica precisa e minuziosa, è del resto il risultato di una cultura, quale l’olandese, che ha alle spalle una solida tradizione cartografica e detiene il primato negli studi dell’ottica.
Gaspard van Wittel e la veduta settecentesca in Europa
L’olandese Gaspard van Wittel – il cognome verrà italianizzato in Vanvitelli – diffonde in Italia, a partire dagli ultimi decenni del Seicento, un nuovo tipo di veduta urbana, copia esatta del reale e rispondente a criteri descrittivi fino allora sconosciuti nella cultura artistica italiana.
Nel 1675 van Wittel giunge a Roma in qualità di cartografo e accompagna l’ingegnere idraulico Cornelis Mayer, incaricato da papa Clemente X (1670-1676) di tracciare la mappa del percorso del Tevere da Perugia a Roma.
Da questa attitudine a riprodurre fedelmente il paesaggio attraverso i rilievi van Wittel approfondisce una vena realistica e documentaria, già riscontrabile nelle primissime vedute delle piazze di Roma che esegue negli anni Ottanta. Attivo fino al 1730, anno delle ultime opere, realizza un catalogo completo delle vedute di Roma – tra panorami, chiese, palazzi e ponti – sperimentando oltre cinquanta “punti di vista”, la maggior parte dei quali inediti.
I viaggi compiuti da van Wittel attraverso l’Italia, a Venezia, Firenze e Napoli, costituiscono una tappa fondamentale per gli sviluppi della veduta topografica fuori di Roma: la sua presenza a Venezia intorno al 1694 è di sicuro riferimento per l’ambiente artistico lagunare e in particolare per Luca Carlevarijs. Inoltre, durante il periodo trascorso a Napoli su invito del viceré Don Luis de la Cerda, tra 1700 e 1701, van Wittel realizza una serie di vedute panoramiche della città vista dal mare nella sua estensione costiera: vedute che contribuiscono al definirsi di un’’immagine più realistica, inserendosi nella tradizione cartografica locale che a Napoli risaliva alla metà del XV secolo con la Tavola Strozzi.
È poi l’emiliano Giovanni Paolo Panini, o Pannini, a introdurre nella veduta di Roma un carattere diverso da quello più topografico di van Wittel, riproposto quasi senza varianti dall’olandese Hendrick van Lind.
Grazie alla sua abilità prospettica, l’artista si impone nella prima metà del Settecento, divenendo pittore ufficiale dell’ambasciatore di Francia a Roma Melchior de Polignac. Accanto alla rappresentazione di cerimonie e feste pubbliche, di cui restituisce con esattezza i complessi apparati architettonici e decorativi, Panini si dedica con successo alla produzione di capricci, assai richiesti dal collezionismo d’élite.
Claude-Joseph Vernet, pittore di paesaggi e marine, si aggiorna al gusto della veduta topografica con la serie dei Porti della Francia, comprendente quindici vedute dei principali porti francesi di grande formato (1753-1765). Ripresi nel pieno fervore dei traffici commerciali, secondo ampie panoramiche che includono il profilo urbano delle città e di alcuni monumenti, i Porti di Vernet vengono divulgati soprattutto attraverso incisioni. Del resto la commissione, tra le più prestigiose assegnate a un pittore sotto il regno di Luigi XV, si inserisce nel disegno politico di propagandare visivamente, attraverso le immagini dei maggiori porti marittimi, la realtà del potere economico e militare francese.
La fortuna della veduta a Veneziae nelle corti del Nord-Europa
Negli ultimi decenni del Seicento, Luca Carlevarijs pone le basi della veduta veneziana, inserendosi nella consolidata tradizione vedutistico-topografica risalente a Vittore Carpaccio e a Gentile Bellini. Grazie a un viaggio a Roma, tra il 1685 e il 1690, Carlevarijs viene infatti a conoscenza di un repertorio che spazia dai porti di Claude Lorrain alle invenzioni prospettiche di Viviano Codazzi e alle vedute dell’olandese van Wittel. E proprio l’opera di quest’ultimo risulta determinante per l’avvicinarsi di Carlevarijs, dopo il ritorno in patria, a un tipo di veduta più esatta che anticipa Canaletto.
In apertura di secolo, nel 1703, egli pubblica una raccolta di 104 acqueforti intitolata Fabriche e vedute di Venetia, disegnate, poste in prospettiva et intagliate. L’opera è fondamentale per il repertorio pressoché completo di chiese, palazzi, campi e vedute inedite della Serenissima, ma anche per il rilancio e la diffusione a Venezia della veduta incisa sul modello di quella romana del Seicento.
Con Giovanni Antonio Canal (detto Canaletto) e Bernardo Bellotto, artisti che lasceranno Venezia per raggiungere rispettivamente Londra e le corti di Dresda, Vienna e Varsavia, la veduta tocca il culmine di aderenza al dato oggettivo e assume una portata europea.
Trattando dell’opera di Canaletto, considerato il vedutista per antonomasia e il topografo esemplare, soprattutto per il grado supremo cui spinge la tecnica nella ricerca di una “certezza illuministica di verità assoluta” (Roberto Longhi) è utile considerare la recente posizione critica di André Corboz, che mira a ridimensionare l’immagine ormai consolidata di Canaletto “foto-topografo” e antesignano della fotografia. Sulla base di un’attenta analisi dell’opera e di un confronto meticoloso tra le vedute reali di Venezia e quelle dipinte dall’artista, Corboz individua svariate incongruenze: spostamenti d’asse, aggiunte o sottrazioni e numerose manipolazioni; modifiche dovute probabilmente al modo di lavorare dell’artista che elabora e “monta” la veduta nello studio, servendosi allo stesso tempo di disegni presi dal vero, di altre immagini ottenute con la camera ottica e di vedute tratte da stampe. Il risultato finale è quindi una sintesi di queste diverse immagini.
Della formazione e delle prime prove di Canaletto non rimane alcuna testimonianza. È solo a partire dal 1720, dopo un viaggio a Roma, che Canaletto inizia a dedicarsi alla pittura di vedute.
Tra le prime opere conosciute, la Veduta di piazza San Marco rivela ancora certe reminiscenze di tipo scenografico, quali l’orizzonte alto e il carattere d’impianto scenico della piazza maturate nell’orbita del padre Bernardo Canal, pittore e scenografo teatrale.
Nel 1727 Canaletto gode già di una certa notorietà a Venezia e il mercante irlandese Mc Swiney scrive: “è un individuo capriccioso, cambia i suoi prezzi ogni giorno, ha moltissimo lavoro”.
Grazie alla protezione del residente, poi console inglese a Venezia, Joseph Smith, che diviene presto il suo principale collezionista e agente esclusivo, Canaletto vende la maggior parte delle sue vedute sul mercato inglese. E sempre su iniziativa di Smith, che intende promuovere l’opera dell’artista su più vasta scala, nel 1735 viene data alle stampe la raccolta di quattordici vedute incise da Antonio Visentini (Prospectus Magnificentissimi Canalis), cui fa seguito al principio degli anni Quaranta la serie incisa con successo dallo stesso Canaletto, Vedute. Altre prese dai Luoghi. Altre ideate, comprendente vedute reali e capricci di fantasia. Risalgono poi al 1744 le tredici sopraporte realizzate per Smith e improntate al genere del capriccio, che in area veneta raggiunge esiti di grande qualità con Marco Ricci; il capriccio accompagna tutta la produzione di Canaletto, muovendo dagli stessi presupposti prospettici e compositivi della veduta.
Tra il 1730 e il 1740, negli anni in cui le vedute veneziane sono richiestissime dai forestieri, Canaletto trova un valido collaboratore nel nipote Bernardo Bellotto. Negli stessi anni Michele Marieschi opera nel campo della veduta, stravolgendone i paradigmi prospettici: a differenza di Canaletto, Marieschi restituisce un’immagine di Venezia distorta, amplificata e fittizia, utilizzando gli artifici della tecnica teatrale che gli vengono dalla sua formazione scenografica.
Nel 1746 Canaletto si trasferisce a Londra per quasi dieci anni, dedicandosi per la prima volta al paesaggio di terraferma e continuando a produrre vedute di Venezia per i suoi collezionisti inglesi. L’anno successivo Bernardo Bellotto viene invitato alla corte di Dresda, in qualità di pittore di corte, presso il principe elettore Federico Augusto; dal 1759, poi, a causa della guerra dei Sette anni, Bellotto passa a Vienna e in seguito a Monaco e a Varsavia.
Durante il lungo soggiorno a Dresda, tra il 1747 e il 1759, Bellotto realizza una serie di vedute che documentano lo sviluppo e la rinascita urbana della città dopo il disastroso incendio del 1685. Calate nella luce densa e fredda del paesaggio nordico, le vedute di Bellotto (che si firma “Canaletto”) riprendono i luoghi monumentali, senza trascurare quelli meno noti; esse mostrano la vocazione paesaggistica dell’artista e il virtuosismo prospettico nei tagli panoramici o ravvicinati uniti al rigore dell’osservazione. Dal 1767 al 1780, dopo brevi soggiorni a Vienna e Monaco, Bellotto trascorre a Varsavia, presso la corte del raffinato sovrano Stanislao Augusto Poniatowski, gli ultimi anni della sua vita, realizzando una perfetta intesa col proprio mecenate.
Sull’esempio delle vedute di Bellotto, concepite quali celebrazioni delle capitali dei regni di Sassonia, d’Austria e di Polonia, il pittore Johann Friedrich Meyer – nativo di Dresda, ma dal 1751 attivo a Potsdam – esegue per Federico II di Prussia una serie di vedute di Potsdam (1771-1775) che illustrano le varie parti della città e della residenza imperiale del castello di Sansouci, documentando in progress gli interventi urbanistici, gli abbellimenti di viali e piazze e la costruzione di nuovi edifici. La fortuna della veduta, consolidatasi nelle corti dell’Europa centrale, raggiunge quindi San Pietroburgo e, durante il regno di Caterina II, contribuisce al diffondersi del nuovo volto urbanistico di stampo europeo della giovane capitale.
Sulla scena artistica veneziana del secondo Settecento, dopo la prematura morte di Marieschi e l’allontanamento di Canaletto e Bellotto, si afferma Francesco Guardi che si avvicina gradualmente alla veduta: dapprima animando con personaggi le prospettive di Marieschi, in seguito derivando i suoi soggetti pittorici direttamente dalle incisioni di Canaletto. Su queste premesse la ricerca di Guardi si sviluppa però in direzione opposta alla visione canalettiana, di cui mette in crisi la solare evidenza e oggettività.
Una Venezia frantumata e priva di consistenza, sfaldata nella luminosità e nella materia atmosferica, è l’immagine data dall’ultimo grande vedutista veneziano, alla vigilia della caduta della Serenissima.
Giuseppe Zocchi e la veduta a Firenze
Il successo delle vedute incise, facilmente accessibili e divulgabili, trova immediato riscontro anche in altre città italiane, sull’onda delle raccolte realizzate da Giuseppe Vasi a Roma e da Carlevarijs e Canaletto a Venezia. Giuseppe Zocchi, pubblicando nel 1744 una fortunata serie di vedute di Firenze (Scelta di XXIV vedute delle principali contrade, piazze, chiese e palazzi della città di Firenze), introduce nella città granducale il gusto settecentesco della veduta topografica. La visione analitica dello Zocchi risale a van Wittel, che aveva lasciato testimonianza di alcune vedute della città di Firenze, mentre sul piano dell’animazione le sue vedute si distinguono per l’attenzione riservata alle figure che conservano ancora qualche caratteristica della “scena di genere”.
Il pittore inglese Thomas Patch, trasferitosi a Firenze nel 1756, si dedica alla veduta rifacendosi direttamente alle incisioni dello Zocchi. Insieme con la produzione di conversation pieces e di caricature, le vedute di Patch incontrano i gusti di una clientela soprattutto britannica, con la quale il pittore viene a contatto nel circolo di Horace Mann, inviato di Sua Maestà britannica presso il Granduca di Toscana.
La veduta a Napoli
Le sensazionali scoperte di Ercolano e Pompei insieme al fascino suscitato dai templi di Paestum, riportati all’attenzione degli eruditi, incrementano a Napoli e in tutto il territorio campano il continuo afflusso di viaggiatori stranieri. Così, al pari di Roma, nella seconda metà del secolo Napoli diviene centro cosmopolita e tappa fondamentale del Grand Tour, alimentando anch’essa un fiorente mercato della veduta.
Sulle fondamentali premesse napoletane di van Wittel si fonda la lucida ricerca del modenese Antonio Joli, approdato a Napoli intorno alla metà del Settecento, dopo una lunga carriera di successi come scenografo tra Venezia, Londra e Madrid. Sviluppando il taglio panoramico, Joli realizza un’ampia rassegna di vedute napoletane e delle città dell’Italia meridionale, soprattutto su richiesta di aristocratici viaggiatori. E proprio le sue vedute dei templi di Paestum (1759), tra le primissime testimonianze di quei luoghi, sono all’origine della loro fortuna iconografica.
La naturale seduzione del paesaggio napoletano si aggiunge quale ulteriore fattore di attrazione turistica: il golfo e il Vesuvio, nelle immagini solari o in eruzione, diventano i motivi portanti dell’iconografia napoletana insieme col repertorio di antichità, disseminato in tutta la regione. Tali soggetti, dunque, oltre a stimolare la varietà della veduta, rappresentano i presupposti per una irripetibile stagione della pittura di paesaggio.