La Venere di Milo e i suoi avatar
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La Venere di Milo, la celeberrima statua conservata al Louvre, consente di ripercorrere le vicende attraverso le quali un tipo figurativo può essere tramandato per secoli, dall’Antichità fino al mondo contemporaneo, diventando un punto di riferimento nella cultura visiva e un’icona dell’immaginario collettivo.
Aprile 1820: sull’isola di Milo, nell’arcipelago delle Cicladi, un contadino in cerca di pietre da costruzione per realizzare una struttura nella propria fattoria, trova, all’interno di una nicchia, una splendida statua in marmo in due pezzi, raffigurante una figura femminile nuda fino ai fianchi, e con le gambe avvolte da un ricco panneggio. Alla scoperta assiste (e forse collabora attivamente) Olivier Voutier, un giovane guardiamarina francese di stanza sull’isola, appassionato di archeologia, che si rende subito conto dell’importanza del rinvenimento e si attiva immediatamente per far sì che la statua possa essere acquistata dalla Francia. I Francesi incontrano qualche difficoltà nell’aggiudicarsi la scultura, ma alla fine l’ambasciatore francese a Costantinopoli, il marchese de Rivière, riesce ad acquistarla per Luigi XVIII per una somma ragguardevole e ad imbarcarla per Parigi, dove giunge nel febbraio 1821.
La statua viene subito destinata al Louvre, museo che sta vivendo un momento ben poco felice. La Francia ha infatti da poco perduto i prestigiosi capolavori di scultura antica sottratti all’Italia con le requisizioni di Napoleone Bonaparte: tra questi, l’Apollo del Belvedere, vero fiore all’occhiello delle collezioni del Musée Napoleon, eletto a simbolo della perfezione dell’arte greca dall’appassionata prosa di Johann Joachim Winckelmann, ma anche la Venere Medici, la statua femminile più nota e ammirata all’epoca, tornata nella Tribuna degli Uffizi a Firenze da cui era stata rimossa dai francesi nel 1803. Nel frattempo il British Museum, che grazie all’iniziativa di Lord Thomas Elgin può vantare la presenza dei marmi del Partenone, preziosi originali greci attribuiti alla mano di Fidia, si va configurando come il principale museo d’Europa; mentre la gara internazionale per l’acquisto delle sculture frontonali del tempio di Atena Aphaia ad Egina si è conclusa con la vittoria di Ludwig di Baviera, che destina le sculture alla Gliptoteca di Monaco, appena realizzata.
La Venere di Milo giunge quindi quanto mai opportuna a Parigi: il rinvenimento sul suolo ellenico e il tipo di marmo in cui è scolpita sembrano garantirne lo status di originale greco, mentre la sua elevata qualità spinge archeologi ed eruditi a proporne l’attribuzione alla scuola di Fidia, quando non allo scalpello di Prassitele. Degna dunque del confronto con i marmi di Egina, ma soprattutto con quelli partenonici; e, come questi ultimi, la Venere non subirà alcun restauro integrativo, anche se tale scelta appare dettata principalmente dall’incertezza circa l’originaria posizione delle braccia e la discussa pertinenza alla statua di una mano che tiene una mela, rinvenuta insieme ad essa. Ma con la Venere è stato trovato anche un plinto frammentario, chiaramente pertinente, che conserva il nome dello scultore che l’ha realizzata: un altrimenti ignoto Agesandro (o Alessandro), originario di Antiochia sul Meandro, città caria fondata non prima del 270 a.C., in un’epoca dunque ormai lontana dall’apice dell’arte greca, che Winckelmann, indiscusso maître à penser per la cultura francese di quest’epoca, aveva fissato nell’epoca di Fidia. Opportunamente, la scomoda iscrizione che impedisce di attribuire la Venere ad uno dei maestri di età classica celebrati nelle fonti letterarie antiche ben presto scompare nel nulla, forse distrutta, forse celata accuratamente negli immensi depositi del Louvre; e così, niente sembra poter più offuscare la prestigiosa aura di originale greco dell’epoca d’oro dell’arte antica che circonda la statua, che gode, fin dal suo arrivo nel museo, di una reputazione eccezionale. Una fama enorme, di cui la Venere continua a godere ancora oggi; anche se, nel frattempo, è decisamente cambiata la sua collocazione nel panorama storico dell’arte greca, soprattutto grazie alla decisa presa di posizione di un grande studioso: Adolf Furtwängler. L’archeologo tedesco ha riconosciuto infatti nella statua non una creazione originale di un artista del IV secolo a.C., bensì un tipico esempio delle tendenze classicistiche e retrospettive che si affermano nell’arte ellenistica tra II e I secolo a.C., e che spingono gli artisti a cercare modelli da imitare e rielaborare nell’arte greca di età classica e tardo-classica. Le sue brillanti osservazioni hanno impresso, dunque, una svolta sostanziale agli studi sulla Venere di Milo.
Traducendolo in un linguaggio stilistico che risente del gusto ellenistico nella generosità e nella morbidezza delle carni e nell’elaborato virtuosismo del panneggio, lo scultore della Venere si richiama ad un tipo statuario in bronzo, attribuibile ad un maestro del IV secolo a.C. (forse Lisippo), del quale sono note più copie e varianti, tra le quali emerge per qualità la bella Afrodite di Capua, rinvenuta nel 1750 nell’anfiteatro romano della città campana. La statua raffigura la dea dell’amore nell’atto di contemplare il proprio corpo seminudo riflesso nello scudo di Ares, il suo amante; in essa è probabilmente da riconoscere la celebre statua di culto del tempio di Afrodite sull’acropoli di Corinto, ricordata da Pausania (Periegesi della Grecia II, 5,1) e da Strabone (Geografia VIII, 6,21). Questo tipo sembra aver esercitato sulla produzione scultorea tardoellenistica e romano-imperiale un’influenza particolarmente feconda e di ampio respiro. Pressappoco nello stesso periodo in cui lo scultore della Venere di Milo ha rielaborato questo tipo iconografico, modificandone la posizione delle braccia e della testa perché palesemente diversa (anche se, come detto, di incerta ricostruzione) è l’attitudine che si intende attribuire alla dea, il medesimo schema formale appare reimpiegato per rappresentare la Vittoria nell’atto di trascrivere su uno scudo le imprese, o le lodi, del vincitore. Il motivo compare su gemme e paste vitree almeno dal II secolo a.C. e risulta destinato ad una notevole fortuna nell’ambito dell’arte ufficiale romana di età imperiale, come dimostra la sua presenza sia sulla Colonna Traiana che su quella di Marco Aurelio.
Ma risale ai primi anni dell’età imperiale la testimonianza più interessante di questa versione di Vittoria: si tratta della splendida statua bronzea di Brescia, in origine probabilmente collocata nel Foro della Brixia romana. È Venere e Vittoria al tempo stesso: in questo esemplare, che originariamente non era provvisto di ali (aggiunte in un secondo momento), il tipo dell’Afrodite di Capua è ripreso con notevole fedeltà, anche se un ricco panneggio le copre il torso, svelando soltanto il seno sinistro; ma il gesto di scrivere sullo scudo la qualifica contemporaneamente e inequivocabilmente come Vittoria.
Già Giulio Cesare aveva suggerito l’identificazione tra la mitica progenitrice della gens Iulia, Venere Genitrice (venerata anche come Venus Victrix, Venere Vincitrice) con la Victoria Caesaris, e il rapporto tra Venere e Vittoria resta particolarmente stretto anche nel corso dell’età augustea; nel linguaggio delle immagini questa identificazione risulta suffragata in modo assai convincente dal richiamo, nell’iconografia della Vittoria, ad un tipo scultoreo (quello appunto rappresentato dall’Afrodite di Capua) non solo assai noto ed apprezzato, ma altresì dotato di una sfumatura semantica in qualche modo “marziale” in virtù della presenza dello scudo (ed è interessante a tal proposito notare che Pausania definisce l’Afrodite di Corinto, hoplismene cioè “armata”). E il medesimo tipo di Afrodite compare, ancora, nel gruppo scultoreo raffigurante Marte e Venere, noto in più copie databili al II secolo, ma probabilmente ideato in età augustea, forse per il tempio di Marte Ultore, fulcro del complesso architettonico del Foro di Augusto. La figura di Marte è fedelmente modellata su un archetipo – da cui deriva anche il celebre Ares Borghese – risalente al V secolo a.C. ed attribuibile ad Alcamene, allievo di Fidia; l’atteggiamento assorto e pensoso che il maestro classico aveva imposto al dio della guerra con la posizione reclinata della testa diventa, in questa composizione eclettica, un gesto di sottomissione al potere di Venere, che lo stringe in un abbraccio. È certo perché la sua posa può facilmente trasformarsi in un abbraccio che l’ideatore del gruppo ha scelto l’Afrodite tipo Capua come modello della propria Venere; ma anche, forse, per la connessione che questo modello ha assunto, nell’arte romana, con l’immagine della Vittoria, elemento che non manca di dare alla composizione una sfumatura romantica, un sapore quasi epigrammatico: omnia vincit Amor, verrebbe da commentare. Una Venere vittoriosa, dunque, che trionfa in virtù della sua bellezza e del piacere sensuale che sa donare; e anche nella stessa Venere di Milo, forse, è riconoscibile una Venus Victrix. Secondo la convincente ipotesi ricostruttiva proposta da Furtwängler per la statua del Louvre, infatti, la dea in origine stringeva nella mano sinistra il pomo della discordia, pegno della sua vittoria nel giudizio di Paride.
Ma anche se la Venere di Milo è solo una derivazione classicistica da un prototipo più antico ed evidentemente assai ammirato, essa riesce a trovare una propria forma di riscatto nella cultura moderna e contemporanea, dove assume il ruolo di icona dell’arte occidentale, simbolo della venerabile perfezione della scultura antica: un’immagine ammirata, imitata e riprodotta con reverenza, ma anche un emblema del classicismo istituzionalizzato, da stravolgere e parodiare. E sono soprattutto le rivisitazioni iconoclaste del XX secolo a mostrare la vitalità del suo mito, la centralità del suo ruolo nella cultura moderna.
Sono per prime le avanguardie artistiche degli inizi del Novecento, il dadaismo e il surrealismo, ad assumere la Venere come bersaglio delle loro provocazioni, in polemica con la tradizione accademica, che impone la statuaria classica come oggetto principale di imitazione e di studio. René Magritte copre di brillanti colori ad olio un calco della statua, sovvertendo il concetto di ideale candore della scultura antica, e dando all’opera un titolo provocatorio (suggerito dal poeta André Breton), Les menottes de cuivre (1931), allusivo alla mutilazione che caratterizza inconfondibilmente la statua. Pochi anni dopo, nel 1936, Salvador Dalí apre sul corpo della Venere una fila di cassetti, in un omaggio alla psicoanalisi freudiana, che ha aperto nell’essere umano i “cassetti” nei quali si cela il subconscio, segnando in tal modo un’incolmabile distanza tra l’uomo antico e l’uomo contemporaneo. La Venere a cassetti è il primo esempio di una vera e propria ossessione che il geniale artista catalano coltiva per la statua del Louvre, e che lo condurrà a stravolgerne l’olimpica serenità del volto nella Venere otorinologica (1960 e 1964), con un orecchio mozzato e appoggiato sopra il naso, ad esasperarne le eleganti proporzioni del collo nella Venere-giraffa (1973), e ancora a rovesciarne violentemente all’indietro il corpo in un parossismo nervoso nella Venere di Milo isterica (1982). La Venere è una figura ricorrente anche nella produzione di Armand Fernandez, detto Arman, che su di essa sperimenta le due direttrici fondamentali della sua poetica, l’incisione chirurgica e l’accumulazione di oggetti: eliche nella Venus cruise (1995), ingranaggi meccanici nella Venus crantée (1996), bobine cinematografiche in Ça tourne (1996), in una continua riflessione sul contrasto tra i simboli della società industriale e l’ideale estetico antico. Un rapporto appassionato con la statua è rivelato anche dalle opere dell’artista statunitense Jim Dine, che la moltiplica e la mutila, come in Looking towards the Avenue, l’opera che riunisce tre grandi repliche acefale in bronzo della Venere di fronte alla sede del Crédit Lyonnais a New York e che esprime l’intento dell’esponente del new dada di dare nuova linfa vitale a un’immagine resa banale dalla sua onnipresenza nell’immaginario collettivo.
Il discorso sulla fortuna della Venere di Milo nella cultura visiva contemporanea potrebbe poi ampliarsi a contemplare il suo ruolo di icona pop e di pietra di paragone della bellezza e della sensualità femminile, esemplarmente rappresentato dalla celebre foto in cui il sex symbol del cinema americano Jayne Mansfield posa per l’obiettivo della fotografa inglese Marilyn Silverstone di fronte alla statua nel Louvre. Un ruolo declinato in mille sfumature, e la cui forza persuasiva e sensualmente allusiva è stata, ed è tuttora, sfruttata nella moda, nel design (basti ricordare lo specchio Milo, ideato nel 1937 dall’architetto torinese Carlo Mollino e prodotto ancora oggi), nella pubblicità (la Venere è, ad esempio, una immagine ricorrente nelle réclames di noti marchi di lingerie), al cinema. E a proposito di cinema, questa necessariamente rapida ed incompleta carrellata sulla fortuna moderna della Venere potrebbe concludersi degnamente con un’immagine di elegante sensualità: la scena del film The Dreamers (2003) di Bernardo Bertolucci in cui la conturbante Isabelle (l’attrice Eva Green) si mostra seminuda, con un ricco panneggio intorno ai fianchi e con due lunghi guanti neri che, sullo sfondo di una tenda nera, la aiutano a rievocare l’apparenza di una mutilazione tanto famosa come quella delle braccia della Venere di Milo.