La vita intellettuale
Sterminata la testimonianza scritta di quella che è la produzione intellettuale della Venezia che vien da qualificare - semplificando - barocca coll'appendice della Venezia che dal barocco prende le distanze timbrabile, alla buona e, forse, troppo alla buona, come rocaille, come rococò. È sin imbarazzante doverne render conto non scorgendo - come è, forse, possibile se si guarda alle arti figurative e alla musica - individualità d'assoluto spicco poggiando sulle quali da un lato è svolgibile una vicenda intellettuale, appunto, dall'altro è possibile non impantanarsi tra le frattaglie del troppo e del vano. E se manca la successione d'ingegni perentoriamente eminenti - non, per carità, che non ci sia il cervello di tutto rispetto (quello d'un Battista Nani lo è senz'altro); la difficoltà, almeno per l'autore di questo contributo, è quella di metter in qualche modo assieme i cervelli sparsi - come selezionare, come distinguere valorizzando? dal momento che, a tutta prima, l'impressione è quella d'una sfrenata incontinenza di scrittura produttrice di testi che s'equivalgono sì che non si sa che salvare e che lasciar perdere. Fermo restando che detta impressione è ben suffragabile e appurando e approfondendo, essa purtuttavia va contrastata altrimenti sospinge al mero riporto paratattico. Sicché questo si risolverebbe in elencazione di autori e titoli piattamente riepilogante quella che, in tal modo, sarebbe una fase di prolungato appiattimento della vita culturale. E, allora, malgrado tutto, perché il riporto sia anche sforzo ricostruttivo occorre procedere anche ricorrendo alla forzatura sin arbitraria sì da introdurre nella paratassi una qualche sintassi. Donde, tanto per cominciare e pur di cominciare, lo stralcio drastico, enunciato dal titolo del paragrafo, del ruolo attivamente elaborativo e propulsivo che palazzo Ducale - la sede fisica del comando e insieme, se si bada all'iconografia quivi profusa, dell'idea che ne ha chi lo detiene, dichiarata (soprattutto nel secondo '500; sicché al '600 resta poco spazio fisico per proseguire nella dichiarazione) allegoricamente e metaforicamente - continua a mantenere. Sicché governa e, insieme, è culturalmente egemone. Ebbene, a chiarimento di quanto, sempre nel titolo del paragrafo, è ellittico, per di s'intende quanto ne esprime il diretto punto di vista. Vale a dire quanto scrivono i membri della classe dirigente e dietro richiesta governativa e con destinazione governativa. Volendo si può dire che, in tal modo, il governo scrive a se stesso. E poiché figura da palazzo Ducale e sulla scena europea e, più ancora, agli occhi dei sudditi, ecco che questo suo campeggiare è valutabile anche in termini d'indotto. Ossia di quell'impressionante mole di panegirici, encomi, inneggiamenti rivolta al governo o a chi lo rappresenta. Uno scrivere, insomma, guardando a palazzo Ducale da parte dei governati desiderosi d'attestare, così, la loro affezione, la loro gratitudine, la loro riverenza.
"Animata", "volante" la penna dei sudditi quando si tratta d'esibire "entusiasmi" all'indirizzo di Venezia e dei suoi rappresentanti. Ogni occasione è buona, si tratti dell'orazione colla quale una città - affidandosi alla bravura d'un qualche locale letterato - s'inchina al doge "nella sua esaltatione" o "creatione" o, più ancora, si tratti di salutare il rettore entrante o, meglio ancora, si tratti d'applaudirlo quando se ne va. E in tal caso la "dignissima reggenza", il "felicissimo regimento" oggetto dei discorsi e dei versi "in lode" non sono solo attesa, come quando il rettore arriva, ma descrivibile certezza acquisita. Certo: quando un podestà o un capitano partono, si dà il "contrasto amichevole di due affetti, amore e dolore". Per fortuna, a tacitare il dolore, lo sostituisce un altro podestà o un altro capitano a loro volta degni, in occasione della "trionfale partenza", del dono della "pietra pretiosa" dell'"oratione panegirica", della gemma d'un mannello di versi dei "poeti" locali all'uopo "risvegliati". Sia "lode eterna e gloria immortale" al rettore che dopo aver bene operato se ne va e alla Serenissima da lui rappresentata. Ribollente l'"affetto" per questa che i "pavani, fedili suggiti della [...] Repubrica", assicura la "poera musa del contain Bottazzo Tombolon". Stando ad un discorso - pronunciato il 31 maggio 1723 da Gianfrancesco Pivati ai Ricovrati patavini - il governo veneto è "perfetto" e pure perpetuo. Così ripetendo - ma forse ignaro di ciò - quanto, ancora nel 1680, ha già detto un altro padovano. Se si bada all'encomiastica declamata e poi stampata nelle città suddite, palazzo Ducale può stare tranquillo. Qualsiasi cosa succeda, tutto va per il meglio. Ciò non toglie che pur dagli omaggi enfiati si può estrarre, volendo, proprio dall'iterazione dei luoghi comuni, una sin spasmodica esigenza di buon governo non senza possibilità di differenziarla a seconda della provenienza dell'oratore. Se questi è un nobile di Terraferma, ecco che il buon governo deve avere riguardi per la nobiltà di Terraferma, la quale, peraltro, se si pensa a un Ciro di Pers, ad un Ermes di Colloredo, ad un Carlo de' Dottori, non è che sia realmente entusiasta di Venezia e colloca altrove le sue aspirazioni o si rinchiude in se stessa. In merito poi agli scritti assicuranti a questa o a quella illustre famiglia del Campidoglio veneto mirabolanti origini romane, ascendenze remotissime e insieme già luminosissime, da questi traspare un atteggiamento clientelare: non è tanto nel buon governo che lo scrivente confida, quanto nell'auspicata protezione della singola influente famiglia lusingata, appunto, con una genealogia appagante la volontà di primeggiare almeno genealogicamente. Laddove l'applauso al rettore entrante ed uscente resta pur sempre indirizzato, al di là della sua persona, a palazzo Ducale - al quale però non arriva l'omaggio se si onorano i rettori con statue; in tal caso è il singolo rettore l'esclusivo omaggiato; tant'è che da palazzo Ducale lo si proibisce e lo si riproibisce -, il panegirismo che vien da dire gentilizio - i Corner, i Querini diventano una gens! - riflette in basso quel che in alto, in sede governativa, sono sintomi di scollamento, un misto di disaffezione alla cosa pubblica, di incipiente disimpegno politico e, insieme, una smania di protagonismo individuale e familiare. Percepibile quest'ultimo - il protagonismo - anche dai monumenti funebri; e si pensi alla celebrazione di se stesso e dei suoi fratelli voluta da Antonio Barbaro pignorando all'uopo l'intera facciata di S. Maria del Giglio (1).
Un monumento a se stesso e pure ai fratelli sicché vivano di luce riflessa il mausoleo erettosi - sua la concezione sinché ancor vivo di come vuol figurare da morto - quello di Barbaro smanioso di campeggiare nella sua eroica grandezza ove c'è spazio sì pei fratelli sottostanti, ma non per la Repubblica alla quale ha dedicata la propria vita e nemmeno per Dio cui ha affidata, in punto di morte, la propria anima. Sì che la facciata della chiesa - ove non fanno capolino parvenze di santi, ove non compare manco la Vergine - è sconsacrata, stravolto com'è l'edificio sacro a marmorea memoria d'una gloria terrena. Quasi intollerante l'eroe della dimensione del servizio che ha improntata la sua vita nel volersi ricordare così a mo' d'eroica solitudine. Ma una Repubblica - anche quella collaudata dai secoli di Venezia - traballa se la classe politica si trasforma in discorde pinacoteca di personaggi ognuno insofferente dell'altro. E, in fin dei conti, il litigare di Barbaro con Badoer o con Morosini all'epoca della guerra di Candia, non è che sia stato di pubblico giovamento. E una Repubblica, nella fattispecie quella di Venezia, regge se, invece, prevalgono lo spirito di servizio, la dedizione, l'adempimento. E, in tal caso, i monumenti diventano patrimonio della Serenissima, esprimono la Serenissima, cui le persone e i personalismi, in certo qual modo, si sacrificano.
E valutabile a mo' di monumento a più mani il puntuale depositarsi delle relazioni, presentate, ad incarico ultimato, dai rettori e dagli ambasciatori (2), sì che si dà, con quelle dei primi, lo Stato veneto visto da palazzo Ducale e con quelle dei secondi il contesto internazionale sempre visto da palazzo Ducale. Come già antecedentemente lo Stato si guarda dentro e guarda fuori. E il fatto che continui a farlo è indice di tenuta, di durata, quanto meno per quel che riguarda il continuato rispetto dell'"istituto" della relazione finale. Da un lato ogni anno il governo dispone del quadro d'assieme della situazione interna e internazionale. Una grandiosa sinossi costruita dal simultaneo contribuire dei tanti rettori sparsi per lo Stato e dei tanti ambasciatori sparsi per l'Europa. Un'inchiesta, un reportage continuo, scritto ogni anno. Ma se le inchieste, se i reportages si dispongono cronologicamente, anno dopo anno, ecco che diventano anche una monumentale storia, che, redatta da tanti servitori della Repubblica, finisce col sembrare scritta dalla Repubblica stessa. Fatto sta che questa richiede la relazione. E che i reduci da un reggimento o da una rappresentanza all'estero la presentino è indice di scrupolosa ottemperanza, di senso di responsabilità. E la responsabile adempienza di ciascuno concorre a creare il collettivo funzionamento dell'"istituto". Il che avviene anche perché non si dubita della sua validità. "Ottimo instituto [così, nel 1627, Niccolò Donà, reduce dalla podesteria di Bergamo] quello della [...] Republica che li suoi rappresentanti al ritorno dalli governi delle città [...] facciano in questo luoco", in senato, ossia "il capo del governo", per iscritto, "in scrittura, una particolare relatione". Così "si raviva alla sapientissima memoria" del governo "il stato delle cose sue", dalla cui "piena informatione" nasce la consapevolezza delle urgenze immediate e degli interventi non indifferibili. È ben dalla "publica notitia" delle "cose occorse" durante il reggimento - insistono i rettori - che s'evince "quello che ricerca al bisogno de sudditi". Ecco, infatti, che, in virtù del flusso informativo fornito dai ragguagli già compendiosi e selettivi dei rettori, il governo ogni anno è aggiornato sulle entrate ed uscite, sulla gestione dei monti di pietà, sul controllo delle acque, sullo scavo dei fossi, sugli argini rinforzati, sui lavori di drenaggio, sui dazi da incantare, sulle pendenze giudiziarie, sulle spese necessarie, sui risparmi possibili, sulle arti fiorenti e in declino, sui bravi, sui vagabondi, sullo "stato della soldatesca", sulle botteghe, sui mercati, sull'aumento dei prezzi, sulle manovre speculative, sui luoghi pii, sugli estimi, sulle tasse, sui sussidi, sulle decime, sugli indulti, sulle gravezze, sui disordini, sugli "eccessi", sulle mura periclitanti, sui lavori in corso, sui "depositi di biave", sulla "fabrica del duomo", sulle liti tra regolari e secolari, tra canonici e vescovo, sull'"intelligenza" o meno, sulla "pace" o meno, sull'"antipatia" o meno tra popolani e cittadini, tra questi, con o senza quelli, e i nobili, sulla litigiosità interna alla nobiltà, sulle borie feudali, sui duelli. Ogni anno si "dispiegano ai maturi riflessi" e alle "proficue considerationi" della "venerata sapientia" governativa "aggravii", "eccessi", adunanze accademiche, contagi, epidemie, "sostentamento" o meno "de poveri", transiti, valichi, navigazione fluviale, criminalità, "descrittione" di "anime", rassegne di cernide, fonteghi, fortezze con "baloardi" e "cortine", panificazione, "foraggi", "costumi", "debiti", residui di cassa, intacchi, tenuta della contabilità, "afflittissima contadinanza", tensioni tra città e territorio pel riparto fiscale, scolatoi, confini, "interessi della camera", calar o meno della "sferza della giustizia" sui "tristi" con "consolatione" o meno "agl'oppressi", "traffichi", "mercantie", circolazione monetaria, "ricchezze di molta consideratione", appellazioni, ricorsi, petizioni, lamentele, suggerimenti, lentezza delle "cause civili", contrabbandi, incette, "ordine della cancellaria". Di questo e di altro ancora - ad esempio del maltempo, della siccità, del rigido inverno - riferiscono i rettori, in genere assicurando che i sudditi sono fedeli alla Repubblica di S. Marco, in genere premettendo che il "maneggio" della "camera" è stato, per loro, "il primo oggetto et principal affar", non senza teorizzare che, appunto, "l'affare più importante e maggiormente meritevole delle pubbliche riflessioni e d'una continuata aplicatione de publici rappresentanti è quello della camera". L'ottica che li anima è quella del "publico interesse", del "publico beneficio", vale a dire il potenziamento dei cespiti d'entrata e la riduzione delle spese. Ma nella misura in cui si tengono presenti i "bisogni dei sudditi", ecco che il rettore, proprio perché pure determinato al "fruttuoso servitio" e mirando quindi all'aumento del gettito erariale, si rivela impari alla quadratura del cerchio. Le bisogne sono tante e tali che è impossibile provvedere senza che le spese non superino le entrate. E non è facile collocare al meglio il dazio del vino, della macina, della muda, delle carni. Se si pretende troppo, l'incanto va deserto. E il fatto che, di relazione in relazione, si prospettino come inderogabili gli stessi interventi, tutti richiedenti spesa, è ben indicativo che palazzo Ducale - per risparmiare sui capitoli di spesa - rinvia, procrastina. In ogni caso - questa l'impressione - sapere di che si soffre, non elimina il soffrire. Resta il fatto che, di anno in anno, le relazioni fanno il punto di ciò che "ricerca al bisogno" dei governati, senza dimenticare, nel contempo, che il cosiddetto "publico interesse" ricerca, a sua volta, di non spendere di più di quanto introita.
Utile "instituto", come s'è visto, quello per cui, al rientro, i rettori puntualizzano la situazione sperimentata. E spesso la relazione è un secco stringato rapporto, alieno da indugi descrittivi. Inutile dilungarsi sul paesaggio, sulle particolarità urbanistico-architettoniche di questo o quel centro. Meglio precisare piuttosto se il monte di pietà è bene amministrato, se il "capitale del fontico" è consistente, se le mura presentano "fori et fissure", se ci sono "scolari bombardieri", quanto risulta dai "rolli di soldadi di cernide ", se c'è stata difficoltà all'"essecutione delle publiche commissioni". Opportuna la precisazione del numero degli abitanti di Belluno; ma non sta al rettore dire che il Piave la lambisce, che è racchiusa tra il verde discendente d'un monte erboso ancora prealpino e l'insorgere roccioso delle prime avvisaglie dolomitiche. Pertinente quantificare gli "scolari" dello Studio pàtavino, accennare al loro comportamento; ma non compete al rettore reduce da Padova profilare il corpo docente, entrare nel merito degli insegnamenti. Circoscritte le relazioni dei rettori, messe a punto, rapporti. Occorre sì saperli scrivere, ma privilegiando la "notitia", stando all'essenziale, senza approfittarne per dimostrare che si sa scrivere bene. Di questo, invece, paiono soprattutto preoccuparsi i diplomatici al loro rientro. Presentano trepidanti la relazione, a redigere la quale impiegano spesso mesi d'attenta e puntigliosa stesura, come momento di qualificante autopresentazione in base alla quale intendono essere giudicati in una sorta d'esame delle loro qualità e capacità. Col che la relazione diventa un pezzo di bravura, una composizione, una monografia, una prova d'autore, un attestato di scrittura, un cimento della "penna", un "historico ritratto". Se i rettori, nel riferire, riconoscono l'utilità della relazione, siffatto riconoscimento, negli ambasciatori, tende ad enfiarsi, ad infiorettarsi, ad infiocchettarsi. Si ha la sensazione l'ambasciatore non tanto sia interessato a ripetere che, colle relazioni - nelle quali i reduci dalla rappresentanza in questa o quella "corte" riferiscono dell'"inclinazione", "affetti", "interessi", lumeggiano "potenza" di Stati, "carattere" di principi, "interessi e passioni" di ministri, entità di "forze ", "vincoli" e "corrispondenza" o meno con Venezia -, si fornisce alla "publica ammirabile saviezza" la "materia" valutativa per "fondatamente avanzare" le più "prudenti deliberazioni", quanto, piuttosto, approfitti dell'occasione per dimostrare come sa svolgere questo concetto ormai scontato. Certo: "l'incombenza di riferire il sistema e gli affari delle corti è un debito di obbedienza imposto da provvida legge". Di per sé dovrebbe bastare così. È saggio il senato che richiede il "lume" d'una "diligente ed esatta osservatione".
Ma, quando gli ambasciatori - lungi dall'accontentarsi di siffatta pacifica constatazione - si dilungano concettosi, vien da dire che la relazione non si limita ad essere un rapporto al governo, una "notitia" al senato; ma che tende, pure, all'esibizione - non sempre felice - e di pensosità e di valentia letteraria. La relazione diventa un genere e questo prevede una sorta d'esordio nel quale il relatore autore loda il genere relazione e prima ancora la "legge" che, attivando la stesura di siffatte composizioni, ne ha appunto determinato il copioso fluire.
"Se le memorie de' passati secoli [così Carlo Ruzzini al rientro da Carlowitz] mostrano quanto sia stata gloriosa la cura dell'augusta patria nel vegliare sopra il destino del mondo procurando con la propria l'altrui libertà nell'equilibrio tra le potenze maggiori d'Europa, è da dirsi che sia fondata sopra la base di ben alti oggetti quella legge che impone l'ubbidienza di riferire il sistema del potere, de' consigli e de gl'interessi de' prencipi a quelli che dalla residenza delle corti ritornano ad inchinare il soglio di Vostra Serenità. Così, col replicato periodo degli impieghi rinnovandosi gli esami, viene con verità a pratticarsi ciò che con idea si disse della bilancia politica di quell'huomo saggio dove ben spesso si soleva pesare o riveder le alterationi ch'in vantaggio o pregiuditio portasse il governo di tutti i stati". Impensabile un brano così combinato nella relazione d'un rettore. E, invece, passi siffatti nelle relazioni dei diplomatici abbondano. E ciò perché queste sono più ambiziose. Più che circoscritto relatore l'ambasciatore si sente storico. Ed ecco che il "render conto" non s'accontenta d'informare, mira alla "penetrazione", all'interpretazione, alla "verità". Questa, ripetono, scimmiottando gli storici, gli ambasciatori, "è l'anima della storia". Ebbene: le relazioni sono, quanto meno, la "fonte" di detta "storica verità". Laddove il rettore, attento a ciò che necessita, richiama l'attenzione - tanto per esemplificare - sull'indilazionabilità del rinforzo delle arginature, sull'"urgentissimo [...] bisogno" del rifacimento di "coronelle et arzeri", aderisce al dato e da questo desume le sue proposte d'intervento senza far appello alla "verità", così non avviene coll'ambasciatore. Evidentemente per quantificare le pendenze processuali di Brescia o i redditi della camera fiscale di Verona, la "verità" non la si menziona, perché la si dà per scontata. Se l'ambasciatore, invece - quasi a mettere le mani avanti -, assicura che alla "verità" condensata nella relazione s'è impegnato con "pontualità" scrupolosa e sin "religiosa", vuol dire che la verità è un cruccio, un problema e che, se c'è, è una conquista. Presente, allora, il rischio di sbagliare, di non capire. Una preoccupazione inavvertibile nei rettori. Forse il rapporto cui sono tenuti è più semplice. E forse nei loro rendiconti finali semplificano. Ma, se così fanno, è anche perché non caricano i rapporti d'ambizioni interpretative; né si chiedono, come fa Battista Nani, nel 1648, al rientro dalla Francia, se la posizione d'assoluta rilevanza di Mazzarino sia un "prodigio del fato" dovuta ad un'improvvisa possente "spinta" della "fortuna" o, invece, va attribuita alla "virtù" del ministro. Basta e avanza l'eloquenza esplicita dei dati. La smania interpretativa, invece, pungola i rendiconti dei diplomatici. D'altronde è interprete chi vuole "arrivare ad intendere bene le intrinseche convenienze di uno stato", scrutare "il genio e gli affetti" dei sovrani, "decifrare gli interessi e le passioni" reconditi, individuare nel labirinto dei "raggiri" e dei "rispetti" le linee di tendenza, esplicitare "i veri oggetti delle massime e delle risoluzioni" della politica dei grandi Stati.
A mo' di "occhi" della Repubblica gli ambasciatori cercano, di volta in volta, di fissare il presente, d'intenderlo. "Canali d'oro" le "legazioni o ambascerie" - e, beninteso, l'"oro" è il flusso della tempestiva informazione - trasmettenti alla "pubblica conoscenza le emergenze di tutte le corti". Ma se delle "emergenze" sin quotidiane parlano i dispacci, sta alla relazione distillarne il significato, estrarne il funzionamento o meno d'una "macchina" statale, stralciarne rilievi personali o sociali, dedurne indicazioni pel futuro prossimo. Se, tanto per dire, l'"amicizia" anglo-olandese, già nata e consolidata sul terreno degli "interessi della religione", si sta, attorno al 1635, vistosamente guastando pei contrastanti "interessi di navigazione e commercio", per la rivalità delle "compagnie mercantili dell'uno e dell'altro stato", il relatore può ben azzardare la previsione che la "discordia" già manifesta è destinata ad esplodere in "aperto segno" di palese "ostilità". Se, nel 1641, la Francia "tiene la maggior parte della cristianità in agitazione", è da pensare che sarà anche in seguito, anche in "futuro" elemento di turbamento. Certo: l'"avvenire" è congetturabile, azzardabile con probabilità d'errore. Regnerà di fatto "lungamente" Mazzarino? c'è da pensare di sì. Sarà "però" per lui "un gran scoglio" l'uscita "di tutela" di Luigi XIV. Un considerare in prospettiva che, se accompagnato dalla consapevolezza degli antecedenti, acuisce la percezione del presente quale processo, quale dinamica. "I parlamenti" francesi - così in una relazione del 1676 - "già eretti come protettori del popolo e nei quali soleva introdursi il re per ricever l'approvazione dei suoi decreti, ora inviano a Sua Maestà il primo presidente per ricevere le commissioni e conservano solo un'inutile formalità". Si converrà: in pochi tratti qui s'evidenzia lo svuotamento d'un istituto. "Parte essenzialissima", invece, precisa una relazione sull'Inghilterra del 1671, del "regno", appunto, inglese "il parlamento" bipartito in "camera alta" e "bassa", se non altro perché - lo sottolinea un'altra relazione di poco successiva -, senza autorizzazione parlamentare il re non può tassare. Il che è di "gran freno" alla sua "autorità", specie in caso di guerra quando da un lato necessitano grosse somme, dall'altro, proprio per questo, la "sovranità" regia si fa sin "precaria", ché più che mai "dipendente" dalla volontà o meno del parlamento d'aderire alle richieste d'"impositioni" e "contributioni". Se, proprio perché si sentono impegnati in una sorta di storiografica fatica, i relatori non si astengono, come, appunto, la storiografia coeva, dal sentenziare, dal massimeggiare (ed ecco che le "rendite" e l'"erario" costituiscono "l'alimento del principato", che "la quiete del regno è la potenza della nazione"), dall'indulgere a genericità (la "potenza [...] sussiste sopra due valide basi, armi ed oro"), dal compiacersi d'aforismi ("l'oro [...] dà il taglio al ferro medesimo"), vien però da constatare che in loro l'intendimento delle situazioni concrete va più addentro di quel che non faccia la storiografia del tempo.
Un comprendere di più che non deriva certo da una qualche riflessione sulla storia ulteriore rispetto a quella di cui la storiografia sia capace. Per tal verso i diplomatici relatori constatano che "il cielo si burla di tutta la prudenza degl'uomini e si risserva la disposizione de' regni". È come dire - sempre che si voglia tirarlo in ballo, sempre che non basti convocare il "destino", il quale è incerto, oppure constatare che la "fortuna" è "volubile", incline com'è a "scherzare" capricciosa "nelle cose del mondo" - che l'ultima parola spetta a Dio. Revocabile, allora, ogni operazione dell'umana "prudenza", nonché ridicolizzabile dall'alto dei cieli. Va da sé che non sta agli ambasciatori rientrati a Venezia ipotizzare in merito ai disegni celesti. Basti ogni tanto ricordare che questi possono vanificare d'un tratto ogni potenza trionfante. Ciò ad ammonimento d'ogni supponenza. Il che non esclude che i relatori e gli storiografi non possano valutare umanamente l'umana scena dei rapporti di forza. E se i primi capiscono di più e, pure, proprio perché capiscono di più, scrivono meglio, lo si deve - se ci è permesso esprimere la nostra opinione in proposito - al fatto che provengono dalle file d'una classe dirigente, che sono membri d'un governo che li ha incaricati di riferire sugli altri governi. Scribacchini affannati a correr dietro al proliferare dei fatti i tanti, troppi scrittori di storie. Attivi all'interno d'un "sistema", quello marciano, gli ambasciatori relatori. E perciò più stringenti e più mordenti, anche perché il "sistema" di cui fanno parte chiede loro - così il Carlo Ruzzini citato poc'anzi - "di riferire", appunto, sul "sistema del potere" dello Stato ove hanno rappresentato la Serenissima. Mentre la storiografia accatasta fatti non senza che la catasta le rovini addosso, le relazioni s'ingegnano d'intenderne la dinamica. E sanno dire meglio degli storiografi che "Colbert [...] primo nella regia grazia e confidenza" detiene "l'universale direzione delle finanze, delle materie marittime e dilatazione del commercio". E sanno pure precisare che, colla pressione fiscale, lo stesso "ha ridotto [così, almeno, un relatore nel 1671] il vero esser dell'annue rendite della corona alla somma rilevante d'ottanta milioni di franchi". Ed un "sistema" è pure caratterizzato dalla "religione". Si può pensare alla Spagna senza associarla al "culto" e alla "devozione", alle "chiese" ricche di "doni preziosi", alle "lampade accese dalla pietà dei fedeli", agli innumeri "chiostri"? Epperò se, spezzando l'involucro dell'apparenza, "penetrando sin nelle midolle" - così un relatore nel 1683 -, si scava per discernere meglio, ecco che l'ostentato "creder" dei "grandi" si rivela quale "mera ipocrisia", ecco che il fervore orante degli "idioti" e del "volgo" s'appalesa quale "superstizione". E nel frattempo "gli ecclesiastici" - ceto parassitario e sin saprofitico accampato in un "sistema" in via di disfacimento - "assorbono grandissime provisioni". Anche per questo la Spagna "geme". Una "tragica scena" quella spagnola a fine '600. E cronaca di disastro annunciato le relazioni sulla Spagna di fine secolo, nel sommarsi delle disfunzioni dell'ormai decrepita "macchina" monarchica e del precipitare delle condizioni di salute di Carlo II. Una diagnosi senza speranza per entrambi quella dei relatori in una scrittura che si fa impietoso referto medico. Trionfante ormai da decenni la rivale Francia. Qui, a detta d'una relazione del 1683, la "prima corte d'Europa", "arbitra" del destino di questa. Un "sistema" funzionante a pieno ritmo. Ma spettacolo inquietante e sconcertante per il relatore proveniente dal ceto ottimatizio lagunare, quello dell'"autorità smisurata" del re Sole attorniato dalla "servile assiduità" della "nobiltà" che, standogli querula "intorno", si fa petulante ncl postulare la grazia di "quegli avanzamenti" che, in cuor suo, ritiene di propria spettanza. E proni dinanzi alla regia maestà pure gli "ecclesiastici", che, non senza "interni rimorsi", alla "corte" obbediscono "ciecamente". Talmente "formidabili" - concordano sempre più i relatori - le "forze" francesi che all'Italia non resta che tremare. E Venezia? in una relazione del 1699 c'è chi si spinge all'accostamento e alla differenziazione non senza un patetico sottinteso di pariteticità. Simultaneo, pressoché - stando ad una relazione antecedente, del 1660, "la monarchia francese" sarebbe "coetanea" della Repubblica, e vanta, comunque, un'età "di più di dodici secoli" -, nel passato ormai lontano, l'affacciarsi alla storia della "nazione francese" e di Venezia. "Azioni illustri" quelle operate da entrambe lungo i secoli "in guerra ed in pace", che si distinguono, però, per vocazione costituendo "le armi [...] il parteggio [...] della Francia" e prevalendo "nei Veneziani gli studii della pace". Proprio alla vigilia dello scoppio della guerra di successione spagnola che sarà brutalmente irriguardosa colla neutralità della pacifica (a meno che non si tratti del Turco) Venezia, ecco che, maldestramente, un relatore tenta di risemantizzare il rilievo, sul piano internazionale, della Serenissima. Rispetto all'invadente bellicosità della Francia questa non è che (come s'illude il relatore) significhi la "pace"; più semplicemente s'adopera per essere lasciata in pace.
Non compete, comunque, ai diplomatici rientranti e riferenti su quel che, rispetto a Venezia, sta fuori, ravvisare il significato o meno della politica della Serenissima. E comprensibile, altresì, che se a questa fanno riferimento, inclinino più a supporla influente - e, allora, la neutralità di fatto si sublima in missione di pace - che a constatarne l'ininfluenza. Un incitamento la supposizione della persistente influenza per l'impegno a redigere una relazione che sia apporto cognitivo, appunto, allo svolgersi di quella. E sin benemerite le illusioni: i relatori che vengono da fuori così confidano i loro testi contribuiscano all'elaborazione della politica estera della Repubblica che un minimo fuori ancora influirebbe. E quanto e come e perché di per sé dovrebbe dirlo la pubblica storiografia, ossia quell'altro "lodevole [...] instituto della Repubblica", in virtù del quale, tramite il succedersi dei patrizi a ciò preposti, "scrivasi la sua istoria e con filo non interrotto compaia al mondo il registro delle" sue gesta "e la regola del suo governo". Ciò nella presunzione la storia di Venezia costituisca un patrimonio per l'umanità intera, che la "regola" ispirante il suo governo possa indirizzare i destini dell'uomo, che l'autoconservazione della Serenissima - tale può essere definito il prolungarsi della sua esistenza a mano a mano si allontanano nel tempo le memorie dei medievali primati e della "reputatione" cinquecentesca - abbia a che fare coll'eticità, continui ad essere un capitolo nella storia dello spirito. Per tal verso, almeno intenzionalmente, la pubblica storiografia dovrebbe far lievitare l'autoconservazione della Repubblica in autoincoronazione continuata a regina dei valori spirituali non senza il plauso delle potenze circostanti. Dovrebbe - sempre nelle intenzioni - proporre, con la sua esposizione auspicabilmente continuata, un continuo insegnamento di cui far tesoro e ad uso interno d'autoedificazione ed esterno d'altrui edificazione. E l'amaro della verità? di per sé tante pagine aspre e inamene delle Istorie veneziane di Nicolò Contarini avevano ben provveduto a distillarlo. Ma s'era preferito non pubblicarle. Sin imbarazzante la verità proposta con "stile [...] libero", ossia senza riguardi, senza compiacenze, senza riverenze dal doge scomparso. E, invece, la pubblica storiografia non può spingersi a tanto. Non deve irritare, non deve urtare. Verità sì, ma senza esagerare, sì che sia compatibile colle opportunità, coi debiti riguardi a sé e agli altri e, quindi, con le dovute cautele, con le dovute prudenze. Se è spigolosa, la si smussi. Se è amara, la si addolcisca. Se è nuda e cruda, la si rivesta.
Urge, comunque, che la pubblica storiografia - visto che le Istorie contariniane sono state archiviate e non stampate - riparta, si rimetta in moto. E non si tratta di scrivere una storia di Venezia, magari dalle origini. A ciò provvedono sin troppi, a titolo individuale e, insieme, con ambizione di meritarsi, così, un minimo di pubblica riconoscenza. Escono infatti: l'Historia [...] di Venetia (Venezia 1637) dalle origini al 1486 di Paolo Morosini, senatore, fratello d'Andrea; i Rerum venetarum libri quatuor (Patavii 1638 e Amstelodami 1644) ancora dall'inizio sino al 1615 del canonico padovano Giovanbattista Vero tradotti, poi, in italiano e pubblicati col titolo di Compendio delle historie venete (Venetia 1655) arricchiti d'un'aggiunta, compilata da Giambattista Birago Avogadro, coi "successi" dal 1628 al 1643, senza che l'edizione italiana intercetti la fortuna che arride all'originale latino ristampato, ampliato in libri sex che arrivano al 1669, a Venezia nel 1678 e a Padova nel 1684 e 1692; Della veneta historia (Venetia 1663-1669) dall'esordio al 1644 del patrizio Giovanbattista Contarini; De' fatti veneti (Venetia 1674, 1686, 1697) dall'origine al 1644 del nobile marciano Francesco Verdizzotti; l'Historia veneta (Venetia 1680-1684), doge per doge, sino al 1683, del patrizio Alessandro Maria Vianoli. Le storie in cui Venezia è protagonista non mancano. Ed è protagonista perché sono sì storie di secoli e secoli, ma pur sempre incentrate su Venezia, e per tal verso monografiche. E con la monografia l'argomento sussiste e consiste. E, invece, dal pubblico storiografo il governo vorrebbe non già il ritaglio monografico, ma una Venezia latamente contestualizzata e, nel contempo, ciò malgrado, eminente: Venezia e l'Europa, insomma, con una sua riconoscibilità, con una sua autorevolezza, con una sua influenza. Il che non è semplice. Il che è estremamente arduo.
Comunque sia l'Historia veneta (Venetiis 1623), dal 1521 al 1615, d'Andrea Morosini va proseguita. Occorre un nuovo pubblico storiografo che - non indisciplinato come Contarini, il quale ha riscritto, partendo dalla fine del '500 e non oltrepassando il 1605, quanto già esposto da Morosini -, appunto, prosegua. E la scelta cade su Battista Nani (1616 -1678), nominato, appunto, pubblico storiografo il 17 marzo 1652. A tempo pieno nonché al livello di più segnalato prestigio e di più alta responsabilità l'impegno pubblico di questi, senz'altro - a partire dagli anni Cinquanta del secolo XVII sino alla scomparsa - la personalità di maggior spicco politico nella Venezia del tempo. "Giove del senato", in questo sin spadroneggia per la forza persuasiva della sua argomentata eloquenza, sì che, nelle discussioni, è la sua opinione a prevalere, a determinare l'esito delle votazioni. "Quello che il Nani vuole, vuole il senato", constata un anonimo patrizio, così sottolineando una supremazia personale da primus inter pares che, non derivando da alcuna titolarità particolare, di fatto si sta svolgendo. "Nissuno l'ha fatto principe, eppure egli è il padrone", commenta l'anonimo. Lo è, vien da aggiungere, perché intellettualmente sovrastante l'opacità del consesso senatorio, perché più capace, perché più all'altezza dei propri compiti, perché più assiduo, perché più responsabile, perché più scrupoloso. Tant'è che - strappando le "ore" al sonno, ché la sua intensa attività nel frattempo prosegue senza che egli si ritagli un periodo di congedo per concentrarsi nella redazione - riesce a portare a termine la sua Historia della repubblica veneta. Esce, infatti, nel 1662, essendo ristampata l'anno dopo, in 12 "libri", la prima parte abbracciante il periodo 1613-1644. E ristampata questa nel 1676, si aggiunge, nel 1679, il tomo colla seconda parte, sempre in 12 "libri", che prolunga l'esposizione dal 1645 al 1671. Quasi 60 anni di storia a narrare i quali l'autore ha "preso per iscorta [così dedicando la prima parte al doge Domenico Contarini] la verità come anima dell'istoria e come debito [...] con Dio e con gli huomini", disponendo di "cuore per dirla" e di "mezzi per discernerla". Padroneggiato appieno l'argomento nella simultanea cognizione delle "occorrenze straniere" e "domestiche" specie laddove si presta a mettere a frutto quell'esperienza diretta che gli ha permesso l'"accesso a' principi", il "negotiar co' ministri", il "discorrere con gli esecutori", nonché la visione di "siti" e "luoghi".
Se alla "verità" si perviene per via d'informazione, senz'altro Nani, nella Venezia del tempo, è il più prossimo a quella. Sofisticando un po' sulla autorevolezza della sua figura politica - Nani è il più autorevole politico lagunare anche perché è il meglio informato o, quanto meno, colui che più avvedutamente adopera l'informazione (ma sempre sulla base d'un supplemento di questa); ed è, nel contempo, il più informato anche perché l'auctoritas di cui gode (la quale coincide col potere personalizzato compatibile colla forma Stato marciana) produce, di per sé, un'informazione ulteriore, privilegiata, sicché, di fatto, Nani dispone di più notizie perché più autorevole -, vien da dedurre da questa la sua autorevolezza storiografica. Politico autorevolissimo, insomma Nani e, quindi e del pari, storico autorevolissimo. All'insegna del prudente cabotaggio dentro le istituzioni l'affermazione del credito di statista, di leader del ceto ottimatizio; e parimenti modulata e sin modellata dalla "prudenza" - la virtù, a Venezia, per antonomasia: "prudenza veneta" sta per governo veneto e viceversa - la "verità" scortante l'esposizione della storia naniana. Una verità, allora, filtrata, appunto, prudentemente, avvedutamente. Una veridicità attenta a quel che dice e a come lo dice. E naturalmente vanno dette solo le cose ritenute importanti. Tutto il resto va lasciato perdere. E Nani lascia allora perdere d'infilare da qualche parte - scrivendo degli anni 1618-1630 - un benché minimo cenno all'"eroica amicizia" di Nicolò Barbarigo e Marco Trevisan (3) non senza che quest'ultimo - ossia l'amico eroe e/o l'eroe amico superstite - se ne sdegni protestando con un opuscolo intitolato, appunto, Giusto risentimento per l'omissione toccante il proprio interesse. In tal caso Nani, a suo asserire, in fatto di verità, dotato del "cuore" per "dirla", è anche dotato di senno per tacerla. D'altra parte la storiografia ufficiale, proprio perché selezionatrice dei memorabilia, non può registrare tutto. Scarta e, scartando, condanna all'oblio. Comprensibile Trevisan - che ha trascorso il grosso dell'esistenza annaffiando la memoria dell'"eroica amicizia" - strepiti, senza, peraltro, che occorra all'autorevole Nani sfoderare gran coraggio per non curarsi dei suoi petulanti lai.
Ma ha realmente Nani il coraggio della verità? Lo vanta nella dedica, ma non è che poi ce l'abbia. Beninteso: non che sia pavido, servizievole con qualcuno, protervo con qualcun altro, che menta, che falsifichi. Tutto sommato lo si può dire, allora, veridico. Ma non coraggiosamente, non polemicamente, non crudamente. Questo è il caso - isolato e pressoché unico nella pubblica storiografia - di Nicolò Contarini. Quanto a Nani - la cui Historia non a caso viene pubblicata senza difficoltà -, non già il "cuore" è la sua precipua qualità, quanto la consapevolezza dell'opportunità. Verità sì, ma sino ad un certo punto. E, allora, non lo "stile libero" addebitato come un eccesso a Contarini, ma l'accorta esposizione. Politico navigato, navigatissimo Nani, aggregante e disaggregante voti in senato per far passare o non far passare una delibera. È ovvio che tanta scienza di navigazione, per dir così, senatoria adoperata in mattinata l'accompagni a casa ove veglia nottetempo per portare avanti la sua storica esposizione e gli faccia da scorta lungo questa assieme alla "verità" indicata nella dedica come propria unica guida nel viaggio progrediente attraverso gli anni dell'Historia. E, allora, l'autentica "anima" di questa non è tanto la pur evocata e convocata "verità", quanto la calibratura del tasso di verità compatibile colla veste ufficiosa se non ufficiale d'una esposizione che mira a risultare gradita al governo - e quindi, pure, all'autore che del governo è membro e che sulla politica governativa esercita un'influenza di gran lunga eccedente le cariche di volta in volta ricoperte - non dispiacendo, nel contempo, agli altri governi. Una verità, insomma che non sia offensiva. C'è, tanto per esemplificare, il 25 maggio del 1630, l'ignominia di Valeggio. Contarini in proposito avrebbe sin infierito, avrebbe denunciata l'ignavia e l'incompetenza dei vertici, la viltà dei sottoposti. E, senza ipotizzare quel che avrebbe scritto Contarini, basta riesumare quel che ha scritto il poeta Busenello: i "venezianazzi" non osano "mostrar al nemigo un poco el viso", gli voltano la schiena, marciano come i "gamberi" all'indietro, anzi scappano a gambe levate. E quel che fugge per primo, che più corre fuggendo è colui che li comanda, Zaccaria Sagredo, il provveditor generale in Terraferma. Ebbene, ecco che, nell'Historia naniana, l'onta s'edulcora in "infelice successo" peraltro riassorbito, "niente vacillando la costanza del governo e la fedeltà dei popoli". Quanto a Sagredo, gli "fu dato per successore" Francesco Erizzo. Vien da pensare al bicchiere riempito a metà: si può dirlo mezzo vuoto oppure mezzo pieno. Per Nani è sempre mezzo pieno, quasi pieno. Valeggio è sintomo d'una debolezza strutturale dell'apparato militare in terra di Venezia. In quel torno di tempo il generale imperiale Collalto assicura che, se gli sarà data via libera, con appena 2.000 armati, s'impadronirà di Venezia. E vien da credergli. Nani, invece, minimizza e passa oltre. E che il governo sia saldo e i sudditi fedeli può essere magari vero; solo che a forza di ripeterlo diventa una formula buona per tutte le circostanze. Ma non è che Nani, invece, constati l'incapacità di Venezia di soccorrere Mantova: eppure, aveva sottolineata l'opportunità della fissazione a Valeggio del campo veneto.
Trattasi - così Nani - di "luogo che, coprendo Verona e Peschiera, si rendeva opportunissimo per la propria difesa e comodo per inviare a Mantova soccorsi". Ma se Venezia è la protettrice di Mantova, ritirando le truppe da Valeggio a Peschiera e Verona, rinuncia a soccorrerla. In sostanza Valeggio è la sconfitta di quest'ambizione. Ma la "verità" eletta a propria scorta da Nani si fa reticente ed evanescente, s'appanna, scivola via. Quella contariniana, invece, sferza, flagella. Ma con Contarini la classe dirigente arriva all'autoflagellazione, alla severa autocritica. Con Nani fa marcia indietro. Si sbarazza di Contarini e ritorna a Morosini. Così può di nuovo consolarsi.
Pure Nani è convinto, come già Morosini, dell'assoluta positività di quel che Venezia rappresenta nella storia. È nata alla "religione", alla "pietà", alla "libertà", alla "giustizia". Se poi non mancano gli episodi ingloriosi, ecco che scatta una sorta d'autoindulgenza, d'autoassoluzione governative nello storico, appunto, governativo, il quale talvolta - ed è, appunto, quel che avviene col suo minimizzare Valeggio - preferisce stendere, per patriottica pietas, un velo di pietà. Ma non è che per questo vada redarguito. Se ha profuso tante energie per ultimare l'Historia è, anche, perché sia stampata. Proprio perché uomo di governo sa quali sono le soglie di tolleranza di questo. Sicché si premura di non oltrepassarle. Ma è una cautela convinta: quelle soglie sono anche sue. Resta il più intelligente e il più colto dei senatori, ma pur sempre dentro a quel che è la communis opinio di sé e del mondo senatoria, non ulteriore. In altre parole con lui quell'opinio si esprime col massimo d'intelligenza interpretativa e col massimo d'eloquenza - eloquenti, infatti, le frequenti concioni cui Nani ricorre così lumeggiando le discussioni del pregadi -, ma senza per questo uscire da sé per via d'autoscavalcamento, senza mettersi in discussione. Ciò mentre la storia sta oggettivamente emarginando Venezia. Sicché si dà una situazione sin paradossale: da un lato una Repubblica aristocratica che affida al pubblico storiografo la valorizzazione del proprio ruolo a fini d'autoedificazione e d'automotivazione governative e insieme d'autopropaganda sempre governativa; dall'altro una storia generale che sin prescinde da quel che Venezia vuol significare e che, comunque, non ascolta la sua sempre più fievole voce. Vox clamantis in deserto, per tal verso, Venezia!
Eppure il primo tomo dell'Historia naniana, quello che va dal 1613 al 1644, proprio di questo deve trattare, dal momento che l'autore allarga la sua considerazione all'intera Europa attento ai "più celebri casi", alla "mutatione di stati", alle "grandi battaglie", ai "fatti famosi ancorché ingiusti", ai "memorabili assedii", alle "tante stragi di popoli", alle "calamità di provincie" anche lontane. E la storia generale, la storia europea sono talmente presenti che il titolo, nella versione inglese di detto primo tomo che esce a Londra nel 1673, diventa The history of the affairs of Europe in this present age but more particularly of the Republic of Venice. Oggettivamente più il quadro s'allarga più Venezia rimpicciolisce. Quel che di lei si può dire è che ha "cura dell'interna politia del suo stato", essendo nel contempo sollecita della "libertà d'Italia". Neutrale, la Francia e la Spagna la corteggiano "con allettamenti e promesse" perché si schieri dalla loro parte, per condurla "ne' loro sentimenti" sì da "concambiare" quella che è la sua peculiarità di "mediatione" super partes "in adherenza o all'una o all'altra". Fermo però il senato e "uniforme" nel "non cambiare", nel non discostarsi dalla linea della neutralità. Donde lo sforzo d'"aggiustare" a questa le "risposte" alle pressioni d'"amendue le corone" perché s'impegni al loro fianco, da un lato evitando d'allearsi, dall'altro abbondando con entrambe in "eshortatione alla pace". Un'oasi, per Nani, Venezia di "viver libero, civile e felice", specie se gli anni sono "tranquilli". Di per sé attesta il "ben della pace", di per sé il suo "consiglio", il suo "zelo ", il suo "esempio" sono volti alla "quiete", sono "incombenze applicate alla pace". Ma "il secolo" è "di ferro e di sangue". E il "mondo" è "agitato", squassato da "due furie", ossia l'"interesse de' principi" e l'"ambitione de' loro ministri", che - non domate dalla "giustitia", dalla "ragione humana", dalla "legge divina" - imperversano latrici di "guerra". E questa è "un mostro che, di strane e contrarie parti composto, di mali e disordini suole nutrirsi". E, a causa delle guerre, ogni anno assume un "torbido aspetto", diventa "funesto" nonché "famoso" per le "calamità", i lutti, le rovine, gli orrori, le atrocità. "Dio volesse", sospira Nani, che, anziché "nominare" le due furie, allo storico fosse dato di raccontare d'un mondo in pace operosa, giusto, ragionevole, devoto a Dio e di sé rispettoso. È come dire che il mondo, purtroppo, non guarda all'"esempio" di Venezia e non ne ascolta il "consiglio". E, allora, impazza devastante la bellica tempesta. E, allora, vicino a Venezia, c'è il Mantovano ridotto ad "horrido campo dove la posterità contemplerà per gran pezzo le marche", i segni "più atroci della barbarie". Una barbarie non anonima, ma cesarea. Se s'è scatenata a tal punto è anche perché Venezia non ha saputo fronteggiarla. Ma questo Nani non lo dice. Nani, ripetiamo, non è Contarini. Nell'enfatizzare la pacifica Venezia, sorvola sul fatto che - per lo meno durante l'assedio imperiale di Mantova - s'è rivelata imbelle. E il "cuore" di dirlo, d'ammetterlo francamente Nani non ce l'ha. È il poeta Busenello ad affermare non essere "nostro", di noi Veneziani, "pasto el guerreggiar". Il che vale per la guerra terrestre, non per quella in mare contro il Turco.
Ed oggetto questa del secondo tomo, quello che dal 1645 si spinge sino al 1671, dell'Historia naniana, nel quale, appunto, il "molesto", ossia doloroso, "racconto delle domestiche calamità", vale a dire della "guerra atroce" cui Venezia è costretta, è di gran lunga prevalente sul "divertimento", sul volgersi dell'esposizione ai "fatti stranieri". Col che la pubblica storiografia scivola dalla storia generale segnata da Venezia supposta come possibile alla monografia, questa sì fattibile, incentrata su Venezia. Né la circoscrizione dell'argomento deriva dall'ammissione consapevole dell'impossibilità di coniugare storia europea e storia veneziana, ché quello - l'argomento principale, ossia la venticinquennale resistenza veneta all'aggressione ottomana - è supposto (e non a torto; pure Voltaire accennerà, relativamente al finale del conflitto, all'attenzione di "tutti i principi cristiani") di rilevanza europea. Ed è colpa della cristianità se Venezia sostanzialmente combatte da sola - troppo micragnosi e tardivi gli aiuti -, mentre la S. Sede non sa mobilitare quella, la cristianità, perché, deposte le discordie, soccorra unita la Serenissima che, eroica nella sua solitudine, sta combattendo una battaglia di civiltà che dovrebbe essere fatta propria da tutte le potenze cristiane. Morire, allora, per Candia? Dapprima sembra così debba essere. Ma poi, col tempo, ecco che si fa strada, nei dibattiti senatori, l'eventualità d'una Venezia che continua a vivere anche senza Candia. E così, ponendo fine ad un'emorragia di risorse umane e finanziarie che, alla lunga, rischia di dissanguarla. Che poi Candia sia proprio l'irrinunciabile baluardo della cristianità, della civiltà, della spiritualità, dell'onore è un modo di dire adoperato sinché si spera nella costituzione d'un qualche allargato concorso alla guerra. Su Candia può benissimo sventolare la mezzaluna: non è che per questo caschi il mondo cristiano; e Venezia poi può cominciare a restaurarsi di tanto dispendio umano e di danaro. Per battere il Turco occorrerebbero "popoli cristiani fedeli a Dio" e "principi" determinati a lottare "concordi". Il che non è stato. Ma, allora, Venezia brilla come fulgido esempio di generosità combattiva. Né la resa colla cessione dell'isola va considerata una sconfitta e per le modalità più che onorevoli del ritiro e per l'"aggiustamento" che segue della ridefinizione confinaria in Dalmazia, trattato, non senza vantaggio della Serenissima, dallo stesso Nani col bassà di Bosnia. E così, nel 1671, vien "posto l'ultimo sigillo alla pace" veneto-turca. E la pace, anche se con la Porta, resta pur sempre un valore prezioso.
Certo che - nell'abbondanza d'interventi storiografici sulla guerra di Candia: e per gli inizi valgono i Frammenti historici (Bologna 1647) di Sertonaco Anticano (ossia Antonio Santacroce così anagrammato) autore pure dei Frammenti [...] della guerra in Dalmatia (Venetia 1649) nonché la monografia, sempre "sulle guerre di Dalmatia" dall'avvio delle ostilità alla presa di Clissa, di Alessandro Vernino (Venetia 1648) ad esaltazione del "generalato" di Leonardo Foscolo, mentre per la fase dell'assedio della capitale del Regno c'è l'illustrazione dell'operato del marchese Giron Francesco Villa da parte di Giambattista Rostagno (Torino 1668) e, in francese, di Joseph Du Cros (Lyon 1669 e Paris 1669) e Frannois Savinien d'Alquié (Amsterdam 1671), il quale ultimo si rifà a Du Cros, il cui testo esce, tradotto in italiano, pure a Venezia nel 1670 - vari hanno preceduto Nani nell'informare sull'andamento delle operazioni militari. E in proposito sono di lui più diffusi Girolamo Brusoni con l'Historia dell'ultima guerra tra' Venetiani e Turchi nella quale si contengono i successi delle passate guerre nei regni di Candia e Dalmazia dal 1644 al 1671 (Venetia 1673 e, di nuovo, Bologna 1676) e Andrea Valier con l'Historia della guerra di Candia dal 1644 al 1669 (Venezia 1679), il primo inveente contro i "cretensi", colpevoli d'aver addirittura invitato il nemico allo sbarco e poi d'aver costituito una vera e propria quinta colonna sabotatrice e connivente col Turco durante la resistenza veneziana. Schiumante livore contro la popolazione indigena del Regno candiota lo storico polesano. E pure Valier - un patrizio marciano già distintosi per coraggio durante la guerra nella quale ha occupato posti di responsabilità - non si nasconde che la popolazione locale, una volta comparsi i nemici, non s'è certo prodigata per "ributtarli". Solo che - anziché inveire come Brusoni - si chiede il perché d'un comportamento quanto meno inerte e passivo. E una risposta la trova: lungi dall'abbattere l'oppressione feudale il regime veneto a Candia l'ha rafforzata, ha permesso l'accentuazione dello sfruttamento da parte delle "persone più autorevoli", dei "principali", dei feudatari sulla contadinanza, ridotta in "schiavitù". Non c'è, allora, da stupirsi, se nella disperazione d'una condizione di vita sin disumana, i villici abbrutiti abbiano sin sperato nel Turco. Non liberati, sotto la Serenissima, dai loro "insoffribili trattamenti", non fa "meraviglia" - visto che peggio di così non possono stare - se non hanno combattuto pel vessillo di S. Marco; in fin dei conti, durante la guerra, hanno sperato "di migliorar condizione" colla vittoria della mezzaluna, di stare meno peggio "sotto a quei barbari" inturbantati. Si converrà: c'è un di più di comprensione in Valier, membro della classe dirigente marciana, irriscontrabile nell'acrimonia del suddito Brusoni. E una classe dirigente merita di rimanere tale se intende di più. E sinché intellettuali come Brusoni l'omaggiano, ecco che, in mancanza di critiche dal basso, deve autocriticarsi. E gli spunti autocritici provengono dall'appuramento effettivo delle condizioni di vita dei sudditi. Certo: quelle dei villici candioti non depongono a favore dell'amministrazione veneta. E quello turco sarà l'Impero del male; però, nel 1694, un militare al servizio di Venezia riscontrerà il "regno" di Morea "ripieno di sudditi mal affetti", con "la meza luna nel cuore". E se in Valier l'eventualità di star meno peggio sotto il Turco è una speranza di sudditi disperati, questa disaffezione per Venezia in Morea accompagnata da nostalgia per il dominio ottomano è ancor più imbarazzante. Non si tratta di speranza mal riposta. Deriva dal confronto tra il nuovo regime, quello veneziano, e il vecchio, quello ottomano. Risulta dalla sperimentazione d'entrambi. E il presente - l'insediamento veneziano - vien valutato coi freschi ricordi d'un passato recentissimo.
Ad ogni modo il pubblico storiografo Nani non si chiede cos'abbiano "nel cuore" gli abitanti di Candia. Osserva, invece, che l'isola, nel bel "mezzo" del "dominio" turco, è "pungente spina", e fisicamente per la sua configurazione e allegoricamente, "nel cuore degli Ottomani", i quali se la tolgono scatenando una guerra che, "minacciando tutti", ferisce Venezia. Donde la portata, appunto, europea del suo resistere da sola ad una minaccia che riguarda "tutti", in un conflitto che "sarà sempre famoso per la forza degli uni", i Turchi, "e per la costanza degli altri", nonché "memorabile" pel suo protrarsi nel tempo, "per isforzo d'armi" e per "atrocità". Uno scontro sanguinosissimo parallelamente al quale si dà il trapasso, vissuto in tutto il suo svolgersi dal Nani politico, della classe politica marciana dall'imprescindibilità del "regno" candiota ai fini dell'immagine stessa della Serenissima all'accettazione della perdita come non lesiva, per quanto mutilante, di detta immagine. Mentre si combatte in terra e in mare, insomma, a palazzo Ducale il governo, già fierissimo nel rifiutare l'eventualità della perdita, s'acconcia, a mano a mano che questa si preannuncia, ad un'elaborazione anticipata del lutto sicché la Serenissima, anche se orbata del suo "regno" e quindi un po' meno "regina", resti pur sempre in posizione eretta e agli occhi propri e a quelli altrui. Un travaglio anche d'immagine sofferto in prima persona da Nani in sede politica e poi da lui riecheggiato in sede storiografica. Ed è forse questo l'aspetto più interessante della seconda parte della sua Historia, utilizzabile anche a mo' di testimonianza di quel che pensa la classe dirigente marciana e in genere e in particolare. Di questa Nani è l'esponente più intelligente; ma non perché si spinga ad un concepire dislocato oltre e/o altrove, ma perché - come abbiamo già sottolineato - il più capace di dire in senato e di scrivere e nelle relazioni al rientro dall'estero e nell'Historia quel che anche gli altri grandi (per mezzi e casata) patrizi vorrebbero saper dire e saper scrivere, mentre non è che dal patriziato minore - politicamente depotenziato e sin ridotto a funzione clientelare per quel tanto che l'aristocrazia repubblicana si fa oligarchia - emerga, al di là dei mugugni, un pensiero oppositivo. Antologizzabile, allora, a nostro avviso, l'Historia di Nani a mo' di lucida espressione dell'atteggiamento della sua classe d'appartenenza, a mo' di formulazione di quelli che sono i suoi criteri di giudizio, a mo' di compendio delle sue aperture e delle sue chiusure.
E l'antologia è evincibile anche dalla seconda parte, specie laddove Nani, momentaneamente distogliendo lo sguardo dalle "attioni della patria [...] a fronte dell'ottomana vasta potenza" - così il nipote Antonio dedicando il torno al doge Alvise Contarini -, s'occupa degli altri. In fin dei conti è parlando degli altri che più si dice di sé. Se, ad esempio, Nani ritiene "biasimevole" la venalità, in Francia, delle cariche - un "abuso" a suo tempo "introdotto" per e pur di "trarne danari" - è anche perché i "danni sono patiti dal popolo" e "senza rimedio". Da un lato s'intuisce il compiacimento di chi fa parte d'un governo ove gli uffici non sono venali e attento a che il "popolo" non subisca "danni". In Francia s'attuerà sì il "vigor del comando regio", come Nani riscontra già nel primo tomo della sua opera, però la ben ordinata Repubblica è più sollecita del benessere dei sudditi. Ma è altrettanto indicativo quel "senza rimedio"; è sottinteso che non sta ai sudditi rimediare dal basso. In sostanza il "popolo" non ha, per Nani, voce in capitolo e non deve averla. Ciò nello Stato marciano. E ciò ovunque e comunque. Buono o cattivo che sia un governo, Nani non ammette che l'autocorrezione. Screditate le richieste della plebe non dall'infantilismo dei contenuti, ma dal fatto che da lei provengono. Sicché non si sa da Nani se proponga qualcosa il moto palermitano del 1647. Basti informare che si agita la "plebe più vile", fatta anche di "delinquenti" evasi dal carcere e che il caporione è Giuseppe Alessi, "uno dei più abietti" tra i tumultuanti. Peggio ancora, a Napoli, Masaniello. "Lacero e seminudo" non è che un "vilissimo huomo d'Amalfi" "agitato di mente", dalle "vigilie" farneticanti e "dal vino ridotto a delirio" sì da essere, nel suo sproloquiare da avvinazzato, "insopportabile" persino ai "suoi". E Gennaro Annese, che è "huomo di profession militare"? neanche costui è attendibile essendo "d'abietti natali". Nani ha ben sagomato, ancora nel 1648, al ritorno dalla Francia un Mazzarino avido nell'"ammassare tesori", proteso all'accumulo di inaudite ricchezze "sordo ai gridi e alle miserie del volgo". Sembra quasi che, per Nani, al "volgo" sia lecito piangere la propria miseria e, magari, urlare di dolore, supplicare, sin gridando, pietà. Ma inconcepibile l'urlo di ribellione, il grido di rivolta. Membro d'una nobiltà che s'è riserbata il monopolio della politica, Nani quasi paventa che l'insidia al re legittimo possa essere esempio contagioso anche pei sudditi della repubblicana Venezia. Se altrove ci si ribella al re per diritto divino, può avvenire che in terra veneta si protesti contro palazzo Ducale. Non ammettere la ribellione fuori, nel senso che la si condanna, che la si depreca, sembra funga da rito d'esorcizzazione apotropaica a che lo spettro non s'aggiri anche per le terre venete. Ma, se così è, il regicidio è il più orrendo dei crimini. E, in effetti, per Nani, "non vide mai l'Europa più tragico caso di quello di Carlo primo" re d'Inghilterra, che - giudicato, "per istigatione" di Cromwell, da un collegio composto da "alcuni vilissimi huomini" quasi fosse "il più abietto del popolo" - viene, appunto, "per sentenza de' suoi sudditi", avviato al patibolo, "decapitato su'l palco". Oltre a tanto orrore la storia non può andare. E il Turco? nemmeno nell'Impero del male s'è arrivati a tanto. "Se da' turchi [così Nani perché sia chiaro che la decapitazione di Carlo I costituisce il delitto più atroce che la storia conosca e che l'immaginazione stessa possa formulare] Ebrain era stato ucciso", non per questo tale delitto è accostabile a quello. Resta sì un "barbaro esempio", ma pur sempre al di qua del culmine dell'orrore toccato in Inghilterra, ché - spiega Nani - il sultano "era stato ucciso con empito militare", dalla furia d'armigeri tumultuanti e non per agghiacciante sentenza di morte. E, mentre in Inghilterra, col re s'uccide anche la monarchia, in Turchia, almeno, "i sollevati" non "abrogarono la successione alla casa" né "rapirono la corona agli heredi".
Da Venezia, per fortuna al riparo dagli orrori della storia, Nani guarda con raccapriccio all'affermazione, per lui demoniaca, di Oliviero Cromwell, l'istigatore, il mandante d'un'esecuzione la più inaudita nella vicenda umana, quella che oltrepassa ogni fantasia delittuosa. Statista d'una Venezia che, in quanto "regime", s'allinea colle "corone", Nani si sente solidale coi poteri legittimi, colle dinastie. La ben regolata Repubblica, di cui è pubblico storiografo, vorrebbe un mondo ignaro di sollevazioni e rivoluzioni. Visto che l'Europa non sa stare in pace, visto che, in proposito, cadono a vuoto gli inviti a quella di palazzo Ducale, che almeno le guerre siano regolari, tra eserciti regi, tra sovrani. A lume di logica - quella suggerita dalle convenienze - al governo veneto, che confina col Milanese spagnolo, non dovrebbe spiacere se a Napoli e a Palermo si formano confusi cortei con improvvisati capipopolo in testa, se la Catalogna insorge. Così la Spagna s'indebolisce. Sembra, invece, che di fronte a ciò che suona come disordine - si tratti dei puritani inglesi ribelli alla corona, si tratti della rivoltosa Catalogna; altra cosa lo stacco del Portogallo ché, col riavvio della dinastia regia, la vicenda separatista rientra nell'alveo, appunto, dell'ordine - e il governo e il pubblico storiografo Nani non sappiano che condannare, quasi l'insidia del disordine - ossia il terremoto nel gioco, che si vuole fisso, delle parti, per cui i governanti decidono e i governati ubbidiscono -, se ammessa fuori, finisca col ritorcersi dentro. E se ci si identifica colle ragioni dell'ordine, dell'intangibilità della divisione dei ruoli, ecco che anche per lo storico ufficiale della repubblicana Venezia vige il delitto di lesa maestà. Eppure sarebbe ben conveniente per la Serenissima se qualcuno in Francia un minimo intralciasse il "vigor" tremendo dell'istituto monarchico. Governo mite, sin contrattante anziché disponente, quello ottimatizio se paragonato coll'imperiosità del re Sole. Epperò, nel suo fuoco di sbarramento ideologico ad ogni accenno di trasgressione che fuori si manifesti, pronto ad irrigidirsi vituperante, quasi ad attestare, coll'esibizione della ripulsa, che, all'interno dello Stato veneto, indizi di disordine non saranno tollerati. E, poiché il governo veneto continua a supporsi come bene ordinata Repubblica, ecco che il disordine - ossia la protesta dal basso e la disobbedienza accennante ad una qualche parvenza d'autoorganizzazione - si configura come delitto di lesa maestà. Comunque la Repubblica è talmente ben regolata che in terra veneta di per sé il disordine non sussiste. Se un governo, nella fattispecie quello veneto, si presume buon governo, del disordine mancano i presupposti logici. Temibili, al più, i maleintenzionati che si introducono da fuori carichi di germi patogeni. Che la forma Stato marciana garantisca competenza sollecita di governanti e "felicità" di sudditi al governo grati è presunzione dura a morire. E ne deriva l'idea che Venezia goda del privilegio d'una sorta d'immunità rispetto alle malattie altrove presenti e ingravescenti. Epperò ci sono malattie che a Venezia addirittura impazzano. Quella, ad esempio, del lusso smodato. Nani non può negarlo. Solo che più che indicare l'attivarsi delle leggi suntuarie opportunamente escogitate dal buon governo, si preoccupa - di contro all'evidenza: è chiaro che, lungo i secoli, il lusso esprime il tenor di vita opulento di chi, a Venezia, è ostentatamente ricco o intende tale apparire; è chiaro che a Venezia il lusso è endogeno e, in più, con effetti irradianti sì da suscitare imitazioni fuori - d'asserire che il morbo viene da fuori. Attecchisce sì a Venezia, ma è esogeno, è importato. Il troppo lusso, insegna Nani, è "nemico introdotto in Venetia, tanto peggiore, quanto più trascurato". È un "dolce veleno" che intossica i "più incorrotti costumi". Vento a tutta prima carezzevole è, invece, un "mortifero fiato che uccide l'innocenza degli animi e snerva il vigor delle leggi". Incolpevole, però, Venezia e incolpevole la stessa Italia. Dimentico di quanto questa, da Firenze e da Venezia soprattutto, abbia sin svolto un magistero in tal senso, Nani propina la versione a dir della quale, una volta "aperto il seno", alla fine del '400, "alle nationi straniere", siano, con queste, penetrate inquinanti le "altrui corruttele". E contagiata da queste persino Venezia, benché "custodita d'ottime leggi". Sicché anch'essa conosce "la vanità ne' vestiti", la futilità della moda, la mania dell'apparenza. S'infebbra, catoneggia Nani, la "nobiltà" lagunare. E, "coll'esempio dilatata", l'epidemia si diffonde "nel popolo". Ed ecco allora "violata [...] l'antica parsimonia", ecco indebolita la stessa "autorità delle leggi". Sempre più frequentata Venezia da "forestieri", riscontra Nani, sicché ne assorbe "vitii", ne recepisce "morbi". Sin cieco a questo punto Nani di fronte al vistoso boom turistico di cui si sta avvantaggiando la Venezia del protratto carnevale, delle locande, delle cortigiane, dei ritrovi. Sembra quasi vi piombino a frotte i viziosi per corromperla e non già che sia essa ad attirare i cacciatori di piaceri con un allargato, appunto, ventaglio di piaceri. Quasi anticipo del "rustego" goldoniano Nani da pubblico storiografo scade ad un brontolio malmostoso. Se la prende colle nobildonne che, dando il cattivo esempio, vestono all'"uso dell'oltramontane". Un cruccio per Nani la "mutatione degli habiti": è foriera di "gran cambiamento" in fatto di "costumi". Nani non lo dice, ma par di capire, quel che più lo ferisce è che, col vestire all'ultima moda, non si distinguono più le nobildonne dalle mogli d'agiati borghesi e - quel che è peggio -, nel competere in lussuosa eleganza, magari capita siano quelle a correr dietro a queste. Ed è grave, altresì, che - anche questo par di capire dal non detto che sottende il malumore di Nani - magari brillino per aggiornata eleganza le cortigiane più avvenenti e remunerate, non senza effetto di trascinamento, in fatto di vestiario, e sulle gentildonne e sulle consorti dei cittadini più facoltosi. E il vestire di quelle e queste, se non come le altre - le cortigiane -, con qualche concessione all'esibire di quelle, è già una macchia per la loro specchiata virtù. Biasimevole, altresì, che in tutto questo sfoggio d'abiti e gioie, non si capisca più la fascia sociale d'appartenenza di quelle che gareggiano, appunto, sfoggiando. È una confusione sconcertante per lo storico ufficiale della Repubblica. E forse se la prende tanto a cuore perché avverte che più che tanto colla moda e col lusso le proibizioni della legge non arginano. Forse percepisce nei "costumi" fatti propri anche dalla nobiltà una crisi, anzitutto tra le pareti domestiche, del principio d'autorità. Forse paventa che gli stessi senatori che in senato lo ascoltano consenzienti, quando tornano a casa in veste di padri e in veste di mariti non sanno farsi ascoltare. E, se così è, allora poco cale che egli sia "Giove" nel consesso senatorio, se la saviezza senatoria non inalvea i costumi d'una Venezia sempre più godereccia. Già è doloroso constatare quanto poco badi il mondo a quel che a palazzo Ducale si pensa (e vien da assolutizzare quel che scriverà Voltaire a proposito dell'impossibilità di resistere oltre a Candia: "il senato di Venezia, impotente quanto saggio"); ma forse per l'autorevolissimo Nani è del pari doloroso sentirsi impotente nell'accelerato mutare dei "costumi". E vien da supporre che, a monte della legge, del 24 luglio 1677, che proibisce ai nobili d'indossare, sotto la veste, indumenti colorati di nuova invenzione ci sia anche l'indignazione disapprovante di Nani. E, nell'indignazione, forse anche dello smarrimento: che succederà quando toccherà a quelli che ora stanno per entrare nella politica di governare? sarà la nuova generazione, in cui abbondano gli zerbinotti vanesi, capace di tenere alto il tono della vita politica? e, poi, avrà ancora voglia di far politica? certo che patrizi che si mettono la parrucca - è stato il conte Scipione Vinciguerra di Collalto ad introdurne l'uso alla fine del 1668; e c'è stato un bel proibirlo senza che per questo non sia egualmente dilagato - sembrano più smaniosi d'aver qualcosa sulla testa che in testa. E, se così è, sotto la parrucca niente.
Morto Nani il 6 novembre 1678, a Venezia che lo piange egli lascia un'Historia di cui il governo può menar vanto. E, nel contempo, affrettandosi a nominare, il 19 dicembre, il successore del pubblico storiografo appena scomparso, ecco questi determinato a far proseguire "il filo delle cose correnti" nell'esposizione affidata a Michele Foscarini (1632-1692). Già amante in gioventù della frequentazione dei letterati, già assiduo tra gli Incogniti - e di queste sue propensioni giovanili restano a testimonianza un paio di novelle e qualche verso -, questi s'è poi distinto nella vita politica. Al suo attivo la buona prova di sé fornita nel governatorato di Corfù, seguito dalla carica di savio di Terraferma e del consiglio, nonché i calibrati e ornati interventi in sede di discussione, tra i quali spicca l'argomentata difesa di Francesco Morosini attaccato da Antonio Corner per la resa di Candia. Ottemperante al "pubblico comando", rifacendosi al 1669 - quando "con gloria benché con esito sfortunato" finisce la venticinquennale "generosa resistenza" della Serenissima "al più potente monarca del mondo" - Foscarini porta avanti l'esposizione sino al 1690. Sicché la sua Historia della repubblica veneta, esce - sia pura postuma e sia pure senza quell'ultima revisione formale cui, forse, l'autore avrebbe provveduto - nel 1696, essendo ristampata nel 1699, in un tomo composto di 8 "libri". Giuste le attese riposte dal governo nella pubblica storiografia, pure in Foscarini, come già in Nani, s'affiancano "cose esterne" e "cose domestiche". E caratterizzate quelle da "vittorie" e "conquiste" d'un re Sole potente e prepotente. Un sollievo, comunque, la pace di Nimega che dona "qualche riposo alla cristianità". Ma un incubo, per questa, l'assedio turco di Vienna, per fortuna ricacciato. E, nella rimonta offensiva, la costituzione della Sacra Lega e, in questa, la riscossa marinara della Serenissima, col conseguente collocarsi in Levante del "filo principale" dell'Historia foscariniana, ovviamente registrante i successi delle armi venete. Ma, memore di quel che è stato il suo effettivo atteggiamento nei confronti dell'affondo marittimo della Serenissima finché era oggetto di discussione, Foscarini non s'appiattisce nella indiscriminata celebrazione. Fosse stato per lui l'impegno bellico si sarebbe più concentrato in Dalmazia che proiettato oltre. Fosse stato per lui non si sarebbero sommati - con vistosa deroga dalla necessaria distinzione tra il civile e il militare -, in Francesco Morosini, corno dogale e bastone di comando, né si sarebbe preteso di venezianizzare d'un tratto la Morea. Già propenso, come politico, ad una linea di prudenza, risultata minoritaria rispetto all'entusiasmo baldanzoso prevalso in sede decisionale, non è che la "penna" di Foscarini, a mano a mano che procede nel "racconto delle cose di guerra", non sia trattenuta dalle riserve di fondo a suo tempo espresse dall'autore quando si trattava di decidere. Sicché l'esposizione non s'abbandona all'euforia; ed è sottesa di tacita apprensione. Vittorioso - come assicurano i racconti entusiasti dei "fatti", delle "imprese", "vittorie ed acquisti" di Morosini, il quale, giusto il titolo di Racconto historico della veneta guerra in levante diretta dal valore del serenissimo principe [...] capitano generale (Venetia 1691) d'Alessandro Locatelli, impersona la Serenissima trionfante - il ruggente leone marciano sulla mezzaluna. Ma sino a che punto? sta ben vincendo e vieppiù sulla stessa l'Impero. Ma se questo si rafforza troppo ad Oriente, è ben prevedibile un oggettivo indebolimento di Venezia anche nei confronti di Vienna. Foscarini s'è ben soffermato antecedentemente sul negato transito, nel 1675, per l'Adriatico alle navi che - stando alla richiesta - avrebbero dovuto portare da Trieste alla Sicilia aggredita dai Francesi i soccorsi imperiali. Concedere - così Foscarini - "il passaggio per il Golfo a militia armata" sarebbe stato lesivo della giurisdizione adriatica. Ciò in linea di principio. Ma Foscarini sa pure quanto abbia pesato sulla riaffermazione di detto principio l'intervento sin minaccioso in tal senso dell'ambasciatore francese. In sostanza l'apparente fermezza del rifiuto camuffa come la Serenissima tema di più, quell'anno, nel 1675, Luigi XIV della Spagna sia pure appoggiata dall'Impero. Non che Foscarini appalesi detto timore. Però l'ha sperimentato. È supponibile, allora, che, nel constatare l'arretramento ottomano nell'incalzare delle armi cesaree, ne deduca che l'Impero rafforzato sarà ben più in grado di premere e di ricattare e di minacciare in fatto di giurisdizione adriatica. E che farà, allora, Venezia, quando avrà di che temere e dalla Francia e dall'Impero? come se la caverà quando il cipiglio cesareo si farà terribile come quello del re Sole? sarà possibile ancora alla pubblica storiografia considerare l'Adriatico nella colonna delle "cose domestiche" o sarà, rispetto a quella separata delle "cose esterne", da inserirne una intermedia dedicata alle "cose domestiche" maneggiate dall'esterno? Con sua soddisfazione, comunque, non mancano a Foscarini "cose domestiche" e domesticamente risolte, o, per lo meno, decise di cui trattare. Sicché non s'affacciano condizionamenti se, nell'agosto del 1672, vien deciso l'escavo generale della laguna. E se i lavori mirati a sconfiggere le rotte dell'Adige velocizzandone il corso "al mare" non portano gran risultati, non è che Foscarini eviti di sottolinearlo e chiaramente. Una libertà di giudizio che però s'arresta quando si tratta di riferire sulla correzione del consiglio dei X del 1677. Una "mutatione senza confusione e senza tumulto", che vale a "insigne testimonio di perfetto governo". Criticabili, pel pubblico storiografo, singoli provvedimenti, singole decisioni, ma non la forma Stato marciana. Questa resta perfetta e, quindi, intangibile cornice di quel che è il monopolio patrizio dell'esercizio di governo. Immutabile, per tal verso, la costituzione repubblicana quale formalizzazione definitiva di detto monopolio. Ammissibili, invece, i ritocchi, suggeriti da esigenze di funzionamento, all'interno dell'edificio costituzionale. Fermo restando che il governo è esclusivamente aristocratico, ecco che il governo può distribuire e ridistribuire, allargare e restringere compiti e funzioni dei vari organi. Un governo - nella fattispecie quello veneto - è un meccanismo dispositivo: governa i suddditi e, insieme, governa se stesso colla manutenzione, suscettibile di rettifiche, innovazioni, sostituzioni, aggiunte, appunto dei modi e dei contenuti del meccanismo. E in questo l'organo ristretto e, perciò, più rapido e tempestivo del consiglio dei X da un lato si fa apprezzare per la sua capacità di pronto intervento, dall'altro si fa sospetto pel suo piglio decisionale autonomo, quasi punto di forza oligarchico nel quadro d'una partecipazione alla vita politica di per sé prerogativa dell'intero patriziato lagunare. Un'élite, di contro, i X e per di più non provenienti, di fatto, da tutta l'aristocrazia, ma designati all'interno della fascia più influente e abbiente di questa. Tutti eguali, in linea di principio i patrizi. Ma più eguali quelli il cui accesso al consiglio dei X è privilegio particolare. Donde le tensioni che quest'organo crea nella propensione dei pochi ad usarlo nella sua più lata accezione e nell'apprensione dei molti che si sentono esclusi. Ed è ben perché la tensione non si fa lacerante che Foscarini saluta con gioia il suo felice riassorbimento nella modifica del "decreto" di regolazione del 1677, la quale - si compiace senza tema di smentita - "pur anco", quando sta stendendo l'Historia, "senza alteratione dura".
Orgoglioso, par di capire, Foscarini d'una correzione da intendersi come definitiva, non richiedente altri mutamenti. Non auspicabili questi in generale e in particolare. Altrove - ma non, per fortuna, almeno sinora, a Venezia - la "mutatione" è figlia della "confusione" e del "tumulto" e madre d'ulteriori "confusione" e "tumulto ". Quel che Foscarini riscontra e auspica pel consiglio dei X - una durata inalterabile - corrisponde, in fin dei conti, al modo d'essere, per lo meno nelle intenzioni, di Venezia sulla scena internazionale lungo il '600: un'entità che dura serbando i propri tratti di Repubblica aristocratica ispirata dalla virtù della "prudenza". E alla pubblica storiografia il compito di far risaltare su d'uno sfondo europeo la costante presenza della Serenissima non a mo' di residuato in via di deperimento ma, appunto, quale duratura vitalità d'uno Stato che rimane se stesso, che ribadisce la propria fisionomia, che non muta pelle. E usbergo nell'autoconservazione la neutralità che, estranea ai conflitti, è richiamo ai valori comuni della civiltà europea e cristiana, laddove, nella lotta antiturca, Venezia detti valori impersonerebbe dapprima come fiero propugnacolo di resistenza e poi come punta avanzata di vincente offensiva. Non cronaca d'una sopravvivenza in via d'avvizzimento, allora, la pubblica storiografia, non sommatoria di perdite di posizione - altrimenti dovrebbe registrare lo smantellamento, "per mancanza di negotio", nel 1675 del consolato d'Aleppo e, di lì ad un paio d'anni, di quello d'Alessandria -, la pubblica storiografia, ma esposizione suffragante, veridicamente o, almeno, non mendacemente, verosimilmente, o per lo meno, non inverosimilmente, una continuità d'esistenza carica di significato e per sé e per l'Occidente. Constatabile che Venezia sta durando. Ma il significato positivo di questa durata va esplicitato storiograficamente durante, appunto, il durare della Serenissima. Continuato l'esercizio del governo; sia, quindi, del pari continuatamente, ripreso storiograficamente da un membro del governo stesso all'uopo designato. Vestale vegliante della fiamma e/o fiammella, da tener sempre accesa, del significato la pubblica storiografia, titolare della produzione di senso (ma non come ricerca dubbiosa, magari approdante al risultato che il senso proprio non c'è, bensì come svolgimento d'un senso dato per sicuro in partenza; il senso illustrato, insomma, non conquistato) storiograficamente confezionato, quasi al governo la prassi, appunto, di governo non basti, ma abbisogni del conforto d'una giustificazione nobilitante. Ed è la pubblica storiografia quella che dovrebbe a ciò provvedere. Tant'è che - con una puntualità tempestiva di nomina antecedentemente, nel '500 e nella prima metà del '600, irriscontrabile -, morto un pubblico storiografo, subito se ne fa un altro. Designato, lo s'è visto, Foscarini a poco più d'un mese dalla scomparsa di Nani. E, morto quello il 31 maggio 1692, già il 10 giugno viene nominato storiografo pubblico l'autorevole senatore Pietro Garzoni (1645-1735), il cui ruolo si rafforza nella misura in cui il consiglio dei X proibisce la stampa di storie della Repubblica prive della propria preventiva licenza. Sembra quasi la classe dirigente, come monopolizza la gestione dello Stato, intenda monopolizzare la facoltà di raccontare di detta gestione. L'attività di governo - lungo i secoli automemorizzatosi per via d'ordinata archiviazione - s'attesta così nella diretta confezione, tramite un membro del governo dal governo prescelto, dell'immagine che di detta attività deve circolare. La storiografia come autobiografia governativa, insomma, e, insieme, come autoedificazione e autopropaganda; affidata sì la stesura ad una sola "penna", ma purché questa si faccia carico d'un'esposizione nella quale la Repubblica si riconosca non senza - finché è possibile - compiacersi di come è fatta e di quel che ha appena fatto.
Solerte e capace Garzoni s'accinge con lena sistematica all'adempimento del compito assegnatogli sì da abbracciare, dopo il rapido riepilogo degli anni 1664-1682, con la sua Istoria della repubblica di Venezia, il periodo che va dal 1683 al 1714. E ciò in due tomi, in due parti, entrambi in 16 "libri". Il primo, pubblicato nel 1705 e ristampato nel 1707, 1712, 1720, arriva al 1700 trattando, quindi, come dichiara il titolo del "tempo della lega sacra contro Maometto IV e tre suoi sucessori gran sultani", lungo il quale la Serenissima è in armi "contro il nemico del nome cristiano". Il secondo, stampato nel 1716 e, di nuovo, nel 1717 e nel 1719, prosegue, sino alla conclusione della "guerra per la successione delle Spagne", sconvolgente con "lacrimevoli turbolenze" la vita dell'"Europa cristiana". E in entrambi i "fatti" appurati investigando nell'"erario" dei depositi archivistici esposti colla "gravità di stile" confacente alla storia, la quale - "giudice del tempo andato e maestra dell'avvenire" - pretende "decoro". E a questo concorre la "purità di lingua", intesa da Garzoni quale adozione della "favella migliore", ossia ricorso esclusivo alle sole "parole" ammesse dalla "Crusca". Un unico criterio, dunque, per due storie diverse: in una, quella del primo volume, Venezia è aggressiva, con trofeo di "vittorie", è espansiva, "con dilatazion"; nell'altra, quella del secondo volume, Venezia è in se stessa racchiusa per schivare, col "maneggio" diplomatico, la tempesta d'un conflitto rispetto al quale è ufficialmente neutrale. Ma che vuol dire neutralità se entrambi i contendenti usano il territorio veneto? a questo punto la "pubblica libertà" è sottoposta "all'arbitrio de' stranieri", come si constata in senato. Per fortuna Venezia è "separata" dalla Terraferma. E "l'offesa" della presenza di truppe cesaree e franco-ispane concerne questa. Cinta dal mare, che per lei funge da "mura", almeno qui la neutralità "violata" dovrebbe essere rispettata. E non manca, in effetti, in senato - al quale più che mai sembra ora, nel primissimo '700, attagliarsi la volterriana qualifica di "impotente quanto saggio" col commento aggiuntivo che la politica coincide colla gestione dell'impotenza chi, accettando la manomissione del territorio, l'esclude perentorio pel dominio del Golfo, costitutivo della libertà e dignità di Venezia. "Venezia continuerà perpetuamente ad essere libera, quanto libero sarà il suo Golfo". Così il senatore Pietro Valier in un intervento riportato da Garzoni. Ma, allora, "lasciare in balia d'altrui il Golfo e aprirlo a' legni da guerra forestieri" è "dar loro la podestà di Venezia". Almeno su questo punto - stando al perorare di Valier - la Repubblica dovrebbe non transigere. E, invece, transige. E, nel transigere, sopravvive, sino a che, finalmente, la guerra si sposta altrove. Così il senato può tirare un sospiro di sollievo, sinanco compiacendosi non solo per lo scampato pericolo, ma per aver, lungo questo, continuato a sventolare la sbrindellata e smandrappata bandiera della neutralità. E, ora, col trasmigrare delle armi altrove, la neutralità, già vilipesa ed irrisa, può ricomporsi, raggiustarsi, darsi un contegno e incedere contegnosa. Anche Venezia riconosce a Carlo d'Asburgo il titolo di re di Spagna. E a Utrecht è presente a rappresentarla Carlo Ruzzini, un abile suo diplomatico che ottiene sia menzionata in un "articolo" del "trattato". Solo che Garzoni, nel cui secondo tomo abbondano i riporti del dibattito senatorio finché la guerra è in casa - sia in terra che in mare; una strana guerra, di cui la neutrale Venezia è spettatrice coatta e, insieme, attenta a non manifestare propensioni per le sorti dello spettacolo -, stenta, nella misura in cui riferisce del prosieguo, per fortuna lungi da Venezia, del conflitto, a dire qualcosa di Venezia che vada in là del constatarla fuori pericolo. Proprio perché anche storia della guerra di successione spagnola, se il teatro delle operazioni s'allontana, a mano a mano Venezia rimpicciolisce. Non, beninteso, che, colle operazioni militari dappresso, sia meno piccola, anzi. Solo che, focalizzando l'attenzione sugli interventi in senato - e qui "i più" fanno prevalere la "pazienza" della sopportazione senza reazione sui pochi che un minimo di reazione la vorrebbero chi propugnando la cacciata degli invasori e chi schierandosi con uno dei due -, il senato diventa protagonista se non altro per la paziente "prudenza" con cui subisce la guerra senza inimicarsi i contendenti, riguardoso con entrambi.
Un pazientare, dunque, in attesa - giuste le istruzioni senatorie del 1704 al provveditore generale in Terraferma - che i "generali forestieri" ripiglino "la marcia", proseguano, transitino e non tornino più. E finché non se ne vanno e purché se ne vadano pazienza e prudenza, prudenza e pazienza. Una situazione di consapevole impotenza, prossima al panico evincibile anche dalle pagine della seconda parte garzoniana, nella misura in cui la tornita eloquenza dei senatori non occulta i timori e i tremori d'una classe politica da questi sin - e vien da dire giustamente - paralizzata.
E buon per lei se - laddove, come riassume Garzoni, "tutta l'offesa" della presenza armata straniera si svolge "a danno della Repubblica neutrale", la quale, proprio perché subisce detto "danno", chiede il risarcimento, appunto, dei danni subiti dai territori occupati -, nel montaggio citatorio degli interventi in pregadi di questa seconda parte dell'Istoria garzoniana, la paralisi si nobilita ad avveduto temporeggiamento. Sicché il senato può indossare panni da consesso romano, può atteggiarsi a Fabio il temporeggiatore. E, poi, passata la tempesta, può ben rispecchiarsi nell'Istoria di Garzoni, il cui secondo tomo, racconta - così ne sintetizza l'esposizione, nel 1718, il "Giornale de' Letterati d'Italia" - come, per "tutto il corso" della guerra di successione spagnola, la Repubblica mantenne "una costante neutralità, per cui avendo più eserciti ne' suoi stati, fece godere un fermo riposo a' suoi popoli". Non è che, nel tinteggiare di rosa, ci si chieda se la neutralità non debba, invece, essere rispettata, non comporti l'inaccessibilità del proprio territorio alle truppe dei contendenti. E i "popoli" dove i "tedeschi" e i "francesi" si sono acquartierati, dove sono passati, tanto in "riposo" non sono stati, stando alle lamentele per le devastazioni loro inflitte, agli elenchi dei danni, ai relativi conteggi ai fini del risarcimento. Neutrale sì Venezia, ma pure tremebonda. E al punto tale da aver paura, nel 1704, anche di certi passi del manoscritto del primo tomo dell'Istoria presentato da Garzoni. Lo leggono attenti i riformatori dello Studio di Padova. E si spaventano laddove questi sottolinea la "poca fede de' principi". E trovano imprudente che Garzoni definisca "fuga" il precipitoso abbandono di Vienna di Leopoldo I all'avvicinarsi della mezzaluna. È vero: l'imperatore è proprio scappato. Ma non si può scriverlo. Soprattutto non si può stamparlo in una storia ufficiosa proprio quando ci sono, in terra veneta, le truppe cesaree. Non è proprio il caso d'irritare Vienna. Anzi è meglio non irritare nessuno: e, allora, vanno pure eliminate le espressioni "troppo forti" nei confronti della S. Sede d'una "renga" pronunciata in senato di cui Garzoni fa menzione. Un criterio - questo del non irritare e quindi del tacere e del sorvolare - che, come vale per l'esterno, così va adottato per l'interno. E, quindi, via quanto, nel primo tomo dell'Istoria, può suscitare ricordi sgradevoli, può urtare suscettibilità. Se c'è qualche gloriosa impresa, perché sminuirla con qualche "nota d'avidità" nel saccheggio? E, infine, sempre a giudizio dei riformatori dello Studio patavino, di cattivo gusto ogni accenno da parte del pubblico storiografo, di sia pure larvale critica alla "nostra aristocratia", al sistema di governo, al governo. E lo scrutinio dei riformatori è fatto proprio dal consiglio dei X il cui permesso di stampa, del 18 maggio 1705, impone a Garzoni di attenuare, smussare, ritoccare. Al che egli - sia pure brontolando - s'acconcia. E - evidentemente memore delle obiezioni fatte alla prima parte dell'Istoria - redige la seconda con tanta avvertenza per cui la neutralità calpestata incede, ciò malgrado, dignitosa e "costante".
Appagante, così, il secondo tomo garzoniano per la classe dirigente e, pure, storiograficamente attendibile nella misura in cui il lieto fine - quello che vede Carlo Ruzzini plenipotenziario a Utrecht con conseguente inclusione di Venezia nel trattato - riscatta gli anni antecedenti. Visto che il racconto finisce con l'alone del credito internazionale, non è poi del tutto indebito addobbare la neutralità spregiata e oltraggiata colle vesti d'una lungimiranza vecchia di secoli che riesce a fendere le difficoltà dei tempi. Non è che il pubblico storiografo debba preoccuparsi di fornire particolari dimostrazioni di acume. In certi casi è più opportuno adagiarsi sulle ovvietà più condivisibili. In fin dei conti tutto è bene quel che finisce bene, come assicura il proverbiare. È, però, come dire che tutto è male quel che finisce male. E, allora, la storia che inizia alla fine del 1714 coll'arresto del bailo e la dichiarazione di guerra della Porta, che prosegue nel 1715 colla rapida, tra il giugno e l'ottobre, conquista turca della Morea, la cui perdita viene sancita dal trattato di Passarowitz del 21 luglio 1718, non è gran che esaltante. È una brutta storia, riottosa ad ogni sforzo di ritocco risemantizzante in positivo: inizia malamente, prosegue malamente, si conclude malamente.
E Garzoni - pubblico storiografo in carica; ed è carica a vita - dovrebbe scriverla. Dovrebbe, allora, raccontare della "perdita rapida ed infelice del nobilissimo regno di Morea". Solo che non se la sente. Che "gloria", si chiede, potrebbe derivarne alla Serenissima? certo nessuna. E come potrebbe egli "sperare" nel pubblico "aggradimento" presentando una storia dalla quale non sia desumibile alcunché che possa essere di pubblico vanto? Ed è a questo punto che Garzoni desiste, decide d'arrestarsi, di "non continuar l'impresa". Ferma, pertanto, al 1714 la sua Istoria, e ferma, con questa, la stessa pubblica storiografia. E ciò non per responsabilità di Garzoni, ma del governo che non gli ha facilitato il compito assicurandolo che si sarebbe accontentato d'un'esposizione veridica senza pretendere il di più della "gloria" e garantendolo, nel contempo, che, in ogni caso, la sua fatica sarebbe stata ritenuta benemerita, meritevole di pubblici riconoscimenti.
Pignorata dal patriziato, colla pubblica storiografia, la titolarità della storia della Repubblica. Ma se quella - la pubblica storiografia -, colla rinuncia di Garzoni a proseguire, è giunta al capolinea, ecco che l'esposizione è assunta da non patrizi attenti a non ferire la suscettibilità del governo patrizio e, semmai, a fornirgli motivo di qualche consolazione. Tutt'altro che disastrosa la pace di Passarowitz stando all'Istorica relazione (Padova 1719) dedicata al doge Giovanni Corner dal segretario del senato Vendramino Bianchi nonché presente alle trattative di detta pace quale segretario del plenipotenziario Carlo Ruzzini. Certo: chi più s'avvantaggia è l'Impero, ma qualche vantaggio c'è pure per Venezia. E se la pace conclusiva è raccontabile non solo in termini di perdita, ma anche di conferma di conquiste, ma anche di recupero, è pure raccontabile, senza disdoro per la Serenissima, la guerra. Sarà Girolamo Ferrari a fornire Delle notizie storiche della lega tra [...] Carlo VI e [...] Venezia contra [...] Acmet III e de' loro fatti d'armi dall'anno 1714 sino alla pace [...] che escono a Venezia nel 1723 essendovi ristampate nel 1736. Che, però, a ciò non provveda Garzoni resta indicativo: col suo silenzio è l'"istituto" stesso della pubblica storiografia ad ammutolire d'un tratto. Tessuta da Nani, da Foscarini, dallo stesso Garzoni la "tela maestra" del "registro" dei fatti nel quale siano soprattutto visibili le "azioni" della Repubblica supposta capace di tradurre l'intima bontà del proprio sistema di governo in coerente linea politica. Sicché se alla storiografia compete fissare i fatti e indicarne la lezione, all'"instituto" della pubblica storiografia dovrebbe competere individuare una sorta di lezione marciana lungo i fatti e sin ai fatti. Tant'è che, nel secondo tomo di Garzoni, il dato - di per sé sconfortante - dell'occupazione straniera s'alleggerisce una volta percepito tramite quel che se ne dice nei dibattiti senatori. Che fare? Niente, ossia attendere che il maltempo sposti altrove la grandine, che torni il sereno. Però quest'attendismo impotente - e, sia chiaro, più che giustificato non suona più tale se trasformato in lungimirante strategia suffragata colla citazione pertinente d'illustri antecedenti desunti dalla storia antica. E ben "consilio" e "patientia" che Roma ha doppiato le difficoltà. E ben temporeggiando che s'è salvata. E così il panico che paralizza ogni cenno di reazione assume - nella versione del pubblico storiografo - i tratti della dignitosa prudenza. Non pauroso, allora, il senato, ma "cunctator". Col che la pubblica storiografia tocca il culmine della sua capacità di manipolazione. Ma dopo di che è anche stremata dallo sforzo. È l'"instituto" stesso della pubblica storiografia, non solo Garzoni, a non aver più fiato per procedere nella tessitura della "tela maestra". Come sistemare in questa la resa senza combattere di Egina o di Malvasia? che dire della caduta, dopo soli 9 giorni d'assedio, della pur munitissima Nauplia? nell'esasperato divaricarsi tra l'andamento dei fatti e la coscienza che si vorrebbe averne (se si pretende un'esposizione confortante, ai fini dell'autostima e dell'autopropaganda, questa non può limitarsi a raccontare quel che è accaduto; "carico religioso" quello dell'"istorico", a detta di Garzoni, ché si tratta "d'alzare il simulacro della verità"; ma come comportarsi, in sede di stesura, quando la verità è amara?), nell'impossibilità di far combaciare quello colla posizione storicamente eretta cui il governo non rinuncia, è 1'"instituto" stesso ad incepparsi, non solo il pubblico storiografo. L'afasia è d'entrambi. E il governo finge di non accorgersene, traccheggia. Attende che muoia - il 24 febbraio 1735 - sotto il peso degli anni Garzoni, per eleggere, il 5 marzo, a suo successore il quarantenne Marco Foscarini.
Continuata, dunque, da Nani sin qui la copertura del posto di pubblico storiografo, col quale il governo in certo qual modo si fa cattedratico d'esposizione e riflessione storiche a vasto raggio, mentre le stesse relazioni più impegnate degli ambasciatori sono valutabili a mo' di correlato intervento d'una sorta di saggismo monografico pur esso all'insegna dell'intendimento storico del presente. Che la storia sia maestra di vita è persuasione anche della classe di governo marciana, che dal passato remoto e prossimo venga una lezione utile ai governanti è convinzione detta e ridetta a palazzo Ducale.
Ma in questo non ci si limita all'apprezzamento delle conoscenze storiche. Qui - e ciò distingue la classe dirigente marciana - la cultura storica trapassa a storiografia militante. Se la storia ammaestra, ebbene a palazzo Ducale si pratica l'autodidassi. E il governo che scrive le storie da cui apprendere. Se le scrive e se le legge dunque. La storiografia come espressione di governo, allora, come compito di governo, come sua pertinenza, come sua specialità, come sua prerogativa, come articolazione del comando, come dilatazione del dominio. È la più nobile tra le discipline, la più degna dei governanti. Un governo è tale anche perché si scrive da sé la propria storia. Anche così comanda. E può, altresì, nell'automemorizzarsi, ingrandire un po' la propria statura internazionale o, per lo meno, non rimpicciolirla come tendono a fare e i fatti e le storie di questi con Venezia non simpatizzanti oppure, più semplicemente, non preoccupate dalle sue esigenze di visibile protagonismo. Ma recuperabile la sensazione di questo se gli ambasciatori, colle loro relazioni, assicurano che sovrani e corti tengono in gran conto la Serenissima e fabbricabile lo stesso colla pubblica storiografia laddove questa sappia, pur allargando lo sguardo all'assieme delle vicende europee, enfatizzare e far risaltare in queste la presenza e sinanco il ruolo di Venezia. Sinché è possibile, sinché gli accadimenti si prestano o, per lo meno, non si oppongono del tutto, prassi di governo e valorizzazione storiografica (e colla pubblica storiografia e, pure, colle relazioni degli ambasciatori) di detta prassi procedono di pari passo, si sorreggono a vicenda. In certo qual modo palazzo Ducale, ove si decide, è pure considerabile a mo' di rerum gestarum scriptor, di storico del proprio operato. In certo qual modo tra le res gestae figura anche il racconto di queste.
E tra le res gestae il decretare, il deliberare, il legiferare quotidiani d'una produzione di parti continua necessitata dalle urgenze di terra e di mare nell'" immutabile [...] orizzonte d'una costante durazione e d'una incorrotta gloria e felicità di stato" la cui vera "vera forza", etica e direttiva insieme, è costituita dalla nobiltà. E ispirata - lo si dice e se lo dice da secoli e lo si ripete e se lo ripete nel '600 - la legislazione da lei prodotta a palazzo Ducale dal senso della misura, dal sentimento della giustizia (4), dalla capacità di distinguere il bene dal male, dall'equità. Così asseriscono le storie, quelle a lei plaudenti e quelle da lei, tramite qualche suo membro, direttamente scritte. Nutrita di cultura storica, di passione per la storia, di capacità di scrittura storica la nobiltà lagunare anche per assegnarsi, nella storia e al cospetto di questa, la virtù della sapienza legislativa garantita dall'equità. Ad altri - e nel '600 la constatazione della potenza altrui è accompagnata da una sin angosciante sensazione di debolezza che s'esaspera nel secolo successivo - la potenza, a Venezia la titolarità della giustizia, ossia le buone leggi, le sante leggi, quelle che solo palazzo Ducale sa fabbricare. E poiché palazzo Ducale è culturalmente egemone, ecco che - senza peccare d'immodestia - può far scrivere a qualche solerte suddito quel che vuole che di sé si pensi. Ed ecco che Pietro Matteacci - vicario negli anni Trenta del '600 in vari reggimenti della Terraferma veneta -assicura, in una sua Miscellanea de discorsi istorici, politichi e morali [...] (Trevigi 1634), che la giustizia impronta tutte le leggi venete proprie, appunto, d'una repubblica la quale è superiore a tutte le altre, "passate e presenti", non già "per grandezza" - dimensione questa umana, troppo umana, terrena, solo terrena -, ma "nella giustizia de gli acquisti per la ragion divina". Giusta, giustissima, insomma l'aristocrazia marciana, nella sua indefessa attività legislatrice pervasa d'equità. E in ciò più che umana, più che terrena. "Author iuris homo, iustitiae Deus". Più arte del buono e del giusto l'intervento legislativo di palazzo Ducale che diritto in senso stretto. E fonte perenne l'equità produttrice del buono e giusto diritto veneto. Solo che - poiché ogni caso esige una confezione ad hoc dell'equa soluzione -, lungo i secoli, la selva legislativa prolifera incontrollata. E la classe dirigente - che preferisce praticare direttamente la storiografia (è ben questa il docile strumento con cui dirsi o farsi dire produttrice di giustizia, rivestita di equità) che riempie le proprie librerie di testi storici, mentre, stando agli inventari, scarsa è la presenza della trattatistica giuridica - al diritto sistema è sin allergica, di scienza giuridica (quella insegnata nella facoltà "giurista" del Bo) è sin digiuna. Anche per questo inseguendo la proliferazione della casistica colla tallonante proliferazione d'una formulazione mirata di volta in volta dettata da quel che sembra equo, legifera di fatto empiricamente; e, nel contempo, laddove cerca d'introdurre - perché la legislazione sovrabbondante non sia, anche, interferente e contraddittoria un minimo di coerenza di dettato cogli antecedenti, coi casi analoghi, ecco che si trova a mal partito, che non si raccapezza. Troppe leggi in libera uscita tutte filiate dalla prolificità incontinente dell'"equità" marciana. Occorrerebbe accorparle, repertoriarle, ordinarle, sfrondarle. Un'operazione necessaria, della cui necessità la classe dirigente è politicamente consapevole, ma senza per questo assumersene in prima persona la responsabilità. Pur produttrice in proprio di leggi, norme, disposizioni tanto è disposta ad autocelebrarsi o a lusingarsi colle storie, altrettanto è restia a provvedere direttamente alla sistemazione e ricorre, sperando ci riescano, a giuristi non provenienti dalle proprie file, non scelti tra i propri ranghi. E il più consapevole della indispensabilità d'arrivare ad un autentico corpus del diritto veneto è Battista Nani, che però è storico e non giurista. E tanti, tra i suoi colleghi di governo, gli aspiranti storici; assente, invece, il cultore di studi giuridici. E, allora, la classe di governo, che pur designa al proprio interno il pubblico storiografo, non fa altrettanto quando si tratta di provvedere all'organica sistemazione della foresta legislativa. Non è previsto, insomma, per dir così, l'"instituto" continuato del pubblico riordinatore e sistematore delle leggi, dell'addetto alla compatibilità e alla congruenza con voce in capitolo in sede deliberativa. Eppure le leggi sono tante che ci vorrebbe un censore legum. Ma quest'assenza del pubblico, per dir così, giurista è anche sintomo d'un'assenza di mentalità e di cultura giuridiche percepite come tali. Vige - nella classe politica - il primato della politica. E vige - nella stessa - culturalmente il primato della storiografia che valorizza l'attività politica. Questa produce sì le leggi; ma non sta al livello alto della politica metterle in ordine. L'ordine è considerato un compito pratico, ancillare, subalterno. Basta trovare qualcuno che ci si metta di buona lena. E un compito da sudditi. Non spetta al governo provvedere, ma far provvedere. Solo che - in una classe politica che vive all'insegna della continuità, della fedeltà al passato come programma dell'avvenire, che intende l'autoconservazione come conservazione d'una legislazione emanata nei secoli - il provvedere è concepito in termini di repertoriazione, di rubricazione, di indicizzazione, non di rottura, di discontinuità, di innovazione, di ammodernamento, ossia di ripresa con azzeramento. E si considera il riordino un'incombenza affidabile alla competenza d'un giurista che, appunto, fornisca in breve il prodotto finito dell'ordinata legislazione alla ben ordinata Repubblica. Un intervento tecnico, insomma, commissionato a, appunto, un tecnico del diritto. All'uopo designato, su indicazione di Battista Nani, il conte rodigino Marino Angeli nel 1667. Ma costui -,e non è certo da fargliene una colpa - non può da solo trasformare secoli di prassi legislativa empiricamente asistematica anche se aureolata d'equità in un edificio armonioso. Al più - ed è quel che fa col Legum venetarum compilatarum methodus (Venetiis senza data, ma 1678 circa) che, col secondo tomo, raddoppia in Methodi (Venetiis 1688) - può prospettare un criterio d'accorpamento della giustizia "distributiva" e "commutativa" veneta.
Un'indicazione a futura memoria di possibile metodo per procedere alla volta dell'agognato corpus questa di Angeli -,che colle leggi da lui ritrovate riempie ben 201 volumi -, epperò lasciata cadere. Ché l'esigenza del riordino è, nella classe politica, intermittente sussulto. Sicché non si traduce in impegno costante e sistematico d'effettiva attuazione, la quale investa anzitutto il governo in prima persona nella consapevolezza che il "metodo" - se c'è - dev'essere una conquista metodicamente perseguita da tutta la classe politica mobilitante a tal fine tutte le competenze giuridiche disponibili. Non delegabile, insomma, la confezione del "metodo" ad un singolo tecnico del diritto. Un mare magnum, una sterminata paratassi (rispetto alla quale il "metodo" dovrebbe funzionare a mo' di salto di qualità energicamente sintattico), in cui i singoli naufragano, il diritto veneto. La sola raccolta dei provvedimenti in materia sanitaria promossa, nel 1724, da un provveditore alla sanità ai fini d'un'agevole consultazione ammonta a ben 14 tomi manoscritti. Un agile "strumento" di reperimento e di consultazione sulla normativa in fatto d'acque il Metodo in pratica di sommario, o sia compilazione delle leggi, terminazioni e ordini appartenenti agl'illustrissimi [...] collegio e magistrato alle acque (Venezia 1733, ma in realtà, 1734; del 1771 la ristampa), redatto dall'avvocato fiscale Giulio Rompiasio (5). Però la sua "metodica compilazione", pur mirando al "ristretto", abbisogna di 600 pagine. Indicativo, comunque, che Rompiasio sia un "cittadino originario" con laurea in utroque patavina. È il ceto cittadino, in effetti, quello che più utilizza la facoltà "leggista" dello Studio di Padova, mentre la nobiltà lagunare - a meno che non si punti alla carriera ecclesiastica - preferisce quella "artista" pel largo ventaglio d'insegnamenti filosofici in questa impartiti. Sin allergici gli ottimati marciani alla sistematica giuridica propinata nelle aule del Bo. A ben legiferare - essi ne sono convinti - l'equità, la ragionevolezza, il buon senso bastano e avanzano. Solo che così, di fronte alla sin mostruosa ipertrofia legislativa e normativa prodotta dai loro antenati e da loro proseguita, si trovano sprovveduti e disarmati. E sin candidamente ingenui vorrebbero che un qualche miracoloso giardiniere trasformasse la foresta labirintica in geometrico "legal giardino". Da secoli esaltati i politici veneziani per l'aequitas che contraddistingue lo ius Venetorum contemplante "omnes casus", sicché non si dà evenienza "cui legibus non sit obvium itum". Ma se la legislazione coincide colla casistica, l'equità che ogni volta si pronuncia, nella sua torrenziale loquacità finisce col dir troppo, col disdirsi, col revocarsi, coll'interferire su se stessa, col dimenticare quel che ha detto, col ripetersi. Congenitamente paratattica, più s'esprime, più si fa ardua l'applicazione di un qualche bandolo sintattico. La ratio - se c'è - dovrebbe improntare attivamente la produzione legislativa. Non è un unguento magico da spalmare a cose fatte, a leggi emanate perché dal disordine nasca il miracolo della coerente razionalizzazione, della mappa ordinata, del concertato fraseggio. Laconica - qualsiasi essa sia - la ratio. Invece l'aequitas - un vocabolo solenne; epperò, oltre che giustizia, dal volto umano, a volte suona buon senso, senso comune; e i titolari del buon senso indulgono alla loquacità, sono garruli; se poi il buon senso diventa senso comune non tace più - parla e straparla. Certo: è sempre in buona fede. Ma nella sua incontrollata loquacità innesca un avvitamento a spirale esitante nell'ingorgo, nell'intasamento. E mentre gli storici l'applaudono, i giuristi s'arrendono ché non trovano il filo d'Arianna per girare nel sempre più mastodontico e aggrovigliato labirinto per poi uscirne con una proposta attuabile.
Ed è, forse, anche perché omaggiare l'aequitas è più facile che sottoporla alla disciplina della ratio che i patrizi preferiscono la storia al diritto. E pochi, in effetti, nella letteratura qualificabile all'ingrosso come giuridica, i titoli di provenienza patrizia. Nobile veneto Alessandro Maria Vianoli e pure avvocato, autore - prima di dedicarsi al profilo dei dogi - de L'oratore forense (Venetia 1659), ad istruzione dei colleghi del foro veneziano, sede d'eloquenti schermaglie. E nobile nonché avvocato il Benedetto Pasqualigo autore di Della giurisprudenza criminale (Venetia 1731) preceduta da Osservazioni pratiche circa il foro veneto criminale misto (Venetia 1725). È chiaro, comunque, che l'intervento a stampa dei due patrizi non tanto va visto come espressione d'un'incursione patrizia nel campo del diritto quanto, piuttosto, come contributo di due avvocati al concreto esercizio dell'avvocatura. Manca, lo s'è visto, il pur bramato "iuris veneti corpus"; che ogni tanto qualcuno - come Angeli e come, prima di lui, Giovanni Bonifacio, pur'egli autore d'un Metodo delle leggi della [...] Republica [...] (Rovigo 1625) - proponga con baldanza il procedimento per attuarlo poco cale, dal momento che non gli si bada, non lo si prende sul serio. E, nella vacanza del corpus costantemente rimandato, c'è un gran bisogno di testi che praticamente agevolino, che orientino, che fungano da bussola nella navigazione tra tante, troppe leggi non, appunto, accorpate. Indicativa la fortuna della Pratica criminale secondo il rito delle leggi della [...] Repubblica [...] del veneziano Lorenzo Priori: alla prima edizione veneziana del 1622 seguono le ristampe, sempre veneziane, quanto meno del 1644, 1678, 1695, 1738. E quest'ultima edizione sarebbe la nona. Comunque Priori non è certo l'unico. Lo precede il vicentino Pietro de Zamboni coll'Isagoge in practicam criminalem ad leges venetas accomodata (Vicentiae 1614 e, di nuovo, Patavii 1673); lo segue Baldissera Zettele, avvocato del foro lagunare, coll'Instrutione et pratica criminale [...] (Venezia 1648 e, di nuovo, 1694: destinata soprattutto agli avvocati e ai cancellieri l'opera è utilizzabile anche "in alcuni particolari civili" e in sede di difesa dei "rei"), a sua volta preceduta da Marcantonio Tirabosco col Ristretto di prattica criminale che serve per la formation de' processi ad offesa (Venezia 1636 e, di nuovo, 1661 e 1682). E se la Pratica criminale [...] (Venezia 1706) di Francesco Teobaldo è destinata agli aspiranti assessori e vicari nei reggimenti, se il padovano Gaspare Morari stende a sua volta una Prattica de' reggimenti in terraferma (Padova 1708), se il Direttorio de' criminalisti [...] (Venezia 1711) di Marcantonio Negrisoli assicura d'insegnare in breve e chiaramente "la vera maniera" d'esercitare il cancellierato, vuol proprio dire che non tanto di sistematici e dotti trattati s'abbisogna su questo o quel punto, quanto di manuali pratici in base ai quali muoversi specie nell'ambito penale. La pratica per praticare, dunque, sulla quale si insiste lungo il '700, sino alle soglie della caduta della Serenissima. E Goldoni, se anziché darsi al teatro avesse proseguito nell'esercizio dell'avvocatura, avrebbe potuto valersi della Pratica del foro veneto (Venezia 1737 e, di nuovo, 1751, 1763 e, in edizione rivista e ampliata, 1794) compilata dal bolognese Francesco Argelati, ove si precisano "le materie soggette a ciaschedun magistrato, il numero de' giudici, la loro durazione, l'ordine che suole tenersi nel contestare le cause", nonché "le formule degli atti più usitati". E contemporanea alla stampa della Pratica [...] d'Argelati quella del Foro all'esame (Venezia 1737, appunto) dove Giovanni Antonio Querini, avvocato "criminal veneto", fornisce "considerazioni", oltre che "utili", pure "dilettevoli, erudite, morali" non solo agli operatori della giustizia, ossia ai giudici e agli avvocati, ma pure all'utenza, ai "clienti". Privilegiante il versante del diritto civile la Pratica civile delle corti del Palazzo Veneto (Venetia 1668) di Filippo Nani, riedita "ampliata" nel 1679 e nel 1694. E poiché il "gius cesareo" è tacito od esplicito termine di confronto, ecco che il marchese veronese Giulio dal Pozzo - lo stesso che, in un panegirico edito a Verona nel 1674, assicura che la "felicità dei primi imperi del mondo" ha trovato ricetto "sotto la repubblica di Venetia", lo stesso cui si deve un Valeriae gentis elogium (e la gens celebrata è quella del doge Bertucci Valier) -, dopo aver pubblicato delle Instruttioni alla gioventù veneta patricia sopra le institutioni della prudenza civile (Padova 1688), ritorna sull'argomento ne Le institutioni della prudenza civile fondate su le leggi romane e conformate alle leggi venete, pubblicate postume a Venezia nel 1697. Già docente di ragion civile a Padova, l'autore esclude categorico il ricorso alle leggi "aliene", anche se "imperiali". Autonomo, autosufficiente il diritto veneto. Né la "ragion imperiale" può valere a mo' di surrogato qualora la legislazione veneta sia lacunosa. Valgano le leggi "impresse nel cuore". È la "natura" quella che detta la "meglior leze".
Ma c'è una sterminata materia costituita da innumeri casi - un vescovo che pretende d'essere incensato prima del rettore; un perseguito dalla legge catturato nel sagrato d'una chiesa; smembramenti di parrocchie; confini controversi; lagnanze di comunità; scandali nei monasteri; estradizioni richieste; concessione o meno di salvacondotto; il duca sabaudo che si pavoneggia re di Cipro; riscossioni difficoltose di rendite; zeli eccessivi d'inquisitori; applicazioni o meno di brevi e bolle pontifici; sequestri a risarcimento di danni; uso delle acque; citazioni del nunzio; litigi tra parroci e fondatori di cappelle per le relative elemosine; "dispareri" tra rettori e magistrature centrali; validità o meno di atti d'acquisto; incancrenirsi della questione cenedese; opportunità o meno d'una licenza di stampa; intimazioni del patriarca d'Aquileia; mansionerie messe in discussione; erezioni di chiese e ospedali disposte per testamento; liti tra conventi, nei conventi; liti tra capitolo e vescovo, tra capitolo e decano; feudi; decime; giuspatronati; deleghe a procedere; "travagli" inflitti dalla S. Sede a vescovi veneti; intralci alla libertà d'elezione dei conventi di questo o quel vicario generale; suppliche varie; palese "ignoranza crassa contraria alle buone regole della conscienza et agli interessi dei prencipi" riscontrabile, non senza responsabilità del clero locale, in fedeli creduloni e superstiziosi; prebende; contributi; patenti; autorizzazioni; sentenze per la collazione di benefici; esenzioni; ricorsi; presunti miracoli e presunte immagini miracolose, presunte reliquie che, se riconosciute, si fissano in chiese, chiesette, capitelli, tempietti sparsi per il territorio col seguito di "divotioni", "concorso" di popolo, elemosine. In merito è palazzo Ducale che, o perché a lui ci si rivolge e/o perché ritiene doveroso intervenire, si pronuncia, sentenzia. E, per pronunciarsi nell'inarrestato brulicare dei tanti troppi "casi particulari", ecco che il governo ricorre, per orientarsi, alla qualificata competenza dei consultori in iure (6). Esperti costoro in fatto di "cognizione delle legi", debbono applicarsi nell'"esquisita notizia del fatto" ricostruito "con tutte le sue particolari circostanze". Ogni "negozio", ogni questione, ogni problema sono così affrontati e storicamente e giuridicamente in un, appunto, circostanziato parere scritto - è questo il consulto - che, nel presentare al governo tutti gli elementi e gli argomenti, è di fatto non solo informante, ma anche suggerimento orientante, sin indicazione operativa. "Intesa pienamente tutta la continenza del fatto" o "caso" o "negozio" che dir si voglia, è ben dal pieno intendimento che emerge imperioso quel che è "di raggione", pel governo, fattibile.
Problemi che si pongono, problemi che si sollevano. Questioni sulle quali palazzo Ducale interviene di proposito e altre nelle quali è, suo malgrado, coinvolto. Non è colpa sua se, per la nomina d'un padre guardiano d'un convento, c'è un braccio di ferro tra il padre provinciale e il padre generale dell'ordine cui il convento appartiene. Non è colpa sua se delle monache rifiutano il confessore loro assegnato, se, per "competenza di foro", un rettore ed un inquisitore si contrappongono, se la "contesa de' confini" tra i sudditi veneti di Loreo e quelli pontifici d'Ariano non accenna a finire, se un collegio di notai vuole altri privilegi. E che fare se una comunità chiede di destinare parte della somma raccolta per estinguere i propri debiti al restauro della cattedrale? E se una città di Terraferma intende rivolgersi al papa perché conceda "facoltà di celebrar messe" ad un "oratorio privato", va ben ribadito che, in ogni caso, è necessaria la "permissione" di palazzo Ducale per interpellare il pontefice. Famelici appetiti scatena la torta delle cappellanie, dei priorati, delle coadiutorie, degli arcidiaconati; e ogni caso è particolare, ogni volta necessita un'informazione ad hoc. È ben per questo che palazzo Ducale s'attende dal consultore una messa a punto. Se persino una "traslazione" di pensione ecclesiastica è faccenda complicata, occorre che anche di ciò il consultore si informi. E l'informazione - se il consultore è Sarpi e se, dopo di lui, lo è, per oltre 30 anni, Micanzio (7) - può diventare quasi potere d'indirizzo, specie allorché il consultore non si limita a "rispondere de iure", ma va - come, appunto, riconosce in un consulto Micanzio - "oltre". Un andar "oltre" col quale, memore di Sarpi, il servita costruisce, a suon di consulti, una sorta di dottrina dell'intervento dello Stato, molecolarmente dislocato, di caso in caso, in un sempre più allargato perimetro nel quale spetti alla Repubblica la decisione. Se ci sono, ad esempio, "abusi popolari" con qualche "apparenza di religione", se nascono devozioni spontanee, se s'affabula d'immagini miracolose, ebbene, in evenienze del genere, è "conveniente alla publica riputatione" serbarsi il "beneplacito" dell'"ultima mano", non dipendendo "dalla volontà di altri". Se, ad esempio, in quel di Este, un suddito chiede d'erigere un "oratorio" illustrato da un'immagine della Vergine "scopertasi miracolosa", e già, "col concorso" del "papato", oggetto di "divotione" nonché fonte di "elemosine", sia la Repubblica a "dar la forma et ultima mano al negotio". Che non capiti, insomma, che con poco suo "decoro", s'eriga, per volontà ecclesiastica locale, "l'oratorio", magari poi messo in mora "dall'ecclesiastico ordinario superiore". Si sbarri, in sostanza, preventivamente il passo ad ogni occasione d'intervento romano. E s'intervenga con accortezza, attenti - quando ci siano di mezzo abitudini che dal sacro prendono pretesto: ad esempio la pretesa di partecipanti a processioni di mangiare e bere a spese d'una chiesa e d'un ospedale - da un lato a far rientrare l'eccesso, dall'altro a non suscitare "commotioni" da parte della "moltitudine". Quel che importa è che il "ricorso" eventuale faccia appello al doge. Stesse in Micanzio tutto va ricondotto sotto l'ambito del controllo statale. Al limite sta al "principe" stabilire se è il caso di avallare o meno le credenze della devozione popolare, in una valutazione del miracoloso sub specie opportunitatis.
Quanto al Micanzio interpellato in merito alla stampa o meno di questo o quel testo, il suo parteggiare per lo Stato è sin smaccato. Sicché, ad esempio, vuole che l'Historia della felicità di Padova [...] di Angelo Portenari sia amputata della parte dove l'autore discostandosi dalla versione, appunto, di Stato sulle origini di Venezia - più chiaramente sostiene la tesi "che li padoani furono li primi fondatori di questa inclita città di Venetia". Non che Micanzio sia sfiorato dall'idea che, magari, Portenari possa avere qualche ragione storicamente non infondata. Non che si chieda se abbia del tutto torto. Non è questo il punto. Da stabilire se - abbia egli torto o ragione, poco importa - quanto dice è inopportuno, non conviene. Ma tanto Micanzio è attentissimo se Venezia è, in qualche modo, in ballo, altrettanto è disinvolto quando un autore come Ferrante Pallavicino mostra "antipatia" o per la Spagna o per Roma; in tal caso il servita non sembra gran che dispiaciuto. Se poi negli scritti dello stesso v'è "qualche lascivia" di per sé sconveniente, non spetta al S. Uffizio, comunque, proibirli; c'entrano i "buoni costumi", non la "religione". E di quelli s'occupa il principe. Se poi il "padre inquisitore" pretende di proibire la stampa di "molte" pagine delle Considerazioni del marchese Guido Villa su di un discorso sul niente di Luigi Manzini, Micanzio è scopertamente sardonico sullo zelo censurante di quello: "resto attonito", scrive il servita, e della pretesa d'eliminare più "carte" e, più ancora, del "cervello" del proponente la "censura". Costui, ghigna Micanzio, va adducendo che vi sarebbe odor d'eresia, che sente l'influenza di Raimondo Lullo. Reduce d'uno scontro frontale come quello dell'Interdetto, Micanzio - in mancanza del rinnovarsi di quello - da un lato vigila a presidio delle prerogative statali, dall'altro, quando può, sfoga con qualche frecciata il rodio anticuriale ch'entro gli bolle. Carsico il militare di Micanzio. E non solo perché i 1.191 pareri da lui lasciati sono stati dapprima riassorbiti nel lavorio mentale sotteso al decidere governativo e poi - dopo la sua morte il 7 febbraio 1654 - riposti "in una cassa sotto chiave" nel convento lagunare dei Servi di Maria per essere quindi trasferiti nella "cancellaria secreta" sì che, se consultati, continuino ad essere "di gran lume e commodo per il publico servizio". Per tal verso tutti i consultori, visto che i consulti non sono pubblicabili, visto che sono destinati all'archiviazione, fanno parte di quella sorta di vita mentale sotterranea rispetto all'appalesarsi della pubblica volontà. Per tal verso quella dei consultori è sapienza riposta, paesaggio interiore con carsico scorrimento. Ma doppiamente carsico Micanzio ché non solo la redazione dei suoi consulti fa parte del sommerso rispetto all'intervenire di palazzo Ducale, ma anche perché, a sua volta, nell'assiduo redigere i pareri richiesti, s'è costretto ad uno sforzo di compressione, di simulazione e dissimulazione. Immedesimandosi nell'ottica governativa, che, pur ferma in fatto di contenzioso giurisdizionale, è pur sempre rispettosa col vicario di Cristo, colla cattedra di s. Pietro, s'è dovuto conformare ad un sentire che non gli è proprio. Sacrificato così un antagonismo politico e religioso che, proprio perché radicale, fuoriesce dai confini della prudenza della Repubblica, è incompatibile col modo d'essere e di concepirsi di questa.
Più tranquilla, interiormente, la situazione di Gasparo Lonigo, collaboratore di Micanzio a lungo e poi procedente per conto proprio. Fautore della pienezza dell'esercizio della sovranità, gli sono però estranei gli umori polemici e, pure, eterodossi di Micanzio. E, giurista di formazione, è più incline del servita ad impostare giuridicamente la propria consulenza, assecondando, nel contempo, una vena di studioso pacato e riflessivo che si esplica nella paziente raccolta di documenti sulla basilica marciana, sulla Patria del Friuli e si dispiega con esiti trattatistici - peraltro senza approdo alle stampe - in fatto di decime papali, di questioni di precedenza, di feudi. Ed è in merito a questi che i due massicci tomi in latino della Materia feudale di Lonigo attestano la robustezza d'una costante meditazione mai titubante nel suo ribadire l'assoluta superiorità del principe, del veneto dominio, nel suo assolutizzare la vigenza del diritto nato nelle lagune, nel suo escludere ricorsi alla normativa del corpus giustinianeo. Inalienabile la giurisdizione originaria a detta di Lonigo, proprio mentre - a causa dell'incalzare delle necessità finanziarie - la Repubblica mette in vendita pezzi di giurisdizione pur d'introitare qualcosa. Sicché la Materia feudale è più testimonianza della rigorosa concezione di Lonigo che punto di partenza di un rilancio dell'autorità sovrana e insindacabile dello Stato. Le urgenze del momento finiscono col suggerire una prassi pasticciata e compromissoria, transigente e accomodante, che prescinde dalla coerenza intransigente propugnata dal consultore. Ininfluente, ad un certo punto, la saldezza del suo impianto teorico. Ma se questo non pungola più, è il ruolo stesso di stimolazione proprio della consulenza a sbiadire. E, se così è, morto nel 1663 Lonigo, non è che servano dei consultori di forte profilo. Bastano degli onesti compilatori, quali il servita Francesco Emo, il domenicano Giovan Pietro Bartoletti, il servita Odoardo Maria Valsecchi, mentre il conte vicentino Giovanni Maria Bertoli (1631-1707; da non confondere col più tardo servita omonimo), esperto feudista, s'occupa, appunto, di feudi. E occorre attendere che, nel 1723, inizi l'assidua operosa consulenza del servita Paolo Celotti perché l'ufficio si risemantizzi e ritrovi accenti già di Sarpi e di Micanzio.
Comunque sia a produrre materiale informativo - storico e legale - in merito ad un'investitura feudale o ad una bega coi frati o tra i frati ci pensa il consultore. A tentar di mettere ordine tra le tante leggi e malgrado le tante leggi può mobilitarsi con lena un qualche giurista. Di questo e di quello non occorre s'occupi direttamente la classe dirigente. Sono compiti pratici delegabili. Sono servizi che il governo - cui compete decidere - può richiedere ogni qual volta lo ritenga opportuno. Epperò pensare lo Stato, riflettere sulla Repubblica marciana, meditare sul significato e sul funzionamento del reggimento aristocratico dovrebbe essere esigenza viva all'interno della classe stessa di governo. Che dall'esterno un panegirismo incessante vada ripetendo essere quello lagunare il migliore e l'ottimo degli Stati può far piacere. Che letterati turibolanti recitino essere la nobiltà deliberante a palazzo Ducale una sorta di Salomone regnante può lusingare. Ma non è che siffatti complimenti comportino un qualche avanzamento, provochino un qualche miglioramento, accennino ad un embrionale discorso politico, alimentino d'un qualche spunto teorico la prassi. L'effettivo ripensamento delle forme e dei contenuti del governo di per sé non può che nascere dall'ambito di chi sta governando, non può non essere interno alla classe dirigente stessa nella misura in cui la vocazione di questa alla politica sappia irrobustirsi in termini d'autoconsapevolezza anche autocritica, sappia riprendere slancio nell'autoricarica motivante insita in una severa e intransigente concezione dei propri compiti. Ebbene: lungo il '600 uno sforzo, nobile ed alto, del genere non lo si riscontra. Sicché si dà il proseguimento della politica senza un simultaneo riarmo ideologico che ne sconfigga i sintomi di logorio, di stanchezza, di disaffezione, di demotivazione. Né quel che d'involutivo che comporta la crescente divaricazione tra il patriziato più abbiente e più influente e quello in via d'impoverimento e d'irrilevanza si traduce in una netta contrapposizione programmatica che veda da un lato i fautori di un ridisegno oligarchico dell'organismo statale e dall'altro i propugnatori di un ripristino delle procedure d'una paritetica partecipazione alla vita dello Stato da parte del patriziato tutto. Obnubilante, alla lunga, la fictio della Repubblica armoniosamente aristocratica ché impedisce l'esplodere dell'insofferenza dei grandi per gli intralci rallentanti la loro propensione ad un rapido decidere e della simultanea reazione di quanti, di contro, non accettano d'essere espropriati delle loro facoltà e delle loro competenze nella sfera delle scelte. Sicché, di fatto, nello strattonamento tra spinta oligarchica e resistenza a questa, la mancanza d'un illimpidito e franco discorso politico con relativi schieramenti chiaramente riconoscibili si crea - sottostante agli andamenti ufficiali della politica - una situazione di disagio, di malessere. Donde non tanto le proposte d'una politica ripensata, di una visione - innovante o restaurante che sia - dello Stato in qualche modo mordente e operativa, ma i brontolii, i mugugni, le malignità, i rancori di chi in questi mescola e rimescola senza intravvedere una via di scampo, senza fuoriuscirne per una considerazione più distaccata e allargata. Il borbottio di chi ha qualcosa a che ridire non è che susciti la fioritura d'un pensiero politico d'una qualche consistenza. E isolato Zuan Antonio Muazzo nella sua volontà d'abbozzare una sorta di riconsiderazione storica della storia costituzionale della Serenissima nella quale l'impaccia la riverenza pel passato e lo trattiene il riguardo pel presente. Striminziti i risultati, nonché incompiuti, nonché rimasti allo stadio del manoscritto, d'un valutare non animato da un'autentica capacità di robusto intendimento. Inadeguato il povero Muazzo a replicare con tempestiva prontezza alla scalzante corrosiva offensiva del-1'Histoire du gouvernement de Venise (Paris 1676) di Abraham Nicolas Amelot de la Houssaie. A ribattere occorrerebbe un ideologo della statura di Paruta forte, in più, del suffragio della "reputation" cinquecentesca guadagnata sulla scena internazionale dallo Stato marciano. Ma non siamo nel '500 e non c'è un Paruta a portata di mano. Colto di sorpresa il governo veneto non sa che esigere la distruzione dell'opera, l'imprigionamento dell'autore. Stizzito reagisce con stizza. Ma nessuno, tra le file patrizie, sa tramutare il disappunto, la stizza, il dispetto, il risentimento, in vigorosa indignatio argomentante e ribattente con forza. Punto sul vivo il governo dall'irriverenza dell'ex addetto diplomatico reagisce diplomaticamente, protesta tramite il proprio rappresentante presso il re Sole e col rappresentante di questi. Si agita ma non replica. C'è in questa replica mancata, dell'afasia concettuale da parte d'una classe dirigente che non sa più dirsi. E nello spazio lasciato vuoto dall'arretramento ideologico si fanno largo sgomitando le altrui diciture, gli altrui giudizi, le altrui valutazioni. E si comincia a dire che Venezia non è più quella d'un tempo, che è vecchia, che sa di polvere, che sta arrancando, che il fiato le vien mancando.
Certo: se si presta fede ai letterati esterni al campo ottimatizio, la grandezza di Venezia resta imperitura e inscalfita. "Ne le fauci del mar liber nata" - così nel 1675 Orazio Fini -, ha nel maggior consiglio una "congerie d'heroi, turba de' regi", nel senato "l'ordine sacro", nel consiglio dei X "la sfera" di quel che è il "veneto rigor". Sempre "maravigliosa", allora, Venezia, come assicura nel 1676 Aurelio Amalteo, "del mondo stupor, leone alato", nonché "del mondo splendor, città sapiente". Ma non è con siffatte eccitazioni della penna che si ribatte all'acume della disamina d'Amelot de la Houssaie e che s'arresta il discredito che anche con lui inizia sino a crescere e a diffondersi contagioso nel secolo successivo. I letterati possono lusingare la classe dirigente, possono, verseggiando in suo onore, sin risentirla, in periferia, illuminata dagli ultimi bagliori del mito di Venezia (è il caso del salodiano Leonardo Cominelli decoroso decantatore delle autorità venete in area gardesana nonché di Francesco Morosini e Battista Nani), possono continuare, coll'"intreccio di giusti applausi", a complimentarsi pel presente e a presagire "future grandezze"; ma non possono ridarle slancio. Carezzevole antologia quella dei Detti e fatti memorabili del senato e patricii veneti (Venezia 1672) dell'agostiniano Giacomo Fiorelli, ma non richiamo all'urgenza del ripensamento dello Stato. Sin fuorvianti, a tal fine, gli elogi, ché distolgono dalla presa di coscienza. Premiato colla cittadinanza veneziana il benedettino piacentino Vincenzo Sgualdi dopo la pubblicazione dell'Aristocratia conservata [...] (Vinetia 1634). Ciò vuoi dire che il governo marciano si sente esemplarmente "principato d'ottimati", esente da degenerazioni oligarchiche, senza pericolo di slittamento verso il "dominio di pochi". Il fatto è che se si esagera nell'inneggiare a Venezia, è perché si suppone ciò risulti gradito a palazzo Ducale. Il sole ne' pianeti (Padova 1635): questo il titolo d'un panegirico indirizzato a Venezia da Ferrante Pallavicino non ancora ventenne. È chiaro: così manifesta l'intenzione di sistemarsi in terra veneta, sotto la "maestà" da lui "più" riverita "in terra". Ma gli preme anche attestare sin dall'intitolazione la propria capacità inventiva. Col che Venezia diventa un pretesto. Si può ben indulgere ad enfatizzare la bontà del suo governo se ci si prefigge d'approfittare del fervore instancabile delle sue tipografie così propenso a tradurre il fluviale scorrere degli inchiostri nelle "vendemmie" copiose e sin "soverchiamente feraci" delle stampe. È a Venezia che si fa capo per pubblicare: qui si diventa autori, mentre gli "ingegni" si volgono alla sterminata "molteplicità delle parole" che alimenta l'incessante avventarsi sui torchi dell'"onde degl'inchiostri".
Ma autori di che? anzitutto della miriade di dissertazioncelle colla quale trapassa alle stampe lo scintillio scoppiettante dell'effervescenza svariante e ghiribizzosa della conversazione accademica produttiva dei "capricci" dell'occasione, degli "aborti" spontanei, degli "scherzi" più o meno "geniali", delle "bizzarrie" più o meno strampalate, dei "trascorsi" chiacchierini. Un pretesto l'argomento per un'affettata improvvisazione nella quale si finge futilità laddove sia serio e serietà se, invece, è futile. Garrule cicale nei raduni accademici i partecipanti. Vi recitano, appunto, le loro cicalate. E poi le pubblicano. Un chiacchiericcio dispersivo, volutamente non costruttivo proprio d'un ritrovarsi all'insegna del trattenimento divertimento d'una fioritura d'interventi estemporanei recitati simulando imbarazzi d'impreparazione e dissimulando quanto è invece predisposto e calcolato. L'ostentata sprezzatura - pure questa artificio del "comportamento" - per quel che si dice è, infatti, sottesa - ché pure le sciocchezze sono "fatiche degl'ingegni" e, come tali, da "esser registrate con caratteri d'oro ne gl'archivi dell'eternità", come dichiarano gli accademici Unisoni stampando le loro Veglie (Venetia 1638); se il mondo è un "mercato", in questo operano gli autori di "libri", così attivi nel "trafico delle ciancie" - di determinazione alla stampa. Di fatto si recitano testi scritti. E finzione allora quella dello scherzoso improvvisare. Dietro c'è lo sforzo di "maneggiar la penna". Non importa su che. Quel che conta è adoperarla spiritosamente. Ed è spiritoso colui che sorprende col tono meditabondo al posto della facezia e col tono faceto al posto della pensosità. Il che esige sforzo, fatica, impegno. Beninteso: impegno di scrittura, non di pensiero. Al limite: niente è a tal punto importante da meritare una sistematica approfondita riflessione; ma, nel contempo, l'esibire valentia di scrittura è sempre degno d'"applicatione". Giovan Francesco Loredan (8), autentico "sole" nell'accademico firmamento lagunare, non esita a preporre "questa applicatione" alla "vita" stessa. In ogni caso senza di essa non saprebbe, né potrebbe "vivere". Se scrivere è un vizio, un "peccato", ebbene egli è peccatore "incorreggibile", un vizioso incallito, irredimibile. E sì un "difetto", una colpa; però non può farne a meno. La morbosa smania di scrivere l'"accompagnerà [prevede] sino alla tomba". Non lo studio a fondo di tutta una vita per un'opera fondamentale. Ma l'artificiosa tessitura di parole le cui "primizie" sono state recitate in accademia. Spazio ludico, al limite, questo per giocare colla varietà degli argomenti. Ma il gioco si fa serio se l'ingegno si protende nel funambolismo esibitorio finalizzato alla deflagrazione della paradossalità più sconcertante. Una polveriera virtuale il tessuto verbale. Sta al conferenziere farsi artificiere per provocare l'esplosione del paradosso. Sin gareggianti - nel cicalare in accademia - i "virtuosi" a chi le spara più grosse, a chi più spericolatamente persegue a suon di paradossi un discorso sofistico che, nella sua consequenzialità, procede scalzante, distruttivo.
Si parte discorrendo del tutto, della consistenza dell'essere, dell'onnipotenza divina, della creazione, quindi di Dio. Ma poi si procede constatando che l'opera più perfetta del Creatore è quel che non c'è, che manca, che non si tocca. Si tratta del non essere, del niente, del nulla. Se va celebrato Iddio, vanno pure cantate le "glorie del niente". Anche questo rientra nella creazione. Ma una volta spalancate le porte al suo irrompere, ecco che il nulla annienta il "tutto ", s'aderge sul cadavere di questo come "gran monarca dell'universo". Sillogicizzando gli Incogniti guidati da Loredan dal tutto più pieno giungono al vuoto più abissale. Né si tengono per loro la scoperta dell'abisso. Vanitosi la divulgano stampando le loro considerazioni, stando alle quali il "niente" include e il "possibile" e 1'"impossibile", imponendosi così come "più universale dell'onnipotenza" che s'estende ai soli "possibili". C'è di che far sobbalzare la vigilanza dell'inquisizione. E, infatti, l'inquisitore un po' si agita. Ma non è poi il caso di prendersela con quanti - il romanziere bolognese Luigi Manzini (per la cui cittadinanza onoraria veneziana è
ipotizzabile s'adoperi Micanzio), il conte rodigino Marino Angeli anzitutto - hanno così, tra gli Incogniti, disquisito. Si tratta di brave persone. Maneggiando per gioco le parole, hanno finito per combinare asserzioni enormi; per fare gli spiritosi si sono sospinti ai bordi d'una corrosività che puzza d'eresia. Ma il loro niente - finita la recita accademica - finisce in niente. Li ha preceduti a Napoli, nell'accademia degli Incauti, solita riunirsi nel convento del Carmine, il teologo palermitano Giuseppe Castiglione. Questi, ancora nel 1632, v'ha pronunciato un elogio del niente. Carmelitani per lo più gli Incauti e carmelitano Castiglione, tra loro "il trabocchevole". Certo il sodalizio non è sospettabile di propensioni eterodosse. Ed esorcizzabile la fascinazione del nulla se, come fa Castiglione, si premette che se ne parla "con argomenti da niente", con "concetti da niente". Tanto fa dire che sul niente non si sta dicendo niente. E chi non dice niente non è incolpabile di niente. E, allora, all'inquisitore a Venezia non resta che far finta di niente; non è successo niente, non s'è detto niente. E il niente è inafferrabile, non è agguantabile per punirlo. Sinché dissertano un Manzini e un Angeli non c'è pericolo s'abbozzi un pensiero negativo. Il niente resta un pretesto per infilare paradossi. Se poi questi per strada s'ingrossano troppo, sono pronti a far marcia indietro, a lasciarli cadere, a minimizzarli. Non così però se chi intrattiene con una conferenza gli Incogniti è Antonio Rocco, il famigerato benedettino autore de L'Alcibiade fanciullo a scola (9), ove la didassi si fa iniziazione sodomitica. Per costui l'argomento non è solo pretesto per parlare (e, pure, per scrivere), ma pure per insinuare veleni, per camuffare effettive propensioni libertine. C'è odore di zolfo, insomma, in quel che Rocco dice e scrive. Col tono scherzoso si contrabbandano merci pericolose, tutt'altro che innocue. A proposito "della bruttezza", è pacifico che questa sia anzitutto di pertinenza dell'inferno, come la bellezza lo è del paradiso. Niente più brutto di quello allora e, parallelamente, niente più bello di questo. Eppure quest'asserzione - dimostra Rocco (10) - è rovesciabile. In che modo? se bello significa buono, se brutto significa cattivo, ecco che l'inferno è qualificabile come "buono" e il paradiso come "pessimo". Ciò perché in quest'ultimo c'è la ribellione degli angeli ribelli, cacciati, appunto per questo, nella voragine infernale, così colpiti con una dannazione eterna che "placa Iddio". Dove finisce il bello e comincia il brutto? dove s'arresta il bene e dove avanza il male? "Bruttissima", indubbiamente la morte.
Ma se "è fine di tutte le cose", forse che non è "sopra tutte [...] bonissima"? Infatti - e qui Rocco cita un passo d'Aristotele - "finis quid optimum", infatti il meglio è la fine. Non innocente Rocco nel suo approfittare dei discorsi sul niente, proponendo la bruttezza come egestas, come capacità attiva di negazione. E di certo sconcertante il suo asserire - in un altro intervento nella stessa sede - che "amore è un puro interesse" e quindi egoismo interessato, non apertura generosa all'altro: l'"interesse" è perseguimento del proprio "utile", del proprio "diletto". Quindi l'"amante" ama se stesso, adopera per sé la "cosa amata". L'amore si contrae a narcisismo, s'indurisce a sentimento tirannico buono - così Pietro Michiel, anch'egli degli Incogniti - "a render gli uomini simili alla fiere", diventa impulso criminale. Ma se così è - così Loredan che è ben attento uditore dell'"eccellentissimo Rocco" -, la "maggior infelicità" è "esser amato". Se, come vuole Ficino, l'amore è desiderio di bellezza, in fin dei conti è bramosia di fondersi con quel che non si possiede, col "bello" e il "buono" dell'"amato", sul quale, al limite, s'avventa la furia cannibalesca d'un egoismo espropriante e fagocitante.
Che poi Loredan dica altrove che l'amore è "sempre buono in se stesso, sempre santo e sempre pudico", non è da valutarsi in termini di pensiero che si contraddice. L'esercizio della retorica nel diventare compiaciuta sofisticheria può dimostrare tutto e il contrario di tutto. E può così indurre a fare o non fare, a prender moglie o a rimanere scapolo. E, consigliando o sconsigliando, la sofisticheria giunge a farsi complice delle più spregiudicate pratiche libertine. Costretto nella spirale del retorico svolgimento il pensiero perde la bussola dell'etica. Si dà, nell'Alcibiade di Rocco, il dialogato trapasso dalla pedagogia alla pederastia. Diabolica suasoria quella del maestro Filotimo: nel suo regolato progredire convince l'allievo alla trasgressione dell'etica, alla rottura delle regole morali. Se il piacere di parlare si combina col piacere di pensare non c'è asserzione paradossale che non possa essere, per così dire, more sophistico demonstrata. E nel recupero della sofistica, nella manipolazione della filosofia ad uso e consumo degli arditi procedimenti della retorica la sconfitta dell'ansia di verità di quella e la vittoria del più drastico relativismo. È così che si passa "per cervelli singolari", a costo d'"urtar nell'empietà", come avverte preoccupato Filippo Maria Bonini, un ligure prima frate e poi prete secolare, autore de Il Giro politico (Venetia 1668 l'edizione completa; ma la prima parte esce a Genova nel 1647) e de L'ateista [...] (Venetia 1665), per qualche tempo a Venezia, quivi in rapporto con Loredan. Che la retorica sia altra cosa rispetto alla filosofia è nettamente chiarito in un libello, del 1642, di Ferrante Pallavicino. S'intitola La retorica delle puttane (11) e vi si suppone che una vecchia prostituta istruisca, in una quindicina di lezioni, un'ancor ingenua apprendista. L'anziana maestra è, però, malandata, in cattive condizioni, in miseria. Non è che si sia arricchita. E perché - ecco la spiegazione delle sue disgrazie - "non seppi fermarmi nella rettorica, volendo trapassare nella filosofia". E per retorica intende l'arte di simulare e di dissimulare: questa sì procura piaceri e ricchezze, scansa i pericoli, mentre la filosofia, nella sua pretesa di verità, nel suo non accontentarsi della sorte favorevole, porta alla rovina, allo scacco. Ma non è che Ferrante Pallavicino si identifichi colla protagonista del suo dialogo. Di per sé lo scritto vuol essere messa in guardia nei confronti dell'"artificiosa tessitura" di "frodi" ed "agguati" coi quali le cortigiane irretiscono gli "infelici" che diventano loro "preda". A tutta prima il libello è uno smascheramento d'una "retorica" ingannevole che avviluppa colle sue "artificiose parole e mendicati pretesti". Donde la necessità della vigilanza. Ma non per questo il dialogo si configura a mo' di trattatello morale, ché, per l'autore, la soddisfazione del "desiderio carnale" resta pienamente legittima, è naturale, rientra nel vivere al pari del bere, al pari del mangiare. Non basta: la precettistica a tappe messa in bocca alla vecchia cortigiana ricalca il De arte rhetorica di Cipriano Suarez, le sue lezioni parafrasano quanto "si legge nelle scole" gesuitiche. Il bersaglio di Pallavicino è, allora, la ratio studiorum. "Composta conforme li precetti di Cipriano" la retorica puttanesca. Ma, allora, i "mentiti artificii", gli "inganni", le "ribalderie" sono pure ingredienti della scuola gesuitica. Se le giornate aretinesche svuotano il dialogo umanistico, le lezioni della vecchia alla bellissima giovane avviata al suo stesso "mestiere" vorrebbero fare altrettanto colla didassi della Compagnia di Gesù.
Ingegno irrequieto, acerbo quello di Pallavicino, di fatto non lo soccorre il cinismo astuto col quale Rocco riesce - pur non dicendo "messa", pur vivendo come "ateista" - a schivare i fulmini dell'inquisizione e a finire i propri giorni nel proprio letto dopo aver insegnato filosofia nel convento benedettino di S. Giorgio e retorica in veste pubblica, per incarico del senato. A suo modo questo frate (è canonico lateranense) che, a detta del nunzio a Venezia Francesco Vitelli, non indossa il saio - e in effetti frequenta assiduamente baldracche; e in effetti cappellano per qualche tempo in Germania d'un nipote d'Ottavio Piccolomini ne torna col volto sfigurato dalla sifilide - col suo scrivere e pubblicare a getto continuo (sicché, tra il 1635 ed il 1640 dà alla stampa una ventina d'operette, per lo più smilzi romanzetti desunti dalla Bibbia e dalla storia antica) vorrebbe proporsi al mondo come "scrittore" latore d'"insegnamenti". Zeppe d'"osservazioni politiche e morali" le stente trame delle sue narrazioni. La "storia", la vicenda, avverte egli stesso nella Susanna, non è che "la minima parte" del "libro". In questo e negli altri suoi a carattere narrativo il ruolo "più riguardevole" spetta ai precetti, alle esortazioni. Finalizzato a queste lo scheletrico canovaccio del racconto. Netta la presa di distanza dalla "lussuria degl'intelletti" degli autori volti a stupire col "vaneggiare" immaginifico della penna, laddove egli, di contro, vorrebbe essere maestro e giudice, titolare d'elogi e biasimi, artefice d'"osservazioni" prescrittive, atte a "regolare i costumi", a "ordinar le [...] azioni", a indirizzare i comportamenti. Suo dichiarato intento quello d'adergersi come "scrittore che punge", come "chirurgo" armato di penna che non esita a procedere con "ferite" da taglio pur di far pulizia nella materia infetta. Un bisturi, a questo punto, la scrittura che incide impietosa sin "dove si truova il tumore della colpa", per circoscriverlo ed eliminarlo. E ciò senza riverenze e riguardi per chicchessia, anzi soprattutto mirando agli "ordinari costumi" dei "grandi", alla loro condotta riprovevole. E la condanna non riguarda solo Davide che, travolto da insana passione per l'altrui sposa Betsabea, "aveva per la colpa pervertita la ragione e il senso", ma i potenti del mondo moderno, i contemporanei. Velleitario e sin ridicolo il giovane frate nel suo stridulo catoneggiare, nel suo impancarsi a cattedratico d'austerità dal piedistallo dei suoi romanzetti - e tra questi pure i "soggetti sacri", come il "casto Giuseppe" e il "forte Sansone", desunti dalla Bibbia lo stimolano ad "insegnamenti" politico-morali - dai quali colle sue moraleggianti tiritere mena fendenti generici contro il malcostume. Però l'incoraggia il successo di pubblico. E, allorché il moraleggiare precisa i suoi bersagli nel libellismo dichiaratamente antibarberiniano ed antispagnolo - c'è la denuncia dell'aggressione papale ad Odoardo Farnese della Baccinata [...] per le api barberiniane [...]; c'è Cristo che, nel Divortio celeste [...], si separa dalla Chiesa di Roma a causa delle sue "dissolutezze"; c'è la critica alla politica spagnola de Il corriero svaligiato (12) espressa colla lettura commentata (è lo stesso Pallavicino, preannunciando, ne La rete di Vulcano, l'uscita del libretto, a sottolineare come, "con l'occasione di leggere varie lettere, s'introducono materie curiose e massime spiriti satirici"; e questi, smascherando, sono arma d'intervento) di lettere del governatore di Milano a Roma e a Napoli intercettate (e questa della corrispondenza svelata diverrà formula collaudata cui si rifaranno, nel 1677, Carlo Celano con Degli avanzi delle poste e, nel 1684, Marana coll'Esploratore turco che Montesquieu avrà presente nelle Lettres persanes) -, ecco che il libellista si configura come realmente pericoloso. Va messo a tacere. Particolarmente determinato in tal senso il nunzio Vitelli, che, già scandalizzato dalla Susanna, ritiene Il corriero intollerabile. "A paragone" di questo quella è "niente". Inauditi la "temerità e l'ardire" del pamphlet. "Per stampe di molto minor considerazione" - protesta Vitelli - "si son fatti morire gli auttori".
Costretto ad intervenire il governo veneto fa sequestrare e distruggere le copie dell'opera ed incarcerare l'autore. Lungi, comunque, dall'assecondare la smania punitiva del nunzio, dopo sei mesi di carcere, libera alla chetichella Pallavicino. Evidentemente questi gode di protezioni autorevoli; evidentemente i suoi sarcasmi anticuriali e antispagnoli non dispiacciono. Sicché, una volta scarcerato, riprende a punzecchiare, a recitare la parte dell'autore che, appunto, "punge". Una parte rischiosa. Agevole, invece, pel crocifero pesarese, Tommaso Tomasi - è l'autore de Il principe studioso [...] (Venetia 1643) che, indirizzato ai granduchi medicei in occasione della nascita di Cosimo III, vanta la revisione di Loredan, "il più pregiato scrittore che possieda nel nostro secolo la lingua toscana" - contrapporre alla Baccinata antibarberiniana di Pallavicino, suo collega nel circolo degli Incogniti, un'Antibaccinata che, visto che vi fa l'apologia della guerra contro Parma voluta da Urbano VIII, gli frutta il gradimento romano e una cattedra d'eloquenza alla Sapienza. Nel frattempo Pallavicino, sempre più popolare per le sue stoccate e i suoi affondi di spadaccino colla penna, si fa vieppiù imprudente e ambizioso. Ingenuo presta orecchio ad un francese, tal Charles de Brèche, il quale, guadagnatasi la sua fiducia, gli fa credere Richelieu lo voglia presso di sé come proprio personale storiografo. Finalmente l'occasione di partecipare colla penna ad una guerra vera - quella dei Trent'anni - nell'inebriante prospettiva d'una risonanza europea garantita dall'appoggio del potente cardinale. Sollecito lascia Venezia - ormai troppo marginale per il dispiegarsi delle sue aspirazioni - e si porta in Francia con de Brèche, che, finto amico, lo fa proditoriamente cadere, lungo il tratto Oranges-Nîmes, nelle grinfie dei gendarmi pontifici della papale Avignone. Catturato il 12 gennaio 1643, rinchiuso nella torre "de la Glacière", deve dire addio ai suoi sogni di gloria. Piange, supplica, s'umilia, si batte il petto, tenta di scaricare su altri la responsabilità dei suoi scritti, si sbraccia -una volta costretto ad ammetterne la paternità - a minimizzarli. Di per sé, se presi singolarmente, i suoi libelli non costituiscono, uno per uno, motivo di condanna capitale. Ma, in una valutazione d'assieme, pel reiterato pervicace atteggiamento maledico che li impronta, per la mordacità irriverente che li anima, si prestano, invece - come il papa vuole -, ad essere enormizzati a lesa maestà, ad apostasia. Da punirsi queste con la condanna capitale; decapitato pertanto, il 4 marzo 1644, ad appena 28 anni, nella piazza antistante al palazzo papale, lo sventurato Pallavicino. Trasfigurato, nell'affabulazione dei secoli (cui è riconducibile la reincarnazione nel Ferrante Palla della stendhaliana Chartreuse), in virtù del patibolo, a "martire della verità" - così, d'altronde, già lo stesso Pallavicino si qualifica nel Testamento, sempre che sia stato realmente scritto da lui -, la notizia della sua tragica fine piomba terrificante sulla nutrita colonia intellettuale veneziana gravitante sull'accademia degli Incogniti. Nell'immediato la mannaia del boia non incentiva certo eroici furori, ma paralizza le lingue, immobilizza le penne. In preda al panico gli aspiranti ad una scrittura che, in qualche modo, sia testimonianza di "verità", nell'accezione, piuttosto angusta, di occulta cagione di fatti visibili. Sottesi questi di trame, disegni, conciliaboli, propositi segreti, invisibili agli occhi del volgo che s'accontenta di ciò che si vede, degli effetti. Ma chi vuol capire, chi vuol intendere, chi vuol comprendere deve svaligiare, fisicamente e metaforicamente, il "corriero" latore, per l'appunto, delle corrispondenze dei potenti, delle missive dei grandi. La verità, allora, è ciò che questi progettano, concertano, tramano e non vogliono che si sappia. Scrivere la verità è, dunque, svelare il segreto a dispetto dei grandi, addirittura contro di loro. Coincide, a detta di Boccalini, coll'"esplicare i più reconditi consigli, i più occulti pensieri dei principi". Tant'è che è "odiosa" per l'"orecchio dei grandi". Ne risultano ridimensionati, demistificati, destituiti degli orpelli di cui s'ammantano e con cui si pavoneggiano. La verità è critica dei potenti; e, come tale, suppone una certa qual irriverenza, una certa qual predisposizione alla mancanza di rispetto. E, per quel tanto che ridicolizza, è satira pungente, acre, corrosiva.
Terribile la fine di Pallavicino, penna satirica, irrispettosa, maledica. Loredan - che l'ha protetto sinché a Venezia - ne deduce che è "imprudenza lo scrivere e commentare le azioni de' principi viventi". Nel "secolo infelice", nel "secolo depravato" l'autore veritiero non è tollerato. Impensabile, d'altronde, un rovesciamento dei rapporti di forza che sia liberante. I potenti - insegna Loredan - vengono "dal cielo [...] eletti al comando". L'"opporsi ai loro desideri" è, allora, "pretender" d'arrestare "il moto de i cieli". Il che è impossibile. "I principi - insiste lo stesso - sono in terra imagini di Dio"; "gran sacrilegio", quindi, "il pungerli con la penna". Meglio, allora, "non parli del principe chi non sa lodarlo". Non resta che raccomandare la "prudenza della penna" visto che "commanda il ferro". La "satira", ossia la verità che punge, nella misura in cui irrita il potente satireggiato, di certo "fa piangere" chi la pratica. Così Loredan in una lettera - con tutta probabilità composta però a cose fatte, ad esecuzione avvenuta - indirizzata allo stesso Pallavicino coll'augurio che ciò non abbia a verificarsi "nella persona sua". Se la satira è dir "male di chi può farti del male", non è che pazzia, folle corsa verso la morte. "Imprudente", anzi "pazzo" l'autore satirico, che è tale anche perché s'accosta alla verità, anche perché non resiste alla pericolosa tentazione di dirla. E verità e satira sono tutt'uno laddove fanno risaltare la meschinità dei potenti, ne smascherano le torbide ambizioni, arrecando "ferite più sensibili che quelle del ferro". Ma chi di penna ferisce, di patibolo perisce. "Impresa pericolosissima" scrivere "liberamente" dei grandi sinché "vivi". Per loro la "ferita" subita dalla "satira" è medicabile solo col "sangue dell'offensore". Occorre - Loredan lo raccomanda - "viver tacendo", soggiogare l'impulso dell'"ingegno" coll'autocensura suggerita dalla "prudenza", evitare di proposito il "correre in certe materie odiose e satiriche". Scalpita l'"ingegno" ansioso d'esprimersi "liberamente". Ma va frenato, addomesticato. Per "prudenza" a volte è meglio "non haver" favella, essere senza "lingua". Da spuntare la penna se vuol pungere. Che sia in tal caso senza inchiostro il calamaio. L'uomo dal forte "ingegno", ma di "poco giuditio" rischia "di pagare con un fiume di sangue l'imprudenza d'una goccia d'inchiostro". Un ammonimento la tragica vicenda di Pallavicino. Le "persone dotte" - è sempre Loredan a battere e ribattere sullo stesso tasto - sono tali anche perché avvertite, assennate, giudiziose. Per cui s'astengono dal "pregiudicare [...] alle ragioni" di quanti comandano. Sfolgorante intelligenza quella di Pallavicino, ma dissennata perché imprudente. E ciò sino alla cecità. Ciò sino alla stolidità suicida. Di "poco ingegno", ad un certo punto, chi s'ostina a non secondare "quelle cose che richiede la ragion di governo". In tal caso si è puniti e atrocemente. "Spirito inquieto" - insiste, tra gli Incogniti, Antonio Santacroce nella sua Secretaria d'Apollo (Venetia 1653) - Pallavicino, "di cervello fugace, di pensiero confuso", non ha capito che "parlare di giustizia è semplicità", che "mostrare la ragione è delitto".
Ma se l'intellettuale vuol - com'è giusto: non c'è "obbligazione maggiore", teorizza Santacroce, di "quella di conservare la vita"; è, allora, l'istinto di conservazione quello che ricaccia ogni pretesa di accenno alla "giustizia", è la "prudenza" ad ispirare timore "di parlare in favore della ragione" - vivere, tanto fa che cerchi di farlo al meglio.
Ammaestrante in tal senso la trionfante esistenza di Marino, al quale Loredan - a sua volta maestro nell'indicare chi va preso a maestro - dedica un profilo. "Aborto di poche hore", "prima veduta uscire dalle stampe che dalla penna", a dir di Loredan, la sua Vita del cavalier Marino del 1 633. In realtà è un testo meditato, sin programmatico nel suo proporre come esemplare l'esistenza del poeta napoletano. Un successo costruito col talento inneggiante alla "grandezza" e alla "nobiltà de' più grandi", col "servigio" professato alle remuneranti "affetioni del padrone", coll'ascesa strepitosa prodotta dal mecenatismo dei "maggiori principi", salutata dal fragoroso plauso dei "maggiori letterati del mondo", quello di Marino. Poeta "trionfante" questi per la ricchezza conseguita "co' regali e con l'offerte" di "principi" e "cardinali". E piedistallo per l'ulteriore impennarsi della poesia detta ricchezza. "Non può innalzare il volo dell'animo commenta il biografo - chi è trattenuto dal peso della povertà". E, invece, Marino è balzato talmente in alto - di "servitù" in "servitù"; e, beninteso, "in Italia [...] niun virtuoso può sperare di servire a qualche principe senza fargli il ruffiano" da sfiorare la grandezza dei potenti. Gradito a questi s'è talmente affermato da assumere il prestigio d'un gran signore, da permettersi un tenor di vita principesco, da essere riverito da nobili e cardinali. E quando, nella primavera del 1624, si diffonde a Napoli la notizia del suo imminente "arrivo", se "ne parlava [così Loredan impressionato non tanto dalla grandezza del poeta (su questa giurano tra gli Incogniti Achillirii, Aprosio, Busenello) quanto dal suo strepitoso successo] come de' trionfi d'un Augusto". Trionfale, in effetti, il suo rientro: tutta la città l'applaude e si precipitano "ad incontrarlo venti miglia lontano" i "primi principi" coi "primi letterati del regno".
Una lezione di vita questa di Marino, un magistero comportamentale purtroppo ignorato da Ferrante Pallavicino; e Loredan immagina - ne L'anima di Ferrante Pallavicino, che esce, falsificata nell'anno e nel luogo di stampa, subito dopo la sua morte - che questi gli appaia a chiedergli che stian facendo gli Incogniti. E in via d'allestimento - risponde Loredan - la "seconda parte" delle Novelle amorose, ossia altre 30 rispetto alle 30 della "prima" uscita nel 1641. "Bagatelle", sbuffa il fantasma. Possibile non ci sia da "applicarsi" in una qualche "composizione" che sia "soda", che dia "frutto"? Ma è proprio l'impegno in tal senso che Loredan rifiuta, non senza teorizzare il disimpegno, l'inconsistenza, la friabilità, l'assenza di costrutto. Occorre conformarsi e anche Pallavicino l'aveva fatto in vita coi suoi brevi romanzi conformi, appunto, a suo stesso dire, al "gusto del nostro secolo" che pare "non aggradire i libri [...] di qualche volume" - all'"uso del secolo", il cui "genio" è allergico alle "dotte composizioni" e vuole, invece, si scriva "così", come, per l'appunto, gli Incogniti stan facendo. Donde il loro dilettarsi e dilettare colle Novelle che diventano Cento - e così il "virtuosissimo congresso" offre, se non altro pareggiando nel numero, al secolo il suo nuovo Decameron - nell'edizione del 1651. Espressione collettiva del sodalizio - e, volendo precisare, gli autori sono 35 di cui uno incerto - il suo esprimersi in una raccolta di novelle, tra le quali ne figurano due dello stesso Pallavicino già comparse nella "prima parte" del 1641. Il che è sintomatico d'un certo coraggio: che Loredan teorizzi il disimpegno anche indotto dalla sua tragica fine non significa che l'accademia lo rinneghi. Tant'è che ne Le glorie degl'Incogniti (Venetia 1647) - ossia quell'adunanza di 105 medaglioni biografici colla quale il sodalizio presenta i suoi "illustri" affiliati - lo sventurato libellista (ma non dimenticato da Loredan e non dimenticato da Venezia; e Giovanni Maria Turrini, lo stampatore dell'edizione veneziana del 1655 delle sue Opere permesse, evidentemente suggestionato da Loredan, gli attribuisce una "penna d'oro" dalla quale mai "stilla d'inchiostro" cadde "che non fosse pretiosa gemma" così esaltandolo a "felicissimo ingegno" illuminante "le tenebre del nostro secolo") trova il posto che gli compete.
È morto - vi si dice - per l'"esecrabile tradimento" d'un falso amico; è finito "infelicemente", ma vivrà "celebre [...] nella memoria degli huomini, essendosi raccomandato all'eternità delle stampe". Impressionante pinacoteca bio-bibliografica le Glorie, comunque, attestato orgoglioso d'un'accademia che - tenendo conto d'iscrizioni successive al 1647 - conta, tra il 1630 e il 1660, nella sua trentennale esistenza, circa 150 accademici. Se poi se ne scorre l'Onomasticon, l'impressione è quella d'una pittoresca mescidanza d'atteggiamenti, collocazioni sociali, età, provenienze: vecchi e giovani, pii e scostumati, laici ed ecclesiastici, ricchi e poveri, devoti ed empi, nobili e non nobili. C'è il messinese e il milanese, il "borgognone" e il "corfiota", l'amburghese e il veneziano, il padovano e il nativo di Copenhagen. C'è chi viene "da l'Arno", chi "dal Reno" emiliano, chi "dal Po", chi "dal Tebro augusto", chi dalla "Senna", chi dall'"Istro" o "da l'Ibero" oppure "da la Schelda" canta l'Incognito nativo d'Arzignano Francesco Belli in Nella rinovazione dell'accademia [...] (Venetia 1632). Ma se i non italiani in realtà sono pochi, la varietà degli italiani è tanta e tale da fare degli Incogniti la più variopinta accolita dell'Italia barocca. E - si preoccupi o meno di far capo agli Incogniti, l'accolgano o meno questi tra le loro file - ancor più variopinta l'intellettualità confluita da ogni dove a Venezia per tentarvi il mestiere di scrivere, mescolando, più o meno fortunatamente, avventure di vita e di penna. Vivere a Venezia per scrivere e stampare a Venezia, insomma, e anche scrivervi e stamparvi pur di vivervi. E, nell'esercizio sin frenetico della scrittura, l'assillo di scrivere per campare - ma non basta scrivere molto, ché il guadagno è pur sempre modesto; e, se il poligrafo non è previdente e sparagnino, muore in miseria, come capita a Bisaccioni che finisce poverissimo i suoi giorni, 1'8 giugno 1663, in quella Venezia dove pur tanto ha scritto e pubblicato -, ma anche l'orgoglio di saper scrivere. E, nell'assenza d'una corte accentrante, nell'assenza d'un'università mentalmente disciplinante, uno scrivere sollecitato dall'editoria, ad andamento sussultorio, in ordine sparso, con un che d'improvvisato, d'impaziente, di frettoloso, di restio alla ponderazione, d'allergico al ripensamento.
"Centro di nove", d'altronde, Venezia, crocevia d'"avvisi" in arrivo e in partenza, vi si affannano sgomitando competitivi, "novellanti", "fogliettanti", "foglianti", "riportisti", "rapportisti", "scrittori di riporti" e "rapporti", "gazzettisti", informatori di principi, confidenti d'ambasciate, spie, doppiogiochisti (13). Una pressante atmosfera di cattura di notizie, di propalazione d'informazioni, di spionaggio di cui risente la stessa storiografia nella misura in cui - affannata a sua volta per correr dietro al presente - contratta spudoratamente toni e contenuti, allusioni e rivelazioni, elogi e denigrazioni. Ricattato e ricattante l'"historico" non più che tanto distinguibile dal "gazzettante", disponibile com'è a stesure prezzolate, a manipolazioni e a rimanipolazioni. Tutt'altro che inespugnabile la sua "ingenuità", sospetta la sua "sincerità", affittabile la sua professionalità,
pagabili omissioni e aggiunte. A Luca Assarino - lo storico delle "rivolutioni di Catalogna" e delle "guerre e successi italiani" dal 1613 al 1630 (inedito il proseguimento sino al 1660) - pur sapendolo al soldo della corte sabauda, l'ambasciatore veneto a Torino fa intendere che "i savi principi [ossia Venezia] sanno praticare caute maniere per vedere che gli historici non si allontanino dal vero nello scrivere le circostanze de' fatti importanti". In altre parole gli prospetta una ricompensa se fornisce - a proposito dell'aiuto francese a Candia - una versione gradita alla Serenissima, ossia senza "veleno" a danno di questa. La "verità" dell'"accaduto", se esposta con rispetto di Venezia - peraltro, a suo tempo, omaggiata da Assarino nel celebrare, con "riflessioni ossequiose", Le meraviglie dell'Arsenale (Venetia 1639) -, sarà premiata con congrua "gratitudine".
S'evince da questa segreta trattativa - una tra le tante - che la "verità" è strattonabile e che ha il suo prezzo e che dipende dal prezzo. La si può - talvolta con pochi spiccioli - tacitare, edulcorare, annebbiare, enfatizzare. E la si può pure mettere all'asta, proporla al miglior offerente. Camillo Badoer - figlio naturale d'un nobile veneto scappato a Torino pieno di debiti - offre un suo Compendio geostorico del Regno di Portogallo sia al duca sabaudo che agli inquisitori di Stato marciani. Ma come autore non gode di gran credito. Sicché, per guadagnare qualcosa, si mette, per conto dei secondi, ad investigare sulla paternità di scritti antiveneziani che circolano anonimi o sotto falso nome. Se spacciata da avventurieri a tutto disposti, la "verità" da loro offerta è merce scadente, avariata. Perché sia, invece, realmente tale occorre quella garantita dal pubblico storiografo veneziano Nicolò Contarini che ha scritte le sue Istorie veneziane con "conscientia sincera", trattando "con libertà di [...] qualunque cosa". Vasta, scrupolosa, di prima mano l'informazione "cavata" - come riconoscono i due consultori interpellati sull'opportunità della pubblicazione - dai "puri fonti" d'archivio. Sicché è una "verità" documentata e, insieme, esposta liberamente, senza cautele, senza condizionamenti. Una "verità" che procede di pari passo con la "libertà"; ossia col coraggio di scriverla. Un coraggio che Contarini - membro della classe dirigente, uomo di Stato - possiede appieno e sin troppo. Ché la "verità" delle sue Istorie, facendo tutt'uno collo "stile libero", investe - come sottolineano preoccupati i consultori - "principi grandi", "religiosi", la "Chiesa stessa" con una franchezza che rende inopportuna la stampa dell'opera.
Impretendibili però l'amor di verità e lo scrupolo di verità che animano un Contarini - il quale, proprio per questo, si spinge più in là di quanto possa concedere la veste ufficiosa delle Istorie in chi, privo di forti convincimenti e di consapevoli radicamenti, pressato da quotidiani assilli s'industria a star dietro al correre della storia con una scrittura di tallonante riporto. E il caso, tanto per esemplificare, di Vittorio Siri, un benedettino e poi prete secolare parmense a Venezia - "una città", a suo dire, ideale "stanza" per l'"historico", ché "piena d'ambasciatori e ministri", più d'ogn'"altra del
mondo" frequentata da una "moltitudine di personaggi" - insegnante di matematica e intrigante per conto della Francia dove finisce col riparare. Fluviale la sua produzione: 8 tomi, usciti in varie sedi tra il 1676 ed il 1679, di Memorie recondite relative agli anni 1601-1640 e 15 tomi, stampati pure questi in vari luoghi tra il 1644 ed il 1682, di Mercurio politico, cronaca, gonfiata dall'inserimento di documenti, dall'"innesto" di "scritture, relationi, lettere, discorsi e manifesti", del periodo 1635-1655. All'esordio di quest'ultimo Giambattista Birago Avogadro, un genovese veneziano di cittadinanza e residenza, oppone il proprio Mercurio veridico overo annali universali d'Europa (Venezia 1648), ove, pur scopiazzando abbondantemente quello di Siri, vanta il proprio come veritiero non già perché più ricco di informazioni e dati, ma perché privo delle "molte superfluità" e delle "molte cose offensive di persone grandi" abbondanti, invece, nel Mercurio di Siri. Col che, stando a Birago Avogadro, la verità significherebbe riguardo rispettoso e silenzio. Agevole, a questo punto, per Siri adergersi a bardo di verità replicando, nel 1653, col Bollo sul Mercurio [...] al rivale, bollato, per l'appunto, come plagiario fraudolento disposto a tutto pur di "guadagnare quattro baiocchi". Uno scontro diretto quello tra Siri e Birago Avogadro, provocato da quest'ultimo che evita, invece, di fare altrettanto con Maiolino Bisaccioni - un ferrarese trasferitosi a Venezia e qui membro degli Incogniti - che con lui compete dato che affronta gli stessi argomenti. Commentatore delle gesta di Gustavo Adolfo, Bisaccioni, infatti, coll'Historia delle guerre civili di questi ultimi tempi (Venezia 1645) si sovrappone alla di poco antecedente esposizione delle Sollevazioni de' stato de' nostri tempi (Venezia 1643) di Birago Avogadro, che peraltro si rifà ristampandola aggiornata nel 1653. Ma Bisaccioni a sua volta recupera stampando nello stesso anno le Storie memorabili de' nostri tempi. Birago Avogadro non si lascia, però, distanziare: colle Turbolenze d'Europa, dal 1640 al i 650, ove riprende la monografia sulla "disunione" del Portogallo stampata ad Amsterdam nel 1647, dal 1654 si riporta in testa. Un'affannosa gara, comunque, per ingurgitare notizie a riempire volumi che caratterizza una storiografia che può dirsi veneziana per quel tanto che gli autori vivono e scrivono a Venezia e contemporaneistica per la netta propensione a trattare dei "nostri tempi", degli "ultimi tempi". E se Loredan - già autore d'una monografia sulla Ribellione e morte del Volestain (Venezia 1634) - con la Vita d'Alessandro III (Venetia 1637) e le Historie de' re Lusignani (Bologna 1647) evita la contemporaneità (e, s'è visto, la fine di Pallavicino l'induce sin a teorizzare il silenzio in proposito), in questa s'immergono, tra gli Incogniti, oltre a Bisaccioni, Galeazzo Gualdo Priorato e Girolamo Brusoni. Per tal verso si può sin osservare che - all'interno dell'accademia - i contemporaneisti s'avvicendano. Nato nel 1582 Bisaccioni, nel 1606 il vicentino - e uomo d'armi, sicché come storico risente della sua effettiva esperienza militare - Gualdo Priorato, nel 1614 il polesano Brusoni.
E quest'ultimo - certosino indisciplinato a Venezia ingordo di vita e, insieme, penna instancabile - da un lato prosegue Bisaccioni, dall'altro con lui e il suo competitore Birago Avogadro sembra gareggiare pubblicando una Storia delle guerre d'Italia (Venezia 1656) dal 1635 al 1655 e le Historie universali d'Europa (Venetia 1657) dal 1627 al 1656. L'anno di stampa - si noterà - è immediatamente a ridosso di quello cui arriva l'esposizione. Ciò vale pure per Le campagne d'Ungheria del 1663-1664 stampate da Brusoni nel 1665. Quanto alla sua Historia della guerra di Candia, che esce nel 1673, non è che si fermi al 1669, ma arriva al 1671, sino alla ridefinizione del confine in Dalmazia. Né la "settima impressione", quella torinese del 1680, della sua Historia d'Italia è occasione stimolante di riscrittura; Brusoni ne approfitta per protrarre l'esposizione al 1679, sicché l'opera, gonfiandosi ulteriormente, raggiunge, in quest'edizione in folio, le 1.100 pagine.
Accatastare i "principali successi" d'ogni anno, ragguagliare sull'"ultima guerra", fagocitare gli "avvisi" producono tomi imbottiti di stragi, battaglie, saccheggi, distruzioni, acquartieramenti, manovre, contromanovre, accordi, disaccordi, dichiarazioni di guerra, trattative di pace, avanzate, ritirate, astuzie, atrocità, strategie, tattiche, assedi, contrassedi e tutti spasmodicamente protesi a non lasciarsi sfuggire alcuna "novità". Incalzante inarrestato il succedersi di queste e ansimante maratoneta il contemporaneista intestardito ad agguantarle. Frenetico il cangiare dei fatti, sempre in movimento la storia epperò - anche se non sta mai ferma né possono star fermi i contemporaneisti - come gravata da una sostanziale immobilità, come aduggiata da una connaturata ripetitività. Effervescente, tumultuosa, agitata come il mare in superfice, ma dentro, nel profondo, come il mare immota. Constatabile sì il declino del colosso ispanico, verificabile l'ascesa imperiosa della Francia. E questo è ben movimento. Ma è anche ripetizione: c'è sempre - nella storia - chi scende e chi sale, chi vince e chi perde. Essa, la storia, gira, prevedibile prevedibilissima, su se stessa. Con tutte le sue novità, non contempla la novità della rottura del circolo. E nel ciclo all'insegna dell'avvicendamento la certezza della fine.
Sconfortante - per il veneziano Alessandro Zilioli, lo stesso cui si deve il poema eroico Costantinopoli acquistata (Venetia 1622) - constatare, nelle Historie memorabili di suoi tempi (Venezia 1642-1646 e, di nuovo nel 1652 e nel 1657), che "finiscono le città, s'estinguono i regni", mentre subentrano "come foglie d'albero nuovi huomini e nuovi accidenti". Ossessionata a raccontare dei "nuovi" protagonisti e dei "nuovi" primati la contemporaneistica, ma anche sopraffatta dalla sensazione di raccontare sempre la stessa storia, poiché "il mondo [così sentenzia un personaggio d'un romanzo di Brusoni; e trattasi di grama risultanza] è sempre stato il medesimo", sicché "prova sempre le medesime calamità". Una medesimità, se così si può dire, alla quale è la storiografia stessa ad inchiodarla dal momento che esclude l'autentica "mutatione" - ossia il rivoluzionario rovesciamento dei rapporti di forza - pur richiesta dal ribollire, in basso, dei fermenti rivoltosi. Conati vani e grotteschi questi per lo storico che non ammette possibilità di "democrazia", che esclude concettualmente e istintivamente l'orrore dell'"anarchia", che plaude entusiasta allo schiacciamento col tallone della repressione d'ogni "sollevatione popolare". Statica la storia se gli storici hanno una visione statica dei ruoli, per cui chi comanda sta sempre sopra, chi obbedisce sta sempre sotto, sicché non si dà - perché non lo si vuole, perché non si osa immaginarla; e il difetto d'immaginazione accomuna gli storici, siano essi intimamente religiosi o carsicamente libertini e ateisti - la sovversione dirompente della disobbedienza. Una storia bloccata quella dei contemporaneisti, fatta dai vertici perseguenti il loro "interesse", in mano ai principi miranti al loro "utile". Il re è sempre re. Il grande è sempre grande. C'è, in alto, il braccio di ferro degli opposti interessi, l'interferire degli utili delle corone. Un conflitto esasperato che vede vincente la Francia, perdente la Spagna. E di ciò la storiografia sa dire, anche perché sa capire. Se, però, rotola la testa del re d'Inghilterra, il raccapriccio blocca la comprensione di quel che è discontinuità, rottura, "mutatione". Ferma - lo si è visto - la condanna del regicidio in Nani e comprensibile: membro della ben ordinata Repubblica l'ordine lo desidera ovunque. Impressionante attestato, invece, di subalternità mentale, d'appiattimento servile sull'ottica del potere l'ancor più veemente condanna dei poligrafi istorianti e gazzettanti, disposti a malignare su di un potente se pagati da un altro potente, ma non capaci di cogliere, in un secolo turbolento come il '600, le spinte antagonistiche, gli scossoni rivoluzionari. Sicché Cromwell diventa un mostro, un concentrato di "arti maligne", un demone della "perfida prevaricatione". E peggio di lui la follia dell'assatanata "fattione dei livelliers".
Se il popolo un minimo alza la testa, ecco che diventa "infima feccia della plebe", "plebaglia" spregevole, "vilissima", cenciosa delinquenza, "popolaccio" straccione che - capeggiati dal "vil pescatore" Masaniello, da loschi figuri dagli "abietti natali", dalla "vilissima nascita", dalla "pessima coscienza", dalla "vita scellerata" - ardiscono muovere critiche alle "persone di comando". Indispensabile, in tal caso, il massimo della "severità" e "rigore". Se non ci si oppone con violenza ai "furori" della plebe, sermoneggia Birago Avogadro, essa "prende maggior baldanza". I popolani, spiega, "a guisa di scimie interpretando paura il non mostrarsi con loro severi, inferociscono maggiormente". Meglio bastonarli subito, così "s'avviliscono", così "si rimettono ai voleri di chi" li "patroneggia". Che ognuno stia al suo posto. Cristallizzate le gerarchie. "Tutto il mondo", rimarca Bisaccioni, a cominciare da quello "celeste", è "diviso in gradi maggiori e minori". Mutabili sì la statura dei grandi, l'entità degli Stati, la forza delle corone, ma non la necessità dell'imperio e della correlata obbedienza. In disputa tra loro i "grandi", ma non in discussione la loro dimensione di ossatura categoriale, di nervatura perché la storia regga e in sé e come oggetto d'esposizione, coi "rumori" e gli "strepiti" suscitati dai loro "dispareri", coll'intermittente comparsa della pace conseguente ai loro "aggiustamenti" temporanei. La storia, allora, come racconto di quel che fanno e non fanno. E lo storico - così Loredan - come colui che "è necessitato" ad "adulare o offendere i grandi". La "verità" è, in ogni caso "temerità". Il '600 - così Nicolò Contarini - è un "secolo" in cui essa è particolarmente "odiosa, pericolosa e perseguitata". Di fatto è condizionata dalle pressioni, dalle convenienze, dalle opportunità che costituiscono la concreta situazione in cui il singolo storiografo opera. Se un Brusoni è "stipendiato come novelliere dell'ambasciatore di Spagna", se campa a Venezia "per vie di corrispondenza, di nuove del mondo che andava mendicando da diversi novellisti", è supponibile tutto ciò influisca nel pilotarne la stesura. Se poi, passato a Torino, il 20 agosto 1676 riceve la patente di consigliere e di storiografo con una pensione di 500 ducatoni, ne risulta addirittura ingabbiata la sua possibilità di scrivere liberamente. Comunque ciò non gli pesa più che tanto. Quel che diventa sempre più penoso da sopportare è l'angustia della pensione che poi non viene nemmeno regolarmente corrisposta. Sicché, se nel 1686, ridotto in miseria, chiede di "rimpatriare", non è per bisogno di libertà, ma perché ormai, a Torino, non gli si offre alcunché. I poligrafi scrivono per vivere. Di vero c'è che sanno adoperare la penna. E in ciò ripongono il loro orgoglio.
La verità - che per un Nicolò Contarini è un impegno nobilitante, un dovere con se stesso e con gli altri - non sta in cima ai loro pensieri, non turba più che tanto le loro coscienze. Ciò non toglie che un minimo ci pensino. Pur nella fretta di ultimare, di consegnare i loro scritti alle stampe, qualche problema se lo pongono. O, meglio, qualche problema lo pone la materia, nella misura in cui la storia si svolge a due livelli, quello palese degli scontri militari "in campo aperto" e quello nascosto dei "consigli" nati nel "chiuso" dei "gabinetti" e delle ambizioni e dei propositi che affondano nel lavorio della mente di chi decide. Di per sé la comprensione storica dovrebbe risalire dai "successi" alla luce del sole alla loro sin tenebrosa genesi. Non solo le battaglie, quindi, ma prima e più ancora i "consigli di stato", come insegna Agostino Mascardi - un ligure che figura nella lista degli Incogniti lagunari - nel suo trattato Dell'arte istorica (Roma 1636). Ma, quand'anche lo storico sia in buona fede, ancorché voglia essere veridico (e tale si senta sino a vantarsi, come fa Birago Avogadro, "inflessibile cultore" della "verità nuda, libera e incontaminata"), sino a che punto può accostarsi alla verità? già "soggiaciono all'humano difetto di errare tutti quelli che scrivono historie sopra le informationi altrui", ammette Birago Avogadro. L'errore è già possibile laddove lo storico s'accontenti d'esporre "successi" appresi senza diretta verifica, tratti di combattimenti cui non ha partecipato. Ma come può pretendere di squadernare "i più intrinsechi segreti de' gabinetti"? Impossibile, sostiene Bisaccioni, le "istorie" catturino il segreto.
Impenetrabili le menti, inscrutabili i cuori. Inespugnabile - lamenta Gualdo Priorato che, militare di professione, si sente, invece, sicuro quando tratta di vicende belliche - fortilizio il "gabinetto secreto" ove stanno asserragliati i "pensieri". E poco giova supporre nei grandi simulazione e dissimulazione se poi la storiografia fattasi psicografia non precisa il simulato e il dissimulato, non decifra il cifrato, non dispone del filo d'Arianna per affrontare i labirinti della psiche. Scoraggiata la storiografia con ambizioni interpretanti ripiega sul riporto annalistico dei "successi", delle "stragi del ferro", delle "mine", degli "incendi della guerra". Ogni anno abbonda di "novità" in proposito. Ma le "novità" diventano subito vizze e vecchie ché incalzano quelle dell'anno successivo. Una fatica di Sisifo l'annalistica.
Non la caccia delle nuove dell'anno, ma l'argomento coerentemente perimetrato e coerentemente svolto dà un senso alle fatiche storiografiche. Esemplare, per tal verso, la storia sarpiana dell'assise tridentina, definita "satira", pel suo animus antipapale, da Scipione Errico - il quale è degli Incogniti; e questi, se concordi nel sostenere la grandezza di Marino, ideologicamente e politicamente si frammentano in una varietà di posizioni suggerite se non altro dalle convenienze; amico di Loredan Errico, ma anche docente nello Studio della natia Messina di teologia e filosofia morale e pure in questa nominato canonico; conveniente, in tale situazione, figurare antisarpiano -, autore d'una Censura [...] adversus - pseudo historiam (Dilingae 1654) di Sarpi. È comunque accostabile a questa sarpiana la Storia delle guerre civili di Francia di Davila. Ci vuole un argomento che sia sì attuale - nel senso che, anche se passato, incide nel presente, lo segna della sua impronta -, ma non stralciato correndo dietro alla storia che corre, non agganciato coll'affanno dell'esasperato contemporaneismo, bensì interpretabile come vicenda il cui senso s'affida alla capacità ricostruttiva dello storico. L'Istoria delle guerre civili d'Inghilterra tra le due case di Lancastro e Iorc (Venezia 1637-1644) del dalmata anglicizzato - ma pur sempre in rapporto con Venezia ove è membro degli Incogniti - Giovanni Francesco Biondi costituisce, per l'appunto, uno sforzo di ricostruire interpretando. Nel crogiolo sanguinoso - questo il succo della trattazione - della guerra delle due Rose si forgia una monarchia che l'autore definisce "aristodemocratica". Ma al di là di questo tentativo di cogliere una struttura peculiare, diversa da quella assunta dal potere monarchico in Francia, v'è in Biondi la sicurezza di stendere una storia d'una qualche utilità: giova alla "prudenza civile" allargare la considerazione a vicende non circoscritte alla "patria sola" e non vicine nel tempo. E si sente un'eco della lettura di Machiavelli laddove osserva che la "mansuetudine", apprezzabile nei singoli e nei rapporti interpersonali, politicamente non è una virtù. Se lo scontro si fa duro necessita la "fortezza". E l'osservazione che la presenza della corte fa lievitare i prezzi si fa notare perché - in genere - nella storiografia del tempo valutazioni di carattere economico sono inusuali. Una monografia compatta quella di Biondi. Non altrettanto le Memorie istoriche de' monarchi ottomani (Venetia 1673 e, di nuovo 1688) di Giovanni Sagredo - più noto per il ricalco decameroniano del novellare incorniciato (e qui compaiono novelle d'argomento turchesco; e, tra queste, quella del Gran Signore che entra a Costantinopoli è grevemente oscena: allude all'erezione con penetrazione) e scandito in giornate dell'Arcadia in Brenta (Colonia 1667); scivola leggero sulle acque tranquille del fiume il burchiello, "stanza mobile", "appartamento nuotante", dove un'eletta (socialmente) compagnia di giovani e donzelle s'intrattiene, appunto, spettegolante, motteggiante e novellante; comunque, va pur questo sottolineato, la cornice finisce col sovrastare il contenuto, deflagra e deborda - farraginosa compilazione che va dalle prime incerte notizie sui capi tribù delle steppe asiatiche al 1640 spingendosi, nella parte rimasta inedita, al 1671. Barbaro il Turco? Sagredo propende a crederlo. Licenza a delinquere la sua religione. Epperò Maometto è anche "sagace architetto" d'un sistema che - pur nella divaricazione esacerbata tra arbitrio tirannico del sultano e abbrutita soggezione d'una sterminata massa di "schiavi" - regge anche perché religiosamente coeso. Certo: il Turco è il nemico, è l'infedele. Ma forse è il caso d'intenderlo visto che con lui si commercia. E si sforza di farlo Giambattista Donà - per interessamento del quale esce a Bassano nel 1687 Il moro trasportato nell'inclita città di Venezia o vero curioso racconto de' costumi, riti e religione de' popoli dell'Africa, America, Asia ed Europa del missionario piacentino Dionigi Carli (il quale, durante la guerra antiturca, svolge il suo ministero spirituale nell'armata dei collegati, a Cefalonia e, forse, nella Morea riconquistata) - col libriccino Della letteratura de' turchi [...] (Venezia 1688) che esce simultaneamente ad una Raccolta curiosissima di adagi turcheschi allestita dai 4 "giovani di lingua" di cui s'è avvalso Donà durante il suo bailaggio, del 1681-1684, a Costantinopoli. Pur in quel 1688 che vede in Francesco Morosini il campione di Venezia contro la mezzaluna, pur nell'euforia della riscossa antiturca, s'innesca un embrionale trapasso dalla turcofobia ad un'incipiente turcologia. Laddove i poligrafi contemporaneisti proseguono nel ripetere gli usuali vituperi contro l'Infedele, balugina l'attenzione per il suo poetare e il suo proverbiare. E per intenderli un po' li si traducono. Non del tutto digiuno, al contrario dei suoi predecessori e dei suoi successori nel ballato, Donà del Turco. E lo conosce appieno il dragomanno Gian Rinaldo Carli, traduttore della Cronologia historica (Venezia 1697) di Hazì Halifè Mustafà e suo erudito annotatore (14).
Anche così, coll'apparato annotatorio, s'affaccia e s'impone l'erudizione, il cui affermarsi s'impianta sulle rovine dell'esasperato contemporaneismo dei poligrafi, tra i quali un Brusoni - che muore a Torino nel 1686 - è ormai un epigono d'una storiografia spasmodicamente protesa sul presente investito da una febbrile ansia di riporto. Donde i troppi libri, libracci, libroni sciatti nella stesura e brutti pure editorialmente. E, in questi, l'accumulo indiscriminato di fatti e fattacci non gerarchizzati. E intermittente un sentenziare estrinsecamente commentante ché, come insegna nell'Arte istorica Mascardi, lo storico non dev'essere "taciturno uditore e spettatore nel teatro in cui si rappresentano gli accidenti del mondo", ma anche commentare, sentenziare. Un'indicazione che esprime la coriacea convinzione che la storia sia maestra di vita, anzitutto "dei governi di stato", ché mostra, così Maiolino Bisaccioni, loro, esponendo gli "incidenti altrui", quanto è da "seguire" oppure da "fuggire" o, quanto meno, da "schivare". Essa, "l'historia", insiste, a premessa della sua Historia delle guerre d'Europa (Venetia 1698), Nicolò Beregan un vicentino avvocato a Venezia, è "erudita scuola d'anatomia", nella quale dalle salme delle "repubbliche" defunte e dagli "squarciati cadaveri delle monarchie già spolpate s'impara l'arte di preservar le presenti". Ma poiché i fatti non sono abbastanza eloquenti, ecco che sta al massimeggiare estrarne essenze didattiche. Ma se quel che conta è l'insegnamento racchiuso nelle massime, tanto fa antologizzarle. I fatti si dimenticano, le massime restano radunabili sì da "saggiamente abbellire la faccia dell'animo". Perché sobbarcarsi la lettura della voluminosa e circostanziata Storia guicciardiniana quando il gesuato Girolamo Canini - traduttore di Tacito e di Montaigne - ne estrae 1.181 Aforismi [...] (Venetia 1625) utili a "ben governarsi [...] negli affari pubblici"? Solo che, una volta scorporate dall'organismo vivente dell'opera di Guicciardini le massime che in quella fanno tutt'uno coll'interpretazione dei fatti, diventano un massimario ricettario multiuso da appiccicare ai fatti presenti e futuri. Sicché massime desunte da Guicciardini o riecheggiate da Tacito circolano rimasticate nell'annalistica dei contemporaneisti. Questi sono troppo intenti a star dietro ai "correnti affari" per avere "il tempo" di meditarli nella stesura del "frettoloso componimento". Sicché da un lato pescano nel repertorio delle genericità la massima che sembri acconcia, dall'altro, se tentano di massimeggiare in proprio, la fretta impedisce un'adeguata riflessione. Sicché sono sin banali. Per tal verso sentenziano meglio i romanzieri. Indicativo che Vincenzo Armanni, un letterato umbro, dia alle stampe una Raccolta di tutte le sentenze, detti e discorsi morali, filosofici, politici (Viterbo 1638) contenuti non già nell'Istoria della guerra delle due Rose di Biondi, ma nella sua fortunata trilogia romanzesca, costituita da L'Eromena, La donzella desterrada e Il Coralbo - e, volendo distinguere, nel primo titolo prevale l'eroismo, nel secondo la ragion di Stato s'affaccia non senza sovrapporsi all'eroismo, nel terzo si vagheggia la monarchia "giusta", lontana e dalla tirannide e dalla "licenziosa libertà popolare" - stampati a Venezia rispettivamente nel 1624, 1627 e 1632. Se la storiografia antica ossia Tacito e moderna ossia Guicciardini è magazzino di ricette comportamentali, ecco che anche la narrativa d'invenzione può assumere la stessa funzione. Accostabili se non altro per questo, pei "concetti politici e morali", storiografia e romanzeria. E poiché più d'uno storico è anche romanziere (Biondi, Bisaccioni, Brusoni) e viceversa, detta accostabilità si spinge oltre sino alla commistione, all'equivalenza, all'intercambiabilità. La distinzione, in linea teorica netta, tra "historia" e "favola" e/o romanzo tende a venir meno nella misura in cui il fantasma della verità in quella più che tanto non s'incarna (e per l'inaccessibilità dei pensieri e dei propositi dei grandi e anche per il timore di urtare, colla veridicità, la loro suscettibilità) e in questi fa, magari camuffato, la sua comparsa. E se le storie talvolta sono a tal punto inattendibili sicché più d'uno le considera "fole", "favolosi racconti", le "favole" sono talvolta prese a tal punto sul serio da essere lette come storia in cifra della decifrabile verità. E il poligrafo che sia storico e romanziere insieme sa benissimo che è possibile "istoriare" colle "favole" e "favoleggiar" colle "istorie". D'altronde abbondano i "successi" che, pur reali, sono qualificati "favolosi"; e del pari vicende parto di fantasia sembrano più vere di quelle vere. E "tratte dal vero le favole" sovente, nonché "tessute su l'orditura del vero"; e sovente fallose in fatto di "vero" le storie, se tessute con la menzogna camuffata. Nel barocco trasformarsi dei contenuti - il "piacer" diventa "doglia", la bellezza si dissolve in un grumo di cenere, Democrito "stempera il core in riso", Eraclito "stilla il core in pianto" -, nell'esuberanza che produce la debordanza del barocco slittar delle forme - la poesia che si fa musica, l'architettura che si fa scultura, la scultura che si fa pittura - il confondersi delle "novelle istoriche" colle "istorie favoleggiate". Scrivendo di "successi favolosi", dichiara il romanziere veneziano Nicolò Maria Corbelli, non perdendo di vista il "verisimile", perciò "vo imitando la storia". Così nell'avvertenza al lettore premessa a Gli amori fatali (Venetia 1667). Lo stesso successivamente presenta la sua Historia egitia e persica (Venetia 1684) non già, come sembra a tutta prima, quale "pura e mera favola", ma come "historia [...] bizzarra", come, precisa, "opera [...] historica [...] tramezzata da [...] inviluppi favolosi". Una storia a chiave L'Eromena di Biondi una volta identificata l'eroina con Elisabetta figlia di Giacomo I d'Inghilterra e moglie dell'elettore palatino Federico V. E leggibile il presente anagrammato negli Accidenti di Cloramindo principe di Ghenuria (Venetia 1639) di Francesco Belli che, scadente poeta, tenta, con questo suo romanzo, "di narrare con frutto", attento perciò al "reale". Sin il titolo indirizza in tal senso: Ghenuria sta per Ungheria. Nulla vieta, si teorizza, di mescidare colle "favolose narrazioni qualche istorica verità". Maestro in questo Loredan con la Dianea (Venetia 1635) - romanzo, nel secolo della fortuna del romanzo, nel "gran secolo di romanzi" giusta l'espressione di Luca Assarino, fortunatissimo: un'edizione veneziana del 1667 si dice ventitreesima; nel 1671 esce in traduzione tedesca -, ove narra del contrastato amore, appunto, di Dianea, figlia del re di Cipro, per Diaspe, principe di Creta in tempi lontanissimi, vagamente ellenistici. Ma col ricorso al racconto nella fattispecie di Floridea -, nel racconto si adombrano le vicende della guerra dei Trent'anni. Il coraggioso re dei Vesati è Gustavo Adolfo. Il duca di Lovastine è Wallenstein. E c'è una corte, nella Dianea, concentrato d'"avarizia", "adulazione", "crudeltà", "ipocrisia", impasto dei "vizi più esecrabili". Con una libertà impensabile in un'opera storica propriamente detta qui Loredan mira a colpire la curia romana. Ma, allora, si capisce perché - nella dedica del romanzo lo definisca "favola non favola". E ciò non solo perché la "favola" nel suo trar "materia dalla storia" con questa si confonde - e come definire, per tal verso, Il Demetrio moscovita (Venezia 1639) di Bisaccioni? romanzo storico o storia romanzata? -, ma anche, nel caso di Loredan, per consapevole adesione al gusto barocco del trasmigrar delle forme, al cangiar delle parvenze. C'è ben, nella Dianea, un personaggio che predilige i "pesci non pesci", le "carni non carni". E dedicatario della Dianea Domenico Molin, un patrizio la cui auctoritas, da usare in sede politica, s'avvale delle tante dediche di tante opere a stampa che a lui si indirizzano omaggianti. Ebbene: Molin è l'anfitrione d'un memorabile banchetto - e se ne ha notizia grazie ad una lettera allo stesso Loredan dall'amico nonché sodale d'accademia Pietro Michiel - ove l'"arte" trionfa sulla "natura". Sicché - nella metamorfosi della barocca imbandigione - "pesci" e "carni" cangiano "sostanza e natura". Stupiti i commensali stentano a raccapezzarsi: che hanno veramente sul piatto? vale l'occhio o vale il palato? come regolarsi se il pesce è non pesce, la carne è non carne, se la favola è non favola, se la storia è non storia? Forse ne va dedotto che il vero è non vero, che il falso è non falso. "Strano viluppo", inestricabile quello costituito dal "mentito aspetto". E l'identità ondeggia e barcolla se gli "amanti aperti" diventano "rivali occulti" e viceversa. E perdita d'identità l'amore se, colle sue "tormentose illusioni" costringe - così Loredan - a vivere "in me stesso, lontano però da me stesso e senza la conoscenza di me stesso". Non si sa più se si vede o si farnetica, se si ha a che fare con "ombre" o "corpi", con "apparenze" o "sostanze". Se ne può approfittare per sdoppiarsi, per dirsi e disdirsi, per palesarsi e per occultarsi.
Ci si può nascondere dietro uno pseudonimo. Loredan assume quello di Henrico Giblet. Ma, laddove, col proprio vero nome si mette a scrivere al "cavalier Giblet, ecco che questo assume una consistenza autonoma. Nome di fantasia, questo di Giblet, ma anche destinatario di vere lettere. Sta, dunque, allo scrittore se non altro giocherellare tra lo svanire delle consistenze e il sostanziarsi delle apparenze e confondere di proposito. Proprio perché "macchina" fabbricata dall'"ingegno ", il romanzo si presta, quanto meno, alla fabbricazione della mescidanza. E più d'un romanziere - e Brusoni è tra questi - dichiara d'aver "mescolato con le favolose narrazioni qualche istorica verità". Fatto sta che, nella narrativa lagunare, realtà e fantasia si mescolano: un rimbombo delle rivolte catalane s'ode nel Rodrigo (Venezia 1647) di Francesco Agricoletti; e nell'Historia del Cavalier Perduto (Venezia 1644) di Pace Pasini, un vicentino ascritto agli Incogniti, ove il protagonista s'innamora della splendida Dobbrizza dalla bruna chioma figlia dell'illuminato re Gheorgonico, è ben riconoscibile il paesaggio della Dalmazia. Nota questa all'autore che, per le sue propensioni eterodosse, v'è stato relegato un paio d'anni. La Giadra, sede nel romanzo della corte, è Zadar, Zara. Ravvisabili in questa la sagoma della chiesa di S. Simeone, l'alta torre medievale detta di Bovo d'Antona. E vi si parla "schiavo", vi si veste "all'usanza dalmatina", "all'usanza schiava". Schiavone l'"habito" del Cavalier Perduto. E non si può dire non sia elegante. Ma di lui ancor più elegante il bellissimo Glisomiro, l'eroe della trilogia brusoniana - costituita da La gondola a tre remi (15), Il carrozzino alla moda, La peota smarrita, ossia del "passatempo cavalleresco", del "tratenimento estivo", della "ricreazione d'ingegno", giusta la definizione dello stesso Brusoni per questi tre suoi titoli che escono rispettivamente nel 1657, nel 1658 e nel 1662 e messi tutti e tre all'indice nel 1665 e nel 1669 - colla quale la narrativa prende le distanze dalle vaghezze cronologiche e paesistiche del genere eroico galante e si fa romanzo, grosso modo, di costume. L'ambiente è veneto, tra Chioggia e il Sile, tra Malamocco e il Padovano, i tempi coincidono, all'incirca, con quelli della guerra dei Trent'anni e Glisomiro è un guerriero in riposo, signorotto con "giurisdizione", amato dalle donne e invidiato dagli uomini e paventato dai mariti; egli "non pensa a" prender "moglie per non legare la libertà del suo genio", il quale si sbriglia nelle tante avventure galanti e brilla nel flusso d'una conversazione che nel suo trascorrere incentiva la proliferazione dei racconti la cui movimentazione interna un minimo sopperisce alla sostanziale immobilità della vicenda principale.
Bellissimo e intelligentissimo Glisomiro nonché ricco e munifico è un po' quel che Brusoni, nella sua stenta e disagiata vita, vorrebbe essere per primeggiare - come lui - al centro d'una conversevole societas che, invece, può solo bordeggiare. Nella cesellatura del suo mondanissimo eroe Brusoni - cattivo frate e poi convivente con una donna con tutte le angustie d'una famiglia naturale da mantenere - mette le aspirazioni e le frustrazioni d'un'esistenza chiusa in miseria. Forzato della penna lo sfortunato Brusoni che si consola con questo suo c'est moi compensatorio. È lui il primo ad invidiare il bel Glisomiro che, dato l'addio alle armi, assapora la vita in una situazione socialmente privilegiata di ricco cavaliere bramato da gentildonne e fantesche, che sa distinguersi per ricercatezza d'eloquio ed esperienza del mondo in una conversazione il cui dipanarsi costituisce l'autentico leitmotiv del trittico romanzesco brusoniano. In questo non succede più che tanto; in compenso si parla tanto. E gli argomenti non mancano: il carattere dei Tedeschi, la ragion di Stato, l'onore, le guerre in corso, il galateo, il matrimonio, il vino, il sesso, la cosmetica femminile. E non mancano gli interrogativi: è meglio il passato o il presente? è più grande Tasso o Ariosto? Se nei romanzi eroico-galanti l'eroe o l'eroina riesce a salvarsi dopo inaudite peripezie, Glisomiro è protagonista perché principe d'una conversazione da lui egemonizzata. E mentre parla le donne - siano esse "da buon tempo" o contegnose - lo guardano ammirate, l'ascoltano incantate.
Sicuro di sé il donnaiolo Glisomiro, razziatore di cuori proprio perché padrone di sé, proprio perché incapace di perdere la testa per una qualche donna. Don Giovanni tra villa e città, tra Venezia e Terraferma, tra Brenta e laguna si staglia colla sua avvenenza e colla sua sapienza del mondo in una cornice insulare e campestre in cui contrasti e conflitti sono echi attutiti. È, tutto sommato, disimpegnato, perché non avverte pressanti necessità d'impegno. Epperò - laddove la narrativa voglia essere edificante, incoraggiata in tale direzione dal successo del vescovo di Belley Jean-Pierre Camus -, eccola pronta a proporre, come fanno, tra gli Incogniti, Bernardo Morando, Luigi Manzini, Giovanni Battista Moroni, racconti ove c'è sin l'impegno alla santità. E il sottogenere del romanzo spirituale s'impenna con Il cappuccino scozzese (Fermo 1644) dell'arcivescovo di Fermo Giovan Battista Rinuccini, ristampato più volte. E almeno due le edizioni veneziane, una del 1645, l'altra del 1663. Coll'"istorica verità" di protagonisti ardenti di zelo cattolico il romanzo ambisce ad essere lettura formativa. E ciò con un'ambientazione sempre più geograficamente e cronologicamente precisata come nel caso de La turca fedele [...] (Lucca 1686 e, di nuovo, Venezia 1686 e 1696) del veneziano Teodoro Mioni ove l'eroina, convertita al cattolicesimo, si muove sullo sfondo dell'assedio di Buda del 1686 (16). Se il romanzo è una storia vera, ecco che l'aggiornamento vale anche per lui.
D'altronde Mioni - celebrante in un' Oratione (Venezia 1688) l'assunzione al dogado di Francesco Morosini - aggiorna ben con un Suplemento relativo al 1679-1688 il Ristretto dell'historie del mondo (Venezia 1688) d'Orazio Torsellini. Ma anche senza giungere a tanto, cioè a stampare un romanzo nell'anno stesso in cui culmina cronologicamente la vicenda, basta la convocazione di tempi moderni a proporre figure che, animate dalla fede, un minimo emozionino i lettori. Se il Glisomiro brusoniano ha il culto della propria, per dir così, medesimità, non sarà, come dice di sé, "mai diverso da" se "medesimo", il personaggio pervaso di religiosità intende migliorarsi e/o lotta per la fede. Ed "amazzone scozzese" pugnacemente cattolica tra calvinisti effigiati con tratti demoniaci La marchesa d'Hunleii (Venezia 1677 e, di nuovo, 1723) d'Antonio Lupis, un prete di Molfetta che vive a Venezia da tempo ed è presente tra gli Incogniti nell'ultima fase della loro esistenza.
Autore de L'Annibale (Venezia 1667 e di nuovo 1696) e de La Faustina (Venezia 1666) - costei è la moglie adultera di Marco Aurelio; e ad edificazione dei lettori Lupis sottolinea la sua depressione dopo l'amplesso; "solo il gallo [commenta] tra tutti i parti della natura canta dopo il coito" -, di Lupis merita attenzione la Vita (Venetia 1663) da lui dedicata a Loredan scomparso nel 1661. Questi è morto - come s'apprende dall'antecedente Vita (Venetia 1662) di Gaudenzio Brunacci un marchigiano medico a Venezia, già autore della Sofonisba (Venezia 1661) e già distintosi, colla stampa d'un intervento, come fautore sull'utilità terapeutica del chinino - a Peschiera stroncato dall'"insalubrità dell'aria", dopo essere stato confessato da padre Girolamo Olivi dei minimi di Pistoia. Una morte munita dei conforti religiosi, "lodando Iddio", formando - e qui Brunacci adopera titoli dello stesso Loredan, il quale, autore del romanzo morale (e misogino: la donna nasce "dal lato sinistro" dell'uomo, latrice di "sinistra fortuna") L'Adamo e d'una Vita del vescovo di Traù s. Giovanni Orsini, ha ben commentato i salmi penitenziali davidici nei Sensi di devotione [...], ha ben parafrasato i "salmi graduali" sempre davidici nei Gradi dell'anima [...] - con "sensi di devotione nuovi gradi alla sua anima per salire all'empireo". Ebbene: questa fine devota è addirittura teatralizzata da Lupis. Loredan, nell'approssimarsi della morte, si confessa in lagrime, stringe appassionatamente il crocefisso. Si sente "peccatore" indegno del perdono di Dio, ma confida che questi, nella sua immensa bontà, voglia non infierire dimentico delle "offese" da lui ricevute. Tra sospiri, singulti, ansiti l'agonizzante si comunica. "Rincorato" dal "pane degl'angioli", riceve l'estrema unzione e spira sereno, consolato all'idea che il suo corpo sarebbe stato sepolto "in habito di cappuccino". C'è, in questa versione di Lupis, come la preoccupazione da un lato di fugare del tutto i sospetti sulla sincerità del pentimento di Loredan, dall'altro una volontà di rifarsi alla "pietosa storia" - così Achillini nell'apprendere da una lettera, del 2 aprile 1625, di Girolamo Preti dove questi assicura che il poeta napoletano "è morto da santo" - della fine di Marino. Che sia morto piamente lo garantisce amplificante il letterato comasco Giovan Battista Baiacca nella Vita (Venetia 1625), appunto, di Marino. Singolare, comunque, che il finale edificante a riscatto di vita non edificante accosti Loredan, già biografo di Marino e banditore del marinismo in laguna, proprio a Marino. E pure singolare che Lupis ne La valige smarrita (Venetia 1686) faccia figurare delle lettere che avrebbe scritte a Pallavicino ("rever. padre" stando all'indice dei nomi) - una falsificazione: Lupis non era ancora a Venezia, non era ancora degli Incogniti - per redarguirlo sulla "malignità dei suoi concetti", sulla erroneità della sua "dottrina". Meglio "una santa ignoranza" d'una teoria "malvaggia". E meglio non scrivere o addirittura non saper scrivere se il "calamaio" deve alimentare "un'atra bile verso i prencipi". Sicuramente - argomenta Lupis - "il paradiso" non esige "scritture ". Laddove - si ricorderà - Loredan aveva dedotto dalla sventura di Pallavicino una lezione di prudenza, ma non per questo l'aveva dannato, Lupis finge d'aver prospettato per le sue "scritture" non improntate dal "bene" la punizione delle fiamme infernali, della dannazione eterna. Ma forse è preoccupato di minimizzare il significato della sua affiliazione agli Incogniti da un lato collocando in paradiso il pentito Loredan, dall'altro cacciando all'inferno il non pentito Pallavicino. E a proposito di quest'ultimo, colle finte lettere, vanta il suo benemerito prodigarsi pel volgerlo al bene. E a questo ha pure mirato col romanzo del 1677. Ed è pure edificante L'eroina veneta (Venetia 1689) ove profila Elena Corner Piscopia.
Sin qui, in questo secondo paragrafo d'un capitolo dedicato alla vita intellettuale, gli Incogniti - o Veneziani di nascita o invenezianati e dai soggiorni in laguna e dalla partecipazione alla vita del sodalizio - hanno fatto la parte del leone. In effetti l'accademia che li raduna è quella, nell'Italia del '600, a più alto tasso di rappresentanza in fatto di comportamenti e di scelte espressive. Se il marinismo impronta, dilagando contagioso, la produzione in versi lo si deve anche all'assiduo marineggiare degli Incogniti quando verseggianti e all'oltranzismo marinistico capeggiato dal loro fondatore Loredan, il "principe de' letterati del nostro secolo" e, come tale, il più "autorevole", a detta di Pallavicino, "per secondare gl'ingegni", loro accreditato maestro, nonché, assicura più tardi Gualdo Priorato, colui la cui fama ha "per circonferenza [...] l'universo". Autorevolissimo Loredan e autorevoli, di riflesso, gli Incogniti. Non che il marinismo - presente in laguna già da un pezzo - debba attendere, per affermarsi, la nascita di quest'accademia. Ma in questa il marinismo sin si istituzionalizza ché ad esso aderiscono e quanti (Casoni, Leonardo Querini, Giovanni Battista Bertanni, tanto per esemplificare; ma occorrerebbe distinguere tra l'apertura anche ad altre suggestioni del primo, gli addolciti languori madrigaleschi del secondo, e l'imitazione un po' pedissequa del terzo il quale, poi, nella tragedia del 1642 La Gerusalemme assicurata, passa ad imitare Tasso, traendone interi versi), come lirici, già risentono del poeta napoletano e quanti si sono già distinti nel costituirsi, pratico e teorico, d'un autentico fronte determinato a far piazza pulita delle velleità di resistenza al clamoroso imporsi dell'opera di Marino e della poetica che l'ispira. E il futuro Incognito Achillini ad ispirare la stampa della Difesa dell'Adone (Venezia 1629-1630) di Girolamo Aleandro; è il futuro Incognito Busenello - il librettista di Monteverdi e Cavalli - a stampare, nel 1624, la Stiglianeide. È col plauso degli Incogniti che il pistoiese Niccolò Villani - che, prima di tornare a Roma, è per qualche tempo a Venezia - si specializza nell'uccellare il malcapitato Stigliani. E il duo Busenello-Loredan rasenta sin lo squadrismo nel suo capeggiare il partito dei marinisti quando lo mobilita per distruggere le copie delle opere di Stigliani ancora esistenti nelle botteghe di libri veneziane, quando s'adopera a che nessun tipografo lagunare ardisca stamparlo. E poiché pare intenzionato a farlo lo stampatore Francesco Baba, ecco che, Loredan in testa, la fazione dei marinisti ad oltranza lo convince - versandogli 50 zecchini - a rinunciare alla ventilata pubblicazione. Fantoccio per tiro al bersaglio il poeta lucano. E su di lui - ormai definitivamente sconfitto - infierisce azzannante, sferzante, stritolante l'eremitano ligure Angelico Aprosio (17) anch'egli degli Incogniti e tra questi, durante il suo soggiorno veneziano, esibente un entusiasmo per Marino sin sfegatato, con un che di scalmanato come di chi sta recitando con foga eccessiva schiamazzando e caprioleggiando per attirare l'attenzione di un pubblico altrimenti sbadigliante. Ad ogni modo
se non altro per far stravincere l'autore dell'Adone sul suo velleitario antagonista autore di quel Mondo nuovo la cui "eroica azione" è funestata, come fa dire ad Apollo Scipione Errico, da "uno stile simile a quello di Buovo d'Antona" - finisce che si ragiona di poesia. Ed ecco, sempre tra gli Incogniti, la scrutinante "secretaria d'Apollo" sceneggiata da Antonio Santacroce: ed ecco, da parte di Pasini, la simultanea uscita di Rime (Vicenza 1642) - suddivise in "errori", "honori", "dolori", "verità e miscugli" - e d'un Trattato [...] (Vicenza 1642) sulle metafore, sui "passaggi dall'una [...] all'altra", sul loro proliferante autoalimentarsi dilatante. Strumento e anima della poesia la metafora. E sin coincidente il rimare e il metaforeggiare.
Però il poeta di più netto rilievo resta, tra gli Incogniti, il friulano Ciro di Pers, collocabile - rispetto a Marino - sull'altro polo del barocco, quello moderato, quello esemplato da Chiabrera. Severa, contegnosa la sua ispirazione. Ma troppo rade e intermittenti le sue puntate a Venezia perché ne sortisca una qualche influenza. E fiorentina la prima edizione, del 1666, postuma delle Poesie peraltro superata da quella - questa volta lagunare - più ampia del 1689. Comunque, nel frattempo, gli Incogniti sono spariti. E, sinché in vita, il grosso di loro ha guardato pressoché esclusivamente a Marino, non come Ciro di Pers pure a Chiabrera, pure a Testi. E inteso con sagace avvedutezza l'Adone da Errico come poema amoroso, idillio dilatato, egloga amplificata e così sottratto alle accuse di devianza applicabili solo all'epica propriamente detta.
"Sovra ogn'altro scrittor degno di lauro" Marino per il patrizio Pietro Michiel, che, stando alla presentazione dell'editore Giacomo Scaglia premessa a L'arte degl'amanti (Venezia 1632), per la poesia trascura la politica: meglio, per lui, "le viottole di Parnaso" delle "loggie del Palazzo". E in cima al Parnaso c'è l'autore dell'Adone. Coautore con Loredan d'"epitaffi giocosi", ossia di "chiribizzi" su d'una girandola di tipi fissati nel momento del trapasso a miglior o peggior vita, Michiel, col "ritratto" d'Ibico fornisce in realtà il proprio autoritratto: "del sesso femminile adoratore", vive "amando contento" travasando in "versi" le proprie "opre lascive". E, in effetti, La benda di Cupido (Venezia 1648; questa l'edizione completa) lo qualifica come lirico erotico - non esente da sguaiataggini - che risente di Marino, inteso a sua volta come poeta più d'ogni altro "lascivo". Ma laddove - coll'incompiuto Guidon selvaggio (Venezia 1649) - Michiel tenta, in ottave, l'epica cavalleresca, s'attivano esigenze, oltre che reminiscenze, di decoro cinquecentesco. Non sempre Marino basta e non sempre è necessario anche per un marinista dichiarato come Michiel. E c'è, sempre tra gli Incogniti, chi si rifà - riducendolo a seicentesco enunciatore di "sentenze" di fronte alle quali stupiscono "la natura e l'arte" - addirittura a Dante, non senza presumere che il proprio "stile", a tutta prima "oscuro", una volta "chiaro" pareggi quello "dantesco". Costui è quel Toldo Costantini che, nativo di Serravalle, abbandona per ragioni di salute l'avviata carriera ecclesiastica avendo così agio di dedicarsi alla composizione del Giudicio estremo che esce a Padova parzialmente nel 1642, completo nel 1648 e completo e rivisto nel 1651. Ma non basta sentirsi guidato dall'angelo custode nella valle di Giosafat per avervi "l'immagin vera" del giudizio finale, a far nascere la poesia. Grande, immane l'argomento; ma impari e sin rimpicciolito da questo Costantini. Sicché il suo volonteroso poema vale solo come attestato d'un'ammirazione per Dante inusuale nel '600 e sin antitetica alla feroce stroncatura che ne farà il genovese Francesco Fulvio Frugoni, suscettibile anche questo d'essere venezianizzato per la sua offerta al senato del poema Candia angustiata, per la presenza di Battista Nani tra i suoi protettori e per la fase finale della sua esistenza trascorsa, appunto, a Venezia dove, inoltre, esce postumo - Frugoni muore nel 1686 - nel 1687-1689 Il cane di Diogene, "opera massima" del "minimo" (Frugoni è dei minimi di s. Francesco) e pure "libro dei libri" del '600 italico. E, in effetti, 4.350 pagine a stampa sono tante.
Fattibile, latrando e abbaiando, un grosso libro. E in questi momenti, se non di grandezza, di critico acume, d'intellettuale vivacità. Altra cosa, però, la grandezza cui ha aspirato Costantini, che è rimasto schiacciato sotto il peso del suo spropositato presumere. Più accorto di lui l'amico ecclesiastico - è arciprete a Treviso e poi vescovo di Capodistria - Baldassare Bonifacio, elegante cesellatore d'epigrammi latini, ingegnoso nel disporre parole sì che ne nascano figure e freddo petrarchista nelle rime italiane. Cimentandosi in composizioni brevi se non altro si dimostrano abilità tecnica, perizia di confezione. Ma Bonifacio è anche autore d'una singolare serrata sequenza di 24 sonetti dedicata, 1'8 aprile 1629 - l'anno prima del costituirsi degli Incogniti dei quali sarà pure egli -, al patrizio Domenico Molin. Paltoniere, ossia pitocco e, insieme, canaglia, il titolo dell'operetta. E poiché il dedicatario, il patrizio Molin, si chiama Domenico - "dominar, domar", etimologizza Bonifacio - e poiché l'argomento è un incubo spaventoso, la dedica esprime implicitamente l'accorato appello all'autorevole esponente d'un autorevole governo a che si faccia qualcosa a che detto incubo non si verifichi. "Execrandum [...] genus ac detestabile" definirà la poveraglia accattona Bonifacio nella Ludicra historia (Venetiis 1652). Sarà bene che il governo provveda ad una drastica pulizia, prima che sia troppo tardi. Altrimenti succede quel che racconta nel Paltoniere (18). Qui immagina che su di una Treviso incupita dalla carestia circostante e prossima all'assedio della peste s'avventi spaventosa un'orda affamata e pezzente di villani e valligiani che, ululante pei crampi dello stomaco vuoto, si precipita a rovistare nella spazzatura a caccia d'un qualche rimasuglio di cibo. Invasa la città borghese e artigiana, i cui abitanti in preda al panico si rinserrano in casa, da una orribile umanità scheletrica nel corpo, color terra, imbestialita, degradata, subumana, non più umana. Dilaga per le vie una pitoccheria torva, trucida, ribalda, laida, mostruosa come di orride cavallette giganti, come di enormi bruchi ingurgitanti, come di scarafaggi smisurati. "Turba magna" disgustosa, "gran nuvola" devastante questa dei dannati della terra che, nel raccapriccio dell'arciprete, quasi si deforma e si trasforma a razza germinata dal putridume di cui si nutre, a polluzione d'orripilante melmosa poltiglia, a proliferazione d'un purulento marciume, a verminoso "letame" automoltiplicantesi. Spettrale s'affaccia l'eventualità della fine del vivere civile. Ammorbata la città dal liquame d'una mendicheria puzzolente pulciosa cimiciosa. La questua petulante e fastidiosa proveniente da stracci e pidocchi sta gonfiandosi a urlo ribelle. Nato dal rimorso (ricacciato) del ben nutrito allo spettacolo dei senza pane e dal disgusto (enormizzato) che questo suscita l'incubo di Bonifacio. La mendicità, che la carestia rende pressante e proterva, si fa irruzione di stracciume fangoso, stercorario. Non più straccioni questuanti, ma rivoltosi. Non più miserabili piatenti, ma prossimi all'insurrezione. Agghiacciante minaccia quella degli stracci in rivolta; un avviso quello del fetore insopportabile che impesta la città. Impossibile concepire qualcosa di più orribile. Per ora è un incubo; e illustrarlo è un po' un esorcisma apotropaico. In fin dei conti il governo allertato può disdirlo.
Gli stracci, pensa Bonifacio, non devono entrare in città. I mendichi - che, se accolti, si moltiplicano, diventano tracimazione limacciosa che finirà per sommergerla - ne vanno cacciati. Così lo spettacolo della fame non la turba. E così prosegue indisturbata la versificazione. C'è da cantare l'amore, c'è da sospirare e da gioire con questo. "Giunser concordi a le dolcezze estreme", racconta degli amanti Michiel. "Buona notte, cor mio", s'intenerisce, madrigaleggiando coi Vezzi d'Erato (Vinegia 1649 e 1653), Leonardo Querini. E se l'amata lo colpisce con una palla di neve, il "gel feritore" gli raffredda il petto, ma dentro "il core" arde vieppiù. La neve lo fa bruciare. E Monteverdi - "gran padre de' ritmi e dei concenti" - fa da colonna sonora ad amori sempre più struggenti. Dolce naufragare nell'amorosa melassa. Ma Giovan Francesco Busenello - il librettista, con L'incoronazione di Poppea, di Monteverdi oltre che di Francesco Cavalli - non riesce per questo a stemperare l'umor nero che percorre la sua esistenza di scettico gaudente sino ad inarcarsi nella desolata constatazione dell'ineludibile scadenza della fine. Attimo fugace la vita, "luce" d'un "lampo". "Fumi" sospiri e respiri; "l'esser è un nulla". La tomba "esprime inutilmente un fui". Friabile, inconsistente l'esistenza con qualche illusorio grumetto di gioia. È come "una bottega" allestita alla buona, in fretta per la festa delle feste veneziane, quella dell'Ascensione, fatta di "quattro tole mal ligae", che dura quanto l'effimero tripudio di quel giorno festevole. Festoso "el concorso" di gente, ma per quel tanto o, meglio, per quel poco che s'allunga il giorno. Poi, col calar del buio, la "fola" sfolla, torna a casa, "tutti se tira in te le so contrae". Si smontano le improvvisate "botteghe". La festa è finita "e la piazza romàn deserta e sola". Lo si noterà: questo Busenello lo dice in dialetto. Né si tratta d'episodio isolato. Parecchio del suo rimare è dialettale. La diglossia impronta la sua produzione in versi. E quella in veneziano è più originale, più immediata, più espressiva, meno appesantita dal pedaggio dell'imitazione di Marino insita nella militanza marinista che lo vede a fianco di Loredan. Sono poesie, quelle di Busenello, in dialetto coi guizzi e gli sprazzi d'una reattività umorale contrassegnata da un progressivo incupirsi a mano a mano gli anni si fanno sentire col loro portato di malanni fisici e di dissapori e di domestiche disgrazie, colle intermittenti collere d'un brontolio malmostoso, colle rabbiose stizze d'un atteggiamento sempre più chiuso e diffidente come di chi invecchiando inacidisce. Testimone, comunque, della Venezia del suo tempo Busenello nella misura in cui stimola la sua "vena" a testimoniare "in venezian" di quel che, vivendoci, vede fuori e prova dentro. Ed eccolo, allora, entusiasmarsi da giovane - quand'è "monachino" impenitente, quando corteggia monache disponibili irritatissimo se le maglie della grata riducono la tresca a "ziogo de manine" - per l'affacciarsi "a finestra pulitine" di "monache amorose", vestite "de sora via col scotto bianco", con "un ago d'oro in mezzo le tettine". Un'istantanea maliziosa, una situazione in presa diretta, un'inquietudine vogliosa di giovinezze costrette al velo colta sul vivo laddove, nel frattempo, i romanzi, per alludere alle trasgressioni dei conventi femminili, s'inventano vestali discinte tutte profumate d'"acque odorifere". Certo: l'amoreggiare allieta la vita. E la rallegra pure il "vin". Che sia "benedetto". Ma, purtroppo, "passa el tempo" e s'invecchia. E non più sorrisi di donne, non più gioconde tracannate. Né c'è gran che da rallegrarsi pei pubblici eventi. A Valeggio s'è visto un esercito tremebondo, che si spaventa per niente, che fugge al sentir "petti" e "stranui". Fitta d'eroici episodi la guerra di Candia, ma angosciante il suo andamento. "Nu", noi Veneziani, "no semo", non siamo, atti alla guerra, commenta Busenello; "boni" sì a "spazzizar per piazza", non certo "d'andar a i Dardanei". E che dire della giustizia se non che "giudice vien da Giuda"? e che dire delle " putte galantine" e degli zerbinotti acconciati all'ultima moda? forse è il mondo tutto che sta perdendo il senno, che sta diventando una gabbia di matti in "questa" che "xe la più trista e grama età" che mai "sia stà". E Busenello ne è "stufo e stracco". Né il suo intelletto s'illumina d'interesse per la scienza: per lui dà di matto chi rischia tortura e carcere per sostenere il moto terrestre attorno al "sol". Un fastidio la vita, una soma, una noia, se non si può goderla colla pienezza della gioventù. "La vita me rinscresse", dice di sé Busenello, non in quanto tale, ma perché non può "far quel che vorria". Comunque, bella o brutta che sia, non sa che concepirla in "domesteghe contrae", che racchiuderla tra campi e calli, che farla fervere nel chiacchiericcio della sua "piazza" quella di "san Zanepolo", dove si parla e si sparla, dove "se taia feraroli" malignando, spettegolando. Uomo semplice Busenello e, pure, semplificante. Bella, in fin dei conti, la vita sinché c'è salute fisica: donne, banchetti, chiacchiere, tante chiacchiere. Naturale che se la sifilide e la gotta lo costringono a letto, s'intristisca e s'incattivisca. Ma ciò pur sempre abbarbicato all'esistenza, ma ciò pur sempre senza augurarsi di morire. Stesse in lui, la morte troverebbe sempre le porte sbarrate. Purtroppo "el remo della vita [...] voga sempre verso el fin del zorno", è incapace di retromarcia. "La vita no è carrozza de retorno". E, giunta al termine, dovrà dire addio a S. Geremia, ai Miracoli, alla Frezzaria, a S. Vidal, a tutti i luoghi cari e ai loro amati "contorni".
La morte non guarda in faccia a nessuno. Ognuno - così Giorgio Contarini, un contemporaneo di Busenello - "l'è nassù a sto mondo per morir". A nulla vale "criar", gridare, "son venezian!". Epperò esserlo continua ad inorgoglire. Anche se l'uomo non è che "simbolo di morte", Venezia resta pur sempre - come scrive Giulio Cesare Bona, un minorita, che dice la sua in veneziano in raccolte di versi che, uscite tra il 1655 ed il 1664, stando alle ristampe incontrano un indubbio gradimento - "pompa delle città, scena del mar", "metropoli a se stessa", "confallon de tutto el mondo", "scena de libertà", "miracolo de tutte le città". E in questa Bona, collo pseudonimo di Gnesio Basapopi, si sente poeta in "Parnaso", ché tale è pure Venezia. Un Parnaso in cui scrive per "umor", per estro. "Parlo [...] venezian" - s'autopresenta -, "voi la mia lengua [...] doperar". Non c'è "più bel dir", non v'è più "ricco parlar" argomenta così riprendendo quanto, un secolo prima, andava sostenendo Maffio Venier. Nessun complesso d'inferiorità rispetto al toscano, anzi piuttosto di superiorità. E nell'urgenza di dire, nell'impossibilità di "tegner la lingua muta", anche Dario Varotari - l'autore de Il vespaio stuzzicato (Venezia 1671 e, di nuovo, 1699) - satireggia in veneziano l'avarizia, l'ipocrisia, le superstizioni, l'ozio, le smancerie, le discordie coniugali, la malignità, la pigrizia, gli eccessi del lusso. Quanto alle virtù della "Liseti" e "Lisa", centro gravitazionale dei 100 sonetti che costituiscono Il cembalo d'Erato (Venezia 1664), Varotari le riscontra soprattutto nel fondo schiena, nell'"abondanza de tete". Piuttosto, comunque, del tosto rimeggiare sul niveo candore del seno dell'amata meglio il petto di Lisa fotografato in vernacolo da Varotari: "do colinete [...] nevegae, do balete pastose, bombasine, do zuchete [...] alabastrine". È a un siffatto seno che il poeta "afanà" chiede "late" e "formagiele". Un canzoniere la raccolta di sonetti di Varotari sin parodico - vien da azzardare - rispetto all'illustre antecedente petrarchesco, al quale, invece, si rifà seriamente il codicetto marciano delle Rime di Simone Contarini (19), l'uomo politico amico di Sarpi. Evidente, nella disposizione, la determinazione a proporle a mo' d'itinerario salvifico per cui dalle maliose parvenze femminili - e tra queste non a caso spicca una Laura - della gioventù calamitata da "erranti desii" e sin da questi "sviata" si giunge alla deposizione dei "mal saggi pensieri" dell'età avanzata nella quale l'autore si volge implorante alla "santa mercé" divina che lo riporti nel "giusto sentier" sicché, "smarrita pecorella", possa aggrapparsi alla fidente attesa del celeste perdono. Dopo "il guardo, il riso, il parlar dolce e honesto", i "capei d'or disciolti al sole", l'"aurato passo" dell'amata e/o delle amate, il mutamento deciso di rotta, il puntare alla volta della "fida stanza", al "porto" della "santa magion" del cielo.
Impensabile un percorso del genere in dialetto. Impensabile un Petrarca ricalcato in veneziano. E con tutta probabilità Petrarca non l'ha mai letto quel Paolo Briti che celebra la sua Bettina che "co le so proprie man la me despogia". Detto "il cieco di Venezia" - e viene in mente il Cieco d'Adria, Luigi Groto cioè - canta in calle quel che la calle vuol udire, risentendo alla lontana delle giustinianee. Con lui non è il caso di parlare d'opzione linguistica. Il dialetto è sin obbligatorio per questo cantastorie ché non dispone d'altro strumento. Non così, invece, per Busenello, Varotari, Bona. E c'è un uso sin da sperimentazione colta delle virtualità dialettali nelle mescidanze dei Discolores Apollini flosculi [...] (Venetiis 1665) - consistenti soprattutto in distici latini - di Gianbenedetto Perazzo, un domenicano che dalla "dottrina" tomistica desume un Breve trattato (Venezia 1698) sulle anime dei fedeli defunti e che, sempre poggiando sulle "sode ragioni" di s. Tommaso, compila un altro trattatello su Il ricco in pericolo e l'avaro perduto (Venezia 1705). Un dissertare preceduto dai giochi anagrammatici in latino e italiano dei Literalium matathesium (Venetiis 1686) e che non fa dimenticare la parziale traduzione della Gerusalemme in veneziano per cui Il Goffredo (Venezia 1678) invenezianato di Perazzo s'affianca a Lo Tasso napoletano (Napoli 1689) di Gabriele Fasano e al Goffredo (Venetia 1670 e, di nuovo, 1674) imbergamascato di Carlo Assonica e precede la resa in veneziano di tutto il poema (Venezia 1692) di Simon Tomadoni ossia di Tommaso Mondini. Ma dove la "lengua native" della città lagunare squaderna perentoria la forza della più dilatata espressività è nella verseggiata Carta del navegar pitoresco (Venetia 1660) di Marco Boschini (20), autore di lì a poco, in un italiano, relativamente ai tempi, sobriamente conciso de Le Minere della Pittura [...] di Venezia (Venezia 1664) che diventano Ricche nella successiva edizione "con nuove aggiunte" del 1674. Scrittore d'arte Boschini, critico d'arte. Prima, dunque, della dettagliata precisazione dei tesori pittorici la valorizzazione della "pitura" che li ha prodotti col "depenzer" a "colpi di pendo", a colpi di colore, che "fa le figure vive bulegar". Ciò con una "libertà" creativa che è 1'"istessa" che anima la città signora dell'Adriatico, regina del mare. Dialogo in versi la Carta tra un senatore veneziano, identificabile con Battista Nani, di pittura dilettante, e un "professor", cui prestare il sembiante dell'autore della stessa, tra un'"eccellenza", dunque, e un "compare", ché l'accomunante interesse non annulla la distinzione di classe, esso, il dialogo, procede, a mo' di "nave venetiana" solcando l'"alto mar de la pitura" dimostrando, "a confusion" dei detrattori sminuenti, a scorno degli incompetenti misconoscenti, il primato di quella veneziana. Un rilancio continuo il concertato fraseggio dei due lievitante in un poema di 5.360 quartine in 8 canti o "venti" (e il numero è, appunto, quello della relativa rosa) sospingenti la navigazione lungo la quale si fa perentoria la superiorità del vibrante colorismo lagunare sul plasticismo del tosco disegnare. Entusiasti fautori i due dialoganti - il politico colto e l'intendente di pittura (Boschini è restauratore, incisore, "per dileto" pittore oltre che "sensale", mediatore, pel grande collezionismo; ed è un po' collezionista in proprio) - dei "colpi de maniera" coll'"efeto" della "macchia de grosso". Specialità questa veneziana contagiante sin Velàzquez: forse che l'Innocenzo X di questi non è "fato col vero colpo venezian"? e forse che questo può esser esaltato anteponendolo al volumeggiare fiorentino adottando la "lengua toscana", ricorrendo al linguaggio del concorrente, del rivale? Pittore con parole di pittori col pennello, bisogna che quelle, le parole, siano veneziane quanto lo è il dipingere. E come questo gareggia con l'arte toscana, così, per farlo vincere, la lingua che lo propaganda e l'esalta non dev'essere quella del nemico da battere, ma quella lagunare. La quale è, appunto, una lingua assurta ai fasti della piena dignità letteraria soprattutto nel '500 con - Boschini lo dice esplicitamente - le "comedie" ruzantesche, le "lettere" di Calmo, le "rime" di Maffio Venier. E questa lingua della tradizione cinquecentesca si fa, con Boschini, gergo critico per cogliere, da dentro, una pittura speciale. Sin acrobatica la lingua per rincorrere le acrobazie del dipingere proprio d'una città che sembra essa stessa inventata dalla pittura. "Zogelo ligà" dal cristallo del mare, gemma da questo incastonata l'isola di S. Giorgio Maggiore; forse che non sembra "fata col penelo"? e come dire le virtù di codesto gigantesco protagonista se non colla tavolozza d'una lingua accesamente pittorica?
Navigante colla spinta propulsiva d'un convincimento entusiasta, colla bussola dell'acume critico derivante dal pieno padroneggiamento dell'argomento e attivante, ai fini del diario di bordo, la strumentazione assecondante della tastiera linguistica Boschini. E così guida con mano ferma la "nave" sulla rotta prestabilita. E a chiarimento del percorso, l'argomento d'ogni tappa è sintetizzato, sempre in veneziano, in versi di fattura, pare, di Varotari. Un navegar che sa di vento e di mare questo boschiniano rispetto al quale la versificazione in italiano che, nel frattempo, prosegue imperterrita sembra insipida, senza "saor". O, al più, sa di pioggia diluviale, ché è ben un diluvio quello delle raccolte miscellanee, a rimorchio d'una qualche occasione pubblica o privata - nascite, nozze, decessi, lauree, vittorie, cariche -, che mette in moto un solerte drappello di "virtuosi", di "cigni canori". Donde fiori di Parnaso, oscuritadi illuminate, sfingi metaforiche, flebili rimembranze, epicedi, sonetti, fiori poetici, ghirlande, serti, archi di gloria, selve ardenti, siepi, selve incoronate, serafici splendori, vaghi geroglifici, lacci d'indissolubile amore, "stringhe sferrettate" ossia "rime giocose", applausi guerrieri, corone d'ottave, iridi figurate, intrecci di gigli e perle, celesti arpeggi, glorie funebri, cordogli di Parnaso, pompe funebri, sospiri amorosi, applausi poetici, corone d'alloro, fabbriche armoniose, lagrimosi singhiozzi, squilli di trombe guerriere, tributi ossequiosi, mormorii d'Elicona, fiori genetliaci, felici aurore, frascherie giocose, fantastiche visioni, amorosi affanni, felicissime nozze, strafelici nascite, lacrimevoli dipartite, rimate arguzie, fortunati auspici. Troppi i titoli del genere con troppi poeti una tantum esibentisi in stiracchiate similitudini, in lambiccate analogie, in metafore contorte, in antitesi frigide, in capziosi allegorismi, in acutezze sillogistiche, in fumose argutezze. Una folla quella degli aspiranti poeti. Ma proprio per questo scarseggiano i lettori. L'andazzo d'una produzione sovrabbondante e corriva provoca il rifiuto. E Loredan - che se non ha una concezione severa della poesia, non per questo ignora che c'è uno spazio letterario costituito da un'offerta e da una domanda, sagomato dal loro sintonizzarsi e dal loro interagire - mostra d'avvertirlo. "La poesia nel nostro secolo è arrivata a un segno che, quando non piace nel poco, nausea nel molto ", osserva in una sua lettera non datata, e, a occhio, da collocarsi a metà '600. Personalmente col suo farsi banditore della grandezza di Marino (grande perché di successo e di successo perché grande), ha optato per una poesia esuberante, lussureggiante, non certo micragnosa. Se la poesia è una pietanza, deve pur avere del sale. Ma non è che il salare troppo - è ben questo l'andazzo - la renda gradita. Loredan percepisce che nell'utenza, tra i lettori, stanno serpeggiando stanchezza, disaffezione, sin disgusto. Proprio perché il metro di misura è quello del gradimento - a suo tempo Aleandro non aveva escluso eventuali pecche nell'Adone; ma che importa? quel che conta, aveva argomentato, è che "piaccia", che "sia per piacer per sempre"; ed animato da una convinzione del genere Busenello, in una lettera del 1624 allo stesso Marino, aveva definito l'Adone "il più bel poema che sia stato composto giamai" e "sublime poeta" il suo autore -, si preoccupa per gli evidenti sintomi di sgradimento, d'inappetenza. Cala la domanda d'immagini sfavillanti, rutilanti, mirabolanti, di fantasmagorie metaforiche, di speciosità concettose. Troppo "sale" nelle pietanze, "cibi" troppo conditi, ipercalorici, troppo speziati. Il "soverchio", l'esagerare, l'eccesso diventano "un guastare". Anche se - si cruccia Loredan - "i versi al presente vogliono tutto sale", non bisogna perdere di vista il giusto dosaggio. E quandanche i palati s'abituino al "soverchio", l'"uso" ripetitivo - quello per cui le lagrime sono "addobbi del volto" e gli occhi sono "fonti d'acqua" e, insieme "sfere del fuoco" crea un'assuefazione intorpidita che i versi non riescono più a scuotere. Latrice di "meraviglia" la poesia per Marino e come tale - così Chiabrera - deve "fare inarcar le ciglia". Ma l'adozione indiscriminata del "soverchio", la sua ripetizione ormai fattasi abitudine inerziale, lo privano - ecco la constatazione di Loredan - della sua carica di stupefazione, lo depotenziano. Proprio la prassi del "soverchio" - che mira a far stupire - finisce, "addomesticando le cose", facendosi scontata, col produrre il risultato opposto: "lieva la meraviglia". E se questa vien meno nel pubblico, non c'è più domanda di poesia. Una produzione inflazionata di versi - nei quali per adoperare la terminologia già di Marino, l'"eccellente" è travolto dal "goffo" - crea nei lettori una saturazione foriera di disaffezione. Dalla bulimia all'anoressia, vien da dire. "I molti poeti" - è ancora Loredan a registrarlo - non giovano alla poesia: l'"hanno resa sprezzabile".
Un discredito dal quale non la risolleva il marinismo estremistico tardoseicentesco coi suoi esasperati iperbarocchismi, coi suoi cincischiamenti iperconcettosi. C'è un sentore di sussulto preagonico, non di vitalità ritrovata. Malattia senile del tardomarinismo l'estremismo. Ne è immune, perché misurato e moderato, il carmelitano vicentino Paolo Abriani che trascorre il grosso della sua esistenza a Venezia. Autore d'una Vita di s. Rosalia (Padova 1647), traduttore d'Orazio e Lucano, con le sue Poesie (Venezia 1663 e 1664) dimostra una certa qual decorosa compostezza. Troppo poco per assumere un qualche rilievo lirico. Meno slavato poeticamente il patriarca d'Aquileia Giovanni Dolfin colle sue tragedie classicheggianti, colle sue rime occasionate da spunti meditabondi in virtù delle quali è collocabile sulla scia d'un Testi riecheggiato (21). Quanto alle Poesie (Venezia 1675) del montenegrino Cristoforo Ivanovich (22) - a Venezia dapprima segretario di Leonardo Pesaro e poi, dal 1681, canonico della basilica marciana -, l'ispirazione, oltre che "forestiera" in quanto troppo segnata dal "nativo idioma tutto diverso dal toscano", è "debole", come ammette per primo. Preferibile ai suoi conati lirici la Minerva al tavolino (Venezia 1681-1688) colla quale è informato e attento cronista della vita operistica veneziana. L'autentico poeta - se si bada a Frugoni, il quale, nel Cane di Diogene, fa dire a Marino che si vergogna d'aver scritto così "pochi sonetti" paragonabili a quelli di Vidali - sarebbe, appunto, il veneziano Giovanbattista Vidali, autore dei Capricci seri delle muse (Venezia 1677), ove l'ingrediente "capriccioso" è costituito dal "diletto" ibridato col "serio" mirato al "giovamento". In realtà il libriccino non merita l'elogio di Frugoni, che, peraltro, con questo si sdebita dell'entusiastica prefazione scritta da Vidali pel secondo volumetto del suo romanzo La vergine parigina (Venetia 1661 e, di nuovo, 1669, 1676, 1682). Al più ingegnosi i sonetti di Vidali e, al più, stralciabile quello sul "nulla" che è "glorificator di Dio": questi, "tutto in tutto ", ebbe, comunque, prima di farsi creatore, "il nulla intorno". Più facile, comunque, che distillare concetti l'enfasi celebrativa, colla quale, nel 1687, il giovane Apostolo Zeno plaude la conquista di Navarrino e la resa di Modone. Né è sfuggito ai suoi versi il divampare, il 2 giugno 1686, distruttivo delle fiamme in Barbaria delle Tole - ne parla pure Ivanovich in una lettera, dell'8 giugno, a Lubrano - che assurge ad Incendio veneto. E precedono e seguono questi poemetti centinaia e centinaia di sonetti che il futuro librettista consegnerà al fuoco del caminetto quasi a purificazione d'una colpa riprovevole, quasi a rito espiatorio da offrire preliminarmente di fronte all'altare della poesia "purgata", candeggiata, trattata al detersivo sì da essere riportata - come vuole Crescimbeni - alle "regole fondamentali", quelle "insegnateci dal Petrarca e dal Chiabrera". Certo la lirica non è congeniale a Zeno: "nel lirico [così di sé a Muratori in una lettera] non molto mi compiaccio delle cose mie, e meno assai che ne' miei altri componimenti". Consequenziale, nel 1705, la destinazione alle fiamme di "tutti" i propri "componimenti lirici", per volgersi "interamente alla drammatica", a Zeno più congeniale oltre che - e ciò non guasta - "vantaggiosa", come scriverà, il 20 maggio 1740, al conte Carlo Silvestri. Ciò che è scadente va bruciato. Ma c'è in quest'ardere impietoso non soltanto l'autocritica severa, ma pure un'esigenza d'abiura e di pentimento. Non si tratta soltanto di rimuovere dei brutti versi. Si tratta di cancellare il peccato. Essi, quei versi, sono frutto del "cattivo gusto". E Zeno è tra i promotori della "conversione" al "buon gusto", la rinascita del quale coincide - per Muratori - col volgersi a questo di Maggi. Meritevole del fuoco incinerente il rimare giovanile di Zeno perché peccaminoso, ché malsanamente seicentesco, ché saturo di tossici barocchi, ché infetto di "cattivo gusto". E la "conversione" non è solo letteraria, ma anche morale, come di ripulsa dei cattivi versi in quanto cattivi pensieri. Rifondazione etica il ripristino della tradizione classica. Personalmente scampato dalle sabbie mobili dei vizi e dei vezzi del Parnaso barocco, Zeno si fa animatore a Venezia dell'esodo salvifico degli aspiranti poeti trasmigranti dalla palude stagnante e insalubre del seicentismo in preda ad una sorta di turpe senescenza ai verdi pascoli dell'Arcadia ritrovata, della semplicità recuperata, del verso restituito alla limpidezza, della poesia risemantizzata, della moralità reintegrata.
Animoso Zeno istituisce a Venezia, all'insegna dell'antibarocchismo, nel 1691 l'accademia degli Animosi. La quale, nel 1698, aderendo al disegno unificante dell'Arcadia romana, ne diventa colonia Animosa e banditrice pressoché unica (irrilevante l'aggiungersi, nel 1714, della colonia Partenia costituita da chierici regolari minori) del verbo arcadico in laguna sino al - fatta salva l'interruzione del 1711 per la chiusura decisa dalle autorità in seguito ad una deplorevole rissa scoppiata al suo interno - 1719, non sopravvivendo che di poco alla partenza, del 1718, di Zeno per Vienna. E successivamente, nel 1726, saranno i camaldolesi dell'isola di S. Michele a formare una loro colonia arcadica. Protagonista, comunque, Zeno nell'Italia colonizzata dall'Arcadia. Non per niente Bettinelli l'annovererà tra i "trionfatori", tra i campioni del vittorioso "risorgere del buon gusto" sulle ceneri degli sconfitti "disordini del seicento". Instancabili, in effetti, i suoi animare, additare, teorizzare, carteggiare, organizzare a Venezia e da Venezia. Un attivismo stimolante e orientante che, se suscita iniziative, non per questo convince le "sante italiche muse" a favorire Zeno - che nel frattempo s'afferma come librettista - sul versante della lirica. Non che non invochi le "muse"; solo che queste non gli badano. Inascoltato l'appello alla loro forza ispiratrice colla quale s'avvia la sua canzone d'apertura alla sezione in versi della silloge, del 1702, per l'anniversario della scomparsa di due giovani sposi - Giovanni Morosini e Elisabetta Maria Trevisan - singolarmente deceduti nello stesso giorno, il 2 ottobre 1701, in luoghi separati. Promotore di questa il padre della sposa, il dotto patrizio Bernardo Trevisan cultore di filosofia, studioso della laguna, l'autore d'una "lettera discorsiva" a Giusto Fontanini (sarà Zeno a farla stampare nel 1704), il dedicatario di tre interventi polemici d'Alessandro Marchetti contro Guido Grandi, il recensore (con tutta probabilità; di per sé la recensione appare anonima) della vichiana Antiquissima italorum sapientia. Ma certo l'esordio della raccolta diversi e prose per la mesta ricorrenza - costituito dalla canzone di Zeno - non è felice. Arzigogolante Zeno v'ipotizza la propria ascesa al cielo dove un'anima - col sembiante assemblato dei due coniugi defunti - gli spiega, vieppiù arzigogolando, che da una stessa fonte, quella dell'amore, si bipartono due fiumi. Il primo - quello dell'amor puro - si dirige verso Dio, il secondo - quello della sensualità - presto ristagna e s'impaluda. Forse è avendo in mente anche questo suo ambizioso componimento che Zeno ammetterà con Muratori di non inorgoglirsi gran che dei propri conati lirici. Ma non è detto che, a tutta prima, non ne vada fiero. Forse, nel giudicare l'Anniversario un misto di "buono e cattivo", ha, in cuor suo, collocato la propria canzone nella parte valida. Comunque non precisa dove sta l'uno o dove sta l'altro. Sicché si può solo procedere per ipotesi. Supponibile sia d'assegnare al "buono" il sonetto del salodiense Leonardo Cominelli se non altro perché vi s'affacciano "Licore" e "Tirsi". Rientra, invece, nel "cattivo" il sonetto di Bartolomeo Dotti paradossalmente concettoso: il morire simultaneo cronologicamente e distanziato geograficamente dei due coniugi dimostra "come" sia possibile "vedovi non lasciarsi / e morir sposi". Autore di Rime (Venezia 1689) contrassegnate dal barocco più coriaceo e di satire - che circolano manoscritte - sottese d'una certa qual fierezza ribelle protestataria antinobiliare anticlericale Dotti. Poeta dal doppio registro - sicché dal fondo del ribollimento umorale della sua esistenza d'irrequieto spadaccino un po' smargiasso un po' fanfarone si dipartono e l'esasperazione tardobarocca delle liriche e l'andamento polemicamente discorsivo delle satire non riesce, per l'occasione dell'Anniversario, anche se iscritto agli Animosi, a trasformarsi in pastore arcadico. Col sonetto ribadisce il proprio antecedente profilo. Sicché con questo scalza la fragranza pastorale d'una confezione nata in una delle più zelanti colonie arcadiche della penisola.
E ciò con vivo disappunto di Zeno. Tant'è che, di lì a 2 anni, quando gli Animosi offrono - per le nozze del loro "principe" Marco Badoer con la nobildonna Caterina Acquisti - il fiorito mannello delle loro Poesie allestito dallo stesso Zeno, questa volta Dotti non figura nella miscellanea. O lo si è depennato in partenza dalla lista degli autori o - peggio ancora - i suoi versi sono stati scartati dal curatore, drastico potatore delle persistenze barocche tollerate, invece, da Bernardo Trevisan responsabile della raccolta antecedente. Solo ingredienti arcadici ora, solo il "buono" che avanza. Classicheggiante e non immemore delle Stanze polizianesche l'epitalamio di Giuseppe Durli. E convocati "la bella Clori" e "Aminta il gentil" nel sonetto di Pietro Durli di quello fratello. Non un verso, invece, dell'epurato Dotti, ritenuto - anche se degli Animosi - inaffidabile o - peggio - cestinato. Più grave ancora che Muratori - in Della perfetta poesia [...] (Modena 1706) dove Maggi e de Lemene spiccano come i bardi del "buon gusto", come i s. Giorgio che schiacciano il drago del "pessimo gusto" nemmeno lo nomini. E Dotti lo trova "strano", se ne dispiace. Eppure ha cantato gli "occhi neri" quali "luci caliginose, ombre stellate". Eppure ha scritto un sonetto "per un aborto conservato in un'ampolla d'acqua artificiale" dell'anatomista Giacomo Grandi. Eppure ha meditato fumando la pipa o fumato la pipa meditando: in "concava creta" ardono "erbe mature" da cui sugge "fumi leggieri" che a mo' di "geniali inchiostri" colle loro volute "vagabonde" quasi scrivono sull'"aria"; "speranza" di "ristoro" i "suffimigi" del tabacco, ma "speranza" che se ne "va [...] in fumo". Forse sono proprio i sonetti di cui s'è più compiaciuto quelli che, a giudizio di Muratori, lo fanno ritenere non menzionabile. E con tutta probabilità non è stato gran che compìto e ossequiente. In fin dei conti è un po' un libertario. Per lo meno a parole ha ardito dire che "vai più la libertà che tutto il mondo". E se le satire non trovano editore è forse perché sono aggressive, perché se la prendono coi gesuiti "mezzi frati e mezzi preti", congrega di "ladri" intercettante le volontà testamentarie sicché, "infinocchiate le amalate madri", rubano "le sostanze a' figli eredi". Forse, per meritarsi l'attenzione di Muratori, deve fare atto di contrizione, battersi il petto, chiedere pietà, supplicare perdono. Ma ormai è troppo anziano per buttar via il grosso della propria vita - accostabile per questo a quella d'Artale che è richiamabile un minimo in questa sede e per la milizia nella guerra di Candia e per le puntate a Venezia a seguirvi la stampa delle proprie opere -, per pentirsi dei suoi versi, per dissociarsi dal suo testardo baroccheggiare. Forse, anche se dotato di nome arcadico, quello di "Viburno Megario", non se la sente di mettersi a cinguettare giulivo, di zufolare armonioso. Ed è corruscamente seicentesca la sua tragica fine del 27 gennaio 1713. "È morto infelicemente [così, il 27 giugno, Zeno, il primo degli Arcadi lagunari, a Crescimbeni, il primo degli Arcadi romani che aveva chiesto notizie in merito], ucciso verso le quattr'ore di notte nella contrada di sant'Angelo, andando in casa sua". Vittima d'un agguato notturno, dunque, Dotti. "Lascio a Voi [concede Zeno a Crescimbeni] la libertà di disporre del suo posto". Morto un arcade, se ne fa un altro. E qualcuno subentra a Viburno Megario, pastore anomalo, avventuriero rimescolante agitazioni esistenziali e versi, epigono d'un Parnaso a suo tempo un po' in rivolta e poi spiazzato dal nuovo Parnaso e un po' goffo in vesti pastorali. E deve aver sofferto nel sentirsi fuori tempo, sfasato. Espressione tardobarocca le sue Rime non sono andate certo a ruba. E le sue satire non hanno trovato editore. E ciò mentre "tutta Venezia [così, il 20 novembre 1700, tutto contento Zeno a Muratori sì che anch'egli si rallegri] è piena delle rime del Maggi; moltissimi esemplari ne vanno attorno". E, il 22 gennaio 1701, lo stesso riscrive al medesimo, che "lo spaccio delle opere del Maggi va continovando". A Dotti una fortuna del genere non è mai capitata. E, prima di morire assassinato, l'ha ben ferito nell'intimo la non menzione muratoriana. Con questa s'è già sentito morto.
Tremenda la peste del 163o-1631: falcidia il 30% della popolazione lagunare senza che segua - come è avvenuto coll'antecedente del 1575-1577 - una forte rimonta demo' grafica. Un'"insolentia" che costringe "ad morbis speciem dignoscendam" e "ad impetus coercendos". Tempestivo il medico Valerio Marini stampa il suo Trattato della curatione della peste [...] (Venetia 1630). Ma non è che, al primo manifestarsi del morbo, la percezione della sua natura sia immediata ed univoca: convocata il 22 agosto 1630 la commissione di 36 medici si spacca (23). Capeggia il partito di quanti tendono ad escludere trattarsi di peste Santorio Santorio - il commentatore di Galeno, Avicenna, Ippocrate, l'amico di Sarpi, l'inventore del pulsilogio, lo studioso del metabolismo (24) -, affiancato da Viviano Viviani, l'autore d'un Trattato sul custodire la sanità (Venetia 1626). Questi si pronuncia soprattutto "adversus" Michelangelo Rota, il cui De peste veneta [...] (Venetiis 1634) resta - nella fioritura d'interventi, responsi, raccordi, avvertimenti, dissertazioni suscitata dalla lugubre occasione una sorta di riepilogo riassuntivo dell'atteggiamento della medicina lagunare. Va da sé che più il morbo infierisce, più si osa pronunciarne il nome. Sicché, nelle Opere (Venezia 1644), si trova un consiglio di questi sulle febbri, appunto, pestilenziali e sulla disinfestazione delle "robbe" infette. Ma se tutti i medici, ad un certo punto, ammettono la natura pestilenziale dell'epidemia, il primo - stando al Responsio [...] (Venetiis 1633) del medico udinese Filippo Giusti - a denunciarla senza titubanza è stato Giuseppe degli Aromatari, un assisiate medico a Venezia, già autore d'una Disputatio de rabie contagiosa (Venetiis 1625) e già noto negli ambienti letterari pel suo giovanile polemizzare con Tassoni. Né l'esercizio della professione l'assorbirà a tal punto da fargli accantonare i suoi giovanili interessi, come attestano i 19 tomi, usciti nel 1643, della sua antologia Degli autori del ben parlare, ove fornisce esempi di "favella nobile", "barbarismo e solecismo, tropi, figure" ed altro, "stili et eloquenza", "retorica", "eloquenza ecclesiastica". Ma se, colla peste, il medico letterato intuisce prima del medico scienziato Santorio, ciò non toglie sia questi - autore, ancora nel 1614, del De statica medicina, opera fondamentale nel tragitto dalla fisiologia galenica, aggredita nei suoi fondamenti, al meccanicismo fisiologico, alla fisiologia quantitativa entro la quale interpretare i dati metabolici - la figura di più netto rilievo. È Santorio ad identificare vita e movimento, a ravvisare nella traspirazione insensibile degli animali un continuo consumo di energie. Non per niente, il 15 novembre 1749, lo celebrerà, nel collegio medico lagunare, il medico Arcadio Cappello. E, nella stessa sede, il 29 ottobre 1671, l'ha già esaltato con un' Oratio Giacomo Grandi.
Scomparso ancora nel 1636 Sartorio, certo di lui non ci si dimentica. E l'oratore del 1671 è - oltre che autore d'un In Viennam liberatam [...] epinicium (Venetiis 1683) e d'una lettera, del 4 novembre 1675, all'avvocato veneziano Giovanni Querini e pubblicata con una lettera di questi a Manfredo Settala, De veritate diluvii universalis attestata dai fossili marini reperibili lungi dal mare - anatomista di fama, docente d'anatomia presso il collegio medico di Venezia. Uomo dagli allargati interessi in rapporto, dietro la spinta di questi, con Redi, Malpighi, Boyle, membro, nel 1690 (l'anno prima di morire) della londinese Royal Society, autore d'una Dissertatio per epistolam [...] (Norimbergae 1688) sull'antimonio ed il suo uso nella cosmetica antica, a lui si deve l' Orazione (Venetia 1671) inaugurale per l'apertura del teatro anatomico del 2 febbraio 1671. Imprescindibile - sostiene Grandi - la conoscenza natomica per la professione medica. "Occhio" di questa la "cognizione della nostra fabbrica interna". È lo "scheletro" - svolgerà Dotti in un sonetto indirizzato proprio a Grandi - il "libro" ove s'osservano "gl'incerti dell'umana sorte". Certa la morte; ma sta alla scienza medica attivarsi per rinviarla, agire, a vantaggio della vita, nella zona incerta della sua durata. E suscettibile di discussione ogni caso di morte. Quale la causa? e giusta la diagnosi a suo tempo formulata, giusta la terapia adottata per scamparla? Il medico Gianfrancesco Petrobelli fornisce il Racconto fedele et autentico del male e della vera cagione (Venezia 1666) del decesso del patrizio Girolamo Lando. Ma non evita l'esplodere d'una "diatriba" nella quale si contrappongono i medici Flavio Bernardo e Cecilio Fuoli, questo confutando quello, il quale, a sua volta, replica duramente con L'ignoranza convinta e la menzogna scoperta al sole della verità (Cosmopoli, ossia Venezia, 1669). Se la constatazione descrittiva - come quella, del 20 aprile 1672, nel teatro anatomico d'un "feto fuori dell'utero", o l'altra, di lì a 50 anni, d'uno scheletro, sorta d'idra a 9 teste, visibile nello studio del chirurgo Antonio Rossi oggetto d'una diffusa lettera a stampa (Venezia 1732) d'un religioso, padre Angelo Artegiani - induce alla convergenza, non altrettanto succede quando ci sia da stabilire se intervenire e come. Già nel 1632 il gardesano Troilo Lancetta, medico a Venezia, aveva sottolineato come sin dall'antichità il salasso era stato considerato come un possibile "abuso". Non è da adottarsi senza criterio. Va bene applicarlo ai luetici dell'ospedale degli Incurabili? Andrea Fasuol - nel 1709, quando gli ospedalizzati ammontano a 398 uomini e a 239 donne sostiene di sì. E che dire se il paziente muore durante l'intervento del "cerusico"? Ciò capita al nobiluomo Benedetto Civran; a mal partito il chirurgo Gaetano Manfrè che cerca di scrollarsi di dosso le critiche con un Ragguaglio (Roveredo 1730) difensivo. La medicina non è una scienza esatta, incontrovertibile. Per quanto ampliata, la casistica resta sempre sorpresa dall'imprevisto del "caso non più inteso", come il "parto maraviglioso", nel sestiere di S. Croce, che, nel 1675, sconcerta il pubblico lettore d'anatomia Livio Ignazio de' Conti.
Interazione di teoria e prassi la medicina, sapere operativo e sperimentante, per sperimentare si volge al mondo animale - e in questo meritevole di considerazione a sé stante quello equestre, sul quale si diffonde l'Arte de' cavalli (Venetia 1692 e, di nuovo 1700, 1713, 1733) del senatore veneto Marino Garzoni che è così un po' zoologo, un po' veterinario - come fa il medico veneziano Giacomo Brachi, l'autore di Pensieri fisico-medici (Venetia 1685). In questi si sofferma sugli "animali che muoiono e ne' recipienti vacui d'aria" e in quelli, di contro, "ripieni d'arie fattitie elevate da diversi misti per mezzo della fermentatione". C'è da apprendere vedendo e facendo morire gli animali per chi professionalmente deve preoccuparsi della vita umana. Fortunato costui, comunque, se esercita a Venezia dove - l'assicura un testo del 1694 - tutta una serie di "ragioni fisiche" desunte e dall'"autorità" e dall'"esperienza" concorre a gratificare la città d'un'"aria [...] intieramente salubre ". L'asserisce Ludovico Testi - un carpigiano medico a Venezia contattato da Vallisneri per le sue conoscenze e noto per essere riuscito a ridurre il latte in polvere adoperandolo poi nella cura della gotta: è il cosiddetto zucchero di latte sul quale, nel 1700, esce un florilegio di pareri medici accompagnato da una notitia sull'"arthritis curatione" nonché da una relatio dello stesso Testi - forte del consenso dello stesso Vallisneri. "Favorita da Dio", allora, Venezia, giusto il titolo, del 1698, del medico bergamasco Niccolò Albricio. Ma il privilegio elargito da Dio della salubrità dell'aria - e se ne è talmente convinti che Coronelli, quando, discusso generale dell'ordine francescano, s'ammala, torna, per guarire, in laguna senza il per messo papale d'abbandonare lo Stato pontificio - occorre meritarselo preservando il gioco delle maree, salvaguardandone gli areanti flusso e riflusso. Frutto, insomma, l'aria che fa star bene raccomandata dai medici anche della scienza idraulica che è empiria multisecolare e risultanza di studio cui concorrono lungo il '600 - nel quale figurano consulenti esterni del calibro di Castelli e Borelli; ed è del 1675 il piano per ripulire la laguna indirizzato al doge dall'idraulico romano Urbano Giovan Francesco Davisi - e il primo '700 Carlo Antonio Bertelli, Giulio Rompiasio, Giacomo e Maria Figari, Francesco Calcaneis, Geminiano Montanari. E difenderanno la laguna dal mare i "murazzi", di cui sono fautori Coronelli e Bernardino Zendrini; ed è quest'ultimo a realizzarli; il quale, oltre che eminente idraulico, è matematico, cultore di scienze esatte, studioso di meccanica animale. Certo: la città lagunare vive nella laguna, la quale è a sua volta viva grazie al vivificante "corso dell'acque", come ribadisce Bernardo Trevisan - che, se nel Cursus philosophicus (Venetiis 1712), disserta alla grande, non per questo trascura l'ambiente in cui vive - in Della laguna veneziana (Venezia 1715).
Un ambiente, in effetti, quello lagunare, con una sua flora, una sua fauna, una sua stratificazione geologica suscettibile della focalizzata attenzione d'una botanica (non pochi a Venezia i suoi cultori; lo si evince anche dalle Osservazioni naturali [...], pubblicate a Bologna nel 1684, del naturalista cistercense palermitano Paolo Boccone, alcune delle quali sono indirizzate ai nobili veneti Girolamo Zen, Marco Bembo, Giacomo Gabrieli, all'avvocato veneziano Giovanni Querini, all'anatomista Grandi; e lo stesso nel Museo di piante rare [...], stampato a Venezia nel 1697, indica altri "nobili patritii veneti" quali "protettori della botanica"), d'un'ittiologia, d'una mineralogia allo stato nascente e già albeggianti nel Trattato de semplici, pietre e pesci marini che nascono nel lito di Venetia [...] (Venetia 1631) d'Antonio Donati, un ravennate a Venezia farmacista. E sulla flora più agguerritamente ritorna Giangirolamo Zannichelli, nativo di Spilamberto e a Venezia speziale nella farmacia di S. Fosca, coll'Istoria delle piante che nascono ne' lidi intorno a Venezia [...] (Venezia 1735), che esce postuma, a 6 anni dalla sua morte, a cura del figlio Giangiacomo, lo stesso cui si deve l'Enumeratio rerum naturalium [...] (Venetiis 1736) del museo, appunto, di "naturalia", paterno destinato a confluire in quello vallisneriano ove, invece, sono pure presenti "artificialia". Pure mineralogo colla Dissertatio phisico-chymica (Venetiis 1713) Giangirolamo Zannichelli, ma soprattutto ennesima variante di quella contiguità tra semplicistica e botanica che - nella vicenda del patavino Orto dei semplici via via divenuto Orto botanico - vede l'autonomizzarsi progressivo di questa quale, comunque, filiazione di quella. Benemerenza universitaria, coll'Orto, la botanica cui un minimo contribuisce l'"amoenissimus hortus", sempre in quel di Padova, del senatore veneziano Gianfrancesco Morosini, del quale Antonio Tita redige il Catalogus plantarum (Patavii 1713). Non per questo - sinché i farmacisti continuano a trafficare coi semplici per confezionare i composti medicamentari - la farmacopea, ossia "vera pharmaca conficiendi et praeparandi" metodo, giusta la definizione, del 1617, del trattato del medico Curzio Marinelli, ci scapita. A quanti nei retrobotteghe delle farmacie passano la vita dosando e mescolando sono destinati i Precetti necessari ad un perfetto spetiale [...] (Venetia 1620), traduzione di Bernardo de Manfredi d'un testo latino di Marinelli, gli Avvertimenti nella compositione de' medicamenti [...] (Venetia 1627 e, di nuovo, 166o e 1678) del siculo Giorgio Melichio farmacista a Venezia, la Centuria di secreti medicinali (Roma, Bologna, Venetia, Trevigi 1637, "per il Righettini") e, soprattutto, in coincidenza col Teatro farmaceutico [...] (Napoli 1667) del napoletano Donzelli, il Nuovo et universale theatro farmaceutico [...] (Venezia 1667) d'Antonio de Sgobbis, titolare d'una farmacia sul ponte dei Baretteri, quella coll'insegna dello struzzo, la più accreditata nella vendita della portentosa teriaca. Voluminosissimo il Theatro di Sgobbis, zeppo di ricette: non c'"è male senza rimedio"; tutto è guaribile. E, tra i preparati, si distinguono le acque, gli elisir, gli elettuari, gli unguenti suggeriti da Francesco Cavalli, un siciliano già medico con laurea patavina e poi, rimasto vedovo, cappuccino a Venezia e quivi in gran nomea pei suoi medicamenti e consultato pei dolori renali affliggenti Innocenzo X (25). Irreperibile - e c'è da dubitare sia stato effettivamente stampato - il suo De rebus medicis quae sunt in quotidiano usu et quas perfecte callere debent medici et pharmacopei (Venetiis 1675). Erborista e farmacopeo di fama Cavalli, gloria d'un ordine - quello cappuccino - in cui l'erboristica e la farmaceutica sono tradizione. Cappuccino, tanto per dire, quel fra Marcantonio da Murano sulle cui pillole confida il confratello Marco d'Aviano. E la Prattica dell'infermiero (Verona 1664) del cappuccino fra Francesco da Valdobbiadene è espressione di una sollecitudine esitante, se così si può dire, in infermieristica. Ed è infermiere nell'ospedale lagunare di S. Giobbe il minorita Antonio da Quinzano autore de Il mele granato, succo medicinale [...] (Venetia 1668 e, di nuovo, 1675).
E Galilei? per quel tanto che significa copernicanesimo dimostrato, se entusiasma un Micanzio, suscita pure la testarda ripulsa dell'accademia degli Immobili sorta attorno al 1618 all'insegna, appunto, dell'immobilità della terra e di quella, costituitasi nel 1630, dei Peripatetici anch'essi cocciutamente anticopernicani. E più tardi, nel Giudicio estremo, Costantini se la prende con quanti "osan dar posa a i cieli e moto a i piani". Il "movimento della terra", annota lo stesso, non ha "fondamenti reali, né ragioni probabili, né autorità canoniche" dalla sua. "L'oppinione" di Copernico, insiste, è "proibita", "dannata", va "contra natura", contro "la sentenza comune", "contra li documenti dell'astronomia, della fisica e della matematica e, quello che più importa, contro il senso e la religione cattolica". Costantini blatera di ciò che non capisce, o, meglio, capisce che senza capire conviene proclamare una fede tolemaica. In grado di capire, invece, il gesuato e poi, soppresso l'ordine, prete secolare veneziano Stefano degli Angeli - il seguace di Bonaventura Cavalieri; il fautore del metodo degli indivisibili -, il quale, in dialoghi d'imitazione galileiana, figura come anonimo matematico che - una volta recitata la giaculatoria per cui "la terra" è ben "quieta nel centro dell'universo" -, ecco che si pone il problema di quel che "succederebbe quando questa si muovesse". E così salva il corpo dai fulmini di Roma e, argomentando in linea d'ipotesi, la dignità dell'intelletto. E questa è salvabile pure se - schivando quanto può opporre frontalmente al magistero romano - ci si occupa, come fanno i Filaleti radunati attorno a sé da Battista Nani, di "optica", "prospettiva", "forza", "ombre". Volonterosi i Filaleti, ma non produttivi ché non vanno al di là delle buone intenzioni. Tangibile attestato, comunque, della loro esistenza dal 1661 sino, almeno, al 1663 la lettera loro indirizzata da Carlo Roberto Dati Della vera storia della cicloide e della [...] esperienza dell'argento vivo (Firenze 1663), ove rivendica a Torricelli l'esatta misurazione della cicloide e la priorità dell'esperimento barometrico e, quindi, nell'invenzione del barometro. Compiuta con l'argento vivo l'esperienza del vuoto (non concepibile questo nell'impianto della fisica aristotelica e non a caso contrastato dalla Compagnia di Gesù: il vuotismo, per dir così, dà adito all'empio atomismo), descritta da Torricelli in una lettera del 1644 a Michelangelo Ricci che Dati pubblica. Un esempio di metodo rigoroso, di "retto discorso" fatto di speculazione sulla "cagione" e di sperimentazione dell'"effetto". Un criterio adottabile purché s'abbia - ma non pare sia il caso dei Filaleti - un minimo di strumentazione. Questa è sin vistosa nell'accademia Corrara che ha, appunto, sede nel palazzo del patrizio Girolamo Correr ed è dotata d'una specola. "Cavaliere di gran merito" - così Montanari - Correr: è in rapporto con Malpighi, Cassini, Giambattista Riccioli, Alessandro Marcirai (che, tramite Francesco d'Andrea, gli fa pervenire, nel 1673, il suo De resistentia solidorum del 1669; e lo stesso avrebbe voluto dedicargli una sua traduzione del primo libro dell'Almagesto di Tolomeo col commento di Teone Alessandrino, rimasta però inedita), è visitato da Leibniz quando di passaggio a Venezia, è collezionista di medaglie che non bada a spese pur d'acquistare i pezzi più pregiati e, come tale, ammirato da Vaillant e Mezzabarba. Ed è - è questo che interessa soprattutto a Montanari che a lui indirizza una lettera d'argomento ottico pure appassionato d'astronomia. E Montanari, docente a Padova dal 1678 al 1687 anno della sua morte, ne approfitta. Quando può lascia Padova e s'installa in casa Correr. Qui è a sua disposizione - come scrive felice a Magliabechi nel 1680 - l'"osservatorio astronomico" che il padron di casa "va arricchendo e di numerosa e preziosa libreria" e, soprattutto, di "così bella suppellettile d'instrumenti, parte dei quali son fatti nella fabrica stessa, che in Europa, dopo l'osservatorio regio di Parigi, [...] altri" non sono rispetto ai quali "questo debba restar secondo". E, lo precisa sempre a Magliabechi il futuro cardinal Noris in una lettera del 25 gennaio 1681, Montanari, nei suoi prolungati soggiorni lagunari, alloggia in "un appartamento nel palazzo Cornaro" in riva de Biasio, con vista sul Canal Grande, sicché lo si può dire "padrone di tutto il palazzo", ove Correr "ha fatto un'alta torre che serve per vedere le stelle, loro moti ed aspetti". Quella, la "torre", è "comodissima nella salita e vi sono vari strumenti astronomici". Montanari vi sta "in regno suo con servitori, libri", pure questi a portata di mano dal momento che "congiunta alla torretta sta la biblioteca fatta con scansie di noce intagliata alla grande".
Dall'alto - fisico e metaforico - dell'osservatorio Montanari può ben spregiare questa o quella "disquisitio astrologica" quale, tanto per esemplificare, il De pseudostella seu cometa (Venetiis 1665) di Gaudenzio Brunacci. Una posizione di forza la sua, ottimale, dalla quale può scagliare la sua Astrologia convinta di falso col mezzo di nuove esperienze e ragioni fisico-matematiche (Venezia 1685). Luogo per la scienza, sinergia d'osservazione e ragionamento, la "specola" Corrara, nella quale, morto Montanari, subentra Francesco Spoleti - un docente di medicina a Padova con forti interessi fisico-matematici -, estensore delle Memorie ad essa relative. Ricorrente il nome di Montanari nelle riunioni della Royal Society, al cui giudizio Spoleti sottopone il proprio De momento [...] (Venetiis 1686) sui tempi di caduta dei gravi studiabili ricorrendo al piano inclinato. E anche, se al contrario della prima, la seconda parte del trattato viene giudicata negativamente, Spoleti, nel 1696, sarà ammesso nella Society, della quale è già membro, dal 1679, Giovanni Ambrogio Sarotti (26), figlio di Paolo, il residente veneto a Londra dal 1675 all'inizio del 1681. E, al rientro a Venezia dall'Inghilterra, il giovane, d'accordo col padre, istituisce nella loro dimora, nella zona di S. Felice, un'accademia che, ricca di libri e strumenti, è aperta tre giorni alla settimana e dedica ogni lunedì pomeriggio alla discussione di "scienze filosofiche e matematiche". E tra le "osservazioni" praticate - l'apprendiamo da una lettera del 5 ottobre 1682 di Spoleti al padre Anton Francesco Caramelli - quelle sull'"acqua chiusa in un vetro vuoto d'aria", sull'"ago calamitato serrato in un recipiente", sull'"aria artifiziale prodotta dalle sole traspirazioni delle persiche o della pasta o dell'uva" che smorza il fuoco, che fa morire le mosche. Esperimenti, dunque, seguiti da discussione. Attivamente partecipi a ciò il padron di casa, Caramelli, Spoleti, il medico veneziano e docente a Padova Giacomo Viscardi, Denis Papin, Lucantonio Porzio. A Venezia quest'ultimo, quanto meno, nel 1683-1684, non solo tiene in casa Sarotti delle vere e proprie conferenze, ma vi è trattenuto dalle "sperienze" di netta impronta boyliana e a carattere soprattutto idrostatico. Lo si evince dalle sue Dissertationes variae (Venetiis 1684) e pure da L'art de bouiller les os (Amsterdam 1688) di Papin, il medico ugonotto già collaboratore di Boyle (dalla cui teoria corpuscolare, si può rammentare, Montanari deduce il proprio modello di struttura della materia), che, assiduo in casa Sarotti, può dirsi l'introduttore degli studi di pneumatica nella città marciana. Ma col ritorno a Londra, nel 1686, di Paolo Sarotti cessa il fervore di philosophia sperimentalis della sua residenza veneziana. Alla scienza necessitano spazi e strumenti appositi. Quelli forniti, appunto, dall'accademia Corrara e da quella Sarottiana. Esauritesi queste non è che venga meno l'appassionamento per la scienza. Solo che non subentrano luoghi altrettanto propulsivi. Che Bernardino Zendrini dedichi un suo Discorso fisico-matematico (Venezia 1708) sul "turbine" del 25 gennaio 1708 al nobile Vincenzo Grimani Calergi, che Giambattista Achilli reciti in casa del medico Girolamo Oddoni una Speculazione fisica su di un "fenomeno meteorologico" riscontrato nel gennaio del 1716 indica che v'è, tra patrizi e borghesi, quanto meno curiosità. Ma non c'è la casa specola come quella di Correr, non c'è la casa laboratorio come quella dei Sarotti. E sono state queste le sedi per la ricerca.
Cercare e, quindi, sperimentare. L'ha fatto colle gocce di vetro Montanari ben prima di trasferirsi a Padova e se n'è interessata più volte, nel 1668, nel 1670, nel 1671, la Royal Society. Ma a questa - attenta, oltre che agli esperimenti, alle pratiche lavorative, alle applicazioni tecniche, alla divulgazione - Papin, il 2 aprile 1684, riferisce non già d'ulteriori esperimenti di Montanari, ma del suo Manualetto de' bombisti (Venezia 1680), ove si forniscono "avvertenze" pel maneggio dei "mortari". Un titolo, codesto di Montanari, da ricondurre ad una letteratura informativa in fatto di "militar disciplina", di "pratica del soldato", d'"infanteria", d'esercitazioni del "battaglione", di fortificazioni, di armi da fuoco, di schieramenti, di acquartieramenti, di "proiezioni orizzontali", di posizionamento dell'artiglieria, di marce, di campeggiamenti. Il "sargente maggiore" deve ben avere un suo bagaglio di nozioni operative. E per arruolare un cannoniere è previsto l'" esame" d'ammissione. E, allora, l'aspirante artigliere deve un minimo prepararsi per non presentarsi del tutto sprovveduto. E se il "bombista" vuol essere promosso "sotto capo" e se questi vuol diventare "capo maggiore" preposto alla formazione degli "scolari bombardieri", c'è sempre lo scoglio del relativo esame da superare. Soccorrevole l'istruzione d'una manualistica elargente il "metodo pratico" ad "uso" e per "uso", che illustra "ordeni e regole". E da una famiglia - gli Alberghetti - di fonditori all'Arsenale provengono quel Sigismondo autore a fine '600 di manuali d'artiglieria e quel Giusto Emilio che, "sopraintendente all'artiglieria", condensa, nel 1718, in un trattatello l'essenziale da sapersi per chi aspiri a formare i "bombardieri". E come questi vanno sprezzati, vanno pure preliminarmente istruiti quanti aspirano ad un'attività commerciale. E a questi si rivolge una letteratura, del pari didattica, in fatto di pesi e misure, di tariffe e dazi, di monete e cambi. Bisogna ben che l'operatore o l'aspirante tale abbia qualche "cognizione" di contabilità, di "scrittura doppia", di, per così dire, tecnica bancaria. Benvenuto, allora, il libretto che promette il "modo facilissimo di convertire la valuta di banco in valuta corrente". Se un Geminiano Montanari, nel 1683, col "trattato mercantile" La zecca in consulta di stato fa volare alto il pensiero economico, le istruzioni pratiche possono rimanere rasoterra. Quel che conta è che si prestino ad un'immediata applicazione, che siano rapide e comprensibili, di pronta consultazione, come, ad esempio, Il vero, solo et real ordine da osservarsi fra' mercanti [...] nel batter sconti et tagliar dite a uso de piazza [...] (Venetia 1630) del prete veneziano Michele Peroni. Non c'è tempo per studi ardui. Ma giova afferrare gli aspetti pratici, quelli che servono nel quotidiano, nell'immediato. Ed ecco che, preceduto dalla Geometria prattica [...] (Roma 1603 e, di nuovo, 1624) del veneziano Giovanni Pomodoro, Bonifacio Brandolini, pur'egli veneziano, pubblica il Saggio di algebra in pratica [...] (Venetia 1686). E, in una città manifatturiera come Venezia, non possono mancare testi sui procedimenti di questa o quella lavorazione. Il vetraio muranese Giovanni Darduin, col ricettario del 1644-1654, insegna ad ottenere smalti e colori. E prima di lui il farmacista Timoteo Rosselli squaderna Secreti [...] (Venetia 1601 e, di nuovo, 1619, 1644) per preparare inchiostri, cosmetici, saponi, detersivi, tinture, colori. Sempre valido il cinquecentesco Plichto di Rossetti visto che lo si ristampa, per la quarta volta nel 1672, ma non solitario se, ad un certo punto, l'affianca il Nuovo Plico d'ogni sorta di tinture (Venezia 1704 e, di nuovo, 1791, 1793) di Gallipido Tallier, cui s'aggiunge, nel 1720, il Trattato sopra l'arte della tintura di Giovanbattista Vrani.
È vita intellettuale anche quella della manualità esperta dell'Arsenale, anche quella delle fornaci di Murano, cui Sagredo, l'amico di Galilei - abilissimo meccanico, costruttore di "stromenti", perfezionatore del termometro - commissiona un "vaso di vetro con un palmo di collo". E sugli ottici veneziani che Galilei continua a contare da Firenze. Ed è nella bottega aperta nel 1690 a Venezia che Santo Bernardo Facini - autore dell'Anatomia del circolo nella sua quadratura (Colonia 1695) - ripara e, soprattutto, costruisce ideativo strumenti: nel 1694 il "goniometro per rilevamento con bussola"; nel 1697 il "compendio nautico" che vale a precisare l'ora, la fase lunare e, soprattutto, la posizione. Seguono una quindicina di strumenti di rilevazione e misurazione e nel 1714 - prima del trasferimento a Piacenza - un calcolatore logaritmico corredato da una relativa Informazione. Frequentata - è supponibile - da gente di mare la bottega di Facini. Ma Venezia è pure centro di consumo della rendita terriera, con tanti nobili e cittadini proprietari di campi e, quindi, interessati a che rendano e, magari, anche a come farli rendere. Di per sé Gallo, l'agronomo bresciano, le cui Giornate continuano ad essere ristampate a Venezia (27), auspica un proprietario che, stando in villa stabilmente, s'assuma la responsabilità della conduzione diretta della proprietà. Ma per tal verso lo si ascolterà solo nel ' 700 inoltrato. Resta il piacere del vivere in campagna da Gallo sottolineato e ribadito ne Le delitie e i frutti dell'agricoltura e della villa (Venezia 1633 e, di nuovo, 1634) del canonico (28) bellunese Giovanbattista Barpo, propugnatore d'un padrone cerbero sempre all'erta per costringere al lavoro un contadiname infingardo. Ma così vive urlando e sbraitando e le "delitie" vanno a farsi benedire. Perché il proprietario, specie il grande proprietario - impensabile nel Bellunese che ha in mente Barpo -, invece, si goda, villeggiando, la campagna occorre il "buon fattor di villa", un tuttofare in cui fidare e confidare. Ed è tale l'opitergino Giacomo Agostinetti che travasa, sintetizzandola, la sua quasi cinquantennale esperienza in Cento e dieci ricordi che, dedicati al nobile veneziano Andrea di Niccolò Dolfin - è nelle grandi tenute della nobiltà lagunare che si situa come protagonista il fattore amministratore sagomato da Agostinetti - escono a Venezia in due edizioni simultanee pei tipi di due differenti editori venendo ristampati a Bologna nel 1681 e, quindi, sempre a Venezia nel 1692, 1703, 1704, 1716, 1717, 1749. "Vicegerente", con la più ampia delega da parte del proprietario, con forte autorità sulla manodopera, con piena autonomia decisionale il fattore è quello che sa far funzionare al meglio la proprietà avendo come scopo l'ottimizzazione dei profitti, il perseguimento di quelli che sono gli "interessi padronili". Senza soste la sua giornata fatta di governo degli uomini e di sorveglianza sul governo delle bestie. Bisogna aver cura del bestiame e saperne prevenire i "mali", essendo pure in grado di fronteggiarli se proprio capitano. Ma se scoppia il "mal contagioso", se infierisce, come avviene nel 1711-1714, l'afta epizootica, il "buon fattore" agostinettiano è costretto ad avvertire l'insufficienza del proprio gruzzolo di tradizionali "rimedii". Col "contagio pestilenziale" occorre la scienza medica. È Pier Antonio Michelotti - membro del collegio medico veneziano e futuro autore d'una "dissertatio physico-mechanico-medica" De separatione fluidorum in corpori animali (Venetiis 1721) - a formulare Conghietture sopra la natura, cagione e rimedi dell'infermità regnante ne' [...] bovini [...] (Venezia 1712), mentre il chierico regolare e futuro vescovo di Capodistria Antonio Maria Borromeo - lo stesso che indirizza a Vallisneri una lettera sui vermi ottenendone circostanziata risposta - s'affretta a stampare un'Istoria dell'epidemie de' buoi [...] (Venezia 1712) che, nella ristampa patavina di 2 anni dopo, s'ispessisce d'un trattato sull'epidemia equina. Stando al medico cremasco Carlo Francesco Cogrossi e allo stesso Vallisneri è evidente la natura microbica della peste bovina allora imperversante.
Ma proprio questo trapasso sopra da noi schizzato dall'empiria d'Agostinetti alla scienza vallisneriana c'induce a sottolineare le possibili correlazioni tra sapere scientifico e urgenze pratiche, tra sistemazioni concettuali e lavoro non senza dedurne che pur mantenendo la distinzione tra, tanto per dire, l'astrologo medico convinto dell'influenza sul corpo dei pianeti, dei segni zodiacali e chi, come il padovano Girolamo Barbato, iscritto nel 1657 nel collegio medico di Venezia, studia, sotto il profilo anatomo-fisiologico, l'apparato genitale e individua la presenza dell'albumina nel siero del sangue vanno anche colti gli intrecci, le concomitanze, le interazioni senza divaricare oltre misura i piani alti degli avanzamenti delle scienze e gli scantinati delle fatiche quotidiane. E nella smania inventariante che trasforma il farmacista in botanico più che l'imporsi d'un sapere differenziato con un proprio autonomo statuto gioca la molla d'una "curiosità" sin divorante che oltrepassa i confini disciplinari. Vallisneri, ad esempio, viene, nel 1685, a Venezia - lo racconterà il conte friulano Giovanartico di Porcia nella biografia(29) premessa all'edizione postuma, voluta e curata dal figlio, delle Opere fisico-mediche [...] (Venezia 1733) - per impratichirsi nella medicina. Donde il suo frequentare Giacomo Grandi per la "chirurgia" e Ludovico Testi per la "chimica". Tornato in patria nel 1686, si mette a fare il medico. Ma, nel contempo, pianta un giardino di semplici, va a caccia d'" erbe ", di minerali, di "corpi marini impietrati", s'interroga sull'"origine delle fontane", s'inerpica per costoni per scrutare dalle crepe tracce di stratificazione. Si reca a visitare infermi, ma, strada facendo, si guarda attorno. L'appassiona "la notomia del baco da seta", s'arrovella sulla generazione degli insetti. Legge avido Malpighi e Redi. Ed invia a Testi le sue "osservazioni" su, appunto, la "curiosa origine di molti insetti"; e questi gliele fa pubblicare nella neonata "Galleria di Minerva" ove le legge il riformatore allo Studio di Padova Federico Marcello. Impressionato costui vorrebbe Vallisneri docente di "filosofia sperimentale moderna". Calamitante prospettiva questa d'una docenza patavina e sollecitamente realizzata con la cattedra - da Vallisneri preferita - di medicina pratica. E da Padova collabora al "Giornale de' Letterati d'Italia" riferendo dei lavori di "medicina, botanica, notomia, filosofia, storia naturale". Sempre in movimento la mente e non inchiodato alla cattedra il corpo. C'è chi - come il pittore veneziano Giacomo Barri, l'autore del Viaggio pittoresco (Venetia 1671) - va in giro per le città attratto dai quadri, dalle "pitture famose" e chi, come Vallisneri, preferisce viottoli campestri, saliscendi d'impervi sentieri. Non turista urbano, ma escursionista, camminatore praticante naturalistiche passeggiate. E fruttuose queste. Basta una ricognizione tra le dune del "Lido di Malamocco" per trovarvi il "finocchio marittimo" e il "crisantemo marittimo". Quanto alla "salvia baccifera" - che si propaga "per seme" checché si dica a vanvera in contrario -, essa abbonda, come apprende nel 1686 da Giacomo Grandi, nella ionica isola di S. Maura. Non occorre andare a vedere tutto. Si crea lo scambio d'informazioni. E queste circolano a mano a mano aggiornate. Asseribile "la nascita di tutti gl'insetti dall'uovo" se lo studio individuale si fa convergente con l'andamento generale delle ricerche in proposito. Se però Vallisneri si volge alla geologia, ai fenomeni carsici, ecco che trascorre l'intera "estate" tra le balze scoscese delle Alpi Apuane. Ciò non toglie che, nel 1705, per "notizie" sulle "acque perenni o fonti" nelle "miniere" e per chiarimenti sulla provenienza meteorica o meno delle acque sorgive si rivolge a Marsili che ha avuto "commodità di saziare la sua degna fame di", appunto, "sicure notizie nelle miniere ricchissime dell'Ungheria". Necessarie le ricerche in loco. E il luogo può essere lontano. Ma non occorre che quanti hanno "sete" di riscontri vi si rechino in processione. Basta uno che poi sappia riferire. E la relazione diventa patrimonio comune della comunità scientifica che è tale in virtù d'una sempre più intensificata mutua informazione. C'è sempre qualche scienziato in viaggio anche per conto dei colleghi sedentari.
E, per viaggiare, la città da cui si parte è Venezia. "Mi ritrovo in Venetia [scrive, il 25 gennaio 1681, lo scienziato napoletano Antonio Monforte a Magliabechi] per esser [...] in compagnia del bailo" Giambattista Donà "in Costantinopoli, e penso anco passare in Egitto se haverò sicuro accompagnamento". Intanto si parte, poi si vede come proseguire e sin dove. Allettante prospettiva spingersi ben dentro l'Egitto. L'ha fatto, e per sé e un po' per conto della Serenissima, nel 1637-1641 l'agordino Tito Livio Burattini accompagnando la passione archeologica colla riflessione geodetico-cartografica, quella che l'indurrà, una volta in Polonia, a caldeggiare, colle Misure universali (Vilna 1675), l'adozione, appunto, di "una misura e peso" ovunque validi. Altro viaggiatore veneto - e, pure, veneziano, nella misura in cui è agente della Repubblica - il bellunese Michele Bianchi, autore d'un'Historia delle guerre civili di Polonia (Venetia 1671) che non è solo monografia sulla rivolta cosacca del 1648-1652, ma descrizione geoetnografica d'un ambiente direttamente esperito. E lo stesso dicasi dell'Historia delle moderne rivoluzioni della Valacchia [...] (Venezia 1718) del fiorentino di nascita - ma qui non del tutto arbitrariamente venezianizzato pei suoi rapporti con Zeno, pel suo soggiorno a Venezia, pel suo partire da questa e a questa ritornare nonché pel suo in questa pubblicare l'Historia - Anton Maria del Chiaro, lo stesso cui si debbono un Compendio (Venezia s.d.) della vita del protomartire s. Stefano e la versione, uscita a Padova nel 1709 prima della sua partenza per la Romania, di Les remedies des maladies (Paris 1680), ossia del secondo torno di L'anatomie di Saint-Hilaire. Apprezzabili, nell'Historia, la panoramica sul "paese", la "natura, riti e religione degli abitanti" e, ancor più, l'appendice finale sulla "valacca favella" accostata all'italiano non senza intuizione dell'annoverabilità del rumeno tra le lingue neolatine. Quanto ai tre veneziani - Ambrogio Bembo, Giannantonio Soderini, Angelo Legrenzi (30) -, tutti e tre imbarcatisi, nel 1671, sulla Confidenza per poi separarsi, ognuno a questo punto è viaggiatore a titolo individuale. Il primo, una volta ad Aleppo, si porta, con un contorto itinerario, in Mesopotamia, Persia, Kurdistan, India, ma del relativo diario illustrato, andato smarrito, restano solo delle smilze Notizie da questo tratte. Più documentato - in virtù del riporto diaristico del "cameriere" Fermo Carrara, da un lato spigliato nel raccontare, dall'altro docilmente mimetico nell'assecondare la passione pei monumenti e l'intermittente attenzione storico-politica del padrone - il viaggio del secondo che, dopo aver perlustrato per mesi Cipro in caccia di antichi resti, iscrizioni, monete (famosa sarà la sua raccolta di queste, tra le maggiori a detta di Patin), si sposta in Egitto e di lì in Terrasanta raggiungendo Aleppo quivi constatando l'attivissima presenza d'operatori commerciali inglesi e francesi la cui competitività - senza che Soderini dia segno, però, di crucciarsene - sta sbaragliando le residue resistenze del "negotio" veneto.
Nobili Bembo e Soderini viaggiatori per voglia di conoscenza, per diletto, per spirito d'avventura, per curiosità. Diversa, a tutta prima, la motivazione che vede partire sulla stessa nave il cittadino Legrenzi. E medico, deve lavorare per vivere. Se salpa per Aleppo è perché designato "fisico" e "chirurgo" della nazione veneta in Siria. Di per sé, colla chiusura del consolato decretata nel 1676 dal senato, dovrebbe rientrare. Ma, più disposto all'avventura dei due nobili compagni di viaggio, non ritorna. Esercita per un po' liberamente la professione medica per poi aggregarsi, nel 1678, ad una carovana diretta a Tabriz. Aleppo è un po' una finestra sull'Asia. Ebbene: Legrenzi, sportosi sul davanzale, non resiste alla tentazione di tuffarcisi per "scorrere la Persia" - qui il palazzo regio d'Ispahan, qui le "lagrimevoli rovine" di Persepoli, qui la "bianchezza" dei vetri di Shiraz - donde raggiunge l'India penetrandola sino a Delhi. Dopo di che, non senza complicazioni, riesce a tornare ad Aleppo vivendovi come medico sino al 13 luglio 1694, quando si porta ad Alessandretta donde, su di una nave francese, giunge, dopo due mesi di navigazione, a Livorno. Di qui, il 26 ottobre, è a Monselice dove, nella villa di famiglia, finalmente riabbraccia i suoi dopo un'assenza di quasi 23 anni dalla quale rientra avendo serbato integra la propria fede religiosa pur nell'adattamento al costume di "popoli" tanto diversi nei confronti dei quali s'è ingegnato d'intenderne le "lingue", sì da "parlare" egli stesso nelle "conversationi". Eccezionale la sua esperienza; e la narra ne Il pellegrino in Asia [...] (Venezia 1705). Un raccontare avvincente questo di Legrenzi pei lettori del tempo: pescatori di perle, corsari, elefanti, tigri, manghi, betel, pire funebri, eunuchi, serragli, padiglioni, pagode, seriche vesti, calzari ricamati, fiumi lutulenti, rigide caste, pratiche lustrali, inaudite superstizioni, assurde teologie, non prive, nel caso dell'indiana Trimurti, di logica interna nel tripartirsi della divinità in Brahma - il dio dalle 4 "facce"; così può' guardare ai 4 "angoli del mondo" -, in Visnù il dio della giustizia, in Siva il "custode dei tesori". Né, lungo le sue peripezie, Legrenzi s'è mai scordato d'essere medico: sicché informa che, nell'infuocata "provincia di Lar" stilla dai "sassi d'alta montagna" il cosiddetto "liquor della mummia", oleoso nero "bitume" che, indurito, si fa "pece" adoperabile per bloccare emorragie e aggiustare ossa. Della stessa zona arroventata e calcinata da un sole implacabile certi capretti "dal cui ventricolo" s'estraggono le "pietre bezoariche": trattasi del bezoar adoperato come contravveleno pure in Occidente. Di per sé Legrenzi - medico europeo nel lontano Oriente - avrebbe potuto affermarsi come prestigioso guaritore mescidante scienza occidentale e pratiche locali. Tant'è che ad Aurangabad, in India, gli si offre la possibilità di insediarsi quale remuneratissimo medico di corte. Avrebbe potuto primeggiare in tale veste. E, invece, rifiuta, non si lascia sedurre dalle promesse di "prencipi che non possedono ragione, né fede". Ulisside errabondo, ma sempre col "pensiero" del "regresso per rivedere" il proprio sangue, del ritorno ai propri "confronti". L'altrove non lo cattura. Coronato dal rientro l'allontanamento. Tranquillizzante, con questo finale, l'asiatico pellegrinaggio.
Ma con un altro veneziano (31), Niccolò Manucci, non si dà il ritorno. Qui il "genio vagante" del '600 si fa definitivo allontanamento. Bramoso di "vedere il mondo", appena quattordicenne Manucci scappa di casa: s'imbarca di soppiatto, in un pomeriggio del novembre 1653, su una tartana in partenza per Smirne. Scoperto, il clandestino è preso in simpatia dal nobile inglese Henry Bard che l'assume al proprio servizio. Sicché Manucci con lui - in viaggio per conto dell'esiliato Carlo II d'Inghilterra - raggiunge Quarwin e Ispahan passando poi in India. Ma, nel giugno del 1656, nel tratto A-gra-Delhi, l'inglese muore. Rimasto solo il ragazzo riesce a cavarsela. E non tentando di tornare, ma proseguendo. È sveglio, sa fare di necessità virtù. Rapido nell'apprendimento delle lingue europee, come ha saputo intendere e farsi intendere in Turchia e in India, così si destreggia tra i vari dialetti indiani. Per una decina d'anni milita - lungo le convulsioni dei contrasti tra i figli dell'imperatore Moghul Shah Jahan - divenendo capo artigliere e poi capitano. Tenta quindi di sistemarsi a Goa, ma l'inquisizione s'interessa troppo di lui, sicché s'immerge di nuovo nell'Impero Moghul improvvisandosi senza fortuna mercante. Meglio, invece, improvvisarsi medico a Lahore campandovi discretamente per 7 anni e accumulando - con salassi, impiastri, purganti, unguenti - 14 mila rupie che investe in commerci. Ma un portoghese lo truffa. Sicché perde tutto e deve ricominciare da capo. Ritenta la professione medica e con successo ché - guarita da una fistola una principessa - diventa medico di corte collo stipendio di 300 rupie al mese. È in tale veste che Legrenzi lo conosce ad Aurangabad congratulandosi per la sua "felice sorte" ed intimamente stupendosi ché sconcertato dalla palese, per lui, ignoranza di Manucci che è "spoglio affatto di lettere", del tutto digiuno di "cognitioni" mediche. Ciò malgrado è in gran credito a corte, è in fama "appresso li grandi". Accorto nel vantare le guarigioni dei suoi salassi, la flebotomia - a forza di praticarla - è la sua specialità nonché la sua fonte di lucro. Di nuovo ricco, ritorna a Goa e, mediatore tra i Portoghesi e il principe Shah 'Alam, è premiato da quelli coll'ordine di Santiago ma, anche, sequestrato da questi pel mancato rispetto, da parte dei primi, del pattuito. Riguadagnata fortunosamente la libertà, Manucci ripara presso la colonia britannica di Madras. Si integra in questa sposando, nel 1686, una vedova cattolica - e fa bene: nel 1687 quando si reca a Bassain, non lungi da Bombay, l'inquisizione cerca d'agguantarlo; e pure da Goa deve scappare travestito da frate carmelitano - e tornando utile, per la conoscenza delle lingue locali, nelle trattative in cui diventa portavoce della colonia, che a lui ricorre anche come medico. Solo che, sul finire del secolo, via via si ritrae dall'esercizio della professione; e preferisce, almeno così s'affabula, darsi a misteriose sperimentazioni alambiccanti, sicché si diffonde la nomea d'alchimista e, pure, esorcista. Certo è che, rimasto vedovo nel 1706 con un figlio, trascorre i propri giorni in una bella casa con giardino - la tipica anglica incorniciatura, questa volta sulla costa del Coromandel, per mediare e filtrare l'impatto con l'esotico - va dettando, in italiano, in francese, in portoghese, a seconda dello scrivano trascrivente, la Storia del Mogol dal 1658 al 1709. Questa, grosso modo, coincide colle sue personali esperienze e, comunque, colla sua permanenza indiana; sicché è egli a campeggiarvi. Rimaneggiata dal gesuita Frannois Catrou, l'opera esce a Parigi nel 1705 in due parti e nel 1715 con un'ulteriore parte incompleta. Vale, allora, il manoscritto con altre due parti, fatto pervenire al senato dall'autore senza che ne segua la stampa. Da un lato la Repubblica non stanzia la somma necessaria, dall'altro viene lasciata cadere, nel 1712, l'offerta di Coronelli di provvedere personalmente, purché garantito dall'esclusiva per un venticinquennio. Di lì a qualche anno, nel 1717, Manucci muore a Madras. E, il 9 dicembre 1718, muore a Venezia Coronelli.
Accostati dalla cronologia e momentaneamente interessati alla stessa intrapresa editoriale - quella della stampa integrale della Storia in veste italiana controllata dal frate e arricchita da incisioni -, il viaggiatore e il geografo (32) si prestano ad un gioco di contrapposizione. Fondatore il secondo, il 27 dicembre 1684 - è l'anno in cui Legrenzi sta facendo il medico ad Aleppo, in cui Manucci è trattenuto colla forza da Shah'Alam -, dell'accademia veneziana degli Argonauti che ha per impresa il globo terrestre caricato sulla nave d'Argo illustrato dal motto non plus ultra, si può dire che, per comprendere cartograficamente il mondo, sta fermo. Il viaggio di Manucci è dimensione esasperata, sradicamento senza rimpatrio, che fa morire altrove, come inghiottito dal lontano Oriente. L'applicazione alla geografia e alla cartografia di Coronelli - pur inclusive delle risultanze dei viaggi assimilate in un costante aggiornamento d'integrazione e rettifica - lo costringono alla sedentarietà. Anche se fa qualche viaggio, il grosso della sua esistenza esclude il movimento. Al limite il geografo Coronelli - laddove il viaggiatore avventuroso parte quando può, come può, magari clandestino in una tartana - rifiuta l'avventura. Tant'è che, nel 1699, quando sta impiantando la Biblioteca universale, non va in missione a Costantinopoli. La sua operosità non glielo concede. È un lavoro il suo che lo tiene sin "troppo fisso", come ammette egli stesso. Sicché per sgranchirsi e per distrarsi il francescano talvolta lascia la stanza nel convento dei Frari per portarsi in un "orticello di questo" per dedicarsi - visto che non sa stare in ozio - alla fabbricazione di cannoni particolarmente leggeri. Ed è "mentre era al solito tavolino et operava", che, come riferisce un suo collaboratore, la morte lo sorprende. "Fu ritrovato morto al tavolino dove fu solito impiegare gran parte della sua vita", ripete Zeno nel necrologio dedicato a Coronelli nel "Giornale de' Letterati d'Italia". Se il viaggiatore è incalzato dalla smania di spingersi oltre, è nell'assiduità che l'inchioda al "tavolino" che questo frate onnisciente astronomo, fisico, ingegnere, idraulico, inventore, storico sacro e profano, costruttore di globi (all'incirca 104, metà celesti e metà terrestri) svolge un'attività quantitativamente impressionante: decine e decine di titoli, migliaia e migliaia di pagine a stampa, centinaia e centinaia di tavole. In fama soprattutto di geografo e sfereografo il titolo, del 22 marzo 1685, di "cosmografo" della Repubblica e la pubblica lettura, del 4 giugno 1689, gli rendono 600 ducati all'anno, pochi rispetto al giro vorticoso di spese in cui s'immette col suo frenetico organizzare, ma pur sempre più dei 400 ducati annui dello stipendio iniziale di Michelangelo Fardella, dal 1694 cattedratico a Padova d'astronomia e meteore. E sarà un duro colpo pel frate la soppressione, del 4 maggio 1705, da parte degli "scansadori alle spese superflue" e del "titolo" e della "cattedra" sicché - dopo aver vanamente tentato di far rientrare la decisione - dovrà rassegnarsi alla perdita dei relativi emolumenti. Una fabbrica continua, comunque, il laboratorio di cui - non senza mugugno dei confratelli - dispone nel convento dei Frari nel quale con lui collaborano sin una quindicina d'artisti e disegnatori, mentre sin 35 giungono ad essere i collaboratori esterni. Costose le sue iniziative e concepite per essere lanciate in un allargato mercato che, accogliendo il prodotto, dovrebbe fornire degli utili da investire nell'ulteriore ampliamento delle iniziative. E finalizzata alla propaganda e al sostegno di tanto intenso produrre la stessa accademia degli Argonauti la quale, più che associazione di cultori di studi geografici, è - coi suoi aderenti che nel 1693 ammontano a 261, dei quali 75 residenti a Venezia e il resto all'estero; e ben 79 i soci parigini - una sorta di lista di potenziali sottoscrittori, un elenco con nomi anche prestigiosi (il re di Polonia, Cristina di Svezia) di fautori di Coronelli. Quanto fa abbisogna d'un allargato consenso. E gli giova il gradimento regio dei due giganteschi suoi globi - quello terrestre aggiornato sui dati più recenti specie relativamente all'America settentrionale; quello celeste d'azzurro oltremarino colle stelle splendenti in oro - "ornamenti del [...] castello di Versaglia". E l'accredita il giudizio della Royal Society, a dir della quale i suoi "globi" sono "i più corretti e i più copiosi di notitie astronomiche e geografiche di tutti gli altri [...] fin hora stampati". Ma se sappiamo e del plauso di Luigi XIV e della stima dell'accademia londinese è perché Coronelli stesso si preoccupa di divulgarli. E non per mera vanità, ma perché la propaganda - e, nel suo caso, l'autopropaganda - è indispensabile a suscitare la domanda dei globi che vien fabbricando a proprie spese.
C'è nella produzione cartografica e cosmografica coronelliana, un piglio imprenditoriale fatto di investimenti nella prospettiva d'un ritorno remunerante. Solo che, col ciclopico progetto del "gran dizionario" - tale è la Biblioteca universale e per la disposizione alfabetica dei lemmi e per l'attenzione all'"etimologia", "significato" e "pronunzia" del singolo "vocabolo" allargata all'equivalente nelle altre lingue - rischia troppo sì da non reggere alla dismisura della intrapresa enciclopedica. Questa prevede 45 volumi in folio piccolo nelle cui 36 mila pagine in doppia colonna figurino 300 mila voci. Un programma mastodontico non garantito da un robusto sostegno di partenza e caricato sulle sue sole spalle d'organizzatore instancabile. Di fatto, tra il 1701 ed il 1709, non escono che 7 volumi. Ma trattasi pur sempre d'un imponente troncone di un edificio fantasma: 7 tomi su 45 sono il 16% scarso; 40 mila voci circa su 300 mila sono circa il 13%; 10.813 colonne su 72 mila sono il 15% circa. Quanto basta per valutare quel che la Biblioteca, se realizzata - e il materiale raccolto era ben di più; se si bada a Coronelli il grosso dell'opera nel 1716 era già disponibile; ma tutto andrà disperso dopo la sua morte -, avrebbe offerto. Le voci da "a" a "caque", una specie di misura - costipate nei volumi usciti sono più che bastevoli ad intendere il taglio di quest'"eroica impresa", così Giacinto Gimma, "profittevole ad ogni ordine di persone", specie agli "ecclesiastici", ché, in effetti, la Biblioteca, oltre che come "antico-moderna", si presenta pure come "sacro-profana". Tant'è che se alla voce "Asia" competono 13 colonne, a quella "s. Antonio abate" ne vanno 22. Quanto a Coronelli la Biblioteca si rivolge e agl'"ignoranti" come fonte d'apprendimento formativo e ai "dotti" come prima informazione e, in virtù delle bibliografie, come avviamento all'approfondimento. Sarà un "gran zibaldone" indigesto profetizza maligno Zeno, ancora nel 1699. Né, una volta apparsi i primi tomi, si ricrede: "è molto più quello che vi desidero che" quanto "vi ritrovo", brontola in una lettera del 1704; è un "guazzabuglio mal compiuto", infierisce, in una successiva lettera del 1705, ingenerosamente. Troppo scaltrita la sua erudizione per non farsi schizzinosa con quella, ai suoi occhi, traballante ed improvvisata nella sua profusione accumulatoria, della Biblioteca. Questa risente, non senza oscillazioni e sbandamenti, dello sforzo di riassumere lo scibile in una fase in cui il nuovo sta mettendo in discussione il vecchio. Ricalcata, ad esempio, sulla tradizione la voce "anatomia", epperò, bibliograficamente, non ignara di Borelli, Malpighi, Harvey, Stenone, Leeunwenhoeck, epperò vivificata se collegata ad "amputazione", "arteriotomia", "articolazione". Magari insoddisfacente la voce "acqua". Però 240 le voci dedicate a questa o quell'acqua, a queste o quelle acque. Le "acque minerali o terme", ad esempio, informano sui "bagni" che sono "nitrosi", "alluminosi", "sulfurei" e via precisando. E si menzionano quelli d'Abano e Caldiero, di Ischia e Porretta via via fornendo un'autentica toponomastica delle terme più rinomate. Come strumento di consultazione l'enciclopedia funziona. Ogni lettore può adoperarla con profitto se non si ferma alla singola voce, ma se questa lo rinvia ad altre. "Agricoltura", ad esempio, può rimbalzare in "arare", "baco da seta", "canapa", può far arrivare alle piante come "acquifoglio", "agretto". Oppure si può andare all'"agricoltura", dopo aver consultata la voce "bue" o la voce "avena". E il tocco personale di Coronelli si sente in "artiglieria", in "abbiscottare", in "abbrunire", ché v'immette la sua "larga esperienza". E se talvolta s'avverte il soffoco della chiusura mentale, come capita col Maometto "impostore" della voce "Arabia" - eppure è recente la stampa, nella tipografia seminariale di Padova, del 1698, dell'Alcorani textus universus, episodio sin slargante pel prender fiato dell'islamistica -, altre volte, con "Agrippa", "Beza", "Bruno", non pesa più che tanto l'atteggiamento di Roma. E l'enfatizzazione di "Bacone" riecheggia dell'entusiasmo per costui proprio degli ambienti scientifici. Quanto all'"Adriatico", poco cale che la giurisdizione della Serenissima sia di fatto inficiata e vilipesa: per Coronelli resta il "Golfo di Venetia".
Tanto grandiosa nell'impianto, quanto fallimentare nel suo arrestarsi al settimo tomo la Biblioteca coronelliana, che, pur, nelle intenzioni doveva essere un'operazione redditizia. Né si può dire difetti la pianificazione; quel che difetta è il mancato rispetto del piano d'attuazione. Questo, in fin dei conti, anche se non in partenza, c'è. Si stipula infatti, nel 1702, un contratto tra Coronelli, il tipografo, il fornitore della carta, nel quale il secondo s'impegna a stampare tre torni all'anno d'800 pagine circa ciascuno, con una tiratura di 1.240 copie per volume. Incapaci i tre, specie gli ultimi due, a reggere un ritmo tanto sostenuto. Ma quel che qui preme sottolineare non è tanto la disdetta dei fatti, il mancato rispetto dei tempi d'uscita quanto il numero delle copie previste: oltre mille esemplari venduti sono ritenuti una buona riuscita! Ma, se così è, a suo tempo gli Scherzi geniali - più volte editi tra il 1632 ed il 1686 per lo più, ma non esclusivamente, a Venezia; e c'è un'edizione, del 1644, in francese seguita, nel 1688, da una in spagnolo, a sua volta seguita, in diversa versione, da un'altra del 1731 - di Loredan sono stati un successo sin strepitoso. "In meno d'un mese", racconta il suo biografo Lupis, della prima edizione "se n'erano sbaragliati tre mila portando maggior concorso di quello ch'hebbe l'Adone", il prototipo del best seller e anche del long seller, "del Marino su i primi giorni che lo mandò alla luce". Non è detto che Lupis sia del tutto attendibile, che non esageri. Resta il fatto che la vendita di 3 mila copie è ritenuta eccezionale. Però capita che un tipografo seicentesco, Paolo Baglioni, stampi 116 edizioni di breviari di circa 10 mila copie ciascuna. E trattasi di tiratura d'ordinaria amministrazione, che non suscita alcuno scalpore. Operazione sicura la pubblicazione del "rosso" e del "nero", come sono chiamati a Venezia i libri liturgici, i breviari, i messali, gli antifonari, i graduali, i pontificali, i martirologi. Per venderli non occorre la grancassa pubblicitaria cui ricorre Coronelli che s'inventa a tal fine gli Argonauti quale rete di sponsorizzazione presente nei principali centri italiani ed europei. Sono libri che vanno come il pane. Finché ci sono i "preti" a Venezia e fuori nei suoi domini, i messali e i breviari sono i libri che più "si spacciano", come scrive, con un po' di disappunto, Vallisneri a Muratori il 26 novembre 1712. Una domanda costante quella dei "preti" per allargare la quale i torchi lagunari stampano e ristampano, oltre che in caratteri latini, anche cirillici, greci, armeni. Finché i "preti" faranno il loro mestiere, avranno bisogno degli strumenti, appunto, del mestiere. E specializzata nella fornitura l'editoria lagunare. Il guadagno è assicurato. La richiesta è costante e, semmai, in crescita. Né c'è da ottenere licenza di stampa. I libri liturgici non ne abbisognano. Non facile, invece, ottenere da Roma il privilegio di stampa, l'esclusiva; e ciò per essere costoso; e c'è da districarsi tra interessi concorrenti, tra pressioni, revoche, colpi di mano.
Comunque è col "rosso" e col "nero" che si fanno affari di respiro. Ma, una volta constatato questo, va pur constatato che, lungo tutto il '600 e ben dentro il '700, la letteratura a vario titolo qualificabile come religiosa, sacra, devota, spirituale editorialmente gode della, per dir così, maggioranza relativa. Eloquenti, in proposito, i numeri (33). Su 442 licenze di stampa rilasciate, nel 1609-1622, dai riformatori allo Studio di Padova, l'autorizzazione concerne 181 titoli in quella collocabili. E assegnabili alla medesima 185 titoli sui 434 oggetto delle licenze nel 1637-1680. Passando poi al secolo successivo, ecco che nel 1710 il 57% delle fedi di stampa riguarda testi a carattere religioso, spirituale. Un culmine questo rispetto al quale il 48% sul totale delle licenze del 1740 segna l'avvio d'un'inversione di tendenza. Così a grandi linee. Se poi si considerano i 170 titoli pubblicati tra il 1620 e il 1653 da Marco Ginammi - un tipografo che vien da dire impegnato, politicizzato: è filofrancese, è antispagnolo (tant'è che pubblica Las Casas) (34) -, ebbene, almeno 46 sono religiosi, meno dei 65 letterari, ma più dei 45 di trattatistica varia. Eppure Ginammi non è certo particolarmente pio: stampa la produzione "sacra" d'Aretino - il quale è all'indice ancora dal 1557 - camuffato dallo pseudonimo di Partenio Etiro; sua, di Ginammi, l'edizione clandestina dell'Alcibiade. Connotato dell'economia veneziana l'industria tipografica. E come Venezia è fatta di palazzi e chiese, così quella pubblica testi sacri e profani. "Tempio d'inimitabile pietae", per Gnesio Basapopi, la città marciana, ove, come insistono le guide, "tra le cose più notabili" primeggiano gli edifici dedicati al culto, sicché ogni descrizione di Venezia, dovendo obbligatoriamente illustrare anche questi, è di per sé "sacro-profana". Città mondana, mondanissima e, col prolungato carnevale, sin scialante e sperperante Venezia. Epperò, proprio quando più folleggia, "numerosissimo" è il concorso dei fedeli nelle chiese esponenti il Santissimo, come sottolinea, in una lettera dell'8 febbraio 1679, il nunzio pontificio. Proprio quando la città più si diverte e, nel divertirsi, pecca, più sente l'esigenza di pregare pentendosi. Città orante, città penitente a questo punto (35). A volte sembra scossa da fremiti d'intensa spiritualità: s'inginocchia, volge lo sguardo al cielo, si dibatte tra terrore e speranza, proclama buoni propositi, venera i santi, vorrebbe esser santa. In fin dei conti è siffatta tensione quella che attestano i titoli pubblicati da un'editoria che, come la città, è "sacra" e "profana" e sinanco più colà che così. D'altronde quando sulla città atterrita piomba inesorabile la peste, dissertano sì i medici, ma, nell'impotenza della loro scienza profana, nel frattempo c'è l'inginocchiarsi invocante la clemenza divina, c'è la contrizione tremebonda di fronte al terribile manifestarsi della collera celeste, c'è il trepido supplicare l'intervento mediatorio della Vergine. Questa la salus infirmorum che vale ben di più della ridicola supponenza dei medici. Scienza del corpo la medicina, preposta a mantenerlo in salute o a questa restituirlo. Può prolungare e migliorare l'esistenza, ma è sempre sconfitta dalla morte. Ed è ininfluente sulla salute dell'anima, senza voce in capitolo sulla sua sorte ultraterrena. E non è forse questo ciò che più conta? Sconvolto, nel 1682 - qualche mese prima di trasferirsi a studiare a Bologna, 3 anni prima di venire a Venezia - Vallisneri dalla repentina scomparsa d'un coetaneo, suo "carissimo amico", stroncato, nel pieno d'una fiorente giovinezza, proprio quando s'era tuffato nelle "mille crapule" e nei "mille disordini" d'un carnevale sfrenatamente godereccio. Vallisneri non si chiede se non c'era rimedio contro l'improvviso attacco di febbre, se non c'era, medicamente, nulla da fare. Non si pone problemi di diagnosi e di terapia. Sbigottito, sa solo dire che "pulvis et umbra sumus", per poi augurarsi che la disgrazia, tanto repentina e imprevista, serva "d'aviso a noi altri giovani" di contro all'indulgere a vizi e stravizi. Se ne impari, almeno, "a vivere più regolatamente". Ma - ecco quel che tormenta il giovane Vallisneri - l'amico "è morto senza confessione". Che ne sarà della sua "anima"? Il corpo, si sa, "è ormai degno pascolo di vermi". Voglia Iddio - spera Vallisneri - "habbi fatto nel suo cuore una buona contritione. Ma chi ci assicura di questo?".
Anche Venezia, città piena di vita, di tentazioni, di peccati, dovrebbe battersi il petto, fare atto di "contritione". E lo proclamano i predicatori, lo scrivono gli autori pii. Non si può dire la città non pensi all'"anima". Impressionato, ancora in uno scritto uscito all'inizio del '600, Botero dalle sue "chiese [...] usate", dalle "prediche frequentate", dal "culto divino con magnificenza celebrato", dall'ardore di "carità". E di questa ha apprezzato gli esiti in termini di pace sociale, ché così i poveri sono remissivi e grati a chi di loro è sollecito. Una valutazione da politologo più che da mistico. Comunque, è sempre Botero ad asserirlo, "non è cosa che renda communemente più credibile la pietà et la religione altrui che la carità". E c'è chi a Venezia arde di spirito di carità. E non tanto perché esercitandola s'ottiene l'obbedienza dei "bisognosi" che interessa a Botero, quanto piuttosto per amor di Dio e amor del prossimo. E a questo punto non vale più la saviezza calcolatrice di Botero quanto la gerarchia di valori fulmineamente indicata da Pascal a dir del quale se un pensiero umano vale più di tutta la realtà del mondo messa assieme, l'intiero umano pensare non equivale al più piccolo atto di carità. E, a Venezia, anche senza inarcarsi ad un'impostazione così netta di quelle che sono le priorità, abbondano scritti a stampa sulla "cristiana carità", talvolta accompagnati dall'invito a non "dir male del prossimo". E come è una virtù la carità, così lo è la povertà. Tant'è che ci sono scritti dedicati, appunto, ai trionfi della povertà. Promessi questi sin dal titolo. D'altronde è con l'intitolazione che si connota la letteratura devota: "glorie serafiche", "divote compuntioni", strenui patimenti, eroiche virtù, lettere spirituali, mistici enigmi disvelati, severe penitenze, lacrime di "sincera divotione", "sensi di devotione", comunicazioni divine, conviti morali, calvari ripercorsi, erari di "vita christiana", "tributi di pietà", ascetici accanimenti, "affettuosi sospiri", "travagli di Gesù", singhiozzi di peccatori, monastici silenzi, macerazioni della carne, "ritratti della morte" a terrore del "peccatore duro di cuore", incredulità debellate, fasti celesti, sacri epiloghi, Apocalisse "descifrata", "ritiramenti" spirituali "in bene dell'anima", "panegirici sacri", "affetti devoti", "ragionamenti spirituali", "rime sacre e morali", "piante dell'horto mistico", "prediche in lode" di Maria e/o dei santi, sensi d'umiltà, spruzzi di devozione, "amori del sposo celeste", veri ritratti di Gesù, esercizi di "perfettione", prodigiose apparizioni, selve di successi miracolosi, pie "considerationi", "svegliarini spirituali", eccitamenti alla "veneratione", "avisi" per vivere "christianamente", "meditationi divote". Così piluccando qua e là, senza entrare nel merito. A tutta prima l'impressione è quella d'un abbondante flusso di pii inchiostri ai torchi perché ne esca il continuato alimento delle letture edificanti. Così da lungi. Ma se accostato il panorama non è più uniforme: si movimenta, si differenzia. C'è ad esempio, un editore, Giovanni Giacomo Hertz, che, tra il 1660 ed il 1710, pubblica Molinos, Petrucci, Malfi, Malaval, ossia i principali autori quietisti. Ciò non può essere casuale. È una scelta ispirata dal "sacerdote veneto" Michele Cicogna, "titolato della parrocchiale e collegiata chiesa" di S. Stin, ossia di S. Agostino. E questi è autore d'una dozzina di libretti che, usciti tra il 1676 ed il 1683, sono oggetto, tra il 1683 ed il 1711, di ben cinque condanne del S. Uffizio. In detti libretti, convocando l'"amore immenso" di Gesù, i suoi "dolori", si fa vibrare il "cuore umano", tutto proteso alle "devotioni da farsi". Aspirante l'anima alle "fruttuose contemplazioni", al nutrimento dell'"ambrosia celeste". Ma come "indirizzar l'anima"? per giungere ai "pascoli" dell'inveramento dissolvimento non c'è da pensare, meditare, speculare, ma da abbandonarsi al divampante "fuoco" dell'amore di Cristo il quale, "per nostro amore" è stato "sbranato, lacerato et ucciso dagli affamati lupi giudei". Non innocua questa livorosa precisazione di responsabilità ché per tal verso la letteratura spirituale anche più rugiadosa s'illividisce e - laddove non s'appaghi di riassumere le "ragioni" bastevoli a volgere "l'hebreo" da queste "convinto" alla verità evangelica - si fa rabbiosa acredine sbavante e ringhiante sino a produrre, colla penna intinta nell'odio del veneziano Paolo Marchesi Vedoa, il Teatro della perfidia [...] (Treviso 1689) ebraica. Né l'antiebraismo si limita a sfogarsi colle esagitazioni della scrittura. Il dotto domenicano friulano Bernardo Maria de Rubeis, docente di teologia nel convento del Rosario alle Zattere, sosterrà, in merito consultato dalla Repubblica, la piena validità del battesimo somministrato al bambino ebreo invitis parentibus.
Comunque, quel che preme a Cicogna è l'amore pel Redentore, non d'attizzare odi antiebraici. Si risolva - così nel Seminato sacrificio dell'hostia divina cruento nella croce e incruento nell'altare (Venezia 1681) - "ogni cuor devoto in affetti sviscerati al Signore". Divampino questi bruciando le scorie residue del vecchio "cuore" già "puzzolente letamaio di affetti lascivi", putrido "vaso di malvagità", "abisso di sceleragini", precipizio di dannazione. Lungo il rinnegamento del tanfoso pattume della gretta individualità, nella sensazione della propria ammorbante negatività il conseguimento dell'approdo salvifico, quello dell'autoannullamento catartico, quello della totale perdita di sé nel divino amoroso oceano. Fasciata di solitudine l'orazione mentale, via via si libera della zavorra intellettuale, via via si svincola dalle inibizioni della ragione, via via si scioglie in commozione del cuore. E così, a mano a mano, si fa estasi contemplante nella quale l'io, ormai senza più volontà, senza più coscienza, è come risucchiato dal rapinoso gorgo d'una sorta d'atto unitivo colla volontà divina. Diffidenti le autorità ecclesiastiche nei confronti di pratiche siffatte volte al conseguimento d'un estasiante naufragare nella beatificante vertigine dell'Armonia contemplativa. Questo il titolo d'uno scritto - condannato nel 1692 - del parroco di S. Maria Mater Domini Giovanni Palazzi. Indubitabili la fede e, ancor più, la buona fede d'un Cicogna e d'un Palazzi. Epperò all'occhio vigile di chi è preposto all'ordinato andamento della vita religiosa da tener sotto controllo e da guidare nel suo assieme, esperienze quali quelle da loro propugnate appaiono sospette. Benvenute le "divote meditationi", ma attenzione alle "essagerationi" d'un'emotività a briglia sciolta, al perseguimento di spasimi e languori. Latita - si paventa - un che d'equivoco, di malsano, sin di torbido negli anfratti della sensibilità esasperata. E non è un caso che siano soprattutto quietisti o presunti tali quanti sono accusati di sollecitazioni dal confessionale, di "toccamenti disonesti", specie con monache. Ed è ambiguo lo stesso attingimento del culmine dello scioglimento nella quiete: è mistico abbandono o intontimento, inebetimento? Molto più produttiva la frequenza quotidiana alla messa, molto più efficace l'orazione vocale, molto più sicura la meditazione sotto salda guida. Anziché sperimentare o credere di sperimentare nell'arbitrio confuso e confondente d'un percorso individuale che presume di pervenire allo sfarsi del cervello incalzato dal dilatarsi del cuore è meglio guardare, con spirito d'umiltà e di sottomissione, all'esempio dei santi. E sin proliferanti i titoli agiografici prodotti dalle tipografie, dalle "cose memorabili" di s. Giuseppe alle "rivelationi" di s. Gertrude, dal profilo di s. Rocco a quello di s. Eufemia, dalla vita di s. Elia a quella di s. Spiridione. E disinvolto Loredan si fa biografo del s. Giovanni vescovo di Traù, mentre il romanziere Corbelli compila una Vita di santa Elisabetta regina d'Ungheria (Venetia 1672). E tra i santi e sopra i santi Maria Santissima, dalla quale Venezia è "protetta in modo particolare", sì da sentirla come proprio "scudo ". Sta alla letteratura mariana, mariologica e sin - a forza d'esagerare - mariolatrica enfatizzare le "grandezze" della Vergine, proporre "soliloqui" con lei, diffondersi su questa o quella sua immagine miracolosa, immedesimarsi nei suoi "dolori". E sono i serviti, ossia i servi di Maria quelli che più della Madonna scrivono. E si distingue tra questi Fulgenzio Baldi - che è anche buon predicatore, che è anche ferrato canonista - pel poema Affitti [...] pietosi [...] alla gran madre di Dio (Venezia 1660), successivamente ridotto a libro di pietà sì da trasformarsi in Esercizio spirituale sopra i sette dolori (Venetia 1702). Una devozione questa mariana che, naturalmente, si fa rosariana nell'imporsi del rosario quale - lo garantisce il teologo Giovanni Battista Mazzoleni - "tempio sacrosanto" elargitore d'"abbondantissime grazie", recitabile ogni giorno e sin ogni ora specie accanto agli "agonizzanti", cui è certamente di gran "pro". E, nel frattempo, il culto della Vergine si fa splendore architettonico colla basilica della Salute, a proposito della cui facies è ipotizzabile una qualche influenza del mariologo somasco Gianfrancesco Priuli.
Compete al clero la direzione della vita spirituale. Ma anche il clero va preventivamente preparato, predisposto. Donde una manualistica a lui destinata. "Diretto", appunto, "a' pastori" d'anime il Manuale de' prelati [...] (Venetia 1681) dell'abate - sarà poi vescovo - cassinense padovano Pietro Vecchia. Indispensabile l'accurata preventiva "instruttione de' sacerdoti" sì che con senso di responsabilità guidino i "penitenti" nella "pratica del foro penitenziale", lungo gli "esercizi devoti" e in una prassi di quotidiane "meditationi". Come il corpo abbisogna del "pane quotidiano", così l'anima abbisogna d'un, del pari quotidiano, spirituale nutrimento. Anche lo spirito ha fame e sete. E come c'è l'arte della cucina, come c'è la scienza gastronomica così la trattatistica spirituale propone la Scienza d'eterna salute (Milano 1677), redatta dal benedettino veneziano Marco della Valle, lo stesso cui si debbono i Pensieri morali (Venetia 1665) desunti dalla stimolazione visiva di "cinque quadri [...] nel soffitto della libreria" del convento lagunare di S. Giorgio Maggiore. Grande la fiducia riposta nelle prediche. E sta al parroco predicare ai parrocchiani. E per agevolargli il compito si stampano sequenze di "pensieri predicabili sopra tutti gl'evangeli", si squaderna il ventaglio dei "riflessi di spirito" sulla "passione di Cristo", su questo o quel sacramento, sulla "beatissima Vergine", su questo o quel santo, sui salmi specie penitenziali, sull'orrore del peccato, sulla morte. Da battere e ribattere, a mo' di chiodo da conficcare anche nelle cervici più indurite, il concetto che "l'huomo è creato acciocché ami Dio", ma non come gli garba, a suo modo, a suo estro, a suo capriccio. Lo si ama dentro la Chiesa, con la Chiesa, come dice la Chiesa. "Chi non è nella Chiesa cattolica è dannato"; così categoricamente assertivo il chierico regolare veneziano Bernardo Finetti. Ma dannato anche il fedele se sorpreso dalla morte in peccato mortale. Sempre in agguato Lucifero, il "gran prencipe delle tenebre", per in queste trascinarlo. "Per fuggir l'inferno et acquistarsi il paradiso" necessita l'assidua "vita christiana", accompagnata, quanto meno, dal tempestivo pentimento ad ogni fallo, ad ogni mancanza. Viatico per la salvezza, salvacondotto il pianto dirotto della più sincera contrizione. "Machina di terrore" da evocare dal pulpito la morte, concetto predicabile per eccellenza in un'autentica metodica dello spavento, sì da incutere - così il patriarca Tiepolo - nel "penitente" il, appunto, massimo del "terrore ", il massimo, appunto, dello "spavento". Sia questi costretto dalla predica a "vedersi" scagliato nelle "bollenti caldaie et cocentissime fiamme del fuoco eterno", a sentirsi "arso" e divorato dalle vampe e, insieme, congelato dal "ghiaccio", aggredito da scorpioni, avvolto e via via stritolato da serpenti. Nel crescendo predicatorio si scatena implacabile e consequenziale il barocco più orroroso pur di far intendere all'uditorio sferzato dal pulpito l'orrore della dannazione eterna.
Una frusta la predica sul gregge penitente specie con la Quaresima, specie dopo le follie carnevalizie. E pezzo di bravura questa volta da affidarsi ad un predicatore di grido, che venga da fuori, dalla voce tonante, dalla parola infuocata. Non che non ci siano anche in loco bravi predicatori come il somasco veneziano Francesco Caro, del quale - già autore della Philosophia amphisica [...] (Venetiis 1696) - vengono pubblicate le 30 prediche da lui pronunciate alla Salute in occasione dell'Avvento. Avvento (Venezia 1699), appunto, il titolo della raccolta. Ma perché la folla s'accalchi nella spaziosa basilica di S. Lorenzo nelle Quaresime del 1675 e del 1676 occorre un "predicatore di primo applauso" quale Lubrano, calamitante l'uditorio coll'onda sonora d'un'accesa e fosforescente eloquenza. Né usa solo la frusta. Sa anche lusingare - come attesta una delle sue Prediche quaresimali postume (Padova 1703) - il governo marciano quale titolare della "prudenza" - "anima", appunto, "de' governi" - che "dorme ad occhi aperti nel suo leone". Immutato per Lubrano - almeno sinché predica a Venezia - il multisecolare prestigio della Serenissima. Essa "ha dato e darà sempre più Catoni alle censure degli eccessi, più Scevoli all'intrepidezza del coraggio, più Fabi Massimi agli eserciti, più Pompei all'armamenti marittimi, più Cesari a commentari della vittoria". Rimbomba sì la chiesa dei severi rimbrotti d'una predicazione fustigante. Ma i predicatori, specie i più famosi, sono anche uomini di mondo, di questo mondo. Eccoli, allora, riguardosi colle mondane gerarchie. Non è che con queste si mettano in urto. E sono queste, d'altronde, ad affidare loro il ciclo della predicazione quaresimale. È il patriziato che soprattutto apprezza Lubrano. "Miniere d'oro e d'eloquenza", le sue prediche, "monti" d'altissima "sapienza" pel patrizio Sebastiano Badoer. E vorrebbe celebrarle conscio però d'essere impari a tanto compito: i "sughi affettuosi" dei propri "semplici concetti" non sono, lo riconosce, che "topi" prodotti dalla "gravidanza della montagna". Un picco elevatissimo l'oratoria di Lubrano cui, come può e per quel che può, Badoer offre L'ingegno nel lambicco, il cuore nel torchio, la lingua alla corda [...] (Venetia 1676), cercando d'imitare, facendosi a sua volta concettoso, le arditezze dell'oratore sacro napoletano. Vuol essere insomma barocco descrittore d'un barocco predicare. S'arrampica su questo quasi a rilanciarlo. Ma, a questo punto, l'eccessivo si fa insignificante, stucchevole, insulso. I "concetti", se troppi, diventano concettini, s'inflazionano. Succede a loro quel che sta capitando alle reliquie. Anche queste sono troppe e se ne scrive troppo. Fiera la veneziana chiesa di S. Chiara - quella che sarà demolita nel 1819 mentre il convento diverrà ospedale militare - del "santo chiodo" già della croce di Cristo donatole dal re di Francia Luigi IX, il santo. Su questo fioriscono scrittarelli: La miniera del Calvario produttrice de' chiodi sacratissimi fra' quali [...] uno [...] nel tempio di s. Chiara conservato; Fucina d'amore che scopre impietosito di tempra celeste [...] detto "santo chiodo"; Pietra di paragone per provare [...] la pretiosa finezza del "santissimo chiodo"; Arma di fine tempra tolta dall'armerie del cielo a difesa dell'infelice humanità, ossia del "santissimo chiodo venerato in santa Chiara". Quattro opuscoli, tutti variazioni su tema, stampati a Venezia rispettivamente nel 1666, 1676, 1678, 1692, tutti compilati da Gianmaria Zilotti, un prete veneziano evidentemente convinto che ripetere giova. E anche se autore dell'impegnativo trattatello latino Veritas disquisita circa varia dubia quoad celebrationes missarum [...] (Venetiis 1683), problemi di appuramento e verifica certo non lo crucciano nella stesura de Il tempio della pace innalzato alle glorie di Maria [...] nella traslatione della di lei imagine conservata sotto il nome di santa Maria della pace in decoroso sacello nel chiostro dei ss. Giovanni e Paolo (Venezia 1675) e de Il crocefisso centurato detto volgarmente centurone o centurione della croce, divota immagine di Gesù Cristo crocefisso anticamente venerata nella [...] parrocchiale di s. Croce di Venetia (Venetia 1696). Quanto a Il leone di Grecia (Venetia 1669), ove profila s. Leone, vescovo di Modone, la chiesa di S. Maria dell'Umiltà può stare tranquilla: in lei "riposa" alfine il suo corpo.
Un'agiografia a pioggia quella lagunare alimentata dalla titolarità delle tante reliquie rivendicate dalle tante chiese in virtù delle quali Venezia è esaltata dal patriarca Tiepolo quale città ossario, città reliquiario. E le reliquie proliferano se a quelle dei santi s'aggiungono quelle dei beati, come, tanto per dire, il "glorioso corpo" del beato Antonio Pagani posseduto dalla chiesa di S. Giovanni in Bragora, come garantisce, nella Vita (Venezia 1713) di quello, l'abate Ginesio Soderini, già biografo di s. Giovanni elemosinario e futuro biografo di suor Paola Maria Malatesta. La santità... ed è subito reliquia, vien da commentare. E sancta sanctorum la basilica marciana che - nella meticolosa inventariazione delle sue "reliquie" offerta dal "catastico" del 1634, dalla descrizione del 1678, dal "registro" a stampa del 1697 compilato dal "sacrista e canonico" marciano Antonio Rossi, dalla catalogazione del 1732-1733 - squaderna uno strepitoso campionario che va da una "spina della corona" di Cristo ad un "dente" di s. Agnese, da un "osso intiero del braccio di s. Georgio" al "pollice" di s. Marco, dalla "colonna ove fu flagellato Nostro Signore" al "coltello dell'ultima cena". Così senza titubanza, senza perplessità, con sicurezza e, anche, con sicumera, quasi il reliquiario marciano sia zona franca rispetto all'uso sia pure riverente della ragione, quasi il dubbio sia delitto di lesa religione e, pure, se si tratta della basilica marciana, di lesa patria, di lesa maestà dogale. La sensazione è quella d'un'affabulazione assertoria irrigidita lungo i secoli e, nel '600, sin cementificata. Eventuali obiezioni suonano come empie. Ciò non toglie che l'affabulazione - se commissionata a chi in cuor suo non è convinto - s'appalesi sin clamorosamente in tutta la sua friabilità. È il caso, tanto per esemplificare, di La vita di s. Giovanni martire duca d'Alessandria il cui corpo è in s. Daniele (Venetia 1636), una chiesa demolita nel 1839, dopo la soppressione, nel 1806, del relativo monastero cistercense. Dunque: come proclama il titolo e svolge il testo v'è nella chiesa di S. Daniele, una delle più antiche della città, da "1347 anni" (sic! ma il santo muore nel 580, 1.056 anni prima della stampa dell'opuscolo) il "corpo" di s. Giovanni Filopono, il dotto filosofo e teologo alessandrino, serbatosi "illeso [...] con fragranza d'odor soavissimo". L'asserisce l'autore, Ferrante Pallavicino, "favoleggiator profano", brillante "orator" tra gli Incogniti, e ora, data l'occasione, "historiografo sacro" e "scrittor devoto"; e ciò "per commandamento altrui non per propria devotione". Ma a che titolo, visto che "alcuni" attribuiscono la salma - il che più si confà coi 1.347 anni di supposta conservazione - a s. Procopio, vittima delle persecuzioni di Diocleziano, assegnarla a s. Giovanni? Di per sé Pallavicino della questione non è ignaro, ma non vuole impicciarsene: "se siano diversi santi o pur un solo non curo, ancorché motivo di tal dubbio sia il nome variato". Se sceglie s. Giovanni è perché così si pronuncia la Legenda aurea di Jacopo da Varazze. E ancor più "convenevole" a "sopir" le obiezioni in contrario la "devotione de popoli", i quali da secoli sono soliti "riverir questo santo sotto il nome di Giovanni". E, allora, s. Giovanni sia, con soddisfazione della chiesa, del monastero, del committente anonimo dello scritto, nonché della vox populi, e con buona pace delle "difficultadi" di qualche pignolo.
Ma come metterla coi resti di s. Liberale, quello che - lo dice il nome - libera dai mali, quello che, nativo d'Altino, è particolarmente onorato nel Trevigiano e non solo in questo? che i resti ci siano ciascun lo dice; dove siano pure lo si dice, ma questa volta discordando. Nella Vita di s. Liberale (Trevigi 1688) Giovanni Minotto - un trevisano - assicura che si trovano nella cattedrale di Treviso. Ma insorge contro di lui il veneziano Antonio Bonolli, cancelliere di Torcello, con La verità svelata (Venezia 1709): le reliquie, garantisce, sono depositate nella cattedrale torcellana di S. Maria Assunta. Un braccio di ferro tra Treviso e Torcello quello sui resti di s. Liberale senza incontro a metà strada, senza ammissione che ci può essere qualcosa là e qualcosa qua e viceversa. Ognuna pretende l'esclusiva. E che dire dei resti di s. Nicola arcivescovo di Mira? stando a Fortunato Olmo - dotto monaco cassinense incaricato, nel 1634, d'esaminare i codici lasciati da Petrarca - essi sarebbero giunti a Venezia attorno al 1100. E non l'afferma incidentalmente, ma lo sostiene con un'apposita monografia, l'Historia translationis corporis sanct Nicolai [...] (Venetiis 1626). Ma di lì a non molto Francesco Ferrari - che non è suddito veneto, ma pontificio - nel Compendio della vita (Bologna 1 644 e, di nuovo, Venetia 1692) del santo rammenta e ribadisce che un paio di sacerdoti baresi con alcuni mercanti, "prevenendo i venetiani", hanno trafugato il corpo portandolo a Bari. E, in effetti è la cattedrale di questa - dove le spoglie sarebbero giunte attorno al 1087 - a vantarne la titolarità comprovata dal trasudamento della liquida "manna".
Ma ciò non basta a trattenere Niccolò Albriccio - lo stesso che qualche anno prima ha attribuito a Venezia la palma della salubrità dell'aria - a pubblicare la Gemma dell'Adriatico ovvero il corpo di s. Nicolò Magno [...] trasportato dall'armata veneta [...] (Venezia 1709). Un'affabulazione perentoria che scaturisce da un'erraticità che affonda nei secoli e nella quale si ibridano vicende d'anonime ossa in cerca di santi e di santi disossati in cerca di ossa. Epperò detta affabulazione, per quel poco o quel tanto che si preoccupa di non essere solo tale, per quel poco o quel tanto che nella sarabanda delle reliquie disputate s'ingegna d'addurre qualche prova, finisce col metter mano in cronache e documenti. E così si fa un po' storiografia "sacra". E questa si fa attendibile, laddove - anziché insistere con asserzioni traballanti sulla presenza effettiva di questa o quella santa spoglia - si limita a tracciare per sommi capi la storia d'una chiesa, d'un convento, datandone la "vera origine" e ripercorrendone "dal principio" le vicende. In altre parole se a Olmo non è da badare più che tanto a proposito della traslazione di s. Nicola, come compilatore dell'inedita Istoria dell'isola di san Giorgio Maggiore merita credito. E così pure la Brevis notitia, pur inedita, sul convento del suo confratello Marco Valle. È la diligenza paziente del racimolare notizie per poi ricucirle assieme che sta a monte della poderosa fatica settecentesca d'un Flaminio Corner. Quanto meno produttiva la cosiddetta "erudizione sacra" di localizzate indagini che proprio perché risalgono all'indietro, arrivano all'alto medioevo e al tardo antico, non senza attrezzarsi, in detta risalita, di capacità di lettura delle testimonianze.
Ci vuol acribia per ricostruire la lista degli abati d'un convento. Ma i conventi non sono solo maschili. Volendo, andrebbero ricostruite pure le liste delle badesse, delle madri superiori. Ma se ci si preoccupa più di quelle degli abati è perché gli studi li praticano i maschi. Ciò non toglie che, nel '600, ci sia una letteratura al femminile oltre che femminile e che questa provenga soprattutto da claustrali penombre esprimendo la sensibilità religiosa di vite racchiuse entro perimetri conventuali. Una spiritualità monacale e, insieme, femminile e, se così si può dire, al femminile, quale quella della "venerabile madre venetiana superiora delle reverende dimesse" di Murano e poi di Padova Maria Alberghetti, della medesima famiglia dei fonditori ed esperti d'artiglieria. Morta il 1° gennaio 1644 e biografata con la Vita (Roma 1672) del gesuita veneziano Bernardino Benzi - lo stesso che, colla sua incauta ammissione di fisiche sollecitazioni alle suore da parte dei direttori spirituali, scatenerà le ire di Daniele Concina e i grevi sarcasmi di Giorgio Baffo -, l'Alberghetti è autrice di scritti sui vangeli, sull'incarnazione, sulla passione di Cristo, sui dolori della Vergine, sugli "essercitii interni piantati da Dio" pel raggiungimento di paradisiache "delitie" da parte dell'"anima [...] sposa" di Gesù.
Perseguimento l'orazione mentale - nell'Alberghetti - del "santo niente" attinto lungo il "più profondo dispregio" della propria pochezza. Quel nulla che, inquietante e scalzante, s'affaccia nelle cicalate degli Incogniti, nel Giardino di poesie spirituali (Padova 1674) della superiora delle dimesse si fa inabissamento nella quiete - sfiorata, se ne può indurre, l'Alberghetti da suggestioni quietistiche - d'una mistica annichilazione. "Umiltà perfetta" l'ammissione del "proprio niente" per sprofondarsi nell'esperienza della "nichilitade". "Santo" l'"annichilarsi" se lo svanire dell'io divampa in un esser "niente" per amor ed onor di Dio. È nel culmine di siffatta "annichilazione" che Giovanna Maria Bonomo - la suora del convento benedettino di S. Girolamo di Bassano beatificata nel 1783, le cui estasi sono accompagnate da visioni; è anch'essa fautrice d'un abbandono con venature quietistiche e personalmente esperito e propugnato in scritti a stampa quale, soprattutto, la Confusione del christiano in non corrispondere all'amore mostrato da [...] Gesù (Bassano 1659 e, di nuovo, Venezia 1681) - riceve, nel 1632, le stimmate. Non più che tanto gradite e l'Alberghetti e la Bonomo e per quel poco o tanto di sentori quietistici che s'avvertono nella loro esasperata sensibilità e per quel che di pretesa didascalica colla quale la sostengono quasi invadendo ambiti di pertinenza maschile. Inammissibile il magistero femminile nei ranghi d'una Chiesa nella quale le gerarchie sono maschili e non senza carsici sottofondi misogini che un minimo trapelano a proposito della negata laurea in teologia ad Elena Corner Piscopia, anch'essa annoverabile tra le autrici devote e per la traduzione dallo spagnolo d'un testo mistico e per un'ode, del 1680, al crocefisso. Dura l'opposizione del cardinal Barbarigo. E soluzione di compromesso il dirottamento dell'alloro in filosofia. Per Barbarigo resta "uno sproposito" il "dottorar una donna" e non solo in teologia, ma in assoluto. Imbarazzante, comunque, il pretendersi teologa della Corner Piscopia sostenuta da un padre autorevole politico con allargate aderenze nel ceto di governo. E imbarazzanti pure l'Alberghetti e la Bonomo laddove più che guidate sembrano voler esse stesse guidare in prima persona. Meglio, allora, per le autorità ecclesiastiche, l'acceso misticismo della terziaria domenicana Fialetta Rosa Fialetti, prodiga sì di spirituali consigli, ma, per lo meno, senza ambizione di pubblicarli. Successiva alla sua morte, del 1717, in qualche odor di santità l'antologizzazione dei suoi trattatelli, preghiere, lettere, meditazioni, poesie proposta nella Vita (Venezia 1740) dal suo biografo, il domenicano veronese Gian Vincenzo Patuzzi, a Venezia allievo di Concina e suo prosecutore. Se l'Alberghetti ha avuto nel gesuita Benzi un entusiasta ammiratore, la Fialetti - che nella sua tensione spirituale ha conosciuto estasi, rapimenti e sinanco, tramite scambio, l'esperienza del trapianto del cuore di Gesù - ha in un campione dell'antigesuitismo il proprio convinto biografo. E gioca a suo vantaggio la solidarietà domenicana per cui viene considerata gloria dell'ordine. Da annotare, altresì, a margine come sia lei che l'Alberghetti risaltino dopo la morte per l'intervento di due religiosi, non d'una qualche consorella. Sicché, se la loro esperienza è valorizzata, è pure ricondotta entro l'alveo d'una gestione maschile del sacro. D'altronde sono gli uomini - nella fattispecie i padri - a destinare al convento le figlie. Una prassi contro la quale insorge suor Arcangela Tarabotti dal padre costretta, contro voglia, al velo, sicché si sente infelice in un soffocante inferno monacale (36). Ma quando, nel 1652, muore a 48 anni, all'urlata protesta contro la forzata monacazione è da tempo subentrata una composta accettazione. L'universo maschile non ha più il volto tirannico del padre, s'è fatto, con quella del patriarca Federico Cornaro, sin propizievole e benigno. Non più orribile e oppressivo il convento, ma sin gaudioso ché in esso le vergini consorelle, "beatamente ebre di Spirito Santo", gioiscono, appunto, talmente che "danno nome di paradiso al monastero e chiamano la cella un cielo in cui trasumanate si trasformano in Dio". È come volare liberamente in uno spazio apparentemente imprigionante. Un'eccezionale felicità quella dell'essere rinchiuse, la più liberante per l'anima. E a definirla provvede La sacra sposa di Gesù raccolta in cella (Venezia 1720), un manuale del servita Giovanni Maria Bertelli.
Anche nei conventi femminili s'aspira alla santità. La santità non è un'esclusiva maschile. Lunga la lista dei santi, ma lunga anche quella delle sante. Maschile, però, la gestione del timbro della santità a partire dall'avviamento della relativa pratica sino alla proclamazione. È cogli uomini che l'aspirante santa ha a che fare; sono loro a valutare, magari dividendosi nel giudizio, della consistenza o meno di detta aspirazione. Forse che s. Teresa - canonizzata nel 1622, proclamata, nel 1672, patrona della Spagna - non è stata contrastata in vita dal nunzio pontificio, dal generale del suo ordine, quello carmelitano, e da quanti in questo riluttavano all'inasprimento della regola? Maschili, insomma, gli ostacoli e maschile, pure, la santificazione. Sin benemerita, comunque, Venezia nella sua particolare attenzione editoriale ad una santa di tanto rilievo: stampata, ancora, nel 1618 la traduzione dallo spagnolo della Vita, seguita, nel 1641, dal relativo Compendio di Leonardo Priuli; stampate e ristampate, volte in italiano, le Opere spirituali (1643, 1649, 1680-1682, 1685, 1690, 1694, 1710) e le Lettere (1680, 1682, 1690, 1712). E determinata ad imitare s. Teresa quella Cecilia Ferrazzi che, gestrice a S. Antonio di Castello d'una casa di ricovero per "putte pericolanti", nel maggio del 1664, viene denunciata al S. Uffizio perché "si fa adorar come santa", ostenta "stimate", parla di "ratti" ed "estasi", allude ad una divina "rivelatione", si sente pervasa da "spirito di profezia". Quanto basta perché si metta in moto il meccanismo di sorveglianza e punizione proprio del S. Uffizio: incarcerata la Ferrazzi per finzione di santità. E, dopo 4 interrogatori, la donna, il 9 luglio, detta - se la cava a leggere, ma stenta a scrivere - la propria autobiografia (37) dal "grandissimo sentimento d'amare et godere Iddio" che la folgora, segnandola per sempre, a 5 anni, ai 55 anni che la vedono messa sotto accusa. Una vita la sua torturata dalle infermità, rimbombante di voci interne, strattonata da battaglie col demonio che la sorprende "nel far oratione", esaltata e turbata dall'apparizione della Madonna che, mostrandole Cristo in croce, le ingiunge di lasciarsi "strapazzare e maltrattare per la salute delle anime". L'impressione ricavabile dall'autobiografia e dalle risposte agli interroganti è che la Ferrazzi non sia un'astuta mestatrice. Se c'è dell'autosuggestione, questa è sincera. Sin disarmante la sua sprovvedutezza. Se ci sono responsabilità, queste stanno nell'incoerenza d'una direzione spirituale maschile che l'ha frastornata ora incoraggiandola ora rimbrottandola, ora bollandola come "spiritata" ora patentandola come "santa". La Ferrazzi s'è ben rivolta a confessori che l'hanno più sballottata che guidata. Tra questi un religioso feltrino, "padre" Giovanni Battista Polacco, autore d'opuscoletti spirituali che alla Ferrazzi dedica il proprio Direttorio delle religiose cavato dall'opere del beato Francesco di Sales (Padova 1662). Evidentemente non l'ha ritenuta delirante, evidentemente l'ha presa sul serio. Avallante la dedica. L'avesse sospettata donnetta isterica se ne sarebbe ben guardato. E ancor più s'è sbilanciato a favore della Ferrazzi il prete veneziano Giorgio Polacco - lo stesso cognome del feltrino, ma nessun legame di parentela -, altro suo confessore. E questo, in fatto di confessioni, è un collaudato professionista a suo tempo gratificato dall'apprezzamento del patriarca Tiepolo. E, tra i suoi tanti titoli a stampa, stralciabili le Industriae pro confessariis monalium (Venetiis 1636), le Pratiche per discernere lo spirito buono dal malvagio e per conoscere gl'indemoniati e maleficiati [...] (Bologna 1638), l'Antidoto contro le velenose illusioni del nemico infernale in materia di estasi, ratti e rivelazioni (Venezia, quanto meno 1642 e 1646). Chi più adatto di lui - che è pure esorcista; esorcizzabile, infatti, il diavolo come si può evincere anche da Il mondo infestato da gli spiriti cioè di molti effetti che cagionano i demoni [...] e de' suoi rimedii, opera del teatino veneziano Giovanni Maria Viscardi che esce postuma a Roma nel 1677 - a far chiarezza colla povera Ferrazzi, specie quando si sente confusa, specie quando non sa se ha a che fare con "Dio" o col "diavolo"? Di povere menti confuse, di vaneggiamenti, di travisamenti, di fraintendimenti, di presunzioni, di smanie, di bugie il prete Giorgio Polacco - uomo dalle salde certezze, stando all'Anticopernicus catholicus [...] (Venetiis 1644) ove è ben netta la sua salda presa di posizione non è certo inesperto. Non per niente, come dice di sé, nel Breve raccontamento di quanto gli è occorso [...] (Venezia 1643) in 36 "anni continui" d'ascolto confessionale, "è stato confessor delle venerande monache di s. Lucia". Di esaltate, di bugiarde, di trasognate deve averne sentite e sopportate tante. Possibile si sia lasciato ingannare da una donnetta semianalfabeta? e se questa l'ha, invece, suggestionato, è proprio da escludere che la donnetta non sia stata trasfigurata da qualcosa d'autentico, di tremendamente serio che Polacco - colla sua esperienza - ha avvertito per tale? se ha prestato fede all'acceso visionarismo della Ferrazzi, vuol dire che - sempre colla sua esperienza - non l'ha liquidato come illusorio, come frutto di diabolica suggestione su di una povera donna debole di mente e malandata di salute. E - ammettendo pure una Ferrazzi sagace architetta della propria aureola santificante possibile che Polacco non si sia accorto della montatura, non abbia subodorato l'impostura? Fatto sta che, volendo collocare la Ferrazzi nel monastero lagunare di S. Maria Maggiore, rifiutandosi a tutta prima le monache d'accoglierla, si mette a urlare: "vi metto dentro una santa, una che vive da comunione, una che ha le stimmate".
Se accostarsi alla storia della pietà veneziana seicentesca comporta l'incontro di vite segnate dall'amor di Dio, dal fervore di preghiera, dalla sofferenza intesa come offerta a Dio, dalla carità, dalla generosità col prossimo, la Ferrazzi che soffre, che prega, che si occupa e preoccupa di fanciulle periclitanti, in detta storia merita, quanto meno, di figurare come comparsa. Se s'adotta il criterio a dir del quale pio è colui che prova di continuo la presenza di Dio, se si considera che tutti, virtualmente, possono essere pii, vien da dedurne che la Ferrazzi è una pia donna. E forse ha realmente creduto di sentire la "voce interna" e/o l'ha sentita realmente ordinantele - mentre è prostrata ai piedi del crocefisso - che "obedisca ciecamente". Forse ha creduto di vedere o ha visto realmente la Madonna promettendole con tutta se stessa di fare la "santa volontà di Dio". Questo cerca di dire nell'autobiografia che, il 15 luglio 1664, per mano del lettore di teologia e consultore del S. Uffizio Antonio da Venezia viene consegnata al cancelliere dello stesso Andrea de Vescovi. Bisogna ben che la pratica sia in ordine e la storia della pietà a nostro modesto avviso dovrebbe includere anche l'impatto colla burocrazia che sovrintende al sacro; in altre parole se la pietà è, per la religione, quel che è la lirica per la letteratura, l'analogia non è estendibile più che tanto, laddove la letteratura include sempre la lirica, mentre non altrettanto può dirsi della religione istituzione - e che il dossier relativo alla Ferrazzi sia completo per essere archiviato. E la Ferrazzi, ritenuta colpevole di finzione di santità, viene condannata a 7 anni di reclusione; di fatto rimarrà in carcere sino al gennaio del 1669 per poi, liberata, vivere nell'ombra altri 15 anni sino a morire nel gennaio del 1684. Col che la sua vicenda si conclude.
Ma un po' d'attenzione merita il cancelliere Vescovi. Costui - che, ormai anziano, diverrà, nel 1709, pievano di S. Maria del Giglio - è autore, oltre che d'un abbozzo di storia dei rapporti veneto-pontifici, d'un Catalogo de' santi, beati, venerabili e servi d'Iddio venetiani. Redatto coll'intento d'esaltare una Venezia "christianissima", "civitas iusti", "urbs fidelis", l'elenco - che circola manoscritto - non per questo è corrivo. C'è un minimo di selezione, un minimo di vaglio critico. Distingue tra documentabile e non documentabile. Utile, forse, la stessa esperienza presso il S. Uffizio. Però nell'elenco figura Antonio Grandi pievano di S. Giovanni di Rialto, il quale, a suo tempo è stato tra i confessori della Ferrazzi; e non le ha negato l'"assolutione" e l'ha pure incoraggiata così suscitando le ire del gesuita Girolamo Chiaramonte - pure questo presente tra i confessori della poveretta -, il quale sconsiglia energicamente di seguirne le indicazioni. "Quel confessor", Grandi, la "farà diventar matta"; così nel suo ruvido intervento, sempre in sede di confessione, il gesuita. Possibile che il futuro agiografo Vescovi non abbia avuto un minimo di perplessità quanto meno sulla consistenza dell'accusa di finta santità? se la Ferrazzi s'è sentita un po' santa è anche perché almeno tre confessori, i due Polacco e Grandi, da Vescovi inserito nel Catalogo, l'hanno autorizzata in tal senso. Santa mancata, allora, piuttosto che finta la donna, vittima al più d'un misticismo morboso che non è solo a lei addebitabile, ma che è sin ambientale, sin - oltre che personale - contestuale.
Quanto a Vescovi, se il suo andar inventariando santi e beati lagunari è un po' selettivo, forse ciò è anche effetto di ricasco dello scrupolo insito nella poderosa svolta avviata, proprio in fatto di censimento della santità, dai bollandisti, i quali, con Godefried Herschen e Daniel van Papenbroeck, sono ben comparsi, ancora nel 1660, fisicamente in laguna. Costoro - lo dirà Muratori - sono "i primi" a gettare le fondamenta "dell'arte diplomatica", del sistematico "esaminar le antiche carte". Un esame che se pei bollandisti mira ad irrobustire gli studi agiografici, metodologicamente vale per qualsiasi tipo di studio. S'impone un metodo applicabile in entrambe le direzioni, quella "sacra" e quella "profana". Stanno venendo a noia il piluccamento "passatempo" nello sterminato trovarobato del passato della notizia rara e peregrina, il civettare delle cicalate accademiche colle "curiosità erudite", le "stuore tessute di varia eruditione", l'aneddotica del "trattato curioso", gli spiritosi sofismi fitti di citazioni senza riscontro, l'affabulazione irresponsabile anche in merito ai santi. Sacro o profano che sia l'argomento, diventa oggetto d'una studiosa applicazione scavante, indagante, appurante, nella convinzione che così procedendo si produce "qualche cosa di buono". Lo studio come lavoro faticoso, sistematico, assiduo. "Sto ora lavorando", è espressione ricorrente nelle corrispondenze tardoseicentesche e primosettecentesche. E ciò per dissertare "sodamente", non a vanvera, non a casaccio. E l'erudito come lavoratore intellettuale che si guadagna sul campo della ricerca il rispetto dei colleghi, appunto, di lavoro. Instancabile in questo Zeno diventa "l'illustrissimo signor Apostolo", il "degnissimo signor Apostolo", ché "letteratissimo" come riconosce, tra gli altri, Pier Jacopo Martello, ché "eruditissimo" come ammette pure Gravina. Sempre più stimato Apostolo Zeno che diventa "letterato di tanto nome" nell'atmosfera operosa d'un sapere in crescita lungo la quale quanti ne sono attivamente partecipi s'interpellano, comunicano, collaborano, cooperano. Ed esempio stimolante di lavoro accomunante, organizzato, mirato i bollandisti. E incitanti ancor più i maurini, i cui massimi esponenti - Jean Mabillon e Bernard de Montfaucon - giungono ben a Venezia, il primo nel 1685 e il secondo nel 1698. Sin sabotato quest'ultimo dalla diffidenza ostile del bibliotecario marciano Giovanni Correr, dai dispetti intralcianti dei domenicani dei SS. Giovanni e Paolo, dalla scortesia meschina dei benedettini di S. Giorgio Maggiore. Epperò egualmente fruttuosa la sua lagunare puntata ché gli è sempre premuroso al fianco Apostolo Zeno il quale ritiene una "fortuna [...] servire [...] Montfaucon ed i suoi eruditi compagni", come scrive, il 16 agosto, a Muratori a questo gratissimo perché gliene "ha procurata la conoscenza". Propulsivo invito il Diarium italicum al tesoro degli archivi e delle biblioteche della "nostra Italia", come si comincia a dire con senso d'appartenenza accompagnato, però, dall'imbarazzo venga dall'estero la spinta a riesumarlo. Amoroso sarà lo studio di quanto celato nei depositi archivistici e nei soppalchi librari e non senza vergogna nel dover constatare la "disgrazia" - così l'8 febbraio 1722 Zeno a Muratori - che, in Italia "generalmente" e "anche qui" a Venezia particolarmente, ha "spogliato" le "librerie" pubbliche e private di tanti preziosi "codici" altrove trasmigrati sì che all'estero, nel far pompa delle "nostre spoglie", si ride, insieme, "delle nostre sciocchezze", della nostra insipienza, della nostra incuria. Spazio culturalmente sagomato da archivi e biblioteche, la penisola, proprio per questo, è culturalmente depauperabile. A questo punto il presidio - in termini anzitutto di conservazione e poi di consapevole valorizzazione - del patrimonio, appunto, culturale assurge ad operazione di significato anzitutto civile. Espressione di civici sensi, allora, l'erudizione.
C'è un primato perduto da riaffermare. E ciò anzitutto con un'indagine a tappeto da avviare con spirito di servizio per la riaffermazione dell'italica civiltà. Fremente, in effetti, di volontà di riscossa l'erudizione quando - non più cincischiante nel suo curiosare divagante - si fa, in virtù dell'assimilazione del metodo maurino, robusta trama di studi convergenti rifondandosi come costruzione e avanzamento complessivi. Come "specole", "istrumenti", gabinetti scientifici, laboratori sperimentali, collezioni naturalistiche puntano alla "verità" sperimentalmente dimostrata, così archivi e biblioteche diventano le fucine d'un vero storico documentato dalle fonti ritrovate e interpretate. Accostabili ricerca scientifica e scavo erudito, "filosofia sperimentale" e dissepoltura documentaria sulla quale s'accanisce decifrante, congetturante, integrante un'esegesi sempre più avvertita. Inammissibili per lo scienziato asserzioni non provate da esperimenti. Inammissibili per la storiografia affermazioni senza debito rinvio alle fonti. "Hodie [così perentorio Leibniz nel 1707] ab historico probationes exigimus". E, a tal fine, valgono pure bronzi, monete, medaglie, marmi. E, come s'allarga il ventaglio dei percorsi della scienza, così l'erudizione si fa paleografia, diplomatistica, araldistica, genealogistica, filologia, sfragistica, epigrafistica, numismatica, etimologistica. Fiorente a Venezia il collezionismo di monete e medaglie allo studio delle quali avvia l'Introduzione alla storia della pratica delle medaglie (Venetia 1673) di Charles Patin, il medico francese docente a Padova. Né, pur nella differenza del contenuto e del metodo, le due direzioni, quella scientifica e quella erudita, si divaricano al punto da ignorarsi, ché l'una sa dell'altra e talvolta, in concreto, l'erudito è pure un po' scienziato e viceversa. E motivati scienziati ed eruditi anche dalla persuasione di concorrere entrambi alla "gloria d'Italia" e, in certo qual modo, associati dall'analogia d'impostazione per cui e la descrizione d'un fenomeno postula la convocazione di fenomeni similari e la classificazione di testi e documenti esige confronto e contestualizzazione rinviando così ad altri testi e ad altri documenti. E virtualmente sin saldante scienza ed erudizione, tra la fine del '600 e il primo '700, il rapporto costante tra la Padova universitaria e la Venezia delle biblioteche e delle collezioni. Sin perno della vita intellettuale della penisola l'asse Venezia-Padova, sin travatura portante il rapporto tra Zeno e Vallisneri.
Certo: perché il lavoro intellettuale proceda come assieme consapevole occorre il massimo dell'informazione e sugli esperimenti in corso e sugli studi iniziati e ultimati. Non a caso gli intellettuali s'autofrequentano, non a caso carteggiano tra loro sin freneticamente. Mostruoso l'epistolario di Muratori. E 220 le lettere a lui indirizzate da Zeno. Solo 23 quelle muratoriane, ma non per una sorta di scambio ineguale, ma perché parecchie devono essere andate smarrite. Tuttavia, per quanto fitta, la corrispondenza non basta. Per quanto sia nutrita la lista dei corrispondenti, ogni lettera rientra in un rapporto bilaterale, è mutua informazione tra due persone. Non è una circolare destinata a tutti gli addetti o aspiranti tali. Urge uno strumento che tempestivo informi di ciò che si sta pubblicando, che lo riassuma, che lo recensisca, che lo discuta, che magari anticipi quanto dirà il libro di prossima pubblicazione, che magari preannunci un'iniziativa di rilievo. Quel che ci vuole è il giornale, quel che occorre è il periodico. Beninteso: niente a che fare cogli "avisi" venduti nelle botteghe dei librai zeppi di notizie "dal campo" d'una qualche guerra vicina o lontana; niente a che fare con quel che stan facendo i "grandi"; nessuna sbirciata a frugare tra gli arcana imperii. Autoreferenziale il giornale letterario: fatto da "letterati" si rivolge ad un pubblico di virtuali "letterati" per informarlo di ciò che avviene - e, al limite, è il libro l'evento - nel mondo della cultura. Non la soggezione all'accaduto - quella per cui, come aveva fatto dire a Marino Loredan nella Vita, "se nasceranno degli Augusti, si ritroveranno anche de' Vergilii", essendo "i poeti" fattura dei "principi" -, ma il protagonismo della cultura. Non le res gestae, ma i libri, le dissertazioni, le scoperte della "filosofia sperimentale". Sotteso d'orgoglio di sé, di convinzione nel proprio lavoro il periodico culturale. Non parla della storia fatta dai "grandi". Parla di quel che stan facendo i dotti, i "letterati". Questi sono ormai un ceto, una corporazione, una categoria ché - anche grazie al periodico - compattati dai comuni interessi, dal comune lavoro, dal comune metodo. Una comunanza fondatrice d'una comunità che si sente "Italia" nella misura in cui in questa è ovunque presente e entro questa si sente unita, non segmentata da confini, non frazionata dalle divisioni geostoriche.
E punta avanzata dell'italica erudizione, che ha un suo unitario profilo nell'"Europa erudita", Venezia, per tal verso e in tal senso più significativa della stessa Serenissima: culturalmente la città ha più da dire che politicamente. Capitale culturale a livello europeo ché centro editoriale, assimilativo, elaborativo, propositivo. Sintomatico Muratori, all'inizio del 'zoo, nel suo adoperarsi per l'italica repubblica delle lettere, conti di farla decollare da Venezia e s'appoggi per questo su Bernardo Trevisan, non senza che il suo progetto, per quel tanto che passa nelle mani di questo, si venezianizzi sin troppo ché il patrizio veneto non è così preoccupato - come Muratori - di mobilitare da Venezia la Roma di Clemente XI, il papa arcade. Per Trevisan come capitale della cultura Venezia basta e avanza. Roma può benissimo accodarsi. Eminente nella Venezia culturalmente rigogliosa - e ciò sin surrogatoriamente rispetto al suo appannamento politico - Apostolo Zeno. E, in questa Venezia delle "lettere", la Marciana rappresenta quel che è palazzo Ducale per quella della politica. Zeno, allora, il più idoneo - così il cardinal Noris - "per lo servigio della pubblica libreria". Che poi gli si preferisca, nella custodia di questa, il mediocrissimo e scialbissimo Marcantonio Maderò, ciò è palese manifestazione della paurosa insipienza, in sede politica, quando si tratti di scegliere chi preporre alla biblioteca che pur qualifica Venezia. Poco male, comunque, se Zeno resta deluso nella sua aspirazione alla nomina a custode della Marciana. Si rafforza nei dotti la persuasione che la via da imboccare con sempre maggior decisione è quella dell'auto-governo. Un criterio che vale anche nei confronti dell'editore quando finisce col pesare troppo sul contenuto del periodico. Troppo condizionati, ad esempio, dagli interessi di bottega del libraio Girolamo Albrizzi gli 8 tomi in folio da lui stampati della "Galleria di Minerva" tra il 1697 ed il 1173. Vi collaborano, comunque, Coronelli, Zeno, Vallisneri, il quale ultimo, d'altro canto, considera mere "bagatelle" i suoi interventi. Quanto ad Albrizzi - che non si limita a stampare, ma che tramite la sua enciclopedica "Galleria" reclamizza ciò che vuoi vendere -, torna a suo merito la stampa, nel 1691, dell' Universa philosophiae sistema e dell' Universae usualis mathematicae theoria di Michelangelo Fardella, il prete trapanese già francescano inquisito da, appunto, l'inquisizione nel 1689. E ulteriore benemerenza albrizziana lo spazio offerto allo stesso Fardella - che, dopo aver campato come precettore a Venezia, viene chiamato nel 1693 a ricoprire a Padova la cattedra d'astronomia e meteore già illustrata da Montanari -, per polemizzare, dalle colonne della "Galleria" contro l'anticartesiano genovese Matteo Giorgi. D'altronde è già in questo periodico che Zeno e Vallisneri si fanno le ossa come giornalisti culturali per poi esordire - e questa volta l'editore è puro; e questa volta non c'è commistione con interessi mercantili - in proprio e alla grande col "Giornale de' Letterati d'Italia" nel 1710. Organo d'informazione e discussione il "Giornale" che è zeniano nella misura in cui è soprattutto creatura di Zeno affiancato da Vallisneri e Maffei: "i giornalisti" che lo fanno, scrive il secondo a Muratori il 25 aprile 1710, "sono [...] Zeno, Maffei ed io"; uno staff direttivo indicativo dell'area d'interessi: filologia; storia e diritto; scienze. E, oltre ad informare e a discutere, il "Giornale" è espressione d'una maturazione intellettuale lievitata in tutta la penisola sì da poter rintuzzare il gallico sciovinismo dei "giornalisti di Trevù", sì da costringere argomentatamente i presuntuosi "trevolziani" ad ammettere che culturalmente l'Italia esiste e consiste, che in fatto di cultura ha voce in capitolo. E portavoce, allora, dell'italiana "repubblica delle lettere" il "Giornale". Nutrita e qualificata la lista dei collaboratori, allargata l'utenza, espressione quanto meno d'un'Italia che legge e che, in questa sua voglia di leggere, vuol essere orientata. E sin benedicente Muratori - l'italico padre di color che sanno o, per lo meno, vorrebbero sapere -, il quale, il 6 novembre 1710, fresco della lettura del "terzo" numero, scrive a Zeno d'avervi trovato "tutto quel buon gusto, sano giudizio e buon garbo che raccomanda ai lettori i giornali più famosi che oggidì abbia l'Europa erudita". In effetti il periodico è un appuntamento realizzato con questa.
Il rilievo europeo che Venezia storicamente sta perdendo nel concerto degli Stati, col "Giornale" lo conquista nel mondo degli studi. E, nell'impossibilità d'una storiografia pubblica che detto rilievo sappia serbarlo almeno storiograficamente, Zeno - mentre Garzoni depone la penna -, prima di partire, nel luglio del 1718, in coincidenza col penalizzante trattato di Passarowitz, alla volta di Vienna, reagisce avviando la stampa, in i o volumi, Degl'istorici delle cose veneziane i quali hanno scritto per pubblico decreto (Venezia 1718-1720). Checché possa arrecare la guerra - e Zeno ne ha orrore: che "il terribile" della guerra si svolga almeno lontano, si augura in una lettera del 24 febbraio 1702 a Muratori; "opera e miracolo della provvidenza" la pace, da augurarsi sempre, scrive a Muratori, il 14 gennaio 1736 -, anche se toglie a Venezia il "regno" della Morea, non può privarla del corpus dei pubblici storiografi, la cui edizione ha ben un significato di tenuta sul piano civile. Ma va anche aggiunto che, ancora il 9 maggio 1699, Zeno aveva prospettato a Muratori - così anticipando, in termini d'ideazione, i Rerum italicarum scriptores di questi - l'intenzione d'avviare, colle sue sole forze, un'edizione di Rerum italicarum scriptores [...] hactenus desiderati, ossia d'una "raccolta di autori latini che hanno scritto le cose della nostra Italia". E di detti autori nel 1701 stende un primo elenco. Con lui il baluginio originario d'un'idea che con Muratori decollerà realmente (38) e con più ampio respiro e con trascinamento e coinvolgimento che vedrà mobilitati gli "eruditi nostri" in un'operazione collettiva. Attuatore, dunque, Muratori d'un progetto nel quale l'erudizione "nostra" dà il meglio di sé alla Italia "nostra". Ma non è che, colla partenza per Vienna, Zeno esca di scena. Affidato alle cure del fratello Pier Caterino il periodico da lui fondato continua ad uscire puntualmente, senza che se ne verifichi la paventata "intermissione". Gran "perdita" per l'Italia l'assenza di Zeno, profetizza intristito Eustachio Manfredi. Nel dorato esilio (come tale, peraltro, vissuto, ché ha accettato l'incarico di poeta cesareo perché privo di una qualche decorosa sistemazione a Venezia) viennese Zeno compone, tra il 1718 ed il 1730, 15 melodrammi, un atto unico e 10 oratori; se si considera che la sua produzione complessiva ammonta a 36 melodrammi e a 17 azioni sacre, quello viennese va considerato periodo fecondo. Di certo lo stipendio della corte se l'è guadagnato. E nel frattempo ha atteso con ansia di poter rientrare a Venezia per riprendervi gli studi prediletti.
Tant'è che, nel 1731, di nuovo in patria rimette mano alle puntigliose annotazioni - già iniziate ancora al primo apparire, nel 1706, dell'opera - alla Eloquenza italiana di Giusto Fontanini, interlocutore - con Conti, Poleni, Trevisan, Maffei, Vallisneri, Bacchini, Orsi, Manfredi, Morgagni, Martello, Baruffaldi, Magliabechi, Salvini, Marmi, Crescimbeni, Mongitore, Montfaucon, Goes, Wolf e, ovviamente, Muratori - in quella sorta di fitto fraseggio dotto (e anche vivace, e, talvolta, sin scintillante), ma non pedante ("io per lo più quando scrivo lettere, scrivo alla spensierata", confida Zeno a Muratori il 18 marzo 1702) - nel cospicuo Epistolario zeniano che, pubblicato nel 1752 e ristampato nel 1785, conta, in questa riedizione, 1.313 lettere, cui ne andrebbero aggiunte altre mille. Prima bibliografia ragionata della letteratura italiana l'opera fontaniniana, suddivisa per generi, distinta in classi. Ma tanti, troppi gli errori, le inesattezze, le imprecisioni. Quanto mai opportuno, allora, l'intervento rettificante, emendante, aggiungente dell'amico - ma sino ad un certo punto: la comunità erudita è sì collaborativa nel suo assieme, ma anche punteggiata di beghe, dispetti, gelosie, invidie, sgambetti, ripicche - Zeno che colle sue Annotationi la rende, nell'edizione veneziana del 1753 nella quale il titolo diventa Biblioteca dell'eloquenza italiana, affidabile e duraturo strumento di lavoro. Cantiere operoso, sempre aperto, sempre in funzione quello erudito vera fabbrica continua anche perché non c'è suo significativo edificio che non esiga riparazioni, puntellature, ampliamenti, irrobustimenti: si pensi alla ristampa, curata da Niccolò Coleti dell'ughelliana Italia sacra, in 10 volumi (Venezia 1712-1722) e all'edizione, sempre a cura dello stesso, con illustrazioni e aggiunte rispetto a quella antecedente parigina del 1714-1715, del 1728 dei Sacrosancta concilia; si pensi alla ristampa, voluta da Zeno, del 1734-1747, della cinelliana Biblioteca volante -, nel quale lavorano squadre d'operai specializzati, nel quale s'affanna una volonterosa manovalanza. E su quelli e su questa vegliano pungolanti, sollecitanti, redarguenti, animanti e non senza rimboccarsi le maniche per mostrare come si fa e non senza disporre mattoni e spalmare calce personalmente dei veri e propri capicantieri, degli autentici capimastri. E Zeno è tra questi. Bravissimo nel lavoro, non è, però, che la sua mente sia particolarmente aperta: arretra di fronte a Newton, giunge - in una lettera a Muratori del 1717 - a rallegrarsi perché il veneto "magistrato de' riformatori" dell'Ateneo patavino ha, "con molta ragione", vietato "il Lucrezio del Marchetti". E l'anticurialismo di Giannone sin lo spaventa. Epperò, a Vienna, mette a disposizione di quest'ultimo la propria biblioteca, gli offre le opere di Sarpi. Sin generoso questa volta, ché rispetta l'altrui lavoro anche se ideologicamente si chiude nell'avvertirlo impegnato in una direzione a rischio. Soprattutto filologo - sicché ingombra il "Giornale" colle puntate delle sue Dissertazioni vossiane, poi stampate assieme nel 1752 -, non per questo è sordo alle questioni scientifiche. E lui che, nel quarto torno del "Giornale", riferisce, alla fine del 1710, della "controversia" Sbaraglia-Malpighi. E l'"avanzamento dell'arti e delle scienze" complessivo in Italia che l'interessa, anche perché le "nazioni straniere" l'ammettano e riconoscano pure il profitto a suo tempo tratto dalla produzione intellettuale della penisola, l'"obbligazione che hanno agl'ingegni italiani". L'irrita la spocchia delle "Memorie trevolziane", gli spiace la trascuranza degli "Atti di Lipsia". È ben per costringere entrambi i periodici a prender atto che l'Italia è culturalmente viva e a non misconoscere quanto la cultura europea affondi le sue radici in una tradizione segnata dall'apporto italiano che Zeno, nel maggio del 1709, si reca a Padova per concordare con Maffei e Vallisneri l'attuazione del "Giornale".
Ma se occorre nel presente valorizzare lo spessore culturale della penisola, occorre, sempre nel presente, anzitutto riandare all'indietro per fissare, appunto, quanto gli "ingegni" italici hanno fatto lungo i secoli e per sottrarre all'oblio tanti autori, restituire loro sembiante e colore. Altrimenti è come non fossero mai vissuti. Fruttuosa a tal fine ogni localizzata messa a punto, specie se doviziosa di "notizie" tratte "non da vaghe e volgari fonti, ma da originali e recondite", quale il De brixiana literatura (Brixiae 1729) del cardinal Angelo Maria Querini, lo stesso che, invece, in fatto di storia ecclesiastica, non va oltre le buone intenzioni espresse nel 1717 colla De monastica Italiae historia conscribenda dissertatio. "Gran campo" d'indagine quello "della storia letteraria d'Italia". E se in questa c'è un po' di spazio per Brescia suddita di Venezia, a maggior ragione la città marciana dovrebbe campeggiarvi. Misera cosa il Catalogo [...] degli scrittori veneziani (Bologna 1605) dell'eremitano agostiniano nativo di Sarnico nel Bergamasco Giacomo Alberici; smilza e piatta la Memoria de' scrittori veneti [...] (Venezia 1622 e, ampliata, 1744) dell'"accademico Imperfetto di Venezia" Pierangelo Zeno. Venezia merita ben di più. Ed ecco che, incitato dal vecchio Zeno, con lui prodigo di notizie, il minorita Giovanni degli Agostini redige le sue Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori veneziani (Venezia 1752-1754), la cui diligenza informativa appare, però, piuttosto grigia se confrontata colla coeva forza interpretativa della peraltro informatissima trattazione Della letteratura veneziana (Padova 1752) di Marco Foscarini, dedicatario - e non a caso - del primo dei due torni di dette Notizie. Ma a monte e delle Notizie del frate e della robusta ricostruzione del futuro doge l'immane lavoro di schedatura onomastica portato avanti da Apostolo Zeno, il quale, sin dal 30 luglio 1.701, aveva annunciato a Muratori d'aver radunato notizie e titoli su circa mille nominativi d'autori veneziani. E, nel vagheggiamento d'una Storia dei poeti italiani, Zeno assicura che almeno 5 mila sarebbero i nomi profilabili, da lui già predisposti in ordine cronologico. L'ideale per lui dedicare a ciascuno un medaglione, colla vita e le opere. Questo il criterio cui s'attiene nel sagomare, alla fine del '600, per la "Galleria di Minerva", Trissino e Guarino. Un'altra storia questa letteraria rispetto a quella politico-militare, con altri argomenti, con altri protagonisti. E con maggiori margini, per chi la pratica, di soddisfazione. Laddove lo storico politico-militare, nel raccontare di guerre e governi, non per questo diventa statista e stratega, quello letterario, scrivendo d'uno scrittore, a sua volta è scrittore; è un letterato che valuta letterati, è un autore che profila autori. E ciò collo strumento della biografia, grazie alla quale s'anima la storia della cultura, della scienza, dell'arte, della letteratura. "In difetto d'altri guidardoni" - stipendio di principe, onori cortigiani - pel "grande letterato" valga, a mo' di "moneta coniata dal comune consentimento", la "lode" del "tessere" per lui una "vita" adeguata ai suoi meriti, asserisce, riprendendo un'indicazione baconiana, Muratori a motivazione della Vita (Milano 1700) di Maggi da lui redatta. Autoreferenziale anche in questo la "repubblica letteraria", nell'elaborare al proprio interno procedure, per dir così, di pagamento. Compensato, anche se post mortem, un degno autore da una biografia glorificante. Pazienza se non può personalmente gioirne. La memorizzazione della sua esistenza diventa fattore dinamico per l'ulteriore proseguimento dell'operosità intellettuale. "A ben coltivare le lettere" è incitamento, "stimolo" il ricordo di chi, appunto, coltivandole è divenuto "glorioso". Fonte di gloria la biografia e artefice di gloria il biografo, come, appunto, capita con Maggi biografato da Muratori. E, volendo, un po' "glorioso" è pure il biografo glorificante.
Autosufficiente - questa la risultanza di massima inducibile dall'infittirsi di vite di letterati scritte da altri letterati - la letteraria repubblica nel suo automemorizzarsi, autostimarsi, autovalutarsi, autopropagandarsi in un autorispecchiamento che, se vuol essere automiglioramento, include l'autopedagogia, l'autodidassi. Ma se così è, non è meglio - anziché attendere il profilo postumo d'un autore scritto da un altro autore - che sia lo studioso stesso, il letterato stesso, lo scienziato stesso a dire di sé, a raccontarsi, ad interpretarsi? C'è ben l'esempio cartesiano dell'autobiografia intellettuale. Siano, allora, i "letterati" stessi, sinché sono vivi e nel pieno delle loro facoltà mentali, a "scrivere le loro vite" in termini di percorso intellettuale che inizi coll'affiorare d'una vocazione e la segua sino al suo maturo esprimersi. "Giovevole", per Muratori, che i "professori più insigni" redigano la "storia" della loro formazione, della loro applicazione, del loro progredire. Pubblicato nel 1728, dopo che da almeno 8 anni circola manoscritto, il Progetto del conte friulano Porcia, il futuro biografo di Vallisneri, nel primo tomo della Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici che, a cura del camaldolese Angelo Calogerà, comincia ad uscire a Venezia. Caldo, nel Progetto, e persuasivo e motivato l'invito a tutti i letterati - nell'accezione più lata - a fornire essi stessi il proprio profilo intellettuale. E ciò precisando maestri, letture, difficoltà, non senza azzardare un giudizio retrospettivo sul cammino fatto, non senza esaminare con occhio autocritico le proprie opere a stampa, i propri tentativi riusciti e non riusciti. E, a convalida esemplificante della realizzabilità del Progetto, lo stesso primo tomo della Raccolta calogeriana ospita la Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo, nella quale il filosofo napoletano (39), veridico "istorico" di se stesso, presenta la "serie di tutti gli studi" fatti lungo i quali è arrivato alla propria "riuscita di letterato". Anche se poi la Raccolta non si mantiene all'altezza d'un esordio tanto perentoriamente propositivo, resta, nella sua lunga vita, pur sempre sede d'un'erudizione che prosegue operosa facendo, a Venezia e da fuori Venezia, a lei capo. Fondante, per tal verso, e a lunga gittata il lavoro erudito così come Zeno l'ha praticato e, insieme, impostato. Si dà, a partire da lui, a Venezia un'erudizione che, non scalzata dai lumi, sopravvive alla stessa scomparsa della Serenissima, per persistere, imperterrita, lungo l'800 e oltre. Dopo Zeno viene Flaminio Corner, dopo Corner viene Cicogna. Vien da dire che le ideologie - illuminismo, romanticismo, positivismo - passano e l'erudizione resta. Ma ciò è vero sino ad un certo punto.
Anche l'erudizione è sottesa d'ideologia. Zeno - colla sua mistica della notizia fondata, colla sua fontologia sin slittante nella fontolatria, coll'impegno nella ricerca proposto a se stesso e agli altri quale padre di tutte le soddisfazioni - è, di fatto, l'ideologo d'un'esistenza che nell'indagine, appunto, erudita trova il suo significato nella storia e malgrado la storia. Comunque questa vada, egli - Zeno - sta "lavorando", ossia studiando, scavando, individuando, scoprendo, riscoprendo.
1. In merito v. Gino Benzoni, Antonio Barbaro o l'esasperazione individualistica, in Una famiglia veneziana nella storia: i Barbaro, a cura di Michela Marangoni - Manlio Pastore Stocchi, Venezia 1996, pp. 461-511.
2. Qui utilizzate l'edizione, pei rettori, diretta da Amelio Tagliaferri in XV voll. (Milano 1969-1982) e quella, per gli ambasciatori, curata da Luigi Firpo in XII voll. (Torino 1969-1984).
3. Dettagliatamente ricostruita in Gaetano Cozzi, Venezia barocca. Conflitti di uomini e di idee nella crisi del Seicento veneziano, Venezia 1995, pp. 325-409.
4. Per una considerazione incentrata sull'aspetto giuridico istituzionale e l'esercizio della giustizia valgano, anzitutto, di Id., Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, e Giustizia "contaminata". Vicende giudiziarie di nobili ed ebrei nella Venezia del Seicento, Venezia 1996.
5. Consultabile ora nella edizione a cura di Giovanni Caniato, Venezia 1988.
6. Cf. in merito Antonella Barzazi, I consultori "in iure", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 179-199.
7. I consulti di Fulgenzio Micanzio. Inventario e regesti, a cura di Antonella Barzazi, Pisa 1986 e Germano Rosa, Note su religione e politica nel pensiero di fra Fulgenzio Micanzio, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", classe di scienze morali, lettere ed arti, 153, 1994-1995, pp. 27-59. Da tener pure presente Fabrizio Andreella, Una partita a tre. La Repubblica di Venezia e le devozioni popolari attraverso i consulti di Fulgenzio Micanzio, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 249-259.
8. Su di questi - il cui nome è abbondantemente richiamato in questo par. 2 - s'è utilizzata la "thèse" dattiloscritta, dell'ottobre 1994, all'Université de Paris IV, Sorbonne, diretta da Jean Michel Gardair, di Agnès Morin, Sous le signe de l'inconstance, la vie et l'oeuvre de Giovan Francesco Loredano (1606-1661), noble vénitien, fondateur de l'Académie des Incogniti. Successivo il contributo di Gian Luigi Bruzzone, L'amicizia fra due letterati seicenteschi: Gio. Francesco Loredano e P. Angelico Aprosio, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", classe di scienze morali, lettere ed arti, 153, 1994-1995, pp. 341-374, cui va aggiunta la dissertazione di dottorato di Monica Miato, L'accademia degli Incogniti di Venezia (1630-1661) di Giovan Francesco Loredan, a. 1996.
9. Ora leggibile nell'edizione critica a cura di Laura Coci, Roma 1988.
10. In Della bruttezza. Amore è un puro interesse, a cura di F. Walter Lupi, Pisa 1990.
11. Leggibile sia nell'edizione a cura di Francesco Fonte Basso, Padova 1991, che in quella a cura di Laura Coci, Parma 1992.
12. Ne valga l'edizione, a cura di Armando Marchi, Parma 1984.
13. Cf. Paolo Preto, I servizi segreti di Venezia, Milano 1994.
14. Su Sagredo, Donà, l'idea del Turco valgano Id., Venezia e i Turchi, Firenze 1975 e la successiva miscellanea collo stesso titolo, Milano 1985.
15. Leggibile nell'edizione a cura di Franco Lanza, Milano 1971.
16. Cf. Carla Corradi, Una curiosa eco veneziana della guerra contro il Turco in Ungheria, in Venezia e Ungheria nel contesto del barocco europeo, a cura di Vittore Branca, Firenze 1979, pp. 193-215.
17. Sul quale v. i miscellanei Il gran secolo di Angelico Aprosio e L'Aprosiana di Ventimiglia, entrambi stampati a Pinerolo nel 198 i.
18. Edito a cura di Giorgio Fulco, "Strumenti Critici", 12, 1978, pp. 171-191.
19. Cf. la voce di Gino Benzoni, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 282-290.
20. Edito a cura di Anna Pallucchini, Firenze 1966.
21. Cf. la voce di Gino Benzoni, in Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, pp. 532-542.
22. Sul quale Mate Zoriâ, Gli scrittori italiani del '600 e gli slavi del sud, in Barocco in Italia e nei paesi slavi del sud, a cura di Vittore Branca - Sante Graciotti, Firenze 1983, pp. 403-429, ove s'accenna pure a Biondi e a Pace Pasini.
23. Cf. Nelli-Elena Vanzan Marchini, I mali e i rimedi della Serenissima, Vicenza 1995, p. 110.
24. Cf. Paolo Sarpi, Pensieri naturali, metafisici e matematici, a cura di Luisa Cozzi - Libero Sosio, Milano-Napoli 1996, ad vocem.
25. CL la voce di Gino Benzoni, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXII, Roma 1979, pp. 725-727.
26. Sul quale v. Clelia Pighetti, L'influsso scientifico di Robert Boyle nel tardo '600 italiano, Milano 1988, ad vocem.
27. Cf. Rita Giudici, Fonti per la storia dell'agricoltura italiana dalla fine del XV alla metà del XVIII secolo. Saggio bibliografico, Milano 1995, ad vocem.
28. Nonché autore di Del canonico politico, ora edito, a cura di Cornelia Tagliabò Padovan, Belluno 1996.
29. Intitolata Notizie della vita, e degli studi del kavalier Antonio Vallisneri, è ora leggibile nell'edizione a cura di Dario Generali, Bologna 1986. A cura dello stesso è pure uscito Antonio Vallisneri, Epistolario, I, Milano 1991.
30. Sui quali e su Manucci oltre ricordato v. Giuliano Lucchetta, Viaggiatori, geografi e racconti di viaggio dell'età barocca, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 201-250.
31. Su questi e su Legrenzi v. Alessandro Grossato, Navigatori e viaggiatori veneti sulla rotta per l'India. Da Marco Polo ad Angelo Legrenzi, Firenze 1994, pp. 93-133, nonché, alle pp. 135-142, la bibliografia, specie relativamente a Manucci, peraltro incompleta, ché ignara, pare, dell'apporto di Piero Falchetta, curatore dell'edizione con la riproduzione delle miniature dell'originale di due codici, uno marciano e l'altro alla Bibliothèque Nationale parigina, della Storia del Mogol (I-II, Milano 1986), nonché autore d'interventi quali Per la biografia di Nicolò Manuzzi (con postilla casanoviana), "Quaderni Veneti", 2, 1986, pp. 85-111 e Autobiografia e autobiografismo indiretto nella Storia del Mogol di Nicolò Manuzzi, "Annali d'Italianistica", 4, 1986, pp. 129-139. E fissato sempre da Falchetta un riecheggiamento novecentesco: v., appunto, Blaise Cendrars e Nicolao Manuci, "In Forma di Parole", 5, 1984, nr. 3, pp. 35-99.
32. Sul quale limitiamo il rinvio a Antonella Barzazi, Enciclopedismo e Ordini religiosi tra Sei e Settecento: la Biblioteca universale di Vincenzo Coronelli, "Studi Settecenteschi", 16, 1996, pp. 61-83, del cui contributo abbiamo ampiamente approfittato.
33. E utilizziamo in proposito sin parassitariamente quelli forniti da Paolo Ulvioni, Stampa e censura a Venezia nel seicento, "Archivio Veneto", ser. V, 104, 1975, pp. 45-93, e da Mario Infelise, L'editoria veneziana nel '700, Milano 1989, specie a p. 14.
34. Cf. Angela Nuovo, L'editoria veneziana del XVII secolo e il problema americano: la pubblicazione delle opere di Bartolomé de Las Casas (Venezia, Marco Ginammi, 1626-1643), in L'impatto della scoperta dell'America nella cultura veneziana, a cura di Angela Caracciolo Aricò, Roma 1990, pp. 175-187; e v. pure Carla Forti, Un lascasiano e polemista antispagnolo nel Seicento a Venezia: Giacomo Castellani, in AA.VV., Studi in onore di Armando Saitta dei suoi allievi pisani, Pisa 1989, pp. 73-98.
35. Per la rapida incursione che segue in questa dimensione abbiamo tenuto presenti La Chiesa di Venezia nel Seicento, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1992 e La Chiesa di Venezia nel Settecento, a cura di Id., Venezia 1993, privilegiando, nell'ampia bibliografia da entrambi sciorinata, soprattutto Giuseppe de Luca e Alberto Vecchi. Ciò per l'informazione. Quanto all'interpretazione abbiamo cercato di procedere per conto nostro, non senza approfittare degli spunti offerti dal miscellaneo L'anima in barocco, a cura di Carlo Ossola, Torino 1995.
36. V., appunto, Arcangela Tarabotti, L'inferno monacale, a cura di Francesca Medioli, Torino 1990.
37. V., appunto, Cecilia Ferrazzi, Autobiografia di una santa mancata, a cura di Anna Jacobson Schutte, Bergamo 1990, alle cui copiose annotazioni dobbiamo il nostro contorno d'informazioni.
38. Cf. Alfredo Cottignoli, Rerum italicarum scriptores, in AA.VV., Letteratura italiana. Le opere, II, Torino 1993, pp. 1015-1038.
39. Sul testo da lui fornito aderendo al progetto di Porcia e sulla portata di quest'ultimo v. il miscellaneo Vico e Venezia, a cura di Cesare De Michelis - Gilberto Pizzamiglio, Firenze 1982, specie alle pp. 91-141.