La vita quotidiana a Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La vita quotidiana di un cittadino romano, maschio e adulto, si svolge soprattutto all’aperto. Il Foro è il luogo principale della socialità urbana: qui si arriva anche la mattina presto. Dopo una rapida colazione e un altrettanto sbrigativo lavacro ognuno si reca al proprio lavoro in bottega, all’orto o presso il laboratorio. In uno spazio ristretto tra questi luoghi urbani e la propria abitazione, il cittadino romano conduce la sua giornata, secondo un ordine dettato dal tempo, dal cibo, dalla cura del corpo.
In Seneca si legge: “Non posso dirti l’ora precisa: / è più facile mettere d’accordo i filosofi che gli orologi” (Apokolokyntosis 2, 2, trad. Rossana Mugellesi). Per i Romani il tempo non è una categoria astratta, ma è sempre pensato in rapporto alle singole attività da compiere.
La stessa nozione di tempo libero, otium, è il tempo che rimane al cittadino dopo l’espletamento di un affare politico o lavorativo (negotium); è un tempo di relax lontano dagli impegni ordinari e pur sempre impiegato in altre attività, come la lettura e lo studio (sarebbe altrimenti un tempo vuoto e dunque un otium negativo; cfr. Seneca, La brevità della vita 13).
Il tempo è invisibile o meglio incorporalis ("senza corpo"), come lo definisce il filosofo Seneca, cioè un’entità non tangibile e, dunque, difficilmente quantificabile. Il tempus, afferma Cicerone, è “una parte dell’eterna durata (pars aeternitatis) che implica un’indicazione dell’estensione (spatium) dell’anno, del mese, del giorno o della notte” (L’invenzione, 1,39). Tempus è allora il tempo parziale, frazione di un tempo continuo, di una "durata" che è invece l’aeternitas. Quando Cicerone usa spatium per definire il tempo, lo fa in modo appropriato; le categorie temporali antiche, infatti, sono spesso pensate a partire dalle più note e concrete categorie spaziali.
Per essere quantificato e calcolato il tempo deve assumere una "topografia" ed ecco che la relazione di anteriorità/posteriorità è pensata su un asse spazio-temporale: ante in latino significa "davanti" in senso spaziale e "prima" in quello temporale; post significa "dietro" in campo spaziale, "dopo" in quello temporale (Maurizio Bettini, Antropologia e cultura romana, Roma 1986, pp. 128-143). Così gli antenati, gli antichi sono a Roma quelli che stanno ante "davanti" a noi, perché venuti "prima" di noi. Di conseguenza i posteri sono linguisticamente quelli che sull’asse spaziale sono collocati post "dietro" a noi e che temporalmente verranno "dopo".
In un’epoca in cui non esistono ancora gli orologi, la misurazione del tempo è molto imprecisa e approssimativa: gli anni sono indicati col nome dei consoli in carica, le cui liste venivano conservate negli archivi, mentre la vita quotidiana è scandita dalla disponibilità della luce solare secondo due stagioni fondamentali, l’estate e l’inverno.
L’estate è il tempo dedicato alla raccolta dei frutti, alla guerra, ai viaggi. In inverno il freddo e la luce ridotta costringono al riposo sia la terra che gli uomini. I Romani contano il tempo con maggior precisione solo in guerra quando la notte è scandita in quattro turni di guardia o veglie (vigiliae), ciascuna della durata di tre ore circa. Il giorno comincia con il sorgere del sole.
Alla fine del IV secolo a.C. i Romani dividono il giorno in due parti, prima di mezzogiorno (ante meridiem) e dopo mezzogiorno (post meridiem). Tutte le attività pubbliche e private devono compiersi prima di mezzogiorno, unico punto fisso della giornata. È pertanto di fondamentale importanza osservare il passaggio del sole al meridiano, esattamente tra i rostri del senato e la Graecostasis, ovvero lo spazio di accoglienza delle ambasciate greche nel Foro. A tale attività di osservazione è preposto un araldo collocato in cima alla scala dell’antica curia e incaricato di suonare le trombe quando il sole avesse effettuato tale passaggio e raggiunto lo zenit.
Col tempo arrivano i primi strumenti di misurazione, quadranti solari e poi orologi ad acqua che suppliscono i quadranti solari di notte e verranno particolarmente ricercati come oggetti di lusso in età imperiale. Con gli anni tali strumenti si perfezioneranno così che alcuni modelli, ci racconta Vitruvio, ad ogni nuova ora segnata lanceranno in aria sassi, uova oppure fischieranno.
Il primo horologium arriva a Roma durante la prima guerra punica ed è il quadrante solare di Catania, sottratto alla città dal console romano M. Valerio Messalla e portato a Roma come bottino di guerra: creato per la latitudine siciliana, lo strumento dà indicazioni inesatte ma i Romani quasi non se ne accorgono; rimane sul comitium come oggetto da ammirare. Circa un secolo dopo sarà installato il primo quadrante solare creato appositamente per i Romani.
Le dimensioni di tali strumenti sono variabili. Un monumentale obelisco-gnomone del faraone Psammetico II viene trasportato dopo la conquista dell’Egitto a Roma nel 10 a.C ed eretto da Augusto nel campo di Marte: il gigantesco gnomone deve proiettare l’ombra sulla piazza circostante ma è reso inservibile da inondazioni e terremoti che distruggono il pavimento del grande quadrante solare. Si diffondono anche orologi metallici e minuscoli quadranti di tre cm di diametro, ritrovati nel corso di scavi archeologici. Nel I secolo d.C. la varietà di questi horologia, realizzati talvolta a diverse latitudini geografiche e dunque inservibili poi in un altro luogo, dà esito a differenti indicazioni orarie per la stessa porzione di tempo al punto da far dire a Seneca, come abbiamo visto, che a Roma “è più facile mettere d’accordo i filosofi che gli orologi” (Apokolokyntosis 2, 2).
Se gli orologi scandiscono il tempo individuale, aspetti del tutto diversi ha l’esperienza collettiva del tempo che a Roma è fin dalle origini ben organizzata nel calendario (fasti).
Il termine calendarium indica a Roma il registro (privato o pubblico) in cui si segnano i prestiti a interesse: le somme sono riscosse il primo giorno del mese chiamato Calende. L’equivalente del nostro "calendario" è detto invece a Roma Fasti, termine che indica la serie dei giorni in cui è lecito (fas) compiere determinate attività.
Il calendario è un elemento importante della vita sociale dei Romani e fin dal suo apparire risulta legato alle autorità politiche e religiose.
A Numa Pompilio, il re-sapiente delle origini di Roma, è attribuita un’importante riforma del calendario antico o "di Romolo" prima costituito da dieci mesi, da marzo a dicembre (December, il "decimo" mese appunto), con un periodo nel mezzo, tra dicembre e marzo, dedicato a riti di purificazione. Questo periodo senza nome viene trasformato da Numa in due nuovi mesi, Ianuarius (gennaio) collocato a inizio dell’anno e chiamato così da Ianus, Giano, dio delle porte d’ingresso (ianuae) e degli inizi, e Februarius (febbraio) dal verbo februo, "purificare", per i riti di purificazione che si celebravano in quel mese.
Gli altri originari dieci mesi rimangono Martius (marzo, da Marte, dio della guerra), Aprilis, forse dal verbo aperio "aprire", perché mese dei germogli e della primavera; Maius (maggio) sacro a Maia, dea della vegetazione; Iunius (giugno) sacro a Giunone, madre degli dèi; Quintilis (poi Iulius, dal 45 a.C. in onore di Giulio Cesare), Sextilis (poi Augustus dall’8 a.C.), September, October, November, December i cui nomi sono tutti derivati dai numeri ordinali (quintus, sextus ecc.) dell’originario calendario di dieci mesi.
Il calendario "numano" si compone quindi di 12 mesi, per un totale di 355 giorni; ogni due anni viene intercalato un mese di circa 22 giorni, chiamato intercalaris o mercedonius ("compensatorio") per colmare lo scompenso rispetto al cammino solare dal momento che l’anno civile romano è alle origini fissato su base lunare.
Gli interventi di intercalazione spettano ai pontefici romani che "controllano"il tempo conservando negli archivi segreti le liste dei giorni fasti e nefasti, ripartizione anche questa attribuita a Numa: dies fasti in cui gli dèi sono propizi e si possono svolgere le attività giuridico-politiche, e dies nefasti in cui non è lecito (nefas); giorni festivi (festi) dedicati agli dèi, feriali (profesti) lasciati agli uomini e giorni interrotti (intercisi) che hanno, cioè, una divisione interna: fasti in alcune ore, nefasti in altre (Macrobio, Saturnali, I 16,1).
L’intreccio con la sfera politica e religiosa si misura nell’arco di ogni singolo mese. Il primo giorno del mese romano – mese lunare di 29/30 giorni – corrisponde al novilunio ed è chiamato Calende (da una radice verbale che significa "chiamare") perché allo sparire dell’ultima falce della luna calante il pontefice “proclama a gran voce” le calende (Macrobio, Saturnali, I 9-11). Sette giorni dopo le calende si fissano le None, cioè circa il nono giorno del mese (il conto comprende sia il giorno di partenza che la data fissa d’arrivo) in cui si proclamano le feste del mese. Le Idi sono a metà mese.
Il calendario, proclamato ogni mese alle None, verrà poi affisso sui muri dei templi perché i cittadini possano leggervi le indicazioni su ciascun giorno dell’anno. Ogni giorno è infatti segnato con una sigla in lettere: F "fasto", N "nefasto", C "comiziale" (in cui si tengono le riunioni o comitia).
Poiché col tempo le calende non corrispondono più al novilunio, i mesi sono sfasati e i cicli della semina e della mietitura sono a rischio. Nel 46 a.C. Giulio Cesare, in qualità di pontefice massimo, aiutato dall’astronomo alessandrino Sosigene, riforma il calendario su base unicamente solare, misurandolo in 365 giorni con l’aggiunta ogni quattro anni di un giorno chiamato bis sextus (il nostro "bisestile") perché veniva ripetuto due volte il 24 febbraio, per i Romani "il sesto giorno prima delle calende di marzo". Si fissano con esattezza anche i giorni per le Calende (il primo del mese), le None (il quinto e il settimo del mese), e per le Idi (il tredicesimo e il quindicesimo del mese).
Così, per stabilire una data per un appuntamento pubblico o privato, i Romani fanno riferimento a questi tre momenti del mese, indicando quanti giorni manchino all’inizio delle Calende, delle None o delle Idi: il 23 giugno, ad esempio, sarà a Roma "il nono giorno prima delle Calende di luglio" e così via. Per contare invece l’anno si citano i nomi dei due consoli allora in carica. Più tardi, per influsso della cultura greca, i Romani si porranno il problema delle origini della loro storia e si fissa al 21 Aprile 753 a.C. la fondazione della città e, con una pratica che non è però molto diffusa, si cominciano a contare gli anni dalla data di fondazione (ab urbe condita).
Alla nostra "settimana" – introdotta più tardi in epoca cristiana su influsso della settimana ebraica – si avvicina nel calendario romano la nundina che conta otto giorni; all’inizio di ogni nundina si tiene il mercato.
Accanto a questo tipo di misurazione esiste quella, ancora più approssimativa, di carattere familiare e generazionale. Alle origini stanno i maiores, gli antenati, che rappresentano la memoria del passato: nell’atrio della propria abitazione ciascun nobile romano conserva le maschere di cera dei propri antenati che, nel loro insieme, danno vita a veri e propri alberi genealogici che permettono di risalire addietro nel tempo, talvolta nei secoli. Il concetto stesso di "secolo" non è ignoto ai Romani e pare corrisponda all’incirca a sei generazioni (100 o 120 anni). La fine di un secolo è celebrata con i giochi solenni dei ludi Secolari, cerimonie di carattere religioso che continuano anche in età imperiale.
Cicerone scrive: “Bene i nostri antenati han chiamato convivio lo stare insieme a banchetto degli amici, perché importa una comunione di vita” (La vecchiezza 45, trad. Carlo Saggio, 2003). Il tempo è talvolta scandito dal cibo che distingue un tempo di festa da quello ordinario o, più semplicemente, i momenti destinati al pasto nell’arco di una giornata.
Durante l’età arcaica i Romani consumano abitualmente due pasti al giorno a base di cereali, legumi, verdure. Alimento principale è la puls, la polenta di farina di farro o frumento cotta in acqua e sale: agli occhi dei Greci rappresenta il cibo italico per eccellenza. Il farro è indispensabile a Roma non solo a tavola ma anche nei riti sacri: viene torrefatto in una festa speciale, quella dei Fornacalia di febbraio (Plinio, Nat. hist., 18, 8) e con la farina prodotta unita al sale si prepara la mola, salsa con cui cospargere (immolare) la vittima per il sacrificio. L’uso della puls si protrae fino all’età tardo antica. Accanto a essa comincia a consumarsi anche il pane, lievitato solo a partire dal I a.C. e di cui si conoscono molte varianti come il panis candidus dei ricchi e il panis cibarius, pane nero di crusca, delle mense povere.
Col tempo si diffondono nuove abitudini alimentari e nuove pietanze finché, i pasti tradizionali divengono tre: la prima colazione al mattino presto (ientaculum), uno spuntino a mezzogiorno (prandium) e la cena serale a fine giornata (cena o epulae vespertinae).
Lo ientaculum consiste in pane e formaggio accompagnato talora da olive, frutta secca, latte e miele. Il prandium è uno spuntino leggero a base di verdura, frutta, legumi, uova, e si consuma per lo più fuori casa, nella taberna o al thermopolium, locali che offrono cibi caldi e bevande da consumare in piedi oppure seduti. Il pasto più importante e consistente è la cena, che inizia per tutti dopo il bagno, tra le 14 e le 16, e termina prima che sia notte fonda a eccezione di banchetti particolari. Il pasto consiste per i poveri nel pulmentum, un impasto di farina e verdure, mentre i ricchi godono di tre portate ordinarie: l’antipasto (gustatio) fatto di uova, salsicce, insalate, accompagnate da vino misto ad acqua e miele (mulsum); la prima mensa con varie portate di pesce, carne suina, cinghiale, selvaggina, condite spesso con una salsa piccante a base di interiora di pesce fermentato detta garum; la secunda mensa a base di frutta e dolci. Il numero e la varietà delle portate nella cena cambiano in occasione di un banchetto.
Nella società orientalizzante e in quella arcaica il banchetto compare come elemento fondamentale nelle tre sfere del sacro, del pubblico, del militare. Le forme della commensalità riflettono le forme di relazione e di associazione dominanti in una determinata cultura. Pasti rituali di origine sacra e aristocratica divengono col tempo momenti comuni di aggregazione e identità civica.
Il banchetto è ad esempio connesso ai riti di passaggio, alla celebrazione del matrimonio, alle alleanze tra gruppi di clan, ai riti funerari; è luogo di scambi e di doni. Il pasto comune, insomma, rappresenta nelle società antiche uno dei momenti più alti della condivisione umana. A Roma il banchetto è detto convivium proprio per il suo tratto comunitario, quasi un’"unione di vita" che consolida i vincoli di consanguineità e amicizia tra i convitati, li unisce nel corpo e nello spirito. In epoca arcaica il banchetto romano appare legato alla sfera celebrativa religiosa in cui rientra l’antico rito agricolo della daps, che consiste nel dono di carni arrostite. Banchetti sacri sono anche i noti lectisternia così detti dai letti triclinari su cui sono adagiate le statue degli dèi banchettanti.
Nel II secolo il banchetto romano si trasforma a seguito delle novità intervenute nel sistema economico e produttivo con le grandi conquiste su Cartagine e in area greco-orientale. Il ridimensionamento del sistema rurale e l’apertura ai commerci si fanno sentire anche a tavola. Lo storico Livio descrive così le conseguenze di una campagna militare asiatica dicendo che si aggiunsero ai banchetti ballerine e musiciste e divertimenti di attori e che “gli stessi banchetti furono imbanditi con maggior apparato e spesa” (Livio, Storia di Roma, 39,6, trad. Carlo Vitali, Bologna 1990). Il cuoco, continua Livio, che per gli antichi era solo un servo, comincia ad essere molto considerato e la cucina, prima un servizio (ministerium), viene ora ritenuta un’arte (ars).
È a questo punto che il banchetto romano appare fortemente influenzato dal simposio greco e, rispetto al passato, tende stavolta a escludere le donne aristocratiche dalla partecipazione alla tavola dopo la cena, quando cioè comincia il momento simposiale vero e proprio dedicato al vino, bevanda negata alle donne perché ne avrebbe ridotti i freni inibitori a discapito della pudicizia, anche se il divieto, in realtà, sembra riguardare solo il vino puro. Il solo culto nel quale è permesso alle donne di bere vino è quello di Bona dea, una sorta di mondo alla rovescia. Il crescente lusso dei banchetti e il conseguente sperpero dei patrimoni impongono a Roma severi provvedimenti restrittivi nelle spese delle derrate e nell’allestimento delle mense. Così le leggi suntuarie già nel II secolo a.C. fissano il limite massimo dei convitati (legge Orchia 180 a.C.), limitano le spese per il banchetto (legge Fannia 161 a.C.), riducono le pietanze pregiate d’importazione, escludendo dalla tavola carni di difficile reperimento come i ghiri e gli animali esotici (legge Emilia, 78 a.C.). Il lusso alimentare, tuttavia, continuerà a persistere in epoca imperiale con ricercate ghiottonerie quali le mammelle di scrofa in epoca di allattamento, fegati di animali nutriti a fichi (da qui il termine ficatum, "riempito di fichi", per indicare il "fegato").
Il banchetto, strumento di potere e, talora, di propaganda elettorale, si tiene generalmente in casa di un ricco cittadino, in una stanza destinata esclusivamente al momento conviviale, il triclinium, sala da pranzo così chiamata per i letti a tre posti (imus, medius, summus) che si dispongono intorno alla tavola e su cui si sdraiano gli ospiti (di solito tre per letto); mangiare sdraiati è una pratica orientale affermatasi a Roma molto presto. Il letto può essere anche circolare come lo stibadium. In genere partecipano nove ospiti ma si può arrivare fino ad un massimo di 36 convitati reclinati sui letti, disponendo tre o quattro tavole per la cena. Le matrone alle origini stavano sedute ai piedi del marito poi, in età imperiale, prendono posto accanto ai mariti; restano a sedere solo i ragazzi sugli sgabelli. In certi giorni anche gli schiavi beneficiano degli avanzi.
Gli ospiti sono introdotti nella sala da un servo, il nomenclator, che annunzia ciascun convitato e indica il posto sul triclinio. L’assegnazione dei posti è regolata in modo preciso e tiene conto dell’età e del rango; il posto migliore a tavola è chiamato locus consularis. Ecco che il banchetto assume la forma di un microcosmo sociale.
Al momento dell’ingresso i servi si apprestano a togliere i sandali dei commensali e a lavar loro i piedi. Successiva abluzione è quella delle mani, con cui si mangia; non si conosce, infatti, ancora l’uso della forchetta, anche se i convitati hanno comunque a disposizione alcuni utensili, coltelli e cucchiai quali il mestolo o trulla, il cucchiaio o ligula e il cucchiaino o coclea con cui si mangiano uova e conchiglie.
La cena si conclude con la commisatio, libazione finale sul modello del simposio greco, che consiste nel vuotare d’un fiato un certo numero di coppe prescritte a ogni convitato dal presidente del banchetto (magister cenae) che decide anche il modo in cui bere: in cerchio oppure uno dopo l’altro o con una serie di brindisi per ogni lettera dei tria nomina di un commensale scelto.
Il vino utilizzato durante il pasto è conservato in anfore chiuse con tappi di sughero e sigillate con pece, argilla o gesso che si stappano durante il banchetto; con un colino si filtra il vino da versare nel cratere da cui si attinge con le coppe. Un’etichetta (pittacium) indica l’origine e l’annata. Prima del vino, arrivato a Roma forse con il leggendario re Numa, le libagioni si compivano con il latte che, fresco o cagliato, si beve anche a tavola insieme all’acqua.
Portata a Roma dagli acquedotti, l’acqua si attinge alle fontane pubbliche e, per mantenerne la freschezza, si versa in vasi di terracotta o in contenitori speciali come bocce ricoperte di vimini. Per il raffreddamento si usa anche la neve, trasportata giù dai monti e conservata in depositi. Per gli usi domestici si ricorre all’acqua piovana raccolta nell’impluvium al centro dell’atrio della casa; può anche essere bollita e poi raffreddata prima del consumo. Per purificarla e renderla più gradevole si mescola con aceto: si ottiene così la posca, nota bevanda dissetante dei legionari romani (quella che nei Vangeli viene offerta a Gesù sulla croce); unita al miele diviene invece un piacevole liquido dolciastro, aqua mulsa o idromele. Altra bevanda alternativa al vino è la lora, consumata soprattutto dagli schiavi e ottenuta mescolando acqua alla vinaccia. La birra, pur conosciuta, rimane invece la bevanda dei barbari.
Gli eccessi alimentari sono condannati non solo dai medici, ma anche da filosofi come Seneca, che recrimina contro il disordine morale e alimentare dei banchetti in cui l’abitudine a vomitare a fine pasto è un atto estremo dell’abuso a tavola, esito del gozzoviglio e della sbronza (Seneca, Lettere a Lucilio, 95, 21-29).
Come in Grecia, si ha notizia di alcune interdizioni alimentari come quella delle fave, da cui si astengono i pitagorici e, a Roma, il flamine Diale, sacerdote di Iuppiter, che non può neppure toccarle (Gellio, Notti attiche, 10, 15, 12). Le fave sono collegate alle anime dei morti e si adoperano nei sacrifici per i propri defunti, come nella festa dei Lemuria: il pater familias percorre a piedi nudi e in silenzio la casa; senza voltarsi getta dietro sé le fave nere per saziare le anime (Ovidio, Fasti, 5, 434).
In Ovidio si legge: “Sii piuttosto lindo, pulito, abbi la pelle bruna per le lotte del campidoglio, e la tua toga ti cada bene indosso e senza macchie. Abbi la lingua sempre liscia e netta, siano bianchi i denti e non cariati, e il piede non nuoti in una scarpa troppo larga, né ti faccia i capelli come stecchi un barbiere inesperto, ma la chioma sia ben tagliata e ben rasa la barba. Non portar unghie troppo lunghe o sozze, dalle narici non ti spunti il pelo, il fiato non sia troppo sgradevole, sotto le nari altrui, tu non putire come un caprone”. (L’arte di amare, 1, 510, trad. Ettore Barelli, 1977). Allo stesso modo Giovenale compone il detto divenuto poi famoso "Chiedi una mente sana in un corpo sano" (Satire, 10, 356, trad. Ettore Barelli, 1984)
La cura del corpo ha avuto a Roma fasi diverse nel corso del tempo. In età antica l’attività fisica è concepita solo come esercizio di preparazione militare mentre l’igiene personale si limita a un rapido lavacro diurno di braccia e gambe (Seneca, Lettere a Lucilio, 86, 12); occasionalmente si effettua un bagno in casa, nella lavatrina, angusta stanza attigua alla cucina. In questa fase la cura di sé ha una dimensione ancora privata e prevalentemente igienica. Ci vorrà ancora del tempo prima che si sviluppi quella "cura di sé" di cui parla Foucault (Michel Foucault, La cura di sé. Storia della sessualità 3, Milano 2009) intesa come cura dell’anima e del corpo insieme, cui il pensiero romano dedicherà pagine importanti.
La pratica del bagno quotidiano si diffonde nel II a.C. con la nascita di strutture pubbliche, i balnea (chiamati thermae in età imperiale), soprattutto per i cittadini di condizione non elevata. Da questo momento il bagno pubblico, luogo di igiene ma anche di incontro e aggregazione, diviene un atto sociale e civico presso tutti i ceti.
Alle terme ci si reca per godere di un momento distensivo al termine del lavoro, ma anche per incontrare gente, discutere di affari, chiacchierare amenamente. Al prezzo di un solo quadrante (un quarto di asse) si può accedere alla struttura, prima amministrata dagli edili poi affidata ad una figura addetta (curator thermarum).
Il rituale del bagnante prevede tre fasi: il passaggio iniziale in un apodyterium dove si lasciano gli indumenti e, da qui, nel laconicum (o sudatorium) per un bagno a secco; i pavimenti sono riscaldati da un ipocausto (sotterraneo pieno di aria riscaldata da un fuoco tenuto sempre acceso). Accanto vi è il calidarium, con piscina o vasche d’acqua calda. All’uscita dal bagno caldo si sosta in un locale tiepido (tepidarium) per un passaggio graduale prima di tuffarsi nella piscina fredda (frigidarium).
Il modello di questi impianti è il gymnasium greco, ma alle terme romane non viene riconosciuta alcuna funzione nell’educazione fisica e morale del cittadino, bensì unicamente igienica e ludica; la palestra è un elemento accessorio nelle terme, non essenziale. Quando è presente, nella palestra si effettuano esercizi ginnici e giochi con la palla, come il trigon. Sia nelle palestre che nei bagni sono ammesse anche le donne che, se sposate, possono recarsi alle terme con il consenso del marito.
La nudità promiscua in occasione del bagno era anticamente vietata tra padre e figlio come tra genero e suocero (Plutarco, Questioni romane, 40; Cicerone, Sull’oratore, 2, 224): tale divieto di bagnarsi insieme è improntato al distacco e alla severità parentale antica. Alle terme, la promiscuità tra uomini e donne, inizialmente tollerata, risulta spesso propedeutica alla lussuria e alla prostituzione, al punto che il bagno diviene presto associato all’attività erotica (da qui anche l’epiteto quadrantaria per appellare una prostituta da due soldi, dal quadrante pagato ai bagni). Così, col tempo, si distinguono diversi orari di accesso per uomini e donne e, già in età repubblicana, si creano sale separate finché nel II secolo d.C., con l’imperatore Adriano, viene espressamente vietato l’uso promiscuo delle terme, ritenuto ormai immorale.
Ci si lava generalmente solo con acqua oppure con detersivi composti di soda, con lomentum (impasto di farina di fave e gusci di lumache triturati) o liscivia. Per una pulizia più accurata si unge il corpo e lo si ricopre di sabbia per poi portar via l’unto con lo strigile, una sorta di cucchiaio stretto e incavato che viene passato sul corpo (come era d’uso degli atleti greci). Poi il bagno e, a seguire, massaggio e frizione del corpo con oli ed essenze odorose. Un uso eccessivo del profumo è però malvisto come segno di lusso ed effeminatezza: a Roma bene olent qui non olent ovvero "emana buon odore chi non ha alcun odore".
In epoca arcaica i Romani portano barba e capelli lunghi, ma dal II a.C. in poi si diffonde l’abitudine di radersi presso le botteghe dei barbieri; il primo a radersi pare sia stato Scipione l’Africano (Plinio, Nat. hist., 7, 211). Per il primo taglio della barba di un giovane romano ha luogo una cerimonia religiosa, la depositio barbae ("la deposizione della barba"): la barba appena tagliata viene offerta alla divinità. Si celebra così l’ingresso del giovane nell’età adulta. La rasatura, imprecisa e talvolta dolorosa, avviene bagnando la barba solo con acqua e tagliandola con un rasoio (novacula) a lama di ferro o con un coltello. La barba lunga, segno di uno stile incolto, rimane tuttavia distintiva dei filosofi e dei saggi nella ritrattistica scultorea.
I capelli si portano corti, a ciocche sulla fronte, oppure arricciati in boccoli con l’aiuto di un ferro caldo (calamistrum). Particolare cura alla capigliatura dedicano le donne romane che, se ricche, hanno in casa una serva addetta a tale compito (ornatrix). I capelli sono in genere raccolti sulla nuca in una crocchia che copre il collo; il resto dei capelli può essere arricciato e lasciato cadere sulla fronte. In pubblico devono comparire col capo velato da scialli o bende (vittae) poste sopra la testa o con i capelli raccolti in una reticella (reticulum). Le matrone portano una particolare acconciatura che le distingue: è il tutulus, ovvero bende di lane intrecciate a forma di cono attorno al capo per trattenere i capelli. Si usano anche voluminose chiome o trecce posticce e tinture (il biondo si ottiene con il sapo, ovvero sego di capra e cenere di faggio).
La cosmesi è abbastanza complessa. La depilazione è praticata tramite lo strappo con l’uso di pinzette o cere di resina e pece, o bruciacchiando i peli avvicinando candele o noci arroventate. Come quelle greche, anche le donne romane cospargono le parti visibili del corpo (viso, braccia) con tinte bianche, come la cerussa o la biacca, preparate con creta o sostanze tossiche quali il carbonato di piombo. Tinte rosse sono usate sulle gote e sulle labbra per mezzo di tavolette di cinabro, minio o feccia di vino; fuliggine e antimonio si usano per il contorno occhi.
Ancor più dell’acconciatura, l’abbigliamento romano è segno distintivo di un’appartenenza sociale; gli accessori stessi non sono puramente ornamentali ma indicativi di ruolo, età e rango sociale. Gli abiti romani si distinguono in indumenta (indossati sia di giorno che di notte) e amictus (indossati solo di giorno). Tra gli indumenti figurano il licium, una sorta di perizoma annodato alla vita, e la tunica, camicia di lino o lana, molto diffusa e indossata con cintura; più lunga fino ai talloni quella delle donne.
La tunica è la veste usata da tutti, uomini e donne, civili e militari; s’indossa come indumento unico anche fuori casa (per esempio i lavoratori) o come sottoveste, senza accessori oppure con due strisce verticali rosso porpora larghe (ordine senatorio) o strette (ordine equestre).
L’abito romano più rappresentativo è però la toga, segno distintivo del civis romanus, un tempo indossata sia da donne che da uomini, purché cittadini. Si tratta di una sopravveste costituita da un ampio semicerchio di lana, avvolta intorno al corpo in modo tale da lasciar libero il braccio destro e nascondere quello sinistro; sul davanti la stoffa crea una piega, il sinus. In alternativa alla toga, chi non ha vincoli ufficiali porta sopra la tunica anche una sorta di mantello, il pallium. Il colore della toga può variare: è candida la toga di chi si presenta alle elezioni (il candidatus appunto), mentre quella degli alti magistrati e dei bambini è bordata di una fascia di porpora (toga praetexta).
L’abito e l’acconciatura assumono un valore altamente simbolico anche nei riti di passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. Fanciulli e fanciulle passano dalla toga pretesta alla tunica recta con cui dormono prima della cerimonia del giorno seguente. Per i ragazzi di circa sedici anni il mutamento di abito ha valore simbolico – divengono cittadini – e l’evento viene celebrato in occasione delle feste in onore di Libero (a marzo), occasione in cui, oltre alla toga pretesta i ragazzi indossano la toga virile e consacrano ai Lari anche la bolla d’oro infantile (un ciondolo a forma di goccia). Le fanciulle, all’arrivo del menarca, abbandonano i loro giocattoli e possono già andare in sposa: anche questo passaggio è segnato da nuove vesti, copricapo e acconciature nuziali.
La matrona indossa una tunica lunga, la stola, segno indubbio del suo status, sostenuta da una cintura (zona) e ricoperta da un mantello (palla) dai colori spesso vivaci che serve a ricoprire il capo quando esce di casa. Al collo porta un fazzoletto annodato (focale) e al braccio tiene la mappa per detergersi dal sudore. Monili vari la adornano e tra gli accessori non mancano ventagli e ombrelli.
Anche se la toga rimane l’abito più esibito e caratteristico – il poeta Virgilio chiama i Romani gens togata cioè "stirpe in toga" (Eneide, 1, 282) –, nella vita quotidiana si preferisce usare indumenti più pratici come la paenula, tunica con scollo e cappuccio particolarmente diffusa in età imperiale in ogni strato sociale.
Quanto alle calzature, le più diffuse sono il calceus, tomaia di pelle con lacci incrociati sul collo del piede; la caliga, stivaletto chiodato in uso tra militari e contadini; le soleae allacciate sul collo del piede e le crepidae, sandali di cuoio intrecciato.