labiali
Le articolazioni labiali sono prodotte con l’intervento attivo di almeno un labbro e possono essere sia consonantiche sia vocaliche (➔ fonetica articolatoria, nozioni e termini di). Nel caso delle consonanti, nelle articolazioni labiali sono raggruppati alcuni luoghi articolatori, come il luogo bilabiale, che coinvolge entrambe le labbra, e il labiodentale, che riguarda il solo labbro inferiore. Si possono anche includere foni consonantici prodotti mediante la simultanea azione delle labbra e di un altro organo articolatore (ad es., la labiovelare [w]). Tra le vocali, le articolazioni labiali rappresentano i foni prodotti con l’arrotondamento e la protrusione delle labbra, anche detti labializzati.
Il termine labializzazione si usa per descrivere l’arrotondamento e la protrusione delle labbra nella produzione sia delle vocali che delle consonanti. In quest’ultimo caso, può indicare una caratteristica intrinseca del segmento (ad es. in [ʃ]), oppure acquisita grazie all’effetto di un’articolazione secondaria che interessa la consonante e che, nello specifico, corrisponde alla sovrapposizione dell’azione delle labbra alle caratteristiche articolatorie primarie. La labializzazione può avere un valore solo fonetico (ad es., a causa dell’influenza di segmenti labializzati adiacenti in [ˈkwando] quando) o anche fonologico (se, ad es., nel sistema linguistico esiste un’opposizione tra consonante non labializzata e labializzata: ad es. /k/ ~ /kw/).
Tra le consonanti, sono labiali le articolazioni prodotte nel luogo bilabiale e labiodentale. Sia le bilabiali che le labiovelari possono essere realizzate come fricative e nasali. Nelle fricative bilabiali, il restringimento del canale fonatorio è generato accostando le labbra (sia per la sorda [ɸ] che per la sonora [β]; ad es. nel caso della ➔ gorgia toscana, in [laˈɸiɸa] la pipa); nelle labiodentali, il restringimento è prodotto avvicinando il labbro inferiore agli incisivi superiori (sia per le sorde che per le sonore: [f]alce e [v]ale); cfr. .
L’articolazione delle nasali bilabiali consiste nel generare un’occlusione nella cavità orale accostando le due labbra tra loro (sono solo sonore: ad es. [m]ela); per le labiodentali, si accosta il labbro inferiore agli incisivi superiori (sono solo sonore: ad es. i[ɱ]fatti), in fig. 1. In entrambi i casi, il velo palatino è abbassato e l’aria può fluire nelle cavità nasali durante l’articolazione del fono, fuoriuscendo anche dalla bocca quando l’occlusione orale sia rilasciata.
Le bilabiali possono poi essere prodotte secondo il modo occlusivo (fig. 2, a sinistra), realizzate con meccanismo orale analogo a quello appena descritto, senza intervento delle cavità nasali (sono sia sorde che sonore: ad es. [p]alo e [b]acio); oppure possono essere realizzate secondo il modo vibrante, articolando tramite il labbro inferiore e superiore una serie di occlusioni e aperture (sono solo sonore, ad es. in [ʙ] presente nella parola [mbʙulei] «verdi», prodotta in kele, lingua austronesiana). Le labiovelari possono anche essere approssimanti, oppure (come si dice tecnicamente) tap or flap: il labbro inferiore si avvicina leggermente agli incisivi superiori per la realizzazione dell’approssimante (come per l’approssimante labiovelare, una delle varianti della vibrante alveolare in italiano; ad es. ca[ʋ]o caro), in modo che l’aria fuoriesca senza che si crei turbolenza, oppure si accosta a essi per creare una breve occlusione nei suoni tap or flap.
Nel caso delle bilabiali, sono numerosi i foni che possono essere prodotti anche con diversi meccanismi fonatori tra quelli previsti per le consonanti, cioè che sfruttano il flusso d’aria generato dalla laringe, come le eiettive e le implosive, o dalla lingua, come i click. Nella lingua italiana queste articolazioni non sono usate con funzione distintiva.
Tra le consonanti labiali si possono includere foni prodotti con doppia articolazione, mediante una simultanea azione delle labbra e di un altro organo articolatore che generi due ostacoli di uguale entità alla fuoriuscita dell’aria (ad es. nell’approssimante labiovelare in [w]ovo, o nell’approssimante labiopalatale presente nella parola francese n[ɥ]it «notte»).
Tra le vocali, le labiali corrispondono a foni prodotti mediante l’arrotondamento e la protrusione delle labbra: esse sono le cosiddette vocali procheile o labializzate (➔ fonologia) (fig. 2, a destra).
Per indicare l’arrotondamento e la protrusione delle labbra si può usare il termine labializzazione sia per le vocali, nei casi appena descritti, sia per le consonanti. Esistono segmenti consonantici che sono labializzati indipendentemente dal contesto (soprattutto tra le postalveolari e le palatali: ad es. [ʃ]i sci). In altri casi, la labializzazione corrisponde a una seconda articolazione, un’articolazione cioè di entità inferiore (indicata con il diacritico [w]) che accompagna quella primaria, di entità maggiore (ad es. [kw]). Si tratta della forma più diffusa di articolazione secondaria, sia per quanto riguarda il numero dei segmenti consonantici con i quali si verifica (benché si riscontri spesso nelle occlusive velari), sia per quanto riguarda le lingue nelle quali si riscontra (Ladefoged & Maddieson 1996: 356).
Le nasali labiali presentano una seconda formante attorno ai 1000 Hz (➔ fonetica acustica, nozioni e termini di), oltre alle altre caratteristiche, tipiche delle consonanti nasali (ossia una prima formante tra i 200 e i 300 Hz e intensità mediamente più bassa rispetto alle vocali). Nel caso delle fricative labiali, il rumore è generalmente poco intenso rispetto a quello riscontrato in altri luoghi articolatori e, in media, può essere inferiore nella bilabiale piuttosto che nella labiodentale, soprattutto alle alte frequenze (all’incirca oltre i 2000 Hz). Gli altri foni labiodentali, tap or flap e approssimanti, non risulta abbiano caratteristiche peculiari rispetto a quelle tipiche dei rispettivi modi di articolazione e luoghi consonantici anteriori. Per le caratteristiche acustiche delle altre articolazioni bilabiali si rimanda alla voce relativa (➔ bilabiali; cfr. anche fig. 3).
In generale, l’arrotondamento delle labbra causa un abbassamento dei valori delle prime tre formanti (Ladefoged 2001). Questa caratteristica è visibile sia nelle approssimanti realizzate con doppia articolazione, ad es. la labiovelare italiana [w], sia nelle vocali labializzate (fig. 3). In assenza di valori formantici, si può osservare un abbassamento delle frequenze alle quali si realizza la concentrazione di energia del rumore (ad es. in [ʃ] rispetto a [s]).
In italiano tra le consonanti si riscontrano tre fonemi bilabiali, due fonemi labiodentali e un fonema labiovelare: l’occlusiva bilabiale sorda /p/ e la sonora /b/, la nasale bilabiale /m/, la fricativa labiodentale sorda /f/, la sonora /v/ e l’approssimante labiovelare /w/ (circa lo status fonologico di /w/, ➔ consonanti). Tranne l’approssimante labiovelare, le consonanti possono comparire sia come scempie che come geminate.
La nasale bilabiale, inoltre, si presenta anche come allofono nei nessi nasale + consonante bilabiale, mentre un allofono labiodentale compare nei nessi nasale + consonante labiodentale: per effetto di ➔ assimilazione, il fono nasale può essere realizzato come bilabiale o labiodentale sia all’interno di parola che al confine di parola (ad es. [imbeˈvuto] imbevuto, [kom pjaˈʧere] con piacere, [iɱˈfatːi] infatti, [iɱ vaˈkanʦa] in vacanza).
Tra le vocali, esistono fonemi realizzati con arrotondamento e protrusione delle labbra: si tratta delle vocali posteriori /u/, /o/, /ɔ/ (➔ vocali). La labializzazione delle vocali, o dell’approssimante, è spesso causa di un fenomeno di articolazione secondaria che, per effetto di coarticolazione, corrisponde alla labializzazione delle consonanti che appartengono al contesto (ad es. [ˈkwwando] quando, [ˈswkwwɔtere] scuotere).
Le principali realizzazioni allofoniche labiali che si riscontrano nelle varietà di italiano e i fenomeni di labializzazione riguardano soprattutto le consonanti. Ad es., per alcuni parlanti, l’approssimante labiodentale [ʋ] rappresenta una variante libera della vibrante alveolare /r/ (l’altra variante libera molto frequente è quella articolata nel luogo uvulare come vibrante [ʀ], come approssimante oppure fricativa []; queste realizzazioni sono indicate popolarmente come erre moscia: ad es. ca[ʋ]o o ca[ʀ]o caro). Inoltre, l’approssimante labiodentale è la realizzazione di /v/ nelle parlate venete (ad es. [troˈʋaːre] trovare) e di /w/ in Emilia (ad es. [ˈaʋto] auto). Per fare un altro esempio, nella varietà toscana parlata a Livorno il nesso /kw/ è spesso ancora realizzato con la fricativa labiodentale sonora [v] (ad es. [ˈvello] quello). Gli ➔ allofoni sono quindi piuttosto numerosi, senza contare il fatto che in molte zone d’Italia i dialetti rendono ancora evidente la sostituzione di /b/ con /v/ (o addirittura /f/), o viceversa, di /v/ con /b/ (ad es. in Campania [v]agno «bagno», nel leccese forcune «balcone», nella Calabria meridionale buci «voce»; ➔ betacismo; cfr. anche § 7).
Anche le labiali sono coinvolte nella generale tendenza allo ➔ scempiamento delle consonanti geminate che si osserva nei dialetti e talvolta nelle varietà del Nord. Nell’area centro-meridionale, compreso il Lazio, invece, oltre alle geminate possono essere prodotte come lunghe l’occlusiva bilabiale sonora, anche in posizione iniziale di parola, e talvolta anche la nasale bilabiale (per es. a[bː]ile] e, soprattutto nel napoletano, tre[mː]are). Infine, la labializzazione delle consonanti può essere talvolta enfatizzata, senza che questo rappresenti un aspetto tipico di una varietà regionale (ad es. nella pronuncia snob [ʧwiˈtːʃwˈi:no] ciccino, il cosiddetto birignao).
Le consonanti labiali possono comparire nella posizione di testa di sillabe mono-, bi- e triconsonantiche (per es. male, faro, blu, flutti, splende, sfratto; ➔ sillaba) e in posizione di coda (per es. ambivalente, affitto; ➔ consonanti, per l’eterosillabicità delle geminate). Tra i principali fenomeni fonotattici (➔ fonetica sintattica) relativi a nessi consonantici che coinvolgano labiali (oltre ai fenomeni allofonici già discussi in § 4), ricordiamo l’➔assimilazione che si osserva nei contesti nasale bilabiale + occlusiva sonora, e la tendenza a sonorizzare le consonanti sorde dopo nasale: si tratta di fenomeni presenti nei dialetti e nel parlato poco sorvegliato di alcune varietà meridionali (ad es. pio[mː]o piombo, te[mb]o tempo; ➔ indebolimento). Infine, per il contesto intervocalico, ricordiamo la ➔ spirantizzazione delle occlusive, prevalentemente sorde (ad es. [laˈɸiɸa] la pipa). Sia le consonanti bilabiali che le labiodentali rientrano tra quelle che possono subire raddoppiamento fonosintattico (➔ raddoppiamento sintattico).
Circa le vocali labializzate, ricordiamo il fenomeno della ➔ metafonia, fenomeno di assimilazione che può colpire le vocali toniche per effetto delle vocali atone alte /i/ e /u/, spesso finali. Il fenomeno interessa una della vocali labiali, la /u/, in quanto vocale chiusa (e non in quanto vocale procheila).
Le articolazioni bilabiali risultano tra quelle più frequenti, benché siano superate dalle articolazioni alveolari. I foni realizzati nel luogo labiodentale hanno invece minor frequenza. La consonante che si incontra più spesso è la nasale bilabiale, seguita dall’occlusiva sorda. Meno frequenti sono la fricativa labiodentale sonora, l’approssimante labiovelare, la fricativa labiodentale sorda e l’occlusiva sonora (Minnaja & Paccagnella 1977; Bortolini et al. 1978). Nel caso delle geminate bilabiali, tutte e tre le articolazioni hanno frequenza simile, ma a seconda del corpus analizzato possono risultare più frequenti le occlusive sorde geminate (Bortolini et al. 1978; Chiari & Castagna 2005) o le occlusive sonore geminate (Minnaja & Paccagnella 1977); meno frequenti sono le geminate labiodentali sorde e ancor meno le sonore. Per i dati sulla frequenza delle labiali nei nessi consonantici si rimanda a Chiari & Castagna (2005).
Circa le vocali procheile, l’analisi del parlato di attori di teatro e speaker televisivi (e quindi di una varietà vicina all’astrazione rappresentata dallo standard) evidenzia che la vocale posteriore media semichiusa è molto più frequente di quella semiaperta, che peraltro ha frequenza simile a /u/ (Minnaja & Paccagnella 1977; Bortolini et al. 1978).
In latino classico non esisteva il grafema ‹u›, ma solo il grafema ‹v›, pronunciato come approssimante labiovelare [w] in posizione intervocalica (ossia come semiconsonante) oppure come [u]. L’introduzione del grafema ‹u› per la semiconsonante [w] e l’uso di ‹v› per la consonante sono stati richiesti per rendere conto delle novità presenti nei volgari rispetto al latino (cfr. la proposta nel Polito, 1525, in Maraschio 1993: 217). La proposta di ➔ Gian Giorgio Trissino di distinguere ‹u› vocale da ‹v› consonante si afferma in seguito (Migliorini 1966: 419). Tra le scritture volgari era diffusa in Toscana la grafia ‹uu›, già presente nei documenti del Quattrocento e nelle stampe del Cinquecento, in alcune parole nelle quali ha poi rappresentato la ‹u› approssimante (ad es. uuomo, uuovo). Oggi la fricativa labiodentale sonora [v] rappresenta la realizzazione di ‹v› e l’approssimante labiovelare [w] è la resa di ‹u› nei dittonghi (ad es. [w]omo) e di ‹w› in alcuni prestiti non adattati (ad es. in parole inglesi come whisky).
Una certa confusione investì anche la distinzione tra il grafema ‹v› e il grafema ‹b›, in quanto a partire dal II secolo d.C. ‹v› e ‹b› venivano entrambi realizzati come [v], mentre prima di quel periodo entrambi corrispondevano a una fricativa bilabiale sonora [β] (➔ betacismo, sull’uso di ‹b› in luogo di ‹v› o di ‹v› in luogo di ‹b›). Di fatto, a partire dal I secolo d.C. si osserva una forte incertezza nelle iscrizioni, con forme come bibus per vivus e donavit per donabit.
Circa il grafema ‹f›, esso viene pronunciato come fricativa labiodentale sorda [f]. Si tratta del grafema, già presen-te nel latino classico, che aveva sostituito il digramma ‹ph›, la traslitterazione latina della lettera greca φ che si pronunciava come una [p] seguita da aspirazione, e poi come [f]. Dopo ➔ Pietro Bembo, che sosteneva la necessità di conservare il digramma operando una scelta etimologica, prevalsero le scritture fonetiche e il grafema ‹f› fu usato in luogo di ‹ph› (dopo la metà del XVI secolo, più rapidamente nei nomi comuni e meno nei nomi propri, ad es. Phebo). Circa le vocali, va ricordata la proposta di Trissino (affidata alla Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, 1524, e poi rivista nel 1529), che peraltro non ebbe successo, di distinguere fra o (ed e) aperte e chiuse, ricorrendo a lettere greche.
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