NEMI, Lago di (A. T., 24-25-26 bis)
Piccolo lago del Lazio, nell'apparato vulcanico dei Colli Albani, occupante il fondo di due antichi crateri laterali, aperti a SO. del cono principale presso la cinta craterica esterna e fusi insieme per il franamento delle sponde contigue. Lo specchio d'acqua era, prima del recente svuotamento, all'altezza di m. 318, aveva la lunghezza di km. 1.75, la larghezza massima di km. 1.3 e la superficie di kmq. 1.67. Il perimetro era di circa km. 5.5, la massima profondità di m. 34, la media di 19.5; il volume delle acque si calcolava a mc. 32.500.000. Chiuso fra ripide pendici, il lago aveva acque di colore azzurro cupo (colorazione VI-VIII). Con un bacino imbrifero di appena kmq. 10.5, era alimentato da piccole sorgenti e da pochi ruscelli; era privo di emissario naturale; l'emissario artificiale, scavato in epoca remotissima, lungo metri 1650, che ne deviava le acque nella valle Ariccia a 295 m. di altezza, era in gran parte ostruito per frane e non funzionava che in maniera imperfetta. Per il ricupero delle navi (v. sotto), tale emissario fu restaurato e rettificato, e l'acqua vi fu immessa a mezzo di elettropompe. Il livello del lago fu abbassato di 22 m., talché il suo contorno si è sensibilmente modificato, specie a nord-est, dove le rive sono più basse, perché lo specchio non occupava che una parte della cavità craterica nord-orientale; tratte a secco le navi, il livello è di nuovo in progressivo aumento. Il lago è discretamente pescoso. Sulle sue rive si affacciano i paesi di Genzano e Nemi (v. alle rispettive voci) congiunti da strada rotabile; un'altra rotabile scende da Genzano alla sponda del lago nel luogo ove si trovano le navi.
Le navi di Nemi.
Il ricordo di grandi navi romane, un tempo galleggianti e poi sommerse nell'antico speculum Dianae, fu conservato attraverso i secoli dalla tradizione popolare del luogo, confermata dalle prove che i pescatori traevano sia dallo strappo delle reti impigliatesi nei chiodi e negli spezzoni lignei della nave giacente a minore profondità, sia dal ricupero, fortuito o voluto, di varî oggetti staccati o mobili. Ma la prima menzione dell'esistenza di navigli sommersi si ha con il Rinascimento.
Nel 1446-1447, per incarico del cardinale Prospero Colonna, Leon Battista Alberti per primo tentò di sollevare la nave più prossima alla cosiddetta Casa del pescatore, cioè la prima di quelle ricuperate attualmente; ma il suo tentativo produsse soltanto danni alle strutture lignee. Nel 1535 l'ingegnere militare bolognese Francesco De Marchi poté toccare la stessa nave e prenderne misure dirette, e anche asportarne materiale, essendosi calato sotto l'acqua con un primitivo scafandro. Un terzo esperimento di esplorazione e di ricupero venne tentato, nel 1827, dal cavaliere romano Annesio Fusconi, ma l'inclemenza della stagione inoltrata rese nulli gli sforzi.
A questi primi tentativi successe un periodo di discussioni polemiche, perfino sulla natura delle reliquie affondate, nonché sulla paternità delle navi, che più d'uno attribuiva a Tiberio, in base a una fallace lettura del nome impresso su un pezzo di conduttura plumbea raccolto durante uno degli esperimenti. Non mancarono peraltro fautori dell'impresa, anche per il miraggio di favolosi risultati; uno dei più ardenti patrocinatori fu Costantino Maes. Nel 1895 un antiquario romano, Eliseo Borghi, stipulato un contratto con la casa Orsini, proprietaria allora del lago, e con l'assenso del Ministero della pubblica istruzione, operò per mezzo di palombari una serie d'intense ricerche, che danneggiarono irreparabilmente le strutture delle navi, e fruttarono bronzi artistici, tarsie marmoree, paste vitree, oggetti metallici, oltre a numerosi travi di legno e materiali laterizî abbandonati sulla riva: non indifferente bottino, che in seguito fu quasi tutto acquistato dallo stato e dato in custodia al Museo Nazionale Romano. La malaugurata esplorazione, troppo tardi frenata con l'intervento della Direzione generale delle antichità, fu compensata dagli scandagli e dagli studî che, per incarico dei ministeri della Marina e dell'Istruzione, nel 1895 e 1896, compì l'ingegnere del genio navale Vittorio Malfatti, il quale concluse che l'unico mezzo per ricuperare le due navi, ricoperte in massima parte dal fango, ma ben identificate per la giacitura, per la profondità e per le dimensioni, era quello di abbassare il livello lacustre. Le proposte del Malfatti rimasero senza attuazione. Nel 1926 una commissione ministeriale, presieduta da Corrado Ricci, esaminò a fondo la questione compilando un progetto definitivo, che contemplava l'eventuale escavazione di un nuovo emissario dal lago nemorense a quello albano più basso, progetto non attuato poi.
Il 9 aprile 1927, il capo del governo, Benito Mussolini, annunciava la volontà di realizzare quest'impresa. L'ing. Guido Ucelli studiò allora un nuovo progetto per abbassare il livello del lago a mezzo di elettropompe, e offrì il macchinario e le spese per il lavoro di ripristino dell'antico emissario; gl'ingegneri Augusto Biagini e G. Leone Fano si unirono nell'offerta, e così il 3 gennaio 1928, auspice il ministro Giuseppe Belluzzo, fu firmata una convenzione, per la quale i due gruppi industriali s'impegnavano a fornire il materiale adatto e a sostenere le spese occorrenti per lo scoprimento delle navi.
Le opere preliminari si svolsero rapidamente, tanto che il 20 ottobre si iniziava il lavoro delle pompe idrovore, e nel marzo 1929, all'abbassamento di circa 5 metri del livello, appariva il primo legno poppiero della nave più vicina alla Casa del pescatore.
L'esplorazione archeologica di questa prima nave: giacente alla profondità di 5-12 m. con la prua in basso e volta al centro del lago, poté iniziarsi nel maggio e, sotto la direzione prima di Giuseppe Cultrera, poi di Ugo Antonielli, fu compiuta nel settembre dello stesso anno con lo sgombero totale del fango e dei materiali crollati. Nell'ottobre 1930, l'ufficio speciale del genio civile, sotto la direzione dell'ingegner L. Bonamico, dopo aver assicurata la nave su apposite selle lignee montate su robusto carrello di ferro, curava il tiro a terra di essa.
Dopo un'interruzione, in parte conseguente a naturali slittamenti del fondo melmoso e instabile messo allo scoperto, riattivatosi il funzionamento delle pompe e abbassatosi il livello a circa 21 m., tra il giugno e l'agosto 1931 si poté esplorare e liberare anche la seconda nave, la quale, secondo gli scandagli del 1896, giaceva a una profondità da 15 a 21 m.; in realtà, a causa degli avvenuti movimenti della massa fangosa che l'imprigionava, essa fu trovata non così fortemente inclinata, ma sollevata a una quota media di 17-18 m. Sgomberata dal fango e assestata nelle sue parti sconnesse o pericolanti, anche questa seconda nave fu, a cura della R. Marina, tirata in secco, per circa 200 m. di percorso, in prossimità della prima.
Nonostante la naturale rovina e le mutilazioni subite in passato, le parti superstiti dei due grandi scafi s'impongono all'ammirazione per la loro eccezionale importanza dal punto di vista tecnico, storico, documentario: sono esse non solo le più grandi navi romane che possiamo ancora vedere, ma le sole superstiti di tutta l'antichità. La loro tecnica costruttiva è identica; la parte rimasta è rappresentata quasi per intero dall'"opera viva", costituita da un robusto fasciame esterno di tavole di pino nostrano congiunte con biette e cavicchi lignei, il quale fasciame poggia su cinque linee di chiglia, ed è rivestito all'esterno di lana catramata, protetta a sua volta da lamiere di piombo. All'interno, la spessa costolatura, su cui si distende inchiodato il tavolato di fondo della stiva, i paramezzali, i puntelli, i bagli superstiti, ecc., completano la documentazione della perfettissima scienza costruttiva navale dei Romani.
Le due navi, a chiglia piatta, secondo il tipo usato per quelle destinate a fondali melmosi, laghi, fiumi, paludi, presentano lievi differenze: nelle dimensioni e nel sistema compositivo dei bagli, e forse nel remeggio. La prima misura nella parte superstite, che non rappresenta peraltro tutto intero l'antico sviluppo della grande chiglia, m. 67 circa in lunghezza e 20 in larghezza massima; era fornita, come nei navigli "alla latina", di due timoni laterali impostati sui due lati poppieri, uno dei quali è stato ricuperato intero, insieme ai resti delle travi che costituivano la struttura a cassa di sostegno, impostata fuori murata.
La seconda nave, più grande misura m. 71 × 24, e ha un doppio ordine di bagli sovrapposti immediatamente, i superiori uscivano fuori bordo per comporre una specie di passerella o ballatoio, aggettante lungo i due lati, da giogo a giogo, con una sporgenza di circa m. 2,50, misurata al massimo della larghezza, e destinata evidentemente ai rematori.
Un incavo del trave funzionante da giogo documenta la presenza dei due timoni laterali, scomparsi.
Nessuna traccia del ponte e di soprastrutture in questa seconda nave; ma nell'altra se ne raccolsero copiosi resti, crollati sul fango che riempiva la stiva. Evidentemente il ponte fu schiantato dall'enorme peso delle soprastrutture, in gran parte in opera muraria, come documentano gli avanzi della pavimentazione (tegoloni bipedali su strati di cocciopesto e riquadri marmorei), dei pilastri in laterizio, dell'intonaco a musaico di paste vitree, che certo adornava le pareti lignee. Un tetto composto di tegole di rame dorato copriva gli ambienti delle soprastrutture, così singolari dal punto di vista nautico. Siffatta singolarità si spiega facilmente con la speciale destinazione delle navi stesse, destinate a muoversi in un ristretto bacino lacustre.
Gli oggetti ricuperati compongono un insieme ragguardevole, sia sotto l'aspetto artistico, sia dal punto di vista tecnico-industriale. Tra i primi si annoverano: cinque cassette di bronzo con protomi ferine, analoghe a quelle ritrovate dal Borghi nel 1895, quattro delle quali rivestivano l'estremità dei travi aggettanti nel cassone del timone destro, l'altra il timone stesso; tre pilastrini bronzei, integri, con erme bifronti di satiri e ninfe (v. bronzo, VII, illustr. a p. 938) che, insieme ai pezzi di altri consimili, sono i resti di una balaustrata di bordo; una cassetta bronzea con avambraccio umano in altorilievo, analoga a quella trovata nel 1895, rivestimento del trave sorreggente il giogo del timone destro nella seconda nave; lastre fittili decorate a rilievo, ecc. Questi pezzi, sommati con gli avanzi marmorei e musivi, con le tegole di rame dorato, con un discreto numero di cerniere, borchie, maniglie, nottolini, tutto in bronzo, raccolti sulla prima nave, comprovano che essa era realmente attrezzata con un certo lusso. Furono anche ricuperati parecchi sportelli di legno da finestra e telai di porta. Tra gli oggetti di pregio tecnico-industriale si ricordano: un grande rubinetto a spina o chiave d'acqua, di bronzo, tornito in modo perfetto e conservatissimo; l'avanzo di una piattaforma lignea girevole su rulli sferici di bronzo, due stantuffi per pompa in legno, due "norie", un "bozzello" o staffa per carrucola, e altro. Rinvenimento d'altissima importanza fu quello di due grandiose ancore, trovate con le loro corde, a distanza dalle navi, presso la riva prospiciente i ruderi del Tempio di Diana: l'una di ferro rivestita di legno, alta circa 4 metri, e col ceppo mobile (invenzione ritenuta finora del tutto moderna, essendo stata brevettata in Inghilterra nel 1851); l'altra di legno con punte di ferro e ceppo di piombo, alta m. 5,50 circa. Una barca, piccola, che i più ritengono antica, fu rimessa in secco presso la sponda orientale.
Quanto alla presumibile storia delle navi, il documento offerto dalle condutture plumbee per acqua, trovate nella prima nave e recanti impresso il nome di Caligola, può ritenersi probatorio. Non il materiale archeologico, né lo stile dei bronzi artistici si oppongono; ma anzi ben convengono con esso l'indole di quell'imperatore e le accertate cure da lui prodigate al Tempio di Diana.
Le particolari condizioni di giacimento dei materiali scavati, il loro attuale stato, la frammentarietà e lacunosità di molti elementi, e altri dati desunti dall'esplorazione, rendono plausibile l'ipotesi che le navi fossero spogliate del loro meglio, prima di un voluto e definitivo abbandono, non molto tempo dopo la loro costruzione; finché, per ragioni assai naturali, si sprofondarono. E specie sulla prima nave l'opera di spogliazione, lenta, poté continuare agevolmente anche dopo la catastrofe.
Quanto alla destinazione delle due navi di Nemi, godeva finora maggior credito la supposizione che a somiglianza dei talameghi ellenistici e dei principeschi galleggianti del Rinascimento, un puro scopo lusorio avesse spinto un imperatore come Caligola alla grandiosa costruzione.
Contro tale idea si oppone già la ristrettezza e la malinconica poesia del lago nemorense. Ma, per l'appunto, la natura del luogo, sacro, dominato dal veneratissimo Tempio di Diana, e l'indole stessa di Caligola, maniaco religioso, egittizzante, amante di lavori proprî di carpenteria, devono indurre a prescegliere ben altra finalità. E anche non indifferente è la posizione tenuta da Caligola di fronte a tutto il luogo sacro: come attesta Svetonio, egli ripristinò la cruenta successione del rex nemorensis avente signoria sul bosco sacro, e in più, come risulta dallo studio archeologico, egli, fautore d'Iside, curò e abbellì il Tempio di Diana, nel cui recinto esistevano are e suppellettili consacrate proprio all'egizia dea. Lo splendore del tempio nemorense durò a lungo; per il secondo secolo dell'impero si ha, in Stazio, il ricordo di processioni e luminarie solenni che facevano risplendere tutto il lago.
Per queste considerazioni è più ragionevole supporre che le navi, costruite senza dubbio dagli arsenalotti imperiali, per ordine del pronipote di Augusto, fossero destinate a speciali cerimonie religiose, che lo speculum Dianae autorizza ad ammettere, ma che sarebbe vana impresa cercar di definire.
In ogni modo, le due navi offrono l'immagine fedele della perfetta arte e tecnica navale dei Romani, finora malamente desumibile dalle fonti letterarie e da schematici rilievi; sono rarissimi, anzi unici cimelî, miracolosamente a noi pervenuti, modelli tangibili delle grandi navi guerresche e onerarie, con cui Roma incontrastata dominò per secoli il mare.
V. tav. XCVIII.
Bibl.: V. Malfatti, Le navi romane del l. di N., Roma 1905; Il ricupero delle navi di N. (relazione della Commissione ministeriale, con completa bibliografia fino al 1926 raccolta di C. Ricci), Roma 1927; per la storia dello scavo ultimo e per i risultati v.: U. Antonielli, La prima nave imper., ecc., Bergamo 1930; id., La seconda nave, ecc., in Bollett. Assoc. Intern. studi mediterr., II, 1931, n. 4; G. Ucelli, I lavori del lago di N., ecc., in Rivista ill. del Popolo d'Italia, dicembre 1928, n. 12; id., in Atti XI Congr. naz. Cavalieri del lavoro, Roma 1932; G. Cultrera, La prima fase dei lavori, ecc., in Notizie Scavi, 1932, pp. 206-292; per le ancore: G. C. Speziale, in The Mariner's Mirror, XVII (1931), n. 4; per la destinazione delle navi: G. Lugli, in Pègaso, II (1930), pp. 419-429 e pp. 744-750; G. C. Speziale, in Nuova Antologia, 1 novembre 1930, pp. 87-100, e 1 gennaio 1931, pp. 115-131; U. Antonielli, Polemica nemorense, in Rassegna Italiana, marzo 1931, pp. 202-220. Oltre a numerosi scritti in riviste e varî periodici italiani e stranieri.