NEMI, Lago di
Piccolo lago del Lazio, nell'apparato vulcanico dei Colli Albani, occupante il fondo di due antichi crateri laterali, aperti a S-O del cono principale presso la cinta craterica esterna e fusi insieme per il franamento delle sponde contigue.
Nell'antichità, il lago, insieme col bosco, che si estendeva verso S-O fino alla via Appia, faceva parte della città latina di Aricia ed era perciò chiamato Nemus Aricinum o Nemus Dianae, da cui deriva il nome moderno di Nemi. Vi esisteva un celebre santuario dedicato alla dea della caccia, della luce lunare e della vita che rinasce al quale affluivano tutte le popolazioni del Lazio. Il suo culto era regolato da un rito assai singolare che si ricollegava ai sacrifici umani che si celebravano nelle feste di Artemide a Sparta, in tempi antichissimi. Il sacerdote della Dea (rex nemorensis) era uno schiavo fuggitivo, il quale otteneva il sacerdozio uccidendo il sacerdote precedente in un combattimento a corpo a corpo, e doveva a suo tempo esser sostituito nello stesso modo.
Le rovine del tempio si vedono ancora nella località detta il Giardino, una larga spianata tagliata a mezza costa dal versante orientale; era costituito da un recinto sostenuto da muraglioni con varî sacelli ed un'ara nel centro.
Alcuni scavi, eseguiti nel 1892 da Lord Savile, hanno fornito numerose sculture, vasi e suppellettile votiva di bronzo. Di bronzo dorato sono anche alcuni frammenti di lastre decorative architettoniche dello stesso tipo di quelle che solitamente si trovano in terracotta (Roma, Museo di Villa Giulia). Vi era anche un piccolo teatro, che fu scavato nel 1924-29.
Le navi di Nemi. - Il ricordo di grandi navi romane, un tempo galleggianti e poi sommerse nello antico speculum Dianae, fu conservato attraverso i secoli dalla tradizione popolare del luogo; la prima menzione dell'esistenza di navigli sommersi si ha con il Rinascimento.
Nel 1446-1447, per incarico del Cardinale P. Colonna, L. B. Alberti per primo tentò di sollevare la nave più prossima alla cosiddetta Casa del Pescatore, ma il suo tentativo produsse soltanto danni alle strutture lignee. Nel 1535 l'ingegnere militare bolognese F. De Marchi poté toccare la stessa nave e prenderne misure dirette, e anche asportarne materiale, essendosi calato sotto l'acqua con un primitivo scafandro. Un terzo esperimento di esplorazione e di ricupero venne tentato, nel 1827, dal cavaliere romano A. Fusconti, ma l'inclemenza della stagione inoltrata rese nulli gli sforzi. Nel 1895 un antiquario romano, E. Borghi, stipulò un contratto con la casa Orsini, proprietaria allora del lago, e operò per mezzo di palombari una serie d'intense ricerche che fruttò bronzi antichi, tarsie marmoree, paste vitree, oggetti metallici, oltre a numerosi travi di legno e materiali laterizi abbondanti sulla riva.
Nel 1926, una commissione presieduta da C. Ricci, esaminò a fondo la questione compilando un progetto che contemplava l'eventuale escavazione di un nuovo emissario dal lago nemorense a quello albano, più basso, progetto non attuato poi.
Nel 1927, l'ing. G. Ucelli studiò un nuovo progetto per abbassare il livello del lago a mezzo di elettropompe, e congiuntamente a due gruppi industriali offrì il macchinario e sostenne le spese occorrenti allo scoprimento delle navi.
L'esplorazione archeologica della prima nave, giacente alla profondità di 5-12 m con la prua in basso e volta al centro del lago, poté iniziarsi nel maggio 1929 e fu compiuta nel settembre dello stesso anno.
Abbassato il livello a circa 21 m tra il giugno e l'agosto 1931 si potè esplorare e liberare anche la seconda nave. Anche questa seconda nave fu, a cura della Marina, tirata a secco, per circa 200 m di percorso in prossimità della prima. La parte rimasta delle navi era rappresentata quasi per intero dall'"opera viva", costituita da un robusto fasciame esterno di tavole di pino nostrano congiunte con biette e cavicchi lignei, il quale fasciame poggiava su cinque linee di chiglia, ed era rivestito all'esterno di lana catramata, protetta a sua volta da lamiere di piombo. All'interno la spessa costolatura su cui si distendeva inchiodato il tavolato di fondo della stiva, i paramezzali, i puntelli, i bagli superstiti, ecc., completavano la documentazione della perfettissima scienza costruttiva navale dei Romani.
Le due navi a chiglia piatta, secondo il tipo usato per quelle destinate a fondali melmosi, laghi, fiumi, paludi, presentavano lievi differenze nelle dimensioni e nel sistema compositivo dei bagli e, forse, del remeggio. La prima misurava nella parte superstite, che non rappresentava peraltro tutto intero l'antico sviluppo della grande chiglia, m 67 circa in lunghezza e 20 in larghezza massima; era fornita, come nei navigli "alla latina", di due timoni laterali impostati sui due lati poppieri uno dei quali fu recuperato intero, insieme ai resti delle travi che costruivano la struttura a cassa di sostegno, impostata fuori murata.
La seconda nave, più grande, misurava m 71 × 24 e aveva un doppio ordine di bagli sovrapposti immediatamente; i superiori uscivano fuori bordo per comporre una passerella o ballatoio, aggettante lungo i due lati, da giogo a giogo, con una sporgenza di circa m 2,50, misurata al massimo della lunghezza e destinata evidentemente ai rematori.
Un incavo del trave funzionante da giogo documentava la presenza dei due timoni laterali, scomparsi.
Nessuna traccia del ponte e di soprastrutture in questa seconda nave; ma nell'altra se ne raccolsero copiosi resti, crollati sul fango che riempiva la stiva. Evidentemente il ponte fu schiantato dall'enorme peso delle sovrastrutture, in gran parte in opera muraria, come documentano gli avanzi della pavimentazione (tegoloni bipedali su strati di cocciopesto e riquadri marmorei), dei pilastri in laterizio, dell'intonaco a mosaico di paste vitree che certo adornava le pareti lignee. Un tetto composto di tegole di rame dorato copriva gli ambienti delle soprastrutture, così singolari dal punto di vista nautico.
Gli oggetti recuperati compongono un insieme ragguardevole, sia sotto l'aspetto artistico, sia dal punto di vista tecnico-industriale. Tra i primi si annoverano: cinque cassette di bronzo con protomi ferme (analoghe a quelle ritrovate dal Borghi nel 1895), quattro delle quali rivestivano l'estremità dei travi aggettanti nel cassone del timone destro, la quinta il timone stesso; tre pilastri bronzei, integri, con erme bifronti di satiri e ninfe (v. bronzo), che assieme a pezzi di altri consimili, sono i resti della balaustrata di bordo; una cassetta bronzea con avambraccio umano in alto rilievo, analoga a quella trovata nel 1895, rivestimento del trave sorreggente il giogo del timone destro nella seconda nave; lastre fittili decorate a rilievo, ecc. Furono anche recuperati parecchi sportelli di legno da finestra e telai di porte. Tra gli oggetti di pregio tecnico-industriale si ricordano: un grande rubinetto a spina o chiave d'acqua, di bronzo, tornito in modo perfetto e molto ben conservato, l'avanzo di una piattaforma lignea girevole su rulli sferici di bronzo, due stantuffi per pompa in legno, due "norie", un "bozzello", o staffa per carrucola, e altro. Rinvenimento di particolare importanza fu quello di due ancore, trovate con le corde, a distanza dalle navi, presso la riva prospiciente i ruderi del tempio di Diana: l'una di ferro rivestita di legno, alta circa 4 m e col ceppo mobile (invenzione ritenuta finora del tutto moderna, essendo stata brevettata in Inghilterra nel 1851); l'altra di legno con punte di ferro e ceppo di piombo, alta m 5,50.
Quanto alla presumibile storia delle navi, il documento offerto dalle condutture plumbee per acqua, trovate nella prima nave e recanti impresso il nome di Caligola, può ritenersi probatorio.
Le particolari condizioni di giacimento dei materiali scavati, la frammentarietà e lacunosità di molti elementi e di altri dati desunti dall'esplorazione; rendono plausibile l'ipotesi che le navi fossero spogliate del loro meglio, prima di un voluto e definitivo abbandono, non molto tempo dopo la loro costruzione; finché, per ragioni assai naturali, si sprofondarono.
Quanto alla destinazione delle due navi di Nemi, gode maggior credito la supposizione che, a somiglianza dei talameghi ellenistici e dei principeschi galleggianti del Rinascimento, un puro scopo lusorio abbia spinto un imperatore come Caligola alla grandiosa costruzione per ornamento e diletto della sua villa. Secondo altri la natura del luogo, sacro, dominato dal veneratissimo tempio di Diana, e l'indole stessa di Caligola, maniaco religioso, egittizzante, avrebbero indotto quell' imperatore a costruire un santuario galleggiante in onore della Dea, per celebrarvi speciali cerimonie religiose.
Per custodire le due navi fu costruito nella riva del lago un apposito museo, che le accolse nel 1935 insieme con tutti gli oggetti in esse rinvenuti. Nella notte fra il 31 maggio e il 1° giugno 1944 esse furono interamente distrutte da un incendio provocato dai soldati di una batteria tedesca appostata nelle vicinanze del museo. Per fortuna si salvò tutta la suppellettile bronzea, che era stata precedentemente trasportata nel Museo della Terme, dove è tuttora conservata.
Così è stato annullato tutto il costoso e faticoso lavoro eseguito per il recupero delle due navi, cimelio rarissimo, anzi unico dell'arte e della tecnica navale dei Romani, finora malamente desumibile dalle fonti letterarie e dai rilievi antichi. Le osservazioni minuziose compiute dagli esperti navali, al tempo dello scavo e la descrizione accuratissima fattane dal G. Ucelli nella sua pubblicazione suppliscono per quanto è possibile alla perdita degli originali. In base a questi rilievi la Marina ha potuto ricostruire due modelli ad un quarto della grandezza naturale che sono esposti nel locale Museo Nemorense.
Bibl.: A. Nibby, Analisi storico topografico antiquaria dei dintorni di Roma, Roma 1849, vol. II, p. 390 ss.; G. Tomassetti, La campagna romana, Roma 1910, II, p. 263 ss.; Not. Scavi, 1895, p. 424 ss.; 1931, p. 237 ss.; L. Morpurgo, in Mon. lincei, XIII, 1903, c. 237 ss. Sul tipo della Diana Nemorensis: A. Alföldi, in Am. Journ. Arch., LXIV, 1960, p. 137 ss.; E. Paribeni, in Am. Journ. Arch., LXV, 1961, p. 55 s. Sulle navi la bibliografia completa fino al 1941 si trova in: L. Mariani, Le navi di Nemi nella bibliografia, Roma 1941, e comprende anche articoli di giornali e riviste, italiani e stranieri. Vanno particolarmente segnalate le opere seguenti: V. Malfatti, Le navi romane del l. di N., Roma 1905; Il ricupero delle navi di N. (relazione della Commissione ministeriale, con completa bibliografia fino al 1926 raccolta da C. Ricci), Roma 1927; per la storia dello scavo ultimo e per i risultati v.: U. Antonielli, La prima nave imper., ecc., Bergamo 1930; id., La seconda nave, ecc., in Bollett. Assoc. Intern. studi mediterr., II, 1931, n. 4; G. Ucelli, I lavori del lago di N., ecc., in Rivista ill. del Popolo d'Italia, dicembre 1928, n. 12; id., in Atti XI Congr. naz. Cavalieri del Lavoro Roma 1932; G. Cultrera, La prima fase dei lavori, ecc., in Not. Scavi, 1932, pp. 206-292. Per le ancore: G. C. Speziale, in the Mariner's Mirror, XVII, 1931, n. 4; per la destinazione delle navi: G. Lugli, in Pègaso, II, 1939, pp. 419-420 e pp. 744-750; G. C. Speziale, in Nuova Antologia, i° novembre 1930, pp. 87-100, e i° gennaio 1931, pp. 115-131; U. Antonielli, Polemica nemorense, in Rassegna Italiana, marzo 1931, pp. 202-220; G. Ucelli, Le navi di Nemi, Roma 1940 (con varî capitoli dovuti a: G. Moretti, G. Sangiorgi, G. Gatti, S. L. Cesano, L. Tursini); id., Le navi di Nemi, Roma 1950. Per le vicende dell'incendio: S. Aurigemma, in Illustrazione Italiana, 28 luglio 1946, pp. 58-59.