laksana
Nella retorica indiana, la capacità di significazione secondaria di un termine o di una frase. L’ascoltatore interpreta un passo applicando l. se la significazione primaria è in tutto o in parte preclusa e purché vi sia una relazione fra il significato primario e quello secondario. Infatti, il significato secondario non è ottenuto direttamente da un certo termine, bensì deriva dal suo significato primario. L’esempio più citato è gāṅgāyāṃ ghoṣaḥ, letteralmente «il villaggio sul Gange», in cui il locativo («sul Gange») non può essere inteso secondo la propria significazione primaria (giacché il villaggio non può essere posto direttamente sul fiume), bensì in senso secondario come ‘sulle rive del Gange’. Quanto al tipo di relazione fra significato primario e secondario, tutte le scuole filosofiche indiane concordano nel riconoscere due classi fondamentali, ossia relazioni di somiglianza e altre relazioni (di prossimità nel caso sovraindicato, di causa-effetto e così via). Gli studiosi indiani di retorica distinguono oltre a l. un ulteriore livello di significazione, propriamente poetico, detto vyañjanā. Secondo la corrente Bhāṭṭa della Mīmāṃsā e la sua teoria della significazione linguistica (detta abhihitānvayavāda) i singoli vocaboli denotano primariamente il proprio significato. Tali significati irrelati vanno poi collegati fra loro per ottenere il signi- ficato della frase. Per giustificare l’intuizione secondo cui apprendiamo il significato di una frase a partire dai vocaboli che la compongono, la Bhāṭṭamīmāṃsā sostiene che i vocaboli denotino tramite significazione primaria i propri singoli significati e questi comunichino, tramite l., il significato della frase. Tale tesi è avversata dalla rivale corrente Prābhākara, secondo cui l. può essere solo un’eccezione rispetto al normale processo di significazione e si può ricorrere a questa solo nel caso in cui la possibilità di significazione primaria sia preclusa. Tuttavia, un ricorso non eccezionale a l. è presupposto anche in altre tesi, quali l’idea, sostenuta da alcuni autori della scuola Mīmāṃsā, che ogni termine indichi primariamente un universale e solo tramite l. un particolare. L. è costitutiva anche nella teoria della significazione della scuola buddista Pramāṇavāda, secondo cui un vocabolo non può indicare direttamente un oggetto, giacché non è possibile stabilire una relazione fra un termine, relativamente stabile, e un oggetto, la cui esistenza è solo istantanea. Quindi, ogni vocabolo denota un’immagine mentale (vikalpa). Il linguaggio può ciò nonostante avere efficacia perché un termine può anche indicare secondariamente, tramite l. e grazie al processo di esclusione degli altri referenti (apoha, ➔ Dharmakīrti), un oggetto reale. L. è essenziale anche per le scuole filosofiche che postulano una realtà assoluta che non sia significabile dal linguaggio mondano (➔ loka). L’assoluto (variamente inteso come brahman o come Dio personale), non può essere denotato direttamente dalle parole. Vyañjanā, la significazione poetica, può darne un’idea, ma che non ha alcun legame certo con questo. Invece l. permette di allargare le possibilità del linguaggio senza che esso diventi troppo vago e quindi filosoficamente inutile.