DORIA, Lamba
Nato verso il 1250 a Genova da Pietro e da Mabilia Casiccia, era il minore di quattro fratelli (gli altri figli di Pietro furono Oberto, Nicolò e Iacopo).
Entrò in affari, quando il padre aveva ormai lasciato ad Oberto il compito di gestire la potente ditta familiare; scarsi, sono, però, i documenti che riguardano la sua attività privata almeno negli anni giovanili. Nel 1268 fu testimone a una vendita di panni, insieme con lo zio Ansaldo (1ºaprile) ed assistette, sempre nello stesso anno, alla stesura di un cambio monetario da pagare alla fiera di Provins (2 maggio). Nel 1271 risulta aver venduto una partita di allume (13 settembre). Salito al potere il fratello Oberto, eletto capitano del Popolo insieme con Oberto Spinola, il D., come rappresentante di numerosi mercanti, fu incaricato dai capitani del Popolo di recarsi con Enrico Squarciafico nel "Garbo", sulla costa settentrionale dell'Africa; qui egli doveva giungere a un accordo col signore di "Tremesen", per acquistare una enorme partita di grano (8.000 mine), da trasportare a Genova; ai mercanti genovesi il governo garantì il pagamento del nolo e un margine di profitto sulla vendita del carico (13 apr. 1272); si cercò, in tal modo, di superare le difficoltà alimentari che la città stava incontrando a causa del blocco impostole da Carlo d'Angiò, intenzionato a creare disordini e malumore contro il giovane governo della diarchia.
Il D. dovette continuare, poi, la sua attività privata di audace ed intraprendente mercante, percorrendo le strade che dalle colonie genovesi del Mediterraneo orientale e del Mar Nero penetravano verso l'interno dell'Asia. Nel giugno 1278 risulta ancora a Genova, perché, insieme col fratello Iacopo, ricevette, anche a nome degli eredi dell'altro fratello, Nicolò, morto in quegli anni, il ricavato dall'appalto delle ferriere, che la famiglia possedeva a Quiliano. Nel 1280 si spinse sino a Sivas, dove dichiarava di essere disposto a rimborsare il mercante Luchetto da Recco (che accusava il D. di non avergli versato 180 libre d'argento dovutegli) a Sivas o a Tabriz, capitale del regno persiano (15 maggio).
Ritornato a Genova, nel 1281, come tutore degli eredi di suo fratello Nicolò, diede in affitto due mulini ed un fullone posti nel territorio di Quiliano. Tre anni dopo, durante la fase più calda del conflitto tra Genova e Pisa, egli contribuì con una nave al convoglio di cinque galere armate. per trasportare argento ed altra merce nell'Impero bizantino; per difendere il convoglio, fu allestita una flotta di 11 galere e 2 galeoni, affidate all'ammiraglio Enrico De Mari, cui si aggiunsero altre 4 navi, armate dal Comune per la guerra di corsa.
Il convoglio salpò il 22 aprile e si diresse verso Piombino. Dopo aver catturato alcune barche pisane, l'ammiraglio fu informato che in Porto Pisano era stata allestita una flotta di 34 galere per scortare in Sardegna un contingente di cavalleria, guidato da Bonifazio (Fazio) Della Gherardesca, conte di Donoratico, figlio di Gherardo, consignore di Cagliari. Si decise, pertanto, di dare la caccia alla flotta nemica. Al largo della Tavolara fu presa una nave veneta, su cui si era imbarcato il conte (1º maggio); subito dopo, apparve al largo la flotta pisana che, ritenendosi superiore di numero, attaccò battaglia. Lo scontro violento si concluse a sera con la cattura di 8 galere pisane e l'affondamento di una; le altre navi si impegnarono a consegnarsi al mattino. Giunta la notte, esse si diedero alla fuga a forza di remi, inseguite dalla galera del D., che riuscì a raggiungerne una. La flotta genovese proseguì per Bonifacio e fece poi ritorno a Genova col bottino; le galere dei mercanti, comprese quella del D., ripresero la navigazione e si diressero su Agrigento, catturando due navi pisane, il cui equipaggio fu venduto a Siracusa. Finalmente il convoglio poté raggiungere senza ulteriori problemi Costantinopoli. Se il D. era imbarcato sulla nave di sua proprietà, è assai difficile che egli abbia potuto prendere parte alla battaglia della Meloria (6 agosto).
Nel 1286 egli fu chiamato a comandare un altro convoglio, formato da 5 galere e diretto sempre nell'Impero bizantino; giunto nei pressi dell'Eubea, catturò una saettia pisana, che venne incendiata. In questi anni il governo dei capitani del Popolo attraversò un periodo di grave crisi, non solo per la costante pressione esercitata dai fuorusciti guelfi, ma anche per le divergenze di interessi che stavano incrinando la coalizione tra il populus e le due famiglie (Doria e Spinola) al potere. Forse fu per rafforzare la presenza della sua famiglia nel governo (dopo il ritiro di Oberto dalla carica di capitano) che il D. abbandonò i traffici commerciali e si dedicò all'attività pubblica. A sostituire il padre nella gestione degli affari furono Alberto e Tedisio, impegnati a fondo nell'area del Mediterraneo orientale, gravitante su Pera e su Caffa, aperta al commercio genovese nell'ultimo quarto del secolo.
Nel 1288 il D. fu inviato come podestà a Ventimiglia, roccaforte ghibellina di fronte alle nemiche Mentone e Monaco. L'anno seguente, come vicario e procuratore dei capitani del Popolo, ottenne dal castellano di Roccabruna la consegna del castello, cui si era impegnato Carlo II d'Angiò; nel luglio egli venne risarcito per le spese sostenute durante la sua attività nella Riviera di Ponente. Nel 1290 divenne podestà di Albenga; in tal veste fu incaricato da questa Comunità di arrivare ad un accordo con Manuele, marchese di Glavesana; fu chiesto, pertanto, l'arbitrato di Guglielmo da Ceranesi, abate del popolo di Genova, che impose una tregua, ordinando la distruzione delle fortezze costruite dal marchese e proibendo al Comune di costruime altre (26 giugno). L'anno seguente Tedisio, figlio del D., finanziò la spedizione dei fratelli Vivaldi, intenzionati probabilmente a circunmavigare l'Africa, per giungere alle Indie. Nel 1296 il D. fu eletto podestà di Asti ed ebbe modo di soccorrere il governo genovese con un contingente di cavalleria, bloccando il tentativo di colpo di mano preparato dai fuorusciti guelfi. La pressione degli "extrinseci", tuttavia, non diminuì, anche perché erano ormai nette le divergenze che contrapponevano i Doria agli Spinola (divisi anche al loro interno da rivalità personali) e si stava esaurendo il consenso concesso dal populus alla diarchia. Nel 1297, dalla suprema carica di governo si dimise Corrado, nipote del D., per accettare l'offerta di diventare ammiraglio del Regno di Sicilia. In tal modo si poneva fine alla neutralità gelosa che Genova aveva osservato nello scontro tra Angioini ed Aragonesi, sancendo l'inizio di un lungo periodo di violente lotte intestine.
Al posto di Corrado fu scelto il D., per affiancare Corrado Spinola come capitano del Popolo (ottobre 1297). L'anno seguente, per appoggiare Giacomo d'Aragona in lotta col fratello Federico, fu allestita una flotta affidata al D.; tuttavia, il vero obiettivo era quello di infliggere un duro colpo a Venezia, orinai diventata nemica implacabile sui mercati del Mediterraneo orientale. Ancora una volta interessi generali ed interessi personali coincidevano nella scelta dell'ammiraglio; infatti, il D. dovette guardare con preoccupazione alla minaccia veneta, pericolosa per i fruttuosi traffici, che i figli Alberto e Tedisio stavano gestendo nell'Impero bizantino e nella "Gazaria" (come venivano chiamate le colonie genovesi nel Mar Nero).
La flotta (il cui numero di navi varia, a seconda dei cronisti, da 66 a 85) si riunì a Portovenere, prendendo il largo nell'estate avanzata. Dopo aver fatto scalo a Messina per rifornimenti, si diresse verso l'Adriatico, navigando al largo delle coste pugliesi. La traversata verso la Dalmazia fu, però, sfortunata, perché una tempesta disperse la flotta; Solo 20 navi seguirono il D., che si rifugiò nel porto di Antivari. Riunitasi la maggior parte delle galere, il D. decise di procedere al saccheggio delle coste dalmate, occupando Curzola. Qui si arrestò, o perché soddisfatto delle operazioni fino ad allora concluse, o per attendervi la flotta nemica. Il 6 settembre apparve la flotta veneziana, guidata da Andrea Dandolo, forte di un centinaìo di galere ed intenzionata a far valere la sua superiorità numerica. Il mattino del 7 settembre la battaglia cominciò col lancio di proiettili; la flotta veneta attaccò l'ala destra genovese, per annientare la metà dello schieramento avversario; il primo assalto ebbe successo, perché dieci galere genovesi furono gravemente danneggiate. Tuttavia l'ala sinistra non si lasciò prendere dal panico e, con un'abile manovra avvolgente, riuscì a circondare le navi nemiche. Queste, impedite dallo spazio ristretto e dal mare mosso, non riuscirono a sfuggire all'accerchiamento; la difesa disperata dei Veneziani durò sino a mezzogiorno, quando, caduta la bandiera dell'ammiraglia, cominciò a diffondersi la paura della sconfitta. Enorme fu il danno subito dalla flotta veneta: l'ammiraglio Dandolo fu fatto prigioniero e si uccise, pochissime navi riuscirono a salvarsi, mentre le altre furono catturate o affondate; assai elevato fu il numero delle vittime (anche se le cifre variano da cronista a cronista).
Secondo una tradizione leggendaria, nello scontro avrebbe perso la vita un figlio del D., che egli avrebbe ordinato di gettare in mare, per non intralciare le operazioni navali. L'episodio (ignorato dalla cronachistica genovese contemporanea agli avvenimenti) fu probabilmente creato (o accolto) dal Petrarca che, per consolare un amico della perdita del figlio, accenna a vari esempi di stoicismo paterno, tra cui quello del D. (Fam. II, 2); fu poi il Federici, nel secolo XVII, a riprendere la notizia, accettata come vera ed entrata a far parte della leggenda doriana.
La vittoria di Curzola fu pagata a caro prezzo anche dalla flotta genovese; fu forse questo il motivo (o forse anche il timore di un colpo di mano guelfò su Genova, rimasta sguarnita) a spingere il D. a tornare indietro, benché egli avesse la possibilità di portare l'attacco nel cuore dello Stato veneziano. In tal modo vennero vanificati i risultati conseguiti con la vittoria. Bruciate le galere catturate, il D. iniziò la navigazione di ritorno, giungendo a Genova il 6 ottobre. La Repubblica, riconoscente, gli donò il palazzo sulla piazza di S. Matteo. Durante il periodo in cui egli fu capitano del Popolo, vennero intavolate trattative di pace con Venezia, auspice Matteo Visconti, giungendo ad un accordo sottoscritto il 25 maggio 1299; in questo stesso anno, il 21 luglio, si arrivò ad una tregua per 25 anni con Pisa, estesa anche al giudice di Arborea Giovanni, visconte di Bas. Nel frattempo, l'abile lavorio politico di Bonifacio VIII per portare la città nell'area di influenza guelfa, cominciò a dare i suoi frutti, creando dissensi sempre più profondi tra le famiglie Doria e Spinola al potere. La conseguenza fu il licenziamento dei capitani del Popolo, sostituiti da un podestà non genovese (28 ott. 1299). Ciò non impedì, tuttavia, che al D. fosse affidato il comando di una flotta, non sappiamo con quale obiettivo. Nello stesso anno, egli trattò l'acquisto di Cervo Ligure dai cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme (22 ottobre).
Durante le sanguinose lotte che lacerarono le famiglie ghibelline e che videro emergere il ramo doriano di Brancaleone e del figlio Bernabò, il D. dovette guidare quella parte della consorteria che era stata irrimediabilmente sconfitta dall'alleanza tra glì Spinola di Luccoli e i Doria "sardi". Saliti al potere Opizzino Spinola e Bernabò Doria (7 genn. 1306), egli fu costretto a lasciare Genova, ritornandovi, però, già a metà marzo e partecipando alle sedute dei Consigli della Repubblica. Tuttavia l'atmosfera in città rimase torbida, per cui, nel settembre, il D. ed altri membri della famiglia furono costretti di nuovo ad allontanarsi, trovando rifugio a Sanremo. L'anno seguente Bernabò Doria poté marciare sulla Riviera di Ponente contro i fuorusciti, che vennero costretti a trattare; alla fine di dicembre, con il D. in prima tila, essi prestarono in città il giuramento di fedeltà al nuovo governo. Frattanto esplose il contrasto tra Opizzino Spinola e Bernabò Doria, che nel novembre del 1308 fu deposto con la forza dal collega; mentre molti membri della famiglia furono di nuovo costretti a lasciare Genova, il D. poté rimanervi indisturbato. Quando la città si consegnò all'imperatore Enrico VII (21 ott. 1311), egli ebbe l'incarico di allestire una flotta, forse per un attacco contro Roberto d'Angiò, ma la campagna navale non dovette essere effettuata. Nel 1315, alleatisi i Doria ed i Grimaldi contro gli Spinola, l'esercito comandato da Manfredino Del Carretto, in cui si trovavano anche il D. e i suoi figli, attaccò Busalla, roccaforte nemica. Il castello fu preso dopo una furiosa battaglia, ma la reazione degli Spinola, che avevano assoldato truppe tedesche, capovolse la situazione. Il D. fu catturato con i suoi figli e tenuto in ostaggio dai mercenari, che pretesero un forte riscatto a titolo di risarcimento per le paghe non ancora corrisposte.
Caduta Genova in mano guelfa nel 1317, il D. fu costretto ad abbandonare la città, finendo la sua vita in esilio. Infatti, morì a Savona il 17 ott. 1321 ma fu sepolto a Genova; secondo la sua volontà, il corpo venne collocato in un sarcofago (proveniente, forse, dal bottino di Curzola) posto sulla facciata esterna della chiesa di S. Matteo. Da Argentina Spinola ebbe Tedisio, Alberto (che sposò Isotta, figlia di Guglielmo da Camilla), Zenoardo, Lamba, Cesare, Leonardo e Maria (che sposò Porchetto di Guglielmo Salvago).
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