FRESCOBALDI, Lambertuccio
Nacque intorno al 1250 a Firenze da una figlia di Lamberto Belfradelli - il cui nome non è noto - e da Ugolino (Ghino), esponente dell'arte di Calimala. Fu il maggiore di tre figli; il secondo, Giovanni detto Chiocciola, si dedicò come lui a proseguire l'attività bancaria e commerciale del padre; il terzo, Tommaso, percorse la carriera ecclesiastica. Nel maggio 1271 il F. sposò Adimaringa (Minga) di Orlandino (Dino) di Spinello Ruffoli e dall'unione nacquero quattro figli: Lippaccio, Taddeo, Dino, che sarebbe diventato uno dei maggiori poeti dello stil novo, e Giovanni, anch'egli poeta. Il F. ebbe anche un figlio illegittimo, Benincasa detto Casino, che venne adottato da un tal Filippo Fagiolambi. Dal matrimonio ricavò la ricca dote di 800 fiorini, cui la famiglia di Minga aggiunse un'integrazione di 4.067 lire nel 1282.
Se nulla si sa di preciso sulla sua formazione culturale, è certo che essa dovette seguire il canone giuridico-letterario delle classi alte, degno del rappresentante di una famiglia magnatizia quale quella dei Frescobaldi. Ascritti al suo nome ci sono stati tramandati sei sonetti di una tenzone a più voci - promossa da Monte Andrea a seguito della minaccia recata a Carlo d'Angiò dall'eventualità di una discesa in Italia di Rodolfo d'Asburgo - un ridotto corpus poetico datato, solo approssimativamente, intorno al 1280 (Debenedetti, p. 44).
Monte, poeta colto e oscuro di ascendenza guittoniana, propose la sua apologia di Carlo d'Angiò in un sonetto a doppia rima equivoca, sfidando gli interlocutori sul campo del virtuosismo tecnico-formale. Molti raccolsero l'invito per denigrare l'angioino e difendere il tedesco (tra questi il F. che scrisse il sonetto "Vostro adimando, secondo c'apare", a rima univoca) o per appoggiare Monte (Federigo Gualterotti). La tenzone proseguì poi soltanto tra Monte e il F., che dimostrò così di aver appreso l'ardua lezione di Guittone d'Arezzo e di poter tenere testa all'avversario. Se nei primi sonetti l'area della sfida rimase contenuta alla rima equivoca proposta da Monte, il F., nel quinto sonetto da lui scritto, "Poi che volgete - e rivolgete - faccia", alzò la posta proponendo di complicare la tessitura con l'uso della rima interna. Monte fu costretto ad adeguarsi e il F. rilanciò ancora, scrivendo "Com' fort'è - forte - e traforte l'ora", sonetto rinterzato, caudato, equivocato, con tre rime interne per ogni endecasillabo e due per ogni settenario. I contenuti politici - espressi con tanta oscurità da aver causato problemi di datazione - non andarono oltre la polemica dichiarazione di superiorità ora di Carlo, ora dell'imperatore tedesco, e le reciproche accuse dei poeti di inconsistenza e di follia. Non è mancato perciò chi ha lamentato la vacuità e la freddezza dell'operazione (Cian; Bertoni); sono comunque notevoli la scelta stessa della materia politica e lo sperimentalismo espressivo, che fanno della tenzone un capitolo interessante della poesia predantesca. Del F., oltre questa prova, non si posseggono altri componimenti.
Il 9 febbr. 1280 il F. è citato come mallevadore per i guelfi del sesto d'Oltrarno in un atto complementare della pace del cardinale Latino. Tra il 1280 e il 1282 aiutò Corso Donati in una controversia con le suore domenicane di S. Jacopo in Ripoli. Negli anni immediatamente seguenti fu più volte registrato nelle consulte della Repubblica fiorentina: parlò nel Consiglio del capitano (11 febbr. 1282), prese parte al Consiglio generale per il sesto d'Oltrarno (1284) e al Consiglio dei cento (1285), e prese la parola in varie consulte. La sua figura divenne abbastanza nota, tanto da essere presa a bersaglio dal ghibellino Rustico di Filippo nel sonetto "Messer Bertuccio, a dritto uom vi cagiona"; senza fondamento è invece l'identificazione del F. con il Lambertuccio della novella boccacciana (Decameron, VII, 6).
Dal 1284 si ha notizia di un ingresso autonomo del F. nel mondo bancario e commerciale con una compagnia che porta il suo nome e contava già otto soci (tra i quali Caruccio del Verre, sostenitore nel 1293 di Giano della Bella). La compagnia, il cui contrassegno era costituito da una ruota a quattro raggi tenuta da due angeli, fu spesso impegnata in operazioni finanziarie (fra le quali nel 1291 il trasferimento delle decime e delle vigesime per la Terrasanta raccolte in Germania) per conto della Camera apostolica, in particolare nel corso dei pontificati di Martino IV, Onorio IV e Niccolò IV; i rapporti con la S. Sede si andarono però diradando dopo il 1294, con l'elezione di Bonifacio VIII. Ereditando dal padre il credito presso la corte angioina, il F. cominciò dal 1289 - forse anche prima - a prestare denaro a Carlo II d'Angiò lo Zoppo presso la propria filiale di Nîmes. Sempre per lo stesso anno, è attestata la presenza di un fondaco della compagnia nella ghibellina Verona: la politica d'affari del F., al pari, del resto, di quella di molte compagnie fiorentine, era indifferente al colore politico della clientela e della committenza. Tant'è che quando Filippo IV il Bello fece arrestare tutti i mercanti italiani in Francia, Niccolò IV chiese, in due lettere datate 28 maggio e 3 ott. 1291, che fra i molti da liberare fossero anche i dipendenti delle società del F., "nostri camere… precipui mercatores".
Nel 1291 la città di Padova offrì al F. la carica di podestà. La scelta cadde su di lui probabilmente in considerazione del suo status socioprofessionale e della sua preparazione culturale; ma non le furono estranei gli interessi economici gravitanti in area veneta che coinvolgevano la compagnia del Frescobaldi. Il 21 luglio 1291 il F. si recò a Padova per la cerimonia di consegna dell'ufficio di podestà. Durante la sua podesteria, nella città di Vicenza, assoggettata al controllo dei Padovani, avvenne una sollevazione di ghibellini, presto repressa nel sangue dal podestà Bartolomeo de Zachi, padovano. Il F. andò allora a Vicenza per ristabilire il controllo della città, ma il primo gruppo di otto consiglieri vicentini, da lui nominato perché stilasse l'elenco dei responsabili della sommossa da esiliare, rimise presto il mandato a causa di contrasti interni. A esso il F. affiancò allora un secondo gruppo di dodici vicentini e, per evitare il problema postosi al primo gruppo - cioè che gli esiliati potessero essere vittime dell'inimicizia personale di uno dei consiglieri -, stabilì un minimo di quattro voti concordi su venti per ogni imputato. Nello stesso anno si adoperò con successo insieme con il capitano generale di Treviso Gherardo da Camino (ricordato da Dante in Purg., XVI, 124 ss.) per il ristabilimento della pace tra Venezia e il patriarca di Aquileia, Raimondo Della Torre.
L'accorta attività istituzionale del F. nel Nord Italia contribuì di certo al consolidamento dei suoi affari in quella zona, ai quali suo fratello Giovanni Chiocciola partecipò come socio dopo il fallito tentativo di costituire una società in proprio. Mainardo, duca di Carinzia e conte del Tirolo, investì capitali nella compagnia del F. nel 1292 e nei due anni successivi si assistette al moltiplicarsi dell'impegno del F. nell'Italia settentrionale dove i suoi rappresentanti furono Pietro e Corso Donati. Al fondaco già aperto a Verona si aggiunsero le filiali bancarie di Venezia e di Treviso, la fattoria di Belluno e il fondaco di Padova. Con l'Inghilterra, dove suo padre Ghino riuscì a concludere affari con la Corona (prestiti e commercio della lana), il F. ebbe invece limitati rapporti: si ricorda solo, nel 1290, la sua partecipazione a un consorzio di compagnie toscane che assicurava prestiti a Edoardo I. Molto maggiori ne ebbe la società che suo fratello Giovanni Chiocciola costituì mentre si scioglieva quella del padre (1292) e che ben presto fu rilevata dal cugino Berto Frescobaldi. Oltremanica il ramo del F. fu conosciuto come "Friskobald neir" e quello di Berto "Friskobald blaunk", colori che non corrispondono a quelli delle fazioni guelfe ma sono comunque spia di una divisione, sfociata poi, come vedremo, in aperto e violento contrasto.
Tornato a Firenze dopo la conclusione del suo ufficio di podestà, il F. riprese la sua partecipazione alla vita pubblica. Il 4 marzo 1293 prese parte a un consiglio di militari e di magnati in casa dei Cerchi, svoltosi alla presenza delle autorità cittadine, in cui si discusse la pace tra il Comune di Pisa, i fuorusciti e gli altri Comuni toscani. In uno dei tanti consigli che si succedettero il F. propose di costituire un comitato di saggi, in cui fossero inclusi uomini di lettere, per provvedere alla pace, stipulata poi a Fucecchio il 12 luglio 1293. L'attività pubblica del F. non procedette oltre, probabilmente a causa degli ordinamenti di giustizia, che preclusero ai magnati l'accesso alle cariche civili. Le origini popolane dei Frescobaldi erano ormai dimenticate, anche grazie ai successi finanziari di Ghino, e, benché il F. non avesse quasi interessi a Firenze, la sua compagnia nel 1295 dovette versare ben 12.000 fiorini, al pari delle maggiori famiglie fiorentine.
Gli affari del F. prosperavano nel frattempo in area settentrionale. Dopo l'investimento del duca Mainardo nel 1292, i rapporti tra la compagnia del F. e la corte del Tirolo proseguirono, non solo nel campo bancario ma anche in quello commerciale. Il 1° nov. 1295 Mainardo morì, ma i suoi figli continuarono a trattare con il F., concedendogli l'apertura di una filiale a Gries e il permesso di commercio in tutta la regione, cambio e vendita di oro e argento compresi. Nello stesso anno la compagnia del F. vendette al successore di Mainardo, Ludovico, alcune corazze di fabbricazione fiorentina. Dall'anno seguente fino al 1302 fu la principale fornitrice dei duchi di Carinzia di cavalli di razza e prestò loro talvolta anche i soldi per l'acquisto. Mediante il rappresentante di Gries fornì, inoltre, dal 1298, gioielli, pietre preziose e altre merci pregiate ai conti del Tirolo. Nel 1299 la compagnia ottenne infine dal duca Ottone l'appalto della Zecca per due anni.
Anche i rapporti con la corte napoletana furono fruttuosi. Nel 1295 l'agenzia del F. concesse a Carlo II d'Angiò un prestito di 1.000 once d'oro; l'anno successivo, a coronamento di alcuni affari bancari, la compagnia, che aveva in Napoli un hospitalium per alloggiare i propri impiegati e rappresentanti, si aggiudicò anche l'appalto della Zecca. Nello stesso periodo ebbe l'incarico dal pontefice di esigere 10.000 marchi di decime in Inghilterra.
Dopo il 1295 l'attività finanziaria si diradò fortemente, restando florida solo nel Tirolo. La politica antimagnatizia di Giano della Bella ebbe nella recessione subita dal F. un'importanza relativa; maggior peso nel tracollo finanziario ebbe un ingente prestito concesso a suo tempo dal F. a suo cugino Berto e mai risarcito. Il 1° maggio 1297 la sua compagnia fece un prestito, per incarico del papa, a Lupold di Grunlach, vescovo di Bamberga, ma già dal 1294 il F. aveva cominciato a vendere i propri terreni per necessità di denaro liquido. Alla vendita dei terreni, frazionata in tre fasi nel biennio 1294-95, si aggiunse quella di un casolare (poi abbattuto nel 1299) posseduto in comproprietà con un Adimari e col poeta Guido Cavalcanti. Il 31 ott. 1299 il F. contrasse un debito di 110 fiorini d'oro e le sue difficoltà economiche aumentarono negli anni seguenti: nel 1300 si indebitò per 100 fiorini e nel 1302 per 150 (sempre con restituzione a sei mesi). All'alba del nuovo secolo soltanto dal Tirolo provengono notizie dell'attività della sua compagnia. Le forniture di cavalli di razza continuarono infatti fino al 1302 e nello stesso anno Ottone, figlio ed erede del conte Mainardo, fece un versamento di 2.290 fiorini nella banca, per il quale il F. e suo fratello rilasciarono ricevuta a Firenze l'11 genn. 1302: è questo l'ultimo atto di natura commerciale dove egli compaia. Nel 1307 vennero restituiti a Carlo II d'Angiò alcuni gioielli della Corona dati in pegno per un prestito concesso da un consorzio di compagnie, tra le quali quella del F., ma non era che la conclusione di un affare stipulato molti anni prima.
Nel 1304 il cardinale Niccolò da Prato, giunto a Firenze per promuovere la pace tra guelfi bianchi e neri, si adoperò anche a pacificare la famiglia dei Frescobaldi, spaccatasi in bianchi e neri a causa del prestito di circa 100.000 fiorini a suo tempo concesso dal F. e dai suoi soci a Berto di Ranieri Frescobaldi e ai suoi familiari e mai restituito, controversia che avevano tentato già di dirimere i Consoli dell'arte di Calimala, ma senza successo. Dietro loro invito, Niccolò da Prato decretò la sospensione della causa a tempo indeterminato: in sua presenza, il 6 maggio 1304, Berto, Paniccia e Stoldo Frescobaldi da un lato e il F. dall'altro stipularono una pace che fu tutta a favore della fazione nera della famiglia. Il F. infatti non poté riavere indietro il suo denaro e ciò segnò il tracollo completo della sua compagnia.
Ovviamente la pace familiare fu fittizia e all'attivo appoggio fornito da Berto alla fazione nera, il F. continuò a opporre la propria simpatia per i bianchi, che erano stati sconfitti ed esiliati da Firenze nel 1302. Questa simpatia lo spinse ad appoggiare il tentativo dei bianchi, guidati da Baschieri Della Tosa, di rientrare in città con un'azione militare (20 luglio 1304). Il momento era propizio per l'assenza dei capi di parte nera, chiamati a giudizio da Benedetto XI presso il suo tribunale a Perugia, con l'accusa di aver provocato, il 10 giugno, l'incendio delle case dei Cavalcanti, estesosi poi a tutto il centro di Firenze. Il F., insieme con le famiglie dei Pazzi e dei Magalotti, aveva assicurato agli esuli il necessario appoggio all'interno della città. Forse l'eco del piano giunse alla fazione dei neri che tenevano saldamente il potere, e i congiurati ebbero paura delle conseguenze, forse l'anticipazione dell'impresa dalla notte del 20 luglio al giorno medesimo inibì un aiuto, concesso loro solo a condizione di restare anonimo: certo è che all'ingresso dei bianchi armati a Firenze, il F. e gli altri sostenitori non solo negarono l'aiuto promesso ma, a detta del Compagni, "feciono loro contro, per mostrarsi non colpevoli; e più si sforzavano offenderli che gli altri".
Nella seconda metà del mese seguente il F. moriva, lasciando una compagnia ridotta sul lastrico e un credito sospeso che solo gli eredi, ormai ridotti in miseria, poterono recuperare dai ricchissimi eredi di Berto, e in misura tanto piccola da non costituire neanche la millesima parte della somma contesa.
Opere: i sonetti del F. sono conservati nei manoscritti della Bibl. apost. Vaticana, Vat. lat. 3793 (secc. XIII ex.-XIV in.), cc. 167v-168v e Vat. lat. 4823 (descriptus del precedente), cc. 419r-421v.
Edizioni: Le antiche rime volgari, secondo la lezione del codice Vaticano 3793, a cura di A. D'Ancona - D. Comparetti, III, Bologna 1886, pp. 186-202 (cenni biografici, imprecisi, alle pp. 481 s.); E. Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli, a cura di F. Arese, Roma-Napoli-Città di Castello 1955, pp. 309-315; Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, a cura di A.F. Massera, Bari 1920, I, pp. 46-56; II, pp. 79 s. nn., 122 n., 124 s. n.; la lezione più attendibile è offerta nel volume di Monte Andrea da Fiorenza, Le Rime, a cura di F.F. Minetti, Firenze 1979, pp. 251-264.
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