LAMPADA e LAMPADARIO
Il termine l. indica tutti i manufatti - a uno o più lumi - destinati alla diffusione di luce artificiale; il loro raggruppamento costituisce il lampadario.Per il Medioevo un'analisi morfologica e funzionale è possibile solo per le l. - a olio e a cera - destinate all'illuminazione degli edifici ecclesiastici e pubblici, mentre incerti sono i dati relativi all'illuminazione degli spazi domestici, per la quale si è ipotizzato un graduale passaggio all'uso di ceri, conclusosi, almeno in area bizantina, intorno al sec. 7° (Buras, 1991).Nell'ambito della decorazione dell'edificio cristiano, in Occidente come in Oriente, l'illuminazione ha sempre svolto un ruolo preminente, sia per l'immediata necessità pratica sia per l'evidente legame con i valori simbolici della luce (Galavaris, 1978). La novella 67 di Giustiniano, del 538, che raccomanda di creare apposite rendite per il mantenimento dell'illuminazione nelle chiese, oggetto peraltro di numerose offerte votive, testimonia l'importanza raggiunta da questi manufatti già nel primo Medioevo (Buras, 1991). Se particolare rilievo liturgico era attribuito all'altare e al suo arredo, che richiedeva, fin dall'età paleocristiana, una specifica illuminazione attraverso l'uso di candelieri e candelabri, molto diversificata era l'attrezzatura che diffondeva la luce nell'intero spazio della sinassi e negli ambienti annessi. Le fonti, però, pur descrivendone l'uso in relazione sia al culto funerario - in particolare dei martiri - sia a quello liturgico, spesso non permettono, a causa del ricorso dei medesimi termini, di chiarire le differenze morfologiche fra le principali tipologie di l. e lampadari.Maggiori notizie circa gli apparecchi per illuminazione utilizzati in Occidente prima del Mille sono desumibili dall'analisi comparata delle testimonianze relative all'ambito romano in età paleocristiana e altomedievale. Il Lib. Pont. contiene infatti, fra le notizie circa la costruzione e il decoro degli edifici ecclesiastici, numerose liste di arredi che rivelano per l'illuminazione degli interni delle basiliche il ricorso a tre diverse categorie di manufatti, ovvero, in ordine di importanza, le coronae, i canthara cereostata e i phara canthara. Le coronae, dette anche coronae pharales, indicano lampadari bronzei, d'argento e raramente d'oro, in forma di corona cilindrica, collocati, pendenti o applicati, in posizione elevata e alimentati soprattutto a olio. I canthara cereostata, detti anche cereostata, definiscono l. per ceri, talvolta d'argento, ma più spesso d'ottone e di bronzo, pure pendenti. I phara canthara, o semplicemente phara, indicano invece l. raggruppate - a olio o a cera, quasi sempre di bronzo, raramente d'argento o d'ottone - anch'esse pendenti ma di fattura più semplice rispetto alle precedenti. A queste categorie potrebbero appartenere anche le gabathae, raggruppamento di l. per ceri o a olio, in forma di piatto o coppa, che nonostante le dimensioni inferiori, raggiungono spesso una considerevole elaborazione artistica.Dallo studio delle liste dei donativi del Lib. Pont. emerge che le coronae e i cereostata erano posti in gremio basilicae, le prime adibite all'illuminazione della zona dell'altare, della confessione e del presbiterio, i secondi a quella della navata centrale, mentre i phara canthara erano sempre destinati alle navi laterali. Accanto a essi deve essere segnalata la menzione di due categorie di lumi speciali, solitamente oggetti pesanti e di metallo prezioso. Alla prima appartengono la "corona quae est pharus cantharus" (Lib. Pont., I, pp. 176,182), destinata alle basiliche e posta probabilmente in corrispondenza dell'altare, e i candelabra, inizialmente disposti in terra in corrispondenza dell'altare e in seguito, entrati a far parte della suppellettile liturgica, poggiati su di esso. Alla seconda categoria, relativa a l. destinate a luoghi con funzioni particolari come battisteri, cripte e oratori, appartiene la lucerna aurea - a dieci o dodici fiamme - citata a Roma per la cripta di S. Lorenzo f.l.m., per il battistero presso S. Agnese e per quello Lateranense. Questi dati coincidono con le fonti disponibili per altri complessi di culto, come le basiliche di Ostia, Capua e Napoli (Geertman, 1988). Coronae auree e argentee, pur se riferibili a diversi tipi di lampadario, sono menzionate nel sec. 9° relativamente agli edifici ravennati, all'abbazia di Centula/Saint-Riquier e agli interventi di Bernoardo a Hildesheim (sec. 11°), di Desiderio a Montecassino (sec. 11°) e di Suger a Saint-Denis (sec. 12°), mentre ampie citazioni ne testimoniano l'utilizzo anche a Frisinga, Magonza, Colonia, Praga, Santiago de Compostela e Canterbury sino a tutto il 13° secolo. Più rare sono le menzioni della gabatha e del cereostatum, l. attestate prevalentemente in ambito romano e ravennate, mentre il cantharus e il pharus sono ricordati anche a Montecassino e Nola (Schlosser, 18962; Lehmann-Brockhaus, 1938; 1955-1960).In area bizantina, l'ékphrasis di Paolo Silenziario, composta in occasione della seconda consacrazione della Santa Sofia di Costantinopoli (562), fornisce dettagliate notizie circa il progetto di illuminazione artificiale dell'edificio. Nella navata esso consisteva di due corone concentriche di polykándela circolari e cruciformi, dei quali i più esterni pendenti dalla cornice d'imposta della cupola, quest'ultima illuminata internamente da un cerchio di l. fissate alla sua base. Nelle navatelle pendevano, in corrispondenza di ogni colonna, l. singole poste sopra un vassoio simile a un piatto di bilancia e altre d'argento, in forma di nave; in prossimità del santuario, sul ciborio e sulla trabeazione della recinzione presbiteriale, erano sistemati candelabri di diversa foggia (Friedländer, 1912, pp. 250-252, 291-293; Mango, 1972, pp. 89-91). L'anonima Narratio de aedificatione templi Sanctae Sophiae, di poco posteriore, ricorda inoltre la presenza, fra gli arredi liturgici, di trecento l. d'oro (lychníai), ognuna del peso di quaranta libbre, e di seimila candelieri d'oro, tra i quali polykándela descritti come supporti mobili per l., in forma di corona (Dagron, 1984, p. 206).Divenuti più comuni a partire dalla seconda metà del sec. 9°, gli inventari ecclesiastici e i typiká dei monasteri forniscono dettagliate indicazioni circa la denominazione, il numero, la funzione e la collocazione di l. e lampadari. Essi indicano che l'illuminazione artificiale della chiesa di epoca mediobizantina era affidata principalmente a l. isolate, candelabri, lampadari e a un particolare raggruppamento di lampadari, il chorós. Le l. isolate (kandélai, kanískia, kathístai kandélai), recanti fiale per l'olio o supporti per ceri, erano di forma prevalentemente a cesto o a coppa, con posizionamento pensile mediante catene o su supporto, e potevano essere realizzate in vetro, cristallo di rocca o metallo. I lampadari (polykándela, palámai o stephanítai), circolari o cruciformi, in metallo spesso prezioso, costituivano il supporto per l. isolate, a olio (ladíkina) e di rado anche per ceri. Il chorós consiste in una struttura metallica poligonale, pensile, recante l. e polykándela, designata per l'illuminazione di chiese con cupola.In Oriente, la valenza simbolica attribuita dalle fonti sin dal sec. 6° a l. e lampadari quali manifestazioni dell'illuminazione divina (Galavaris, 1978) risulta viva ancora nell'epoca tardobizantina, quando Simeone di Tessalonica, nel sec. 15°, paragona nell'Herméneia perí té tú theiú naú (PG, CLV, coll. 697-750: 708) l'edificio ecclesiastico illuminato alla bellezza della Chiesa, ove le l. sospese alle volte imitano le stelle del cielo.Nonostante le scarse indicazioni desumibili dalle fonti circa la forma delle l. prevalentemente riferibili a uso ecclesiastico, l'analisi tipologica dei manufatti conservati suggerisce di distinguere gli apparecchi per illuminazione in l. isolate, l. raggruppate e lampadari e supporti per candele.Alla classe delle l. isolate appartiene il gruppo delle l. pensili, a olio o a cera, costituite da un contenitore di foggia varia (a coppa, ad anfora, a cono, a cantaro), talora poggiante su un piatto leggermente concavo posto sotto la l. per raccogliere le scorie e sospeso con catene raccordate da un anello o da un appendicolo (Suppellettile ecclesiastica, 1988). In questo gruppo, le cui principali testimonianze risalgono all'epoca altomedievale, la l. a corpo traforato, a coppa, a cantaro, la l. vitrea e la lucerna metallica rivestono particolare rilievo.La l. pensile con corpo traforato e base di appoggio, diffusa sia in Occidente sia in area bizantina, è documentata per i secc. 4°-6° dagli esemplari in argento conservati nella chiesa di S. Martino ai Monti a Roma (Vielliard, 1931, pp. 121-127), in bronzo nel c.d. tesoro di Traprai (Edimburgo, Nat. Mus. of Antiquities of Scotland; Curle, 1923, pp. 73-75, nr. 109), da quello ora a Berlino (Mus. für spätantike und byzantinische Kunst; Effenberger, Severin, 1992, nr. 89) e da quello incompleto a Metsovo, in Grecia (Coll. Evanghelos Averoff-Tositsa; Ross, 1964, p. 449, nrr. 541-542). La pubblicazione degli arredi del tesoro di Sion (Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.; Antalya, Antalya Müz.), scoperto nei pressi di Kumluca, in Turchia, nel 1963, che ha restituito un considerevole numero di apparecchi per illuminazione - ca. un terzo della sua intera consistenza -, dimostra l'ampio utilizzo di questa tipologia nel 6° secolo. Vi appartengono infatti otto l. in argento a corpo traforato con bordo superiore recante iscrizione votiva e ganci per la sospensione, contenitore cilindrico o a coppa, ornato da motivi decorativi derivati dal lessico ornamentale dell'argenteria romana, e base di piccole dimensioni (Boyd, 1992, nrr. 41-48). Costituenti parte dell'offerta votiva del vescovo Eutichiano, databile sulla scorta dei bolli al 550-560, le l. dovevano alloggiare un contenitore di vetro per l'olio, con lucignolo galleggiante o sospeso a un apparecchio a forma di S o di Y, il cui effetto finale rimanda alle c.d. coppe vitree a gabbia, o diátreta, di età tardoantica (Boyd, 1988, pp. 195-196). A questo tipo di l. è stato proposto di ascrivere anche il c.d. calice di Antiochia (New York, Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters), coppa d'argento del sec. 6° a corpo ovoide espanso e piede di dimensioni ridotte, con superficie esterna decorata da un ricco motivo fitomorfo animato, forse raffigurante Cristo con gli apostoli (Silver from Early Byzantium, 1986, pp. 183-187, nr. 40).Contenitore di forma aperta con montatura in metallo prezioso, la l. a coppa è forse identificabile in Occidente con la tipologia della gabatha. Questa, menzionata da Venanzio Fortunato (Carm., XI, 10), nei Gesta episcoporum Autissiodorensium e più volte nel Lib. Pont. (Leclercq, 1924), presenta ampia diffusione in epoca paleocristiana e altomedievale, anche se l. a forma di conca sono documentate ancora nel 13° secolo. Nonostante Leclercq (1924) consideri la gabatha il principale antecedente della c.d. corona di luci, e quindi appartenente alla classe dei lampadari, è preferibile, in ragione delle dimensioni ridotte, definirla come l. a più lumi e collocarla fra le l. isolate (Suppellettile ecclesiastica, 1988). Essa poteva essere interamente realizzata in metallo o essere costituita da un piatto a coppa - dalla cui concavità Isidoro di Siviglia (Etym., XX, 4, 11) deriva l'etimologia del termine - in vetro o cristallo di rocca, sorretto da una montatura dotata di cerniere e passanti per le catene o per i cordoni di sospensione e recante sul bordo superiore i supporti per ceri o gli alloggiamenti per lucerne o l. di piccole dimensioni. La gabatha si prestava quindi a numerose varianti, anche attraverso il riuso di piatti più antichi di particolare valore e la creazione di montature realizzate in metallo e pietre preziose. Sviluppatasi nella tradizione delle coppe da sospensione prodotte in età tardoantica in tutta l'area del Mediterraneo - delle quali però non è ancora definitivamente accertata la funzione (Vetri dei Cesari, 1988, pp. 204-205) - la gabatha non è conservata in esemplari certamente prodotti in Occidente. Ne restano alcune menzioni negli inventari del Lib. Pont. (II, pp. 14, 79) relativi alle donazioni di Leone III (795-816) e di Gregorio IV (827-844). Nonostante la gabatha presentasse sovente una dislocazione generica all'interno dello spazio liturgico, le fonti indicano una particolare concentrazione ante altare o pendente ante arcum maiorem, sottolineandone talvolta il continuo ardere, anche durante la notte (Leclercq, 1924).Solo ipoteticamente riconducibile alla l. in forma di piatto di bilancia descritta da Paolo Silenziario nella Santa Sofia di Costantinopoli e raffigurata in miniature e pitture bizantine dei secc. 10° e 11° proponenti modelli paleocristiani (Ross, 1957; Galavaris, 1969, fig. 152), la l. a coppa conobbe ampia diffusione in area bizantina. Essa compare alla metà del sec. 8° per es. nel sarcofago di fanciullo del c.d. battistero a Castrocaro, presso Forlì, nella cui fronte dall'archivolto dell'edicola mediana pende una l. a coppa con piccolo piede, mentre nelle laterali sorgono due candelabri con i ceri accesi (de Francovich, 1959, pp. 136-137, fig. 107). Di particolare rilievo è il gruppo di l. giunto a Venezia (Tesoro di S. Marco) forse dopo il 1204, includente l. a coppa in vetro, cristallo di rocca e avorio. Vi appartiene la l. a coppa ovale in cristallo di rocca esternamente intagliato con figure di pesci, delfini e conchiglie databile al sec. 4°, con montatura in argento dorato datata tra il sec. 10° e il 12° e bordo decorato a perle con inferiormente sei cabochons ovali - dei quali ne sopravvive uno in pasta di vetro scuro - recante otto supporti per ceri (Il tesoro di San Marco, 1971, pp. 7-8). Essa mostra strette analogie con un piatto in cristallo di rocca ora a New York (Metropolitan Mus. of Art), di produzione romana o africana, databile al sec. 5°, che pure dovette servire come parte di una l. (Age of Spirituality, 1979, nr. 186, p. 210). Sempre al Tesoro di S. Marco appartiene la coppa con piede assai basso in vetro intagliato e montatura in argento recante un'iscrizione votiva in greco del vescovo Zaccaria degli Iberi; essa presenta la superficie esterna decorata da un motivo a dischi di origine sasanide, forse adottato da artefici costantinopolitani alla fine del sec. 10° (Saldern, 1969), la cui montatura metallica per l'adattamento a l. è databile al sec. 10°-11° (Le Trésor de Saint-Marc, 1984, pp. 191-193, nr. 23). Analoga montatura con cabochons vitrei presenta un'altra coppa in cristallo di rocca con piede, adattata a l. nel sec. 10°-11°, appartenente al medesimo gruppo marciano (Il tesoro di San Marco, 1971, p. 75, nr. 76), insieme alla l. a coppa liscia in avorio - prodotto costantinopolitano del sec. 10° - con montatura in argento dorato composta da orlo, piede e quattro fasce a cerniera, decorata lungo i bordi da un motivo a perle e cabochons accuratamente incastonati, recante superiormente quattro anelli per il posizionamento pensile e quattro supporti per ceri (Il tesoro di San Marco, 1971, pp. 76-77, nr. 82). A testimonianza dell'ampia gamma morfologica cui è adattabile la l. a coppa devono essere ricordate la gabatha islamica in piombo traforato conservata nella cattedrale di Barletta, con piatto ornato di palmette e con fori (Toesca, 1927, p. 1104), e la l. pensile in cristallo di rocca in forma di pesce, recante sulla superficie superiore nove incavi per ceri o fiale d'olio, con incerta attribuzione all'epoca mediobizantina (Venezia, Tesoro di S. Marco; Le Trésor de Saint-Marc, 1984, pp. 86-87, nr. 3).La l. a cantaro, la cui tipologia di recipiente metallico, con piede e collo conici e presenza di eventuali anse, deriva dall'analogo recipiente di origine classica, è attestata prevalentemente con posizionamento pensile, anche se sono noti alcuni esemplari dotati di base di appoggio e privi di fori di sospensione. In Occidente, nonostante pochi esemplari siano conservati, l'uso è testimoniato dalle numerose raffigurazioni, soprattutto paleocristiane, come nel sarcofago di Giunio Basso (sec. 4°; Roma, S. Pietro in Vaticano, Grotte), nei mosaici della basilica romana di S. Maria Maggiore (sec. 5°), nella coeva capsella eburnea di Samagher (Venezia, Mus. Archeologico) e, senza soluzione di continuità morfologica, negli affreschi del sec. 11° nella basilica inferiore di S. Clemente a Roma, dove compare sia nella forma a cantaro semplice sia in quella ansata (Accascina, 1933; Guarducci, 1978). In Oriente, la diffusione di questo tipo di l. è testimoniata dai numerosi esemplari in argento, tra i quali quello senza anse con apertura svasata recante sul bordo superiore tre appendici con foro per la sospensione, proveniente dal tesoro di Hama (Baltimora, Walters Art Gall.) e datato agli inizi del sec. 7° (Silver from Early Byzantium, 1986, pp. 102-103, nr. 13). Esso trova puntuali confronti con le l. pensili raffigurate nei mosaici, databili al 512, della lunetta meridionale della chiesa del monastero di Kartmin in Turchia (Hawkins, Mundell, 1973, figg. 36-37) e nella patena di Stuma, della seconda metà del sec. 6° (Berna, Abegg-Stiftung), ove è visibile un cantaro pensile dal corpo inferiormente lobato (Silver from Early Byzantium, 1986, pp. 159-164, nr. 34).La l. vitrea medievale - tipologia ancora poco nota - comprende le coppe di piccole dimensioni con base arrotondata e i coni lisci o spiraliformi destinati ad alloggiarsi nei sostegni dei lampadari (Giuntella, 1992). Circa la sua diffusione in Occidente - difficilmente ricostruibile a causa del basso valore artistico dei singoli manufatti, spesso oggetto di produzione seriale - devono essere ricordati i bicchieri a terminazione conica del sec. 6°-7° provenienti dall'area franca (Glass from The Corning Museum, 1965, p. 25, nr. 25), da Kempston, in Gran Bretagna, e da Hablingbo, in Svezia (Masterpieces of Glass, 1969, pp. 93, 96), e la coppa del sec. 13° di Winchester (City Mus.; Klein, Lloyd, 1984). Queste forme compaiono inoltre nel timpano di Sainte-Foy a Conques e in alcune vetrate della cattedrale di Chartres (Manhes-Deremble, Deremble, 1993, p. 376, fig. 88), oltre che in associazione a contesti domestici, come negli esemplari raffigurati nel Salterio Huntingfield (New York, Pierp. Morgan Lib., M.43). In Oriente, nel corso di ricerche condotte in Asia Minore (Sardis), in Egitto (Karanis) e in Giordania (Gerasa) è stata riconosciuta una grande quantità di l. vitree con forme prevalentemente a coppa ansata e a campana (Crowfoot, Harden, 1931; Philippe, 1970; Saldern, 1980). Le coppe a terminazione conica sono spesso connesse con l'utilizzo di polykándela, come nell'esemplare a tre luci restituito nel Corning Mus. of Glass di Corning (NY; Philippe, 1970, pp. 78-79, fig. 43), pur se ne è ipotizzabile l'uso individuale testimoniato dalla l. a coppa conica con apparecchio di sospensione metallico, datata al sec. 10°, di Washington (Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.; Ross, 1957; 1962, nr. 103), il cui più stretto confronto è con quella, appesa mediante tre catene a un sostegno fissato al leggio, raffigurata nel ritratto dell'autore in un manoscritto della fine del sec. 11° delle Omelie di Gregorio Nazianzeno (Oxford, Bodl. Lib., Canon. gr. 103, c. 2v; Galavaris, 1969, fig. 275).La lucerna metallica - prodotta in bronzo, rame e ottone, anche se le fonti ne ricordano di più preziose, in oro e argento - ebbe uso domestico, liturgico, celebrativo e votivo; sebbene la maggior parte fosse a sospensione, non è esclusa l'ipotesi che potesse poggiarsi anche su appositi supporti simili a candelabri. Al pari di quella fittile, essa poteva essere costituita da un corpo di varia foggia, con base circolare, uno o più becchi per i lucignoli, recante sulla parte superiore ganci con anelli per le catene di sospensione, mentre sull'impugnatura erano raffigurati elementi simbolici spesso di origine cristiana. Recenti analisi hanno rivelato che se le prime lucerne bronzee devono considerarsi rielaborazioni da tipi classici perpetuanti modelli decorativi ellenistici, la netta ripresa della produzione avvenuta nell'età costantiniana e la forte committenza legata agli edifici di culto cristiani dei secc. 4°-6° preferirono, accanto alle tipologie più semplici - a becco circolare allungato, con corpo aperto -, la tipologia delle lucerne dette singulares con raffigurazioni plastiche. Questa, che trova corrispondenza anche nella produzione fittile, ebbe una vasta area di diffusione in tutto il Mediterraneo con una dilatazione della cronologia, almeno per gli esemplari con simboli cristiani, quali monogrammi e croci, sino a tutto il 6° secolo. In Occidente come in area bizantina - e in particolare in Siria, Palestina ed Egitto -, alla classe delle singulares pensili cristiane, che nel sec. 4°-5° vide la produzione delle lucerne conservate a Firenze (Mus. Archeologico) raffiguranti la Nave condotta dagli apostoli Pietro e Paolo e Mosè che batte la rupe (Bovini, 1950), sono riconducibili alcuni esemplari del sec. 6° riproducenti forme animali e vegetali. Si ricordano principalmente le lucerne con raffigurazioni di grifone (Leclercq, 1928a, fig. 6723; Ross, 1962, nr. 30; de' Spagnolis, De Carolis, 1983, pp. 85-86), dell'unione di foglia con colomba e di croce con delfino (Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, 1981, nr. 121), del tipo del cavallo alato - recante incisi due gruppi monogrammatici che ne testimoniano l'uso dal sec. 5° sino al 10° (Toesca, 1925-1926) - e quelle che adottano per la decorazione dell'ansa il motivo a girali (Fallico, 1971, nr. 10a), mentre il ricorso alla foglia cuoriforme, alla croce e al cristogramma può ritenersi ascrivibile principalmente all'età paleocristiana. Derivante dalla tipologia della lucerna polilicne pensile, deve essere segnalata la l. a torre cilindrica a tre ordini, lavorata a traforo, recante un piatto inferiore a forma stellare con punte destinate a contenere l'olio, attribuita a un'officina normanna inglese del sec. 12° (Londra, London Mus.; I Normanni, 1994, p. 451, nr. 194). Ampia diffusione in area bizantina ebbero le lucerne in forma di uccello, derivanti da prototipi orientali, come per es. quella bronzea raffigurante una colomba, con lucignolo in luogo della coda, infundibulum nascosto nel piumaggio e recante superiormente un occhiello per la sospensione (Londra, Vict. and Alb. Mus.; The Medieval Treasury, 1986, pp. 50-51), e alcuni esemplari raffiguranti un pavone, particolarmente diffusi in Egitto nel sec. 6°-7° (Ross, 1960; 1962, nr. 41).Risale al sinodo di Worcester (1240) la prescrizione dell'uso di una l., detta del Sacramento, posta davanti al tabernacolo. Essa, con chiara allusione alla definizione patristica dell'eucaristia quale luce del mondo, poteva essere sospesa a un apposito braccio connesso alla parete o pendere sopra l'altare (Cattaneo, 1951), come quella conservata nella cattedrale di Wells, in Inghilterra, in forma di torre ottagona (Rohault de Fleury, 1888, p. 30).Altra forma diffusasi nel Medioevo è la c.d. lanterna, apparecchio di illuminazione già in uso nell'età classica, costituito da un corpo metallico circolare o prismatico, con una apertura laterale, talvolta chiusa da pannelli di vetro o di corno, o da una forma fittile chiusa. In Occidente le raffigurazioni più antiche sono databili alla metà del sec. 13° (A Descriptive Catalogue, 1921, II, tav. 55), mentre i primi esemplari conservati - se si eccettua la lanterna-reliquiario ora nella chiesa francese di Beaulieu-sur-Ménoire, di provenienza bizantina, databile alla fine del sec. 11° (Les trésors des églises, 1965, p. 212, tav. 84) - possono risalire probabilmente al sec. 14° (London Museum, 19672, pp. 182-185, fig. 58) e trovano stretti confronti con quelli di Amsterdam (Rijksmus.), databili al secolo seguente, in metallo traforato e con ganci anche per il posizionamento pensile (Koper & Brons, 1986, nr. 163), e con quelli coevi nella cappella della Santa Croce nel castello di Karlštejn (Dvoráková, 1978, fig. 6). Solo alla fine del sec. 15° la lanterna assunse caratteri più elaborati. In Oriente lanterne includenti una o più luci (phanaria) erano impiegate per l'illuminazione degli spazi aperti intorno alla chiesa durante la processione; la loro tipologia è ipoteticamente identificata con l'incensiere a cinque cupole conservato a Venezia (Tesoro di S. Marco; Il tesoro di San Marco, 1971, nr. 109; Buras, 1982, n. 19). Di forma simile a quelle diffuse in Occidente sono invece la lanterna bronzea da Aïn al-Hout, in Algeria, composta da un corpo sormontato da un coperchio traforato con apparecchio di sospensione, e una forma di lanterna fittile da Ḥimṣ, l'antica Emesa, in Siria, in forma di grossa caraffa con anello di sospensione e fori di ventilazione lungo le pareti (Leclercq, 1928b, figg. 6767-6769).Strettamente legato alla classe delle l. pensili è il gruppo degli apparecchi di sospensione comprendente catene e fasce traforate e mensole metalliche, spesso descritte dalle fonti bizantine. Le prime (abénai, alysídia, bastághia, kremastária) sono riconoscibili solo se rinvenute in associazione con le l. che sostenevano, mentre i supporti in bronzo o ferro, indicati con il termine dracondária, sono confrontabili con quelli in forma di serpente illustrati, per es., in un affresco nella chiesa dell'Evanghelistria a Gheraki, in Grecia, databile al sec. 12° (Panaghiotidi, 1975, p. 338).La classe delle l. isolate mobili, distinta dai supporti per cero, raccoglie i lumi costituiti da un contenitore per l'olio collocato su fusto e comprende i cantari con base, le lucerne non sospese - fittili e di bronzo - e i lumi con fusto.I cantari con base, conservati in esemplari provenienti esclusivamente dall'area bizantina, sono formati, come quelli pensili, da un recipiente metallico caratterizzato da piede e collo conici. Il citato tesoro di Sion ha restituito quattro l. a cantaro prive di ganci per la sospensione (Boyd, 1992, nrr. 37-40). Decorate nella porzione concava soprastante la base da una fascia di lobi con palmetta inscritta e superiormente da croci, esse recano incisa, come in altre l. dello stesso tesoro, un'iscrizione votiva del vescovo Eutichiano databile, sulla scorta dei bolli, al 550-560. È possibile che i rivestimenti in lamina d'argento in forma di colonna, costituiti dal complesso di base, fusto e capitello e appartenenti al medesimo ritrovamento, siano riferibili ai supporti che dovevano servire le quattro l. a cantaro (Boyd, 1992, nrr. 54-57). Analoga decorazione mostra il cantaro in argento databile al 574-576/578 e proveniente dal tesoro di Stuma (Berna, Abegg-Stiftung), nella quale sono stati riconosciuti alcuni prototipi achemenidi, sasanidi e di ispirazione classica diffusisi nell'argenteria bizantina proprio intorno alla metà del sec. 6° (Silver from Early Byzantium, 1986, pp. 155-158, nr. 33).Nella classe delle l. isolate mobili, le lucerne - realizzate sia in ceramica sia in bronzo - occupano un ruolo esclusivo, testimoniato dai numerosissimi ritrovamenti, concentrati soprattutto nell'epoca paleocristiana e altomedievale. Queste ultime, in Occidente (Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, 1981, nrr. 123-124) come in area bizantina (Wulff, 1909-1911, I, nr. 768; Ross, 1960; 1962, nrr. 32, 35-36, 41), in tutto simili a quelle pensili, dalle quali possono differire solamente per l'assenza dei ganci per la sospensione, sono note da esemplari di età classica che si ripeterono dall'Alto Medioevo sino al sec. 14°, apportando modifiche al solo repertorio ornamentale. In particolare va menzionata la tipologia della lucerna mobile su supporto, derivata da modelli di età paleocristiana, nota da numerosi esemplari a fusto modanato (Ross, 1962, nr. 33), o con raffigurazioni anche mitologiche (Age of Spirituality, 1979, nrr. 318, 556). Vi appartiene la coppia di supporti in argento del sec. 6°, donati alla chiesa di Ss. Sergio e Bacco a Kaper Koraon e appartenenti al tesoro di Hama (Baltimora, Walters Art Gall.), costituiti da fusto a colonna con capitello corinzio e base modanata poggiante su tripode (Silver from Early Byzantium, 1986, pp. 96-101, nrr. 11-12). Questi, riferibili all'arredo liturgico dell'altare, trovano il più stretto confronto con i supporti con lucerne raffigurati nei Vangeli di Rabbula, attribuiti alla seconda metà del sec. 6° (Firenze, Laur., Plut. 1.56, c. 9v). Tale tipologia tornò a diffondersi a partire dal sec. 14°, soprattutto a Firenze, con struttura in ottone, bronzo o argento (Suppellettile ecclesiastica, 1988).Le lucerne fittili c.d. mediterranee o paleocristiane, la cui forma è già ampiamente attestata in epoca classica, ebbero ampio sviluppo nell'uso cristiano, con analoga tipologia e funzione essenzialmente pratica, quale mero strumento di illuminazione. Costituita da un corpo solitamente ovoidale poggiante su base, la lucerna presenta nella parte superiore un'imboccatura per l'immissione dell'olio (infundibulum) - talora con coperchio - e uno o più beccucci al termine del canale, mentre l'impugnatura è formata da un'ansa elaborata talvolta con elementi figurativi. Differenziatasi da quella profana per la decorazione del disco - includente a volte il monogramma cristologico e iscrizioni relative al simbolismo della luce -, la lucerna cristiana rivestiva una particolare valenza nella liturgia del lucernarium della Chiesa primitiva, consistente essenzialmente nell'accensione della lucerna serale - simbolo di Cristo 'luce del mondo' -, che, ricordata già da Ippolito nel sec. 3°, sopravvisse nel rito ambrosiano (Sérent, 1956).Di produzione prevalentemente italica e africana, anche se altri centri di produzione sono stati individuati in Asia Minore e in Palestina, le lucerne fittili mediterranee vennero prodotte sino all'Alto Medioevo. Per i secc. 6°-7° vanno menzionate per la particolare decorazione quelle appartenenti ai tipi 7 e 9 (Provoost, 1970; Paleani, 1993). I primi mostrano i bordi decorati da striature e doppia palmetta (7A) o costituiti da ovoli e fiori (7B) e con raffigurazioni sul disco desunte dal mondo animale (conchiglia, delfino, lepre) e vegetale (fiore), mentre i secondi recano sulle spalle un ricco repertorio eseguito mediante punzoni alternati di cerchi concentrici, triangoli, ferri di cavallo e motivi a S gemmati, quadrati con griglia interna e cantari biansati (9B e 9C) e sul disco un repertorio iconografico ispirato anche a soggetti umani e a temi biblici. Restata nell'uso comune cristiano sino al sec. 7°, la lucerna fittile sopravvisse in alcune forme sporadiche, almeno in area africana, sino a tutto il sec. 12° (EAA, 1981).Sempre alla classe delle l. mobili appartiene il lume con fusto, di fattura semplice e facilmente trasportabile, costituito da un serbatoio per l'olio sorretto da un supporto con funzione di impugnatura. Vi appartiene la l. fittile con serbatoio a coppa e piatto di protezione posti su un fusto modanato, diffusa nei Paesi Bassi già nei secc. 9° e 10° e in area franca nell'11°, della quale si conserva un esemplare integro a Saint-Denis (Mus. Mun. d'Art et d'Histoire; Bernward von Hildesheim, 1993, II, p. 286, nr. V-23). Esemplari morfologicamente analoghi sono stati rinvenuti in area bizantina negli scavi effettuati al monte Nebo, in Giordania (Bagatti, 1985, fig. 4). In Inghilterra essa compare nei contesti archeologici del sec. 10°-11° identificati a Northampton e Norwich e si associa, pur se raramente, a esemplari in pietra - come quelli con tozzo fusto ottagonale a Londra (Guildhall Art Gall.) -, materiale in cui questa l. è perlopiù realizzata in area scandinava (London Museum, 19672, pp. 174-176).Una distinta famiglia di manufatti è costituita dal lampadario, supporto con collocazione pensile per mezzo di catene di l. raggruppate, più o meno elaborato a seconda della lavorazione e della quantità di lumi che poteva sorreggere.In Occidente, il tipo di lampadario più estesamente menzionato dalle fonti per l'epoca altomedievale è la corona o phara coronata, di forma cilindrica e con collocazione pensile. Sul suo orlo superiore sono applicati in età paleocristiana supporti in forma di delfini sporgenti verso l'esterno, alla cui coda sono saldati gli anelli per le fiale contenenti l'olio. A questa tipologia è riferibile il lampadario - di forma identica a quello di Aquileia (Mus. Archeologico Naz.; Bertacchi, 1979), della fine del sec. 4° -, a un solo ordine di bracci e databile al sec. 5°-6°, conservato al Cairo (Coptic Mus.; Leclercq, 1939, fig. 10440). La corona può presentare anche una struttura più elaborata, come il lampadario del sec. 5° a forma di basilica proveniente dall'Africa settentrionale ora a San Pietroburgo (Ermitage; Kötzsche, 1986), o adottare la forma cilindrica semplice, come quelli rappresentati, seppure in forma schematica, per es. sui mosaici parietali di S. Maria Maggiore a Roma, forse sulla capsella eburnea di Samagher (Guarducci, 1978) e nella fronte del sarcofago del vescovo Felice, del 723, nel S. Apollinare in Classe a Ravenna, echeggiante modelli paleocristiani (de Francovich, 1959, p. 125, fig. 99).Un altro lampadario ricorrente nelle fonti altomedievali d'Occidente è il pharus cantharus, termine con il quale si indicarono forse diversi tipi di supporti. Geertman (1988) lo identifica con il tipo bizantino del polykándelon, attribuendogli la forma di disco lavorato a giorno. L'uso del termine polykándelon è comunque attestato di rado in Occidente, anche se a Roma deve essere citato il "policandilum porfiriticum, pendentem in pergulam ante confessionem, in catenulis aureis" donato a S. Paolo f.l.m. da Leone III (Lib. Pont., II, p. 15).Ampiamente descritto nell'ékphrasis di Paolo Silenziario, il polykándelon fu il lampadario più diffuso in area bizantina. Esso era costituito da un supporto metallico piatto di forma circolare, a croce o quadrangolare, pendente mediante catene o fasce, la cui superficie lavorata a giorno era decorata da motivi geometrici e figurativi e talora da monogrammi, con fori per il fissaggio di lampade. Il ricco tesoro di Sion offre una delle più importanti testimonianze sui polykándela del 6° secolo. Vi appartengono infatti dodici esemplari in argento datati al 550-560, tre circolari, tre cruciformi e sei rettangolari, questi ultimi con i lati brevi con decorazione mistilinea (Boyd, 1992, nrr. 25-36). Recanti ancora in alcuni casi i ganci per la sospensione e le catene, essi presentano una decorazione con delfini simmetrici, più raramente con motivi fitomorfi, corredata esternamente dall'iscrizione votiva del vescovo Eutichiano. L'ampia diffusione di questa tipologia è testimoniata dai numerosi ritrovamenti effettuati in tutta l'area bizantina, tra i quali vanno ricordati per es. il polykándelon del sec. 6° di Atene (Benaki Mus.; Ross, 1964, p. 449, nr. 543), il cui apparecchio di sospensione a catena reca due appendicoli cruciformi, quelli da Metsovo (Coll. Evanghelos Averoff-Tositsa; Buras, 1982, fig. 6) e da Bursa (Istanbul, Arkeoloji Müz.; The Anatolian Civilisations, 1983, p. 167), le coppie di polykándela del sec. 6° da Costantinopoli, con motivo geometrico a corone concentriche (Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.; Ross, 1962, pp. 40-42, nrr. 42-43), e quelli del sec. 6°-7° dagli scavi nella chiesa cretese di S. Tito a Gortyna (Iraklion, Historical Mus. of Crete; Ross, 1964, pp. 449-450, nrr. 544-545; Byzantine and post-byzantine Art, 1985, p. 182, nr. 187). Nel corso del sec. 6° questo tipo di lampadario, originariamente per fiale d'olio (ladíkina), si fuse con il tipo della l. a corpo traforato, accogliendo nella zona centrale, prima occupata da insiemi monogrammatici, una coppa lavorata a giorno recante un contenitore vitreo. Appartengono a questa tipologia a due elementi il polykándelon in bronzo da Costantinopoli (Washington, Dumbarton Oaks Research Lib. and Coll.; Ross, 1962, p. 42, nr. 44) e quello ora conservato a Berlino (Mus. für spätantike und byzantinische Kunst; Effenberger, Severin, 1992, nr. 46), con coppa traforata con viticci e piatto decorato da corone di gigli, entrambi del 6° secolo. Al sec. 12° è invece attribuito il polykándelon bronzeo di Kiev (Gosudarstvennyi Istoritscheskij Muz. Ukrainy), in cui i due elementi sono traforati, così come le fasce di sospensione, con motivo a intreccio, recando inoltre un alto bordo rialzato con supporti zoomorfi per ceri (Rybakov, 1971, figg. 20-21).Particolare interesse riveste il lampadario in forma di croce luminosa che la forte valenza simbolica ha adattato in numerose varianti. Già descritto per la Santa Sofia di Costantinopoli nel sec. 6° da Paolo Silenziario, il lampadario cruciforme venne realizzato in età carolingia con forme monumentali nel "pharum maiorem, in tipum crucis, qui pendet ante presbiterium, habentem candelas mille CCCLXV" (Lib. Pont., I, p. 499), donato da Adriano I (772-795) alla basilica di S. Pietro in Vaticano e il cui più prossimo confronto è con quello di incerta attribuzione, a doppia croce greca, pendente nella navata mediana della basilica di S. Marco a Venezia e costituente il supporto per più di duecento l. (Rohault de Fleury, 1888, p. 18, tav. CDXLII; Accascina, 1933). Di dimensioni inferiori è la croce verticale lavorata a giorno recante due supporti per ceri alle estremità, conservata in Grecia, alle Meteore, nel monastero della Trasfigurazione, e datata al sec. 14° (Buras, 1982, fig. 7).Erede romanica della tipologia del lampadario paleocristiano con lumi disposti simmetricamente su uno o più cerchi concentrici è la corona di luci. Essa era formata da un cerchio metallico di grande diametro, per il quale si prediligeva l'uso dell'ottone, ornato con motivi di carattere floreale o architettonico con fissati i supporti per ceri o per fiale di olio direttamente o attraverso bracci portalampade, sospeso a un fusto più o meno sviluppato o mediante catene ramificate. Diffusosi in età carolingia, l'uso della corona di luci ebbe ampio sviluppo sino al sec. 14° in tutta l'Europa settentrionale, ove si determinarono numerose varianti del tipo originario. Mentre per i secc. 11°-12° si conoscono solo corone a cerchio semplice (Reifenkrone), a partire dal sec. 14°-15° sono distinguibili i tipi della corona a cappella (Kapellenkrone), a gabbia di corna di cervide (Geweihkrone), a cesto (Korbkrone) e a fusto assiale (Schaftkrone). Delle corone a cerchio semplice, oltre alle citazioni nelle fonti, alcuni frammenti attestano l'utilizzo in area franca a Bayeux, Angers, Cluny, Parigi, Orléans, Lione, Metz, Poitiers, Troyes e in area germanica a Spira, Colonia, Liegi e Weissemburg (Rohault de Fleury, 1888). Le fonti menzionano anche la "coronam quoque argento auroque radiantem mirae magnitudinis" donata da Bernoardo (993-1022) al St. Michael di Hildesheim (Vita Bernwardi, VIII; Schlosser, 18962, p. 148), probabilmente riprodotta nella corona della metà del sec. 11° commissionata dal vescovo Hezilo (1054-1079) per il duomo di Hildesheim, costituita da una fascia di metallo incisa - delimitata superiormente e inferiormente da una lunga iscrizione dedicatoria - riproducente una cinta muraria con dodici porte e dodici torri con figure di apostoli e di profeti, forse ispirata all'architettura fantastica della Gerusalemme Celeste, sulla quale sono fissati i supporti per settantadue l. (Negri Arnoldi, 1958; Jarmuth, 1967, pp. 52-53). Di uguale concezione, ma con struttura più leggera (otto torri e otto porte), pure corredata da una doppia iscrizione, è la corona del maestro Wibert offerta da Federico I Barbarossa nel 1165 e pendente nell'ottagono del duomo di Aquisgrana, in cui alle torri sono alternate vere e proprie lanterne per dare un movimento mistilineo alla struttura (Grimme, 1994, pp. 140-148). Altri esemplari sono quello dell'abbaziale tedesca di St. Nikolaus a Komburg, presso Schwäbisch Hall, con quattordici figurazioni tra cavalieri, vescovi, angeli, santi, filosofi, cacciatori e demoni, recante una lunga iscrizione nella quale è menzionato l'abate Hartwig e databile al 1135 (Krüger, 1953, p. 128; Lasko, 1972, tav. 187), e quello dell'abbaziale di Saint-Remi a Reims, con novantasei supporti per ceri corrispondenti agli anni della vita di s. Remigio (Crouvezier, 1957), distrutto durante la Rivoluzione francese, ma noto da un manoscritto del sec. 16° (Rohault de Fleury, 1888, p. 26, tav. CDXLIII). In Italia, l'uso della corona di luci si diffuse solo dopo il sec. 11°; anche se nessun esemplare si è conservato, ne fanno fede le raffigurazioni negli affreschi del sec. 11° nella basilica inferiore di S. Clemente a Roma - ove una corona a cerchio semplice recante superiormente sette fiale per l'olio è ornata nella parte inferiore da dieci o dodici appendici e sospesa sopra l'altare -, in quelli del sec. 13° in S. Piero a Grado, presso Pisa, in cui la corona costituisce il supporto per l. a forma di cantaro, e in quelli di Giotto nella basilica superiore di S. Francesco ad Assisi, ove compare una struttura a doppia corona con due ordini di l. sovrapposti (Poeschke, 1985, tavv. 159, 184).Alla fine del sec. 14° il tipo della corona di luci subì una profonda mutazione con l'inserimento al centro del cerchio di una struttura architettonica a cappella che tese a definirsi come fulcro compositivo - sino a eliminare la fascia esterna - e supporto diretto per i bracci portalampade. Un esemplare di transizione è costituito dal lampadario della fine del sec. 14° nel St. Andreas di Halberstadt, in Germania, costituito da una cappella cuspidata e da una corona sorreggente edicole, cuspidate a loro volta con mensola portalampada (Paatz, 1936, p. 67). Forme più mature di Kapellenkrone, con ampio sviluppo sia dei bracci portalampade a decorazione fitomorfa sia dell'architettura centrale, assumono i lampadari nel Rathaus di Goslar, in Germania, del 1480 (Jarmuth, 1967, p. 84, fig. 67), nella parrocchiale di Stans, in Svizzera (Meyer, 1961), nel duomo di Augusta (Hartig, 1922, fig. 13), nel Rathaus di Ratisbona (Die Kunstdenkmäler von Bayern, 1933, p. 99, fig. 72), nella parrocchiale austriaca di Murau (Meyer, 1961, fig. 12), nella collegiata di Castiglione Olona (prov. Varese; Cazzani, 1966, pp. 332-335), in S. Giovanni Evangelista a 's-Hertogenbosch, nei Paesi Bassi (d'Allemagne, 1891, tav. 15), tutti riferibili al 15° secolo. La decorazione fitomorfa raggiunge il massimo sviluppo nel raro esemplare (1425 ca.) di Korbkrone, con figura della Vergine in legno posta al centro di una sorta di gabbia vegetale, i cui viluppi fungono da portalampada, nella Marienkirche di Kolberg (od. Kołobrzeg), in Pomerania (Reppin, 1935, p. 21).Originatasi alla fine del sec. 14°, ma con sviluppo sino alla metà del secolo seguente, è la tipologia della Schaftkrone, ove il fusto metallico centrale, pur accogliendo talvolta alla sua sommità una raffigurazione della Vergine o di un angelo e più raramente elementi zoomorfi, presenta uno o due ranghi di supporti portalampade fitomorfi sovrapposti e termina spesso inferiormente con un anello. Il più antico esemplare attribuibile a questo tipo - del quale si conserva anche una raffigurazione nelle Nozze Arnolfine del 1434 di Jan van Eyck (Londra, Nat. Gall.) - è ad Aquisgrana (Suermondt Ludwig Mus.) e la sua datazione, non ancora accertata dalla critica (Jarmuth, 1967, p. 98, fig. 77; Grimme, 1980, nr. 61), potrebbe risalire alla fine del 14° secolo. Al secolo seguente sono attribuite le corone di Amsterdam (Rijksmus.; Koper & Brons, 1986, nr. 171) e di Londra (Vict. and Alb. Mus.; Jarmuth, 1967, fig. 87), mentre allo scorcio dello stesso secolo appartiene la c.d. corona a gabbia, costituita da un'immagine centrale lignea posta sulla base per l'impalcatura di cervide alla quale si fissavano i supporti portacandele, cui sono ascrivibili le due coppie poste nel Rathaus di Goslar, con la figura dell'imperatore in trono (Bruchmann, 1952, fig. 36), e nella Fürstensaal del Rathaus di Lüneburg, con raffigurazioni della Vergine e di S. Giovanni Battista (Krüger, 1928, fig. 19).Fra i lampadari di età gotica che presentano un ampio sviluppo del motivo architettonico dell'edicola e un notevole aumento delle raffigurazioni, spesso simboliche, va ricordata la c.d. Müllerkrone nel duomo di Lubecca, databile al 1425, recante sotto una fitta trama di arcature le figure di due vescovi in trono e su due lati quelle di S. Giovanni Battista e S. Barbara poste sotto edicole cuspidate, mentre agli angoli quattro angeli hanno la funzione di portalampada (Schröder, 1940, p. 43, fig. 78). Privo di notizie documentarie è il grande lampadario in legno intagliato e scolpito nella cappella dei Signori o Nuova del Palazzo Pubblico di Siena, tradizionalmente attribuito a Cecco di Vanni del Giucca con pitture di Cristofano de Cosana, opera quindi della seconda metà del sec. 14°, e più recentemente assegnato a Domenico di Niccolò dei Cori, con proposta di datazione al terzo decennio del Quattrocento (Il gotico a Siena, 1982, pp. 354-355; Borghini, 1983). Costruito su un'asse lignea quadrangolare, il corpo del lampadario si compone di un prisma ottagonale i cui lati sono costituiti dai frontoncini delle bifore, dai pinnacoli e dalle edicole che accolgono tre figure di santi ed evangelisti. Parte dell'arredo liturgico della cappella, è probabile che esso servisse per l'accensione del cero soltanto in particolari festività restando altrimenti velato, secondo un uso testimoniato in alcuni documenti figurativi, come il lampadario che pende davanti a un'icona nell'affresco di Giotto con l'Accertamento delle stimmate nella basilica superiore di S. Francesco ad Assisi (Poeschke, 1985, tavv. 184, 186).In Oriente, in epoca mediobizantina si assistette alla diffusione del chorós, sofisticato apparecchio per l'illuminazione consistente in una struttura poligonale recante l. o polykándela, pendente nelle chiese con cupola. Sebbene evidentemente richiamato dalla descrizione del lampadario pendente dalla cornice della cupola nella Santa Sofia in Costantinopoli, questa struttura monumentale è paragonabile piuttosto alle corone di luci diffuse in Occidente in epoca romanica. Esso è menzionato nel typikón del Pantocratore sul monte Athos, che ricorda nella chiesa meridionale un chorós ottagonale recante sedici polykándela, due per ogni lato, mentre al centro pendevano lucerne trilicni (Buras, 1982, p. 480). Particolare rilievo fra i chorói conservati, tutti frammentari, riveste quello donato fra il 1367 e il 1371 dal re Vukašin alla chiesa del monastero di Marco presso Skoplje, in Macedonia, i cui frammenti sono sparsi fra i musei di Sofia, Belgrado e Istanbul (Todorovic', 1978). La ricostruzione ipotizzatane restituisce una struttura poligonale con funzione di supporto per numerosi lampadari, recante agli angoli medaglioni con il monogramma reale alternati ad archetti polilobati dai quali salgono le fasce di sospensione.I supporti per candele, nonostante la rarità degli esemplari conosciuti ne renda ardua la definizione tipologica, sono distinguibili in candelabri (v.) e candelieri fissi e mobili. A questi ultimi appartiene il c.d. candeliere da parete, noto da raffigurazioni databili all'inizio del sec. 15° e da esemplari in uso sia in ambito ecclesiastico sia in edifici profani, come quelli nella St. Jacobskirche di Lovanio e nella Fürstensaal del Rathaus di Lüneburg, entrambi databili al sec. 15°, costituiti da uno o più bracci portacandele dipartentisi da un supporto principale (Jarmuth, 1967, p. 96). Si riferisce all'arredo ecclesiastico - benché non sia nota l'origine di quest'uso - il c.d. candeliere di consacrazione, posto lungo le pareti della chiesa e presso il quale erano compiute le unzioni durante il rito di consacrazione dell'edificio. Ai supporti mobili appartiene la c.d. palmatoria, candeliere portatile di piccole dimensioni il cui uso principiò - assente ogni menzione negli ordines Romani - durante il periodo avignonese e il cui utilizzo pratico venne in seguito trasformato in un'insegna liturgica (Roux, 1956).
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Nell'ambito dei diversi oggetti destinati all'illuminazione, la tipologia della l. riveste nella tradizione islamica un ruolo importante accanto al candeliere e al candelabro (v.): il termine miṣbāḥ ('lampada', pl. maṣābiḥ) compare nel Corano in un celebre versetto della sura della Luce, il c.d. āyat al-nūr ('versetto della luce'), che ebbe una rilevanza simbolicoiconografica considerevole nei secoli successivi: "Dio è la Luce dei cieli e della terra, e si rassomiglia la Sua Luce a una Nicchia, in cui è una Lampada, e la Lampada è in un cristallo, e il Cristallo è come una Stella Lucente, e arde la Lampada dell'olio di un albero benedetto, un Olivo né orientale né occidentale, il cui olio per poco non brilla anche se non lo tocchi fuoco" (Corano XXIV, 35). Il persiano chirāgh poteva indicare anch'esso la l., sebbene fosse utilizzato spesso con il senso di 'lucerna', come l'arabo mash ῾al (pl. mashā ῾īl, anche 'torcia', 'fiaccola') o ancora sirāj (pl. surūj). Il termine arabo nibrās, (pl. nabāris) si riferiva specificamente alla lanterna, anche se nel Medioevo esso passò a indicare più in generale tutte le lampade. Lanterna, lucerna o l. era anche il qandīl (pl. qanādil), termine di evidente origine occidentale, presente anche nella lingua turca e in quella persiana. Infine va ricordato che da chirāgh e sirāj derivano chirāghdān e masraja, sostantivi entrambi utilizzati per i sostegni portalampade.Il riferimento coranico a una l. in una nicchia deve essere stato molto presto interpretato in contesti religiosi, quali principalmente le moschee, dove, appunto, le l. venivano sospese: la tipologia della l. da moschea è testimoniata nelle fonti sin dagli inizi dell'Islam, come nella Cupola della Roccia e nella moschea di al-Aqṣā a Gerusalemme (Clermont-Ganneau, 1920, p. 252) o nella Grande moschea di Córdova, dove, come riporta al-Maqqarī, si trovavano, stando ad Abī Tammām Ghalib ibn Rabaḥ al-Hajjām, millequattrocento lampade. Delle l. da moschea deve, inoltre, essere ricordata la consistente tradizione iconografica, sia in ambito islamico sia in quello occidentale: se ne può infatti segnalare una raffigurazione già nel sec. 11°, in una delle tombe-torri di Kharrāqān, in Iran (Stronach, Cuyler Young, 1966; Gray, 1979), e, per quanto concerne l'Occidente - ad attestare probabilmente anche la diffusione di questo tipo di oggetti -, in raffigurazioni coeve, per es. nel paliotto in avorio di Salerno (Mus. Diocesano; Gabrieli, Scerrato, 1979, p. 364, fig. 404), di scuola amalfitana, o nei rotoli di Exultet, come nell'immagine della Mater Ecclesia in un Exultet dell'ultimo quarto del sec. 11° (Roma, BAV, Barb. lat. 592; Brenk, 1992). Nel corso del sec. 14° raffigurazioni di l. da moschea compaiono in diverse miniature islamiche; peraltro, nella pagina smembrata dal c.d. grande Shāhnāma mongolo (Washington, Freer Gall. of Art, 38.3) - illustrante la celebre scena del Compianto per la morte di Alessandro Magno - i due esemplari di l., descritti dettagliatamente dall'artista, appaiono dorati, testimoniando perciò l'uso di l. metalliche in questo periodo (Melikian-Chirvani, 1987, tav. VI). Nello stesso secolo miniature di manoscritti, come la 'sorella' della Haggādāh d'Oro (Londra, BL, Or. 2884, c. 17v), attestano l'uso di questo tipo di l. anche in ambito ebraico e nelle stesse sinagoghe (Furman, 1986-1987, pp. 279-280).I primi esemplari noti di l. sono caratterizzati da un corpo globulare metallico sormontato superiormente da un tronco di cono, lavorato a traforo per permettere alla luce - proveniente da un contenitore di vetro disposto all'interno, che raccoglieva dell'olio - di illuminare gli ambienti. Queste l. avevano solitamente barre o catene, in genere tre, annesse ad anelli che ne consentivano la sospensione. Una tra le prime l. da moschea di questo tipo - costituita in realtà dall'assemblaggio di due diverse l. coeve - è conservata a Chicago (Art Inst.); attribuibile a un contesto abbaside, forse iranico, del sec. 9°, reca un'iscrizione in cui è specificato che essa era stata donata a una moschea (Survey of Persian Art, 1938-1939, VI, tav. 1276; Rice, 1955, pp. 212-214; Erginsoy, 1978, p. 105, fig. 43; Baer, 1983, pp. 35-37). La decorazione a traforo di questo esemplare è caratterizzata, oltre che da fasce epigrafiche in caratteri cufici di diversa fattura, da motivi a scaglie.Di dimensioni leggermente maggiori è un'altra l. da moschea in bronzo, oggi a Copenaghen (Davids Samling), in migliore stato di conservazione, anch'essa databile a un periodo oscillante tra la fine del sec. 9° e gli inizi del 10°, in cui compare un analogo trattamento decorativo ed epigrafico (Islamisk Kunst, 1975; Baer, 1983, pp. 37-39; Ward, 1993, fig. 11); l'esemplare è tra l'altro ancora munito delle catene destinate alla sospensione, agganciate a tre grossi anelli. A questo periodo risalgono anche diverse l. provenienti da Rayy (Iran), rinvenute, in stato frammentario, durante gli scavi archeologici compiuti in quel sito nel 1936: un esemplare quasi intatto è conservato a Chicago (Art Inst.; Rice, 1955, tav. IXc), altri frammenti sono a Filadelfia (Univ. Mus., Univ. of Pennsylvania; Rice, 1955, tav. XIV).A questa tipologia di l. può certamente ascriversi anche una grande l. nordafricana rinvenuta nella Grande moschea di Kairouan (Tunisi, Mus. Nat. du Bardo). Risalente alla seconda metà del sec. 11° e realizzata da Muḥammad b. ῾Alī al-Qaysī al-Ṣaffār ('il calderaio'), che vi appose la sua firma, essa rivela la persistenza dei motivi decorativi presenti già nel più antico esemplare di Chicago. Il riferimento al committente, il sovrano ziride al-Mu῾izz b. Bādīs, è stato messo in discussione da Rice (1955, pp. 214-217), che, tuttavia, ha confermato la datazione della l. alla prima metà del sec. 11° proposta da Marçais e Poinssot (1948-1952, II, p. 411). Alla stessa epoca risalgono anche altre l., come quella in ottone proveniente dalla Grande moschea di Damasco (Istanbul, Türk ve Islam Eserleri Müz.), che riporta la data 483 a.E./1090, e dunque risale al periodo di dominazione turco-selgiuqide della Siria, sotto Tutush b. Alparslan. Vi compare sul corpo una fitta decorazione geometrica che alterna poligoni a stelle a sei punte, mentre il collo è caratterizzato da una fascia epigrafica, in cufico fogliato, suddivisa in scomparti intramezzati da medaglioni circolari, a loro volta campiti da stelle a sei punte (Rice, 1955, tav. X; Erginsoy, 1980, fig. 143). Alla seconda metà del sec. 12° risale una l. in ottone conservata a Parigi (Louvre), proveniente dalla Cupola della Roccia di Gerusalemme (Rice, 1955, pp. 219-222; L'Islam dans les collections nationales, 1977, nr. 224); essa è caratterizzata da un corpo a sezione esagonale, un elemento, questo, che è dato ritrovare generalmente in l. più tarde, come quella già nella coll. Rothschild, datata a un periodo successivo al 1277 (Rice, 1955, p. 233). Non mancarono nel corso del sec. 13° l. da moschea metalliche che continuavano a mantenere la forma inaugurata dai modelli di Chicago: è il caso certamente della l. firmata da ῾Alī b. Muḥammad al-Niṣibinī e prodotta a Konya nel 679 a.E./1280-1281, come recita un'iscrizione in naskhī. Tale l., conservata ad Ankara (Etnoğrafya Müz.), è particolarmente interessante per la ricchezza del suo apparato ornamentale: lavorata a traforo, essa presenta, inoltre, un complesso lavoro a sbalzo delle superfici, in cui appaiono delle palmette lobate e disegni a 'picche', che Rice (1955, p. 210) ha accostato ai contemporanei lavori su legno caratteristici della produzione di Konya.Tra gli esemplari metallici nordafricani va ricordato un lampadario almohade della moschea al-Qarawiyyīn di Fez, prodotto alla fine del sec. 12°, che doveva far parte del consistente corredo di l., testimoniato in numero di centotrenta, di cui la moschea era dotata. L'esemplare presenta come elemento caratteristico il riuso di una campana, bottino di guerra acquisito durante una razzia compiuta in Spagna: alla campana vennero annessi una base circolare in ottone, lavorata con motivi floreali ed epigrafici, e tre anelli di diametro decrescente, sui quali furono disposti i lumi (Allan, 1986, p. 18, fig. 6; Al-Andalus, 1992, nr. 55, pp. 272-273). A questa tipologia deve essere collegato certamente un più tardo lampadariocampana di epoca merinide (1333-1337), sempre nella Moschea Qarawiyyīn, contraddistinto da una più complessa lavorazione: questa volta dalla sommità della campana alla base a essa annessa si dipartono dieci ali lavorate a traforo sul cui orlo sono disposte le lucerne (Al-Andalus, 1992, nr. 58, pp. 278-279). Simili per funzione a tale tipo di oggetti sono i polykándela circolari destinati ad accogliere candele o contenitori per olio da illuminazione: questa tipologia, molto diffusa nell'Occidente islamico, trovò una sua particolare fortuna in Spagna e nell'Africa settentrionale (Marçais, Poinssot, 1948-1952, II, pp. 440-449, figg. 97-105; Gómez-Moreno, 1951, p. 324, figg. 385-386; Allan, 1986, p. 18; Ward, 1993, p. 68), anche se non mancano esemplari iranici, come il polykándelon del sec. 12° conservato a Baltimora (Walters Art Gall.; Ettinghausen, 1966, p. 466, fig. 6; Baer, 1983, p. 39, fig. 31). A tale tipologia deve connettersi quella, più tarda, rappresentata dal lampadario coperto da calotta cupolata, di epoca mamelucca, di cui si contano diversi esemplari, da quello datato 743 a.E./1342 e conservato al Cairo (Mus. of Islamic Art; Baer, 1983, p. 39, fig. 31), a quello siriano, databile al sec. 14°, conservato a Roma (Gall. Naz. d'Arte antica, Palazzo Barberini; Gabrieli, Scerrato, 1979, p. 459, fig. 511; Carboni, 1993).Alle 'l.-campana' della moschea Qarawiyyīn, e più in generale a un contesto spagnolo o magrebino del sec. 14°, è stata di recente accostata stilisticamente, ribaltando una precedente collocazione in ambito anatolico tardoselgiuqide dei secc. 12°-13° (Fehérvári, 1976, nr. 99, pp. 84-85, tav. 33), la lanterna in ottone traforato a Richmond (Keir Coll.), caratterizzata da una forma 'a casa' (Ward, 1993, p. 96, fig. 74). Va tuttavia segnalato che in area iranico-anatolica l'esistenza di lanterne è attestata già in epoca assai precoce, come testimonia quella prodotta in Persia in un periodo posteriore al sec. 9°, oggi conservata a Gerusalemme (L.A. Mayer Memorial Inst. for Islamic Art) e contraddistinta da una forma 'architettonica' con base a sezione ottagonale sormontata da una copertura piramidale alla cui sommità è disposta una statuetta ornitomorfa (Baer, 1986, tav. L, 3). Sicuramente anatolica, per i riferimenti araldici presenti nella sua decorazione a traforo, è una lanterna del sec. 13° conservata a Konya (Konya Müz., Mevlana Müz.; Yetkin, 1976; Erginsoy, 1978, pp. 412-418; 1980, fig. 146). Esemplari prodotti in area siro-egiziana avevano probabilmente questa forma, e successivamente il tipo di lanterna a piramide dalla base quadrata o poligonale, lavorata spesso a traforo e nota come tannūr, ebbe grande diffusione nel tardo periodo mamelucco, come attesta per es. la lanterna del 1470, opera di Qijmās al-Isḥāqī (Mayer, 1933, pp. 174-175, fig. LXIII).In ambito spagnolo, l. come quella del 1305 (Madrid, Mus. Arqueológico Nac.), in bronzo traforato, sembrano assumere caratteristiche autonome rispetto ai modelli nordafricani; sostenuta superiormente da una catena nella quale sono disposti dei globi schiacciati decorati con iscrizioni, essa è dedicata al sovrano nasride Muḥammad III (Amador de los Ríos, 1873; The Arts of Islam, 1976, nr. 175, p.168; Al-Andalus, 1992, nr. 57, pp. 276-277).Pur continuando per tutto il sec. 14°, la produzione di l. da moschea metalliche, esemplate sul modello a corpo globulare adottato nei primi secoli dell'Islam - come nella l. dedicata al sovrano mamelucco al-Malik al-Nāṣir Ḥasan (1361), conservata al Cairo (Mus. of Islamic Art; Wiet, 1932, pp. 12-13, nr. 130; Rice, 1955, p. 225) -, già dalla seconda metà del sec. 13° aveva conosciuto una progressiva riduzione a favore della produzione di l. in vetro, soprattutto in Egitto e in Siria, dove tale tecnica era particolarmente sviluppata. L'uso del vetro per le l. da moschea non era ignoto in epoche precedenti, come attesterebbero già esemplari samarreni (Lamm, 1928, p. 36, fig. 25; Rice, 1955, pp.225-226) o anche siriaci ed egiziani (Islamische Kunst, 1986, nrr. 43, 84, pp. 58, 72). Fu tuttavia verso la fine del sec. 13° che si assistette a un progressivo incremento nell'uso di tali l., decorate con vivacissimi smalti blu, verdi, rossi, rosa e bianchi, secondo la moda in voga nel periodo mamelucco, e identificate in passato anche come cinesi per il forte elemento mongolo che ne caratterizzava la decorazione. Questa tipologia è attestata da un numero molto consistente di esemplari sparsi in varie collezioni, ma conservati principalmente al Cairo (Mus. of Islamic Art; Lane-Poole, 1886, pp. 206-215; Wiet, 1929; 1931-1932; Lamm, 1929-1930). Sporadici sono i casi di esemplari privi di decorazione, come attestano due l. ad Atene (Benaki Mus.; Clairmont, 1977, nrr. 516-517) o quella proveniente dalla moschea di Khwānd Baraka al Cairo (Mus. of Islamic Art; Wiet, 1929, t. LVIII).Già alla fine del sec. 13°, comunque, la forma di queste l. in vetro era "ormai del tutto codificata" (Carboni, 1989, p. 938) e mostrava molti tratti in comune con gli esemplari metallici: all'apertura superiore a cono rovesciato e corpo a bulbo si aggiungeva un piede, assente o di formato molto minore negli esemplari metallici. Nel corso del sec. 14° tale tipologia, pur rimanendo sostanzialmente inalterata, mutò nei dettagli, sia acquisendo gli esemplari maggiore o minore slancio del piede, sia introducendo variazioni nel numero degli orecchioni destinati alla sospensione, sia infine nell'impianto decorativo, caratterizzato da una predilezione per l'apparato epigrafico, distribuito in due o più fasce parallele ed eseguito principalmente in caratteri thuluth e naskhī, secondo il gusto mamelucco. Tra i primi esemplari di questo tipo di l. deve essere certamente segnalata quella trovata a Raqqa del 1260, con una decorazione di pesci e 'nodi di Salomone' (Lamm, 1929-1930, II, tav. 115, nr. 13). Lamm (1929-1930), cui si deve uno studio complessivo fondamentale ancora oggi, ha ordinato queste l. in gruppi, in base ai diversi sovrani regnanti nel periodo in cui furono prodotte: si segnalano, particolarmente significative, le opere eseguite durante i regni di al-Nāṣir, al-Ḥasan e Barqūq. Fra gli esemplari conservati se ne possono menzionare solo alcuni più rappresentativi; una l. proveniente dalla moschea di al-Nāṣir (Cairo, Mus. of Islamic Art; Islamic Art in Egypt, 1969, nr. 179, fig. 31); una l. della metà del sec. 14° a Firenze (Mus. Naz. del Bargello; Carboni, 1993); ancora, una l. siriaca, databile tra il 1330 e il 1335, con il blasone dell'emiro mamelucco Tuquztamur al-Hamawī (m. nel 1345), conservata a Londra (British Mus.; Masterpieces of Glass, 1969, nr. 158). Deve essere comunque sottolineato come dalla seconda metà del sec. 14° non manchino esemplari la cui superficie è interamente ricoperta da un disegno puramente floreale e sprovvista perciò del caratteristico apparato epigrafico e araldico (Wiet, 1929, pp. 9-10; Islamic Art in Egypt, 1969, nr. 184; The Arts of Islam, 1976, p. 144, nr. 140). Esempi di l. da moschea in ceramica che imitano pedissequamente i modelli in vetro si segnalano, viceversa, in forma sporadica (Sauvaget, 1965, p. 61, n. 1). Fu solo durante il periodo ottomano, in effetti, che le l. da moschea in ceramica raggiunsero il loro apogeo, soprattutto per quanto concerne l'apparato decorativo, come le l. a cavallo dei secc. 15° e 16° a Istanbul (Çinili Köşk; Atasoy, Raby, 1989, nrr. 283, 288-290, 293-296, 306).L'illuminazione tramite lucerne costituisce certamente il secondo importante elemento tipologico nella considerazione delle l. islamiche. Appare necessaria una distinzione tra esemplari ceramici - di cui copiosa, ma sinora disorganicamente sistematizzata è la mole di manufatti a disposizione - ed esemplari metallici. Nel corso di tutta l'arte islamica, specialmente delle origini, si assiste tuttavia a una relativa reciprocità tipologica degli oggetti prodotti nei due materiali, sebbene essa sia piuttosto nel senso dell'imitazione ceramica di modelli metallici piuttosto che l'inverso.Indubbiamente molto importante risulta la recente scoperta a Gerasa (Jarash) di forni ceramici con all'interno numerosi esemplari di lucerne (matrici e scarti) facilmente attribuibili cronologicamente, se non datati, al periodo omayyade e primo abbaside (Gawlikowski, 1986, pp. 118-119; Kehrenberg, 1986, pp. 369-375). L'importanza di Gerasa come centro di produzione e di esportazione di lucerne ha permesso di definire un 'tipo Jarash' che avrebbe circolato ben oltre questa città, come rivelerebbero i cospicui ritrovamenti transgiordani di Pella della Decapolis. A questo genere di l. appartengono principalmente esemplari fortemente debitori della tradizione classica (per es. i modelli fittili 'a cuore'), caratterizzati da un corpo apode costituito da due valve ovali con un'estremità appuntita, ottenute da matrici. Superiormente queste l. avevano due fori, uno maggiore per introdurvi l'olio e l'altro più piccolo da cui usciva lo stoppino. Una presa a tenone caratterizzava gli esemplari di Gerasa, mentre altre lucerne contemporanee potevano avere una presa a cono, secondo diverse tipologie individuate dagli studiosi (Kennedy, 1963: tipo 23; Kubiak, 1970: tipo A; Rosenthal, Sivan, 1978: gruppo 1, varianti A e B; Islamische Kunst, 1986, nr. 3). L'impianto decorativo di queste l. costituisce sicuramente un elemento di interesse, a iniziare da quelle con trattamento epigrafico, che in taluni casi sono anche provviste di indicazione cronologica, come una l. di Gerasa datata 125 a.E./747 e firmata dal proprio artefice (Day, 1942, p. 74, tav. XIII, 2; Kehrenberg, 1986, nr. 28, p. 373). Altri esemplari ceramici del 'tipo Jarash' potevano avere una decorazione naturalistica o geometrica o infine pseudo-epigrafica, limitandosi in certi casi l'apparato decorativo a semplici lineette parallele imitanti le lettere dell'alfabeto arabo in caratteri cufici (Rosenthal, Sivan, 1978, nr. 562, p. 136).Un secondo dato archeologico, questa volta assai meno puntuale per quanto concerne le informazioni relative all'ambito cronologico, è costituito dal materiale ceramico rinvenuto nel sito del Fusṭāṭ al Cairo e sistemato in un ordine cronologico relativo da Kubiak (1970). Oltre che del tipo A, che segue caratteri autonomi nell'esecuzione, come la decorazione di tipo samarreno, e presenta rispondenze con il 'tipo Jarash', le l. del Fusṭāṭ sono rappresentative della varietà tipologica degli esemplari ceramici dell'Occidente islamico: vi si possono individuare diversi tipi di lucerne prevalentemente apodi e caratterizzate spesso dall'uso di invetriatura, assente in tutti i precedenti esemplari: ai secc. 10° e 12°, periodo di dominazione fatimide dell'Egitto, appartiene per es. un tipo di l. caratterizzato da un becco fortemente aggettante e presente in vari formati contraddistinti per lo più da un piattello sopra il quale può essere disposto un serbatoio (Kubiak, 1970: tipi B-I). Tipologie più semplici derivate da queste sono osservabili nei secoli successivi, principalmente in ambito ayyubide e mamelucco, come dimostrano le lucerne a salsiera, che sono caratterizzate da un versatoio ottenuto tramite pinzatura degli orli della vaschetta per l'olio (Kubiak, 1970: tipi K-L).In ambito orientale le lucerne fittili si presentano sin dall'inizio in forme sostanzialmente diverse e, anche in questo caso, sembrano inizialmente riprendere concezioni precedenti, come dimostrano quelle contraddistinte da un corpo circolare, con una base più o meno elevata. Caratterizzate da un'ampia apertura circolare nel centro e da un secondo foro minore per lo stoppino, queste prime lucerne potevano ripetere tipi precedenti, come quello, con iscrizioni aramaiche, segnalato da Rosen-Ayalon (1974, fig. 289; v. anche Lacam 1953, pp. 198-200) quale modello precursore di l. ritrovate a Susa (Iran). Peraltro forme analoghe sarebbero state rinvenute, insieme ad altre tipologie, anche in area mesopotamica, come sarebbe risultato dai ritrovamenti samarreni (Sarre, 1925, pp. 25-27). Al periodo samanide (secc. 9°-10°) risalgono diversi esemplari rinvenuti ad Afrasyab, prevalentemente privi di piede e caratterizzati da un serbatoio rotondo a pareti bombate con una pinzatura a formare il becco per il picciolo. Da Afrasyab proviene anche un frammento attestante la presenza di lucerne poggianti su uno stelo (Lacam, 1953, tav. IX, fig. 13). Esemplari apodi di varie forme sopravvissero, comunque, nei secoli successivi, come è attestato da una lucerna proveniente dall'Afghanistan, databile tra i secc. 11° e 12°, e da un esemplare invetriato del sec. 12°, chiaramente ispirato a modelli metallici e caratterizzato da un lungo becco appuntito (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Islamische Kunst; Islamische Kunst, 1986, nrr. 99, 101, pp. 77-78).Tra gli esemplari che più distintamente segnalano la netta separazione tra la produzione iranica e quella occidentale (con l'eccezione di alcune lucerne andaluse) vanno considerate le l. su stelo verticale più o meno alto, poggiante su una vaschetta destinata a raccogliere l'eventuale trasudo di gocce d'olio, e probabilmente ispirate a modelli metallici. Esse potevano avere un serbatoio aperto o chiuso (Sauvaget, 1965, pp. 60-61: tipo C). Tra queste si segnalano in Iran gli esemplari rinvenuti a Rayy, distrutta dai Mongoli nel sec. 13°, e ancora quelli dei secc. 12°-13° di Gurgān (Lacam, 1953, pp. 202-203).Alle diverse tipologie di lucerne fittili corrispose nel corso del Medioevo una varietà notevole di lucerne metalliche, caratterizzate da forme diverse e rispondenti in pieno alla ricchezza della produzione di oggetti metallici in genere. Esse potevano essere poste su appositi portalampade sopra ai quali venivano semplicemente appoggiate oppure fissate. Diverse miniature eseguite tra il sec. 12° e il 13° offrono vividi esempi dell'uso di questi sostegni e delle lucerne che vi venivano poste alla sommità (Baer, 1983, pp. 8-9, figg. 1-2).È possibile individuare un'origine dei portalampade islamici nella tradizione romano-bizantina, poi confluita nell'arte islamica anche tramite la mediazione copta, principalmente grazie ad alcuni degli elementi che costituiscono la struttura complessiva di questa classe di oggetti (Strzygowski, 1904, nrr. 9124-9125; Scerrato, 1964, pp. 680-681; Allan, 1986, pp. 21-22): presenza di un tripode, caratterizzato da zampe animali, per lo più feline; fusto mosso e articolato con elementi a balaustra; piattello destinato ad accogliere le l. dotato di una tesa più o meno larga. È il caso certamente di un portalampade egiziano databile tra i secc. 9° e 10° e conservato a Londra (Vict. and Alb. Mus.), o ancora di altri portalampade fatimidi, come quelli del Cairo (Mus. of Islamic Art), di Londra (British Mus.) e di Kuwait (Nat. Mus.; Baer, 1983, pp. 13-15, fig. 5-6; Jenkins, 1983, fig. 66; Ward, 1993, fig. 46). Sono stati resi noti anche numerosi portalampade iranici risalenti ai secc. 10°-11°: un esempio certamente significativo è costituito da uno dei due portalampade rinvenuti a Maimana (Afghanistan) e pubblicato da Scerrato (1964, pp. 678-684, 708-709, figg. 1-10), che lo ha attribuito ad ambito khorasanico. Caratteristici in questo esemplare sono la base a cupola, decorata con grosse baccellature in rilievo, e il fusto a sezione polilobata, che ripropongono un accostamento ricorrente nell'arte metallistica del Khorasan di elementi architettonici, già peraltro chiaramente individuato in altre classi di oggetti, come le brocche. Basi a cupola più o meno pronunciata ricorrono in altri esemplari, come nei frammenti di portalampade conservati in Afghanistan a Ghazni (Rauza Antiquary) o a Kabul (Mus.), dove tra l'altro essi compaiono sia dotati di piedi sia apodi (Melikian-Chirvani, 1975; 1982, pp. 55-59; Ward, 1993, p. 31, fig. 19); quest'ultimo tipo sembra potersi riconnettere ad alcuni fusti di portalampade protoislamici ceramici (San Pietroburgo, Ermitage; Baer, 1983, p. 12, fig. 4). L'adozione, tra il sec. 12° e il 13°, di basi polilobate 'a saliera' e del fusto 'a globetti' in portalampade khorasanici, come quello del sec. 13° conservato a Los Angeles (County Mus. of Art; Baer, 1983, p. 17, fig. 8), risponde certamente a un recupero di tradizioni classiche: esemplari del tipo erano già noti nel mondo sasanide, provenienti da contesti bizantini, come dimostrerebbe il portalampade rinvenuto a Qaṣr-i Abū Naṣr vicino a Shīrāz (New York, Metropolitan Mus. of Art; Hauser, Upton, 1934, fig. 36; Allan, 1986, p. 21). Non mancano esemplari diversi, spesso lavorati a traforo, come testimonia l'alto portalampade khorasanico, sempre del sec. 12°-13°, oggi a Detroit (Inst. of Arts), caratterizzato da un fitto arabesco vegetale e animale sul fusto e sulla base (Scerrato, 1966, p. 66, fig. 28). Ancora va segnalato, relativamente al contesto iranico, un altro tipo di portalampade, della fine del sec. 13° o degli inizi del 14°, accostabile per quanto concerne la base alla tipologia del candeliere troncoconico; caratterizzato da un alto fusto sopra il quale è fissata una lucerna, se ne conserva un esempio in un portalampade di Teheran (Iran Bāstān Mus.; Melikian-Chirvani, 1982, fig. 54).Assai complesso è il discorso relativo alle lucerne metalliche di epoca islamica: non così evidente appare il fatto che esemplari prodotti in contesti occidentali e orientali mostrino entrambi inizialmente caratteristiche comuni, improntate alla tradizione classica, e altrettanto poco chiara risulta in questo caso la presunta mediazione dell'arte copta (Baer, 1983, pp. 20-22, figg. 11-12). Negli esempi di lucerne metalliche prodotte nei primi secoli dell'Islam in aree fra loro distanti non mancano affinità significative. È il caso di una lucerna egiziana conservata a Londra (British Mus.): risalente ai secc. 8°-10°, essa è caratterizzata da un corpo globulare schiacciato e apode, un cono d'accesso per l'olio e un lungo beccuccio sormontato all'attaccatura da una figurina umana in piedi (Ward, 1993, fig. 45). Una forma non dissimile presenta una lucerna proveniente da Kairouan, che attesta chiaramente la derivazione di l. ceramiche da modelli metallici (Allan, 1986, p. 17, fig. 4); tali modelli potrebbero essere ricondotti a esemplari khorasanici dei secc. 9° e 10°, come quelli rinvenuti negli scavi di Nīshāpūr (New York, Metropolitan Mus. of Art), dove ricompaiono la forma globulare schiacciata del corpo e il lungo beccuccio, anche se rifiniture, impugnatura, motivi decorativi sono sostanzialmente diversi (Allan, 1982, pp. 45, 46, figg. A''1, A''2, p. 88, figg. 106-109; Baer, 1983, fig. 13). Per quanto riguarda l'Occidente islamico, gli scavi archeologici non hanno restituito che un numero assai esiguo di lucerne metalliche. Più numeroso e significativo è invece quello relativo all'ambito islamico orientale e principalmente iranico: i ritrovamenti archeologici di Nīshāpūr hanno peraltro consentito una loro prima classificazione in cinque gruppi principali (Allan, 1982, pp. 45-49). Il primo di essi, in realtà, riunisce in sé altri gruppi che potrebbero essere considerati autonomamente, tenendo conto per es. degli esemplari apodi e di quelli invece poggianti su uno o più piedi. Apodi sono le citate lucerne rinvenute a Nīshāpūr, cui possono essere, viceversa, accostate altre annoverabili nella categoria delle lucerne dotate di piede, con le quali condividono alcuni particolari quali il manico 'a coda di rondine' - presente per es. nello splendido esemplare dei secc. 11°-12°, con piede a sezione ottagonale (Cambridge, MA, Harvard Univ. Art Mus., Fogg Art Mus.; Baer, 1983, p. 23, fig. 14) - e il tipico impianto decorativo, nonché più in generale la fantasia formale propria dell'arte selgiuqide del Khorasan. Rientrano ancora in questo primo gruppo di l. esemplari con più di un beccuccio (Allan, 1982, p. 46, figg. A/3-A/4). Tipologicamente diverse risultano le lucerne classificate come A/5 e A/6 da Allan: il primo gruppo fa riferimento a una tipologia presente a Maimana (Scerrato, 1964, p. 696, nr. 8), caratterizzata da una rispondenza maggiore a elementi classici, ma introduce un elemento di novità nelle alette triangolari disposte ai lati e nel fatto che originariamente doveva poggiare su un piede. Su tre piedi con zoccoli di cavallo poggia anche il secondo tipo di lucerna, dotato di due o più beccucci: un esemplare di Parigi (Louvre, già Mus. Nat. du Moyen Age, Thermes de Cluny) è caratterizzato da tre beccucci e da una figurina umana su un'aquila in posizione araldica, cui è stato attribuito (Melikian-Chirvani, 1973, pp. 14-15) un riferimento a Zāl sul Sīmūrgh tratto dall'epica iranica; lo stesso studioso ha considerato gli anelli fissati sui beccucci dell'esemplare come destinati a ricevere pendagli con gioielli, secondo una pratica già nota in epoca sasanide. Queste ultime l. considerate sono collocabili in un periodo che va dal sec. 10° all'11°; si conoscono altri esemplari databili ai secc. 10°-12° (L'Islam dans les collections nationales, 1977, nr. 56; Melikian-Chirvani, 1982, pp. 100-101, figg. 30-31). Infine, nel primo raggruppamento definito da Allan rientrano anche due tipi di lucerne, assai diffuse, risalenti prevalentemente al periodo selgiuqide inoltrato, tra la fine del 12° e gli inizi del 13° secolo. Tali l. sono caratterizzate da un corpo 'a carena', generalmente dotato di un piede piramidale a sezione ottagonale o di due orecchioni laterali per la sospensione, e da un manico spesso ad anello ovale, disposto verticalmente e non di rado sormontato da figurine ornitomorfe. La considerevole diffusione di questa tipologia permette anche di osservare diverse varianti - come quelle a più beccucci - in cui sono particolarmente ricchi sia l'apparato decorativo sia quello epigrafico (Scerrato, 1959, pp. 106-107; Melikian-Chirvani, 1973, p. 30; 1982, p. 57, figg. 17-18, p. 60, figg. 19-20, pp. 102-105, nrr. 32-35; Allan, 1982, p. 46 figg. A/7-A/8; Baer, 1983, pp. 24-26, figg. 15-16; Islamische Kunst, 1986, nr. 100). È certamente da segnalare, nello stesso periodo, l'imitazione di questo modello nei versatoi saldati alla sommità delle brocche metalliche khorasaniche, come in una brocca di New York (Metropolitan Mus. of Art; Scerrato, 1966, p. 42, fig. 14). Peraltro non mancano l. che, all'inverso, evocano nella forma il corpo di una brocca, come testimonia un esemplare conservato a Parigi (Mus. de l'Inst. du Monde Arabe; Musée de l'Institut du Monde Arabe, 1987, pp. 52-53).Oltre alle l. da moschea, già trattate, le tipologie individuate da Allan contemplano altri gruppi, fra i quali quello della lucerna interamente aperta nella parte superiore, di cui è significativo un esemplare, più esattamente un guttus - oggetto destinato a rifornire d'olio le l. -, anch'esso proveniente da Maimana: di problematica datazione, per l'aspetto e la forma dei piedini, calzati da realistici stivali con tacco, denuncerebbe un'origine centroasiatica (Scerrato, 1964, pp. 684-686, 707); un esemplare analogo, ma sprovvisto dei piedi e di fattura complessivamente meno raffinata, è presente tra i materiali di Nīshāpūr (Allan, 1982, nr. 110). Altre lucerne interamente aperte nella parte superiore sono state rinvenute in Iraq, a Sīrāf, a Susa e a Bambore (Allan, 1982, p. 47, fig. C). In questa tipologia, in genere apode, rientrano diversi esemplari ancora iracheni, databili tra i secc. 10° e 11°, con due o più beccucci (Ward, 1993, fig. 37, p. 55).Lucerne da tavola a vassoio sono presenti in tutta l'arte selgiuqide, come attesta l'esemplare del sec. 12° conservato a Istanbul (Coll. Kocabaş), dotato di quattro piedi a zampa di cavallo (Erginsoy, 1978, fig. 182). Si può invece escludere che alcuni oggetti caratterizzati da una forma molto simile a quella di una lucerna - la cui tipologia è ampiamente diffusa dall'Iran all'Egitto e che sono stati anche identificati quali mortai per cosmetici (Melikian-Chirvani, 1982, p. 51, nr. 13, n. 1; Allan, 1982, p. 37) - possano essere confusi con delle l. (Fehérvári, 1976, nr. 18).Ancora nell'ambito della classificazione di Allan rientra un gruppo di lucerne zoomorfe di cui sopravvivono numerosi esemplari: l'origine della tipologia è certamente cristiana, ma mentre in quel contesto si trattava di una produzione per lo più limitata a lucerne ornitomorfe, con precisa funzione simbolico-rituale, nel caso degli esemplari islamici lo spettro dei soggetti zoomorfi si amplia a comprendere le più diverse forme animali (Erginsoy, 1978, p. 166; Allan, 1982, p. 47, fig. D; Baer, 1983, pp. 25-26, figg. 17-20).
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