LAMPADA (dal gr. λαμπάς, -άδος)
Generalità. - La luce è, sostanzialmente, energia, essendo costituita da quelle varietà di energia raggiante che hanno la lunghezza d'onda compresa, circa, fra 0,4 e 0,7 millesimi di mm. (e, quindi, frequenza compresa, circa, fra 7,5 • 1014 e 4,3 • 1014 periodi per secondo) e che prendono il nome di radiazioni luminose; la relativa porzione dello spettro si chiama "spettro visibile" (v. illuminazione).
Ogni sorgente di luce (lampada) sarà dunque una sorgente di energia raggiante; cioè (per il principio della conservazione dell'energia) sarà un sistema di corpi capace di ricevere dell'energia, sotto qualcuna delle forme ch'essa può assumere, e di trasformarla, almeno in parte, in luce. Alle sorgenti di luce, per individuarne il grado di perfezione, può essere esteso l'usuale concetto di rendimento, definendolo come il rapporto fra l'energia emessa sotto forma di radiazioni luminose e l'energia totale contemporaneamente assorbita. Attesa, tuttavia, la differente attitudine delle radiazioni, a parità di energia, a impressionare l'occhio, la nozione di rendimento può essere utilmente sostituita da quella, più significativa e completa dell'efficienza d'una lampada, definita come il numero di unità di flusso luminoso (lumen; v. illuminazione: Fotometria) emesse per ogni unità di potenza consumata, cioè, per ogni watt (o consumi equivalenti). L'efficienza d'una lampada dipende: a) dalla frazione di energia assorbita ch'essa riesce a trasformare in radiazioni luminose; b) dalla qualità delle radiazioni emesse. La massima efficienza teoricamente possibile si avrebbe quando la lampada non solo trasformasse tutta l'energia ricevuta in radiazioni, ma queste radiazioni fossero tutte della qualità che ha la massima attitudine a impressionare l'occhio (lunghezza d'onda 0,555 millesimi di mm.); si otterrebbero così circa 630 lumen per watt (luce giallo-verde). Se la lampada dovesse emettere luce bianca (cioè un insieme di radiazioni di varia lunghezza d'onda, presso a poco nelle proporzioni in cui si trovano nella luce diurna) la massima efficienza teoricamente ottenibile scenderebbe a circa 220 lumen per watt. In realtà le lampade fin qui costruite sono capaci di trasformare in radiazioni solo una frazione dell'energia assorbita; e di queste radiazioni, soltanto una parte sono luminose (cioè, di lunghezza d'onda compresa nei limiti sopra indicati); sicché, l'efficienza delle lampade usuali (come si dirà in seguito) è assai inferiore a quelle cifre.
Tutti i corpi emettono continuamente energia raggiante; e la proporzione delle radiazioni luminose contenute nell'insieme dell'emissione, estremamente piccola alla temperatura ordinaria, cresce rapidamente con la temperatura, tanto da diventare apprezzabile anche per l'occhio al di là di circa 500° (questa cifra va intesa come un ordine di grandezza; essa è un po' variabile da un corpo all'altro, al pari della proporzione sopra accennata). Un modo teoricamente semplice per trasformare un corpo in una sorgente di luce è dunque quello di fornirgli del calore sino a elevarne la temperatura a sufficienza (emissione di luce per temperatura); il calore è appunto la forma d'energia che la lampada assorbe (il consumo di un watt corrisponde al consumo di 0,24 piccole calorie per ogni secondo). Rientrano in questa categoria le usuali lampade a fiamma (a petrolio, a gas, ecc.) e quelle elettriche a incandescenza, ecc. Inoltre, molti corpi, sottoposti ad azioni speciali (le più importanti sono di natura elettrica), possono emettere radiazioni luminose in quantità assai maggiore di quello che corrisponderebbe alla loro temperatura (emissione per luminescenza); sicché, un altro modo per ottenere della luce è quello di ricorrere a questi fenomeni di luminescenza; la forma d'energia assorbita dipende dalla natura delle azioni eccitatrici (generalmente è elettrica). Rientrano in questa seconda categoria le lampade elettriche a neo, a vapori di mercurio, a vapori di sodio, ecc. Finalmente, si possono realizzare anche lampade di una terza categoria, in cui la luce venga emessa in parte per temperatura e in parte per luminescenza; un esempio sono le lampade elettriche ad arco.
Nelle lampade a emissione per temperatura, utilizzanti la incandescenza di corpi solidi o liquidi, per aumentare l'efficienza (e ridurre i consumi, e quindi il costo di ogni unità di luce prodotta) occorre elevare la temperatura di funzionamento (col crescere di questa temperatura, aumenta la proporzione di radiazioni luminose emesse, almeno finché si resta al disotto, come è sempre il caso, di 5000 ÷ 6000°), quanto più è consentito dalle proprietà dei corpi usati e dalla necessità di assicurare alla lampada una durata non troppo piccola, in guisa da ridurre il fastidio e la spesa dei ricambî; bisogna ancora, quando sia possibile, scegliere il corpo adoperato fra quelli che, a parità di temperatura, emettono la maggior proporzione di radiazioni luminose, e cercare di ridurre al minimo tutte le dissipazioni d'energia.
Nelle lampade a emissione per luminescenza (in tutte quelle oggi in uso i corpi emittenti sono aeriformi, la causa eccitatrice è elettrica; sicché queste lampade possono addirittura chiamarsi ad elettroluminescenza), l'efficienza dipende essenzialmente dalle modalità con le quali agisce la causa eccitatrice e dalla natura e dalle condizioni in cui si trova il corpo, il quale deve essere scelto in modo che le radiazioni emesse appartengano nella maggior misura possibile allo spettro visibile: le differenze di comportamento, fra i varî corpi, nei riguardi della qualità delle radiazioni emesse sono assai maggiori che non nel caso dell'emissione per temperatura.
Si deve ancora aggiungere che le emissioni per temperatura sono generalmente a spettro continuo (la luce, cioè, comprende, sia pure in varia misura, tutte le radiazioni di lunghezza d'onda intermedia fra circa 0,4 e 0,7 millesimi di mm., come avviene presso a poco, nella luce diurna; le differenze fra quest'ultima e la luce artificiale dipendono dalla varia proporzione delle radiazioni; la luce artificiale contiene generalmente una maggior proporzione di radiazioni dell'estremo rosso dello spettro), mentre quelle per luminescenza sono a spettro discontinuo (la luce, cioè, comprende solo alcune delle radiazioni luminose; con la natura del corpo e le condizioni di eccitazione varierà il numero e la posizione nello spettro di queste righe, cioè, il colore della luce emessa).
Riesce comodo classificare le lampade a seconda della natura del fenomeno fondamentale utilizzato, e suddividerle poi ulteriormente in base a modalità minori (natura dei corpi usati, condizioni di uso, ecc.). Possono così distinguersi quattro grandi categorie di lampade.
a) Lampade a fiamma. - In tutte queste lampade, si provoca la combinazione chimica, con intenso sviluppo di calore (combustione), di adatte sostanze, per lo più a base d'idrocarburi, con l'ossigeno dell'aria. La combustione dà luogo a una fiamma (formata dalle parti volatili, o trasformatesi in volatili, della sostanza, e dai prodotti della combustione), la cui temperatura dipende dal calore che si è sviluppato. Attesa la limitata quantità di aria, e quindi di ossigeno, che, in condizioni ordinarie, può venire a contatto con la fiamma, la combustione difficilmente riesce completa; e siccome dei corpi presenti nella fiamma quello che brucia meno facilmente è il carbonio, così talune parti della fiamma conterranno generalmente, in sospensione, delle particelle di carbonio solido non ancora bruciate che diventeranno luminose a causa dell'elevata temperatura acquistata. La luce prodotta sarà l'insieme delle radiazioni emesse dagli aeriformi, che costituiscono la fiamma propriamente detta, e di quelle emesse dalle particelle incandescenti di carbonio; e siccome gli aeriformi in quelle condizioni sono pochissimo luminosi, così la luce della fiamma si ridurrà praticamente all'emissione per temperatura del carbonio. Occorrerà naturalmente che il carbonio in sospensione sia in giusta proporzione con i materiali bruciati e con l'aria comburente: quando il carbonio fosse relativamente poco, la fiamma emetterebbe poca luce per ragioni evidenti; quando fosse troppo ne emetterebbe egualmente poca perché la incompletezza eccessiva della combustione (a causa del carbonio non bruciato) renderebbe bassa la temperatura della fiamma. È appunto la necessità e la difficoltà di ottenere la giusta proporzione di carbonio in sospensione che spiega le molteplici forme date alle lampade a seconda della loro grandezza e della natura del combustibile; spiega, cioè, le varie forme di "becchi" adottate per i combustibili gassosi (gas di carbon fossile, acetilene), le varie forme di "stoppini" e di "calzettine" e organi accessorî per i combustibili liquidi (olio, petrolio, benzina, ecc.), le varie forme e qualità degli stoppini per i combustibili solidi (paraffina, acidi grassi, catrami, ecc.), i becchi speciali per la gassificazione di certi combustibili liquidi prima della combustione, le varie forme di tubo di tiraggio, di vetro o di mica, per aumentare l'afflusso dell'aria comburente e quindi rendere più completa la combustione e più tranquilla la fiamma; ecc.
Malgrado tutto, l'efficienza delle lampade a fiamma è sempre piccolissima, a causa della temperatura relativamente bassa delle fiamme (e quindi del carbonio che fa da corpo raggiante) e delle dispersioni di calore d'ogni genere; traducendo i consumi di calore per secondo nelle potenze equivalenti in watt, l'efficienza, pur variando da un tipo di lampada all'altro, è sempre dell'ordine di appena pochissimi decimi di lumen per watt. Ma il basso costo dell'energia consumata rende relativamente meno costosa la luce prodotta.
Un perfezionamento assai importante hanno subito le lampade a fiamma con l'introduzione (Auer, 1885) delle reticelle a incandescenza. In queste lampade, un afflusso sussidiario di aria comburente (come ad esemfpio si pratica nei comuni becchi Bunsen a gas), rende più completa la combustione e quindi più alta la temperatura della fiamma; e per ottenere la luce, essendo scomparso il carbonio solido, s'introduce nella fiamma un corpo di forma adatta (di grande superficie e piccola massa, a forma generalmente di reticella o calzettina), di sostanze refrattarie scelte fra quelle che irradiano la maggior proporzione possibile di luce (generalmente un miscuglio di ossido di torio e di ossido di cerio; questa miscela ha proprietà emissive assai più favorevoli del carbonio). Il vantaggio è tale, che l'efficienza sale all'ordine di 1 lumen per watt, e può anche superare questa cifra ove si adottino artifici speciali per il ricupero del calore; le spese ausiliarie di ricambio della reticella sono relativamente poca cosa. Sono le lampade cosiddette a fiamma, con reticella incandescmte; se ne fanno per il gas illuminante, per il petrolio, lo spirito, ecc.
b) Lampade elettriche a incandescenza. - La luce è ottenuta portando all'incandescenza dei filamenti conduttori per mezzo di una corrente elettrica di conveniente intensità (fenomeno Joule). Si tratta dunque sempre di luce emessa per temperatura, come nelle lampade a fiamma; e s'impiega l'energia elettrica, malgrado il suo costo relativamente elevato, soltanto perché questa è la forma più conveniente per somministrare calore ai fili senza eccessive perdite ausiliarie; tranne questo, nel funzionamento della lampada e nell'emissione della luce non c'è, per così dire, nulla di elettrico. Si sono costruite dapprima lampade a filamento di carbonio (intorno al 1880), funzionanti a temperature prossime ai 1800°, con efficienze vicine a 3 lumen per watt; poi, trovato il modo di fabbricare anche filamenti fatti di metalli poco fusibili (osmio, tantalio, tungsteno, ecc.), che in condizioni ordinarie sono pochissimo duttili, si sono cominciate a fabbricare (poco dopo il 1900) lampade a filamento metallico (generalmente: tungsteno), di efficienza prossima a 8 ÷ 10 lumen per watt.
Questo miglioramento è dipeso in parte dalla più elevata temperatura di funzionamento dei filamenti metallici (il tungsteno fonde bensì a temperatura più bassa del carbonio, ma sublima meno rapidamente; sicché è possibile spingerne di più la temperatura di funzionamento, fin verso 2200°, senza che il palloncino di vetro in cui è rinchiuso il filamento annerisca troppo rapidamente o senza che il filamento si rompa troppo di frequente), e in parte dalla maggior proporzione di luce, rispetto al carbonio, che quei metalli emettono a parità di temperatura.
Un ulteriore grande progresso è stato fatto intorno al 1913. Nelle lampade costruite sino a quell'epoca, i fili erano portati all'incandescenza entro palloncini di vetro nei quali era praticato un vuoto molto spinto che serviva sia a impedire la combinazione chimica dei fili con l'ossigeno dell'aria (e quindi la sua rapida rottura), sia a impedire che l'aria portasse via calore al filamento per i noti fenomeni di convezione termica. Per altro, il vuoto rendeva relativamente rapida la sublimazione dei filamenti. Si è pensato allora di riempire i palloncini di un gas chimicamente inerte, sperando che il rallentamento nella sublimazione consentisse di forzare ancora la temperatura del filamento, e migliorarne l'efficienza, malgrado il danno derivante dall'inevitabile perdita di calore per convezione. Attraverso varî tentativi lo scopo è stato raggiunto scegliendo dei gas adatti (l'azoto, l'argon, o una miscela dei due gas) e avvolgendo il filamento a spiralina molto serrata per diminuire la trasmissione di calore per convezione; si è giunti così alle attuali lampade a filamento metallico (tungsteno) in gas inerte, la cui temperatura di funzionamento varia, all'incirca, dai 2500° ai 3000° dalle piccole alle grandi lampade, e la cui efficienza è prossima ai 10 ÷ 12 lumen per watt nelle piccolissime lampade, sale a circa 16 lumen per watt nelle lampade medie (100 ÷ 200 candele), e sale ancora, intorno ai 20 lumen per watt, nelle lampade da qualche migliaio di candele; in talune lampade per scopi speciali, accettando una durata minore di quella usuale (che è vicina a 800 ÷ 1000 ore di funzionamento) si raggiungono i 27 lumen per watt.
È stato il miglioramento di efficienza conseguente all'uso dei filamenti metallici (insieme con altri pregi pratici) che ha permesso alle lampade elettriche di vincere, nella maggior parte dei casi, la concorrenza degli altri tipi di lampade (a gas, a petrolio, ecc.), malgrado il più alto costo, rispetto a quello del calore, del tipo di energia consumata. Allo stato attuale della scienza e della tecnica, sembrano ancora possibili ulteriori sensibili aumenti nell'efficienza delle lampade elettriche a incandescenza, specie per le piccole potenze; ma aumenti molto importanti sembrerebbero da escludere.
c) Lampade elettriche ad arco. - Se due aste conduttrici (metalliche, o, meglio, di carbone di adatta qualità), fra le quali si mantenga una conveniente differenza di potenziale elettrico (dell'ordine generalmente di qualche diecina di volt) vengono prima messe a contatto per gli estremi, e poi lievemente allontanate, si forma nell'intervallo il noto fenomeno dell'arco elettrico: un piccol0 ponte di vapori (di metallo o di carbonio), portato ad altissima temperatura dal passaggio della corrente. L'arco emette una luce intensa dovuta in parte all'incandescenza delle estremità delle aste (emissi0ne per temperatura) e in parte all'emissione, prevalentemente per elettroluminescenza, del ponte di vapori. Il materiale più adatto per le aste è il carbone, sotto forma di bacchette ottenute con speciali procedimenti di agglomerazione, compressione e cottura di carbone in polvere; alla sua pasta possono essere aggiunti (carboni a fiamma, a effetto, ecc.) sali metallici adatti (fluoruri od ossidi di cerio, di calcio, di potassio, di ferro, ecc.), i quali, volatilizzando, aumentano con la loro elettroluminescenza la luce dell'arco e ne modificano il colore; la parte assiale delle bacchette è generalmente di materiale più conduttore (carboni animati) per mantenere l'arco meglio centrato. Una lampada ad arco deve altresì comprendere un meccanismo di regolazione che avvicini i carboni, automaticamente, a mano a mano che si consumano; e il circuito elettrico deve contenere, in serie con l'arco, una resistenza - zavorra - o qualche cosa di equivalente, per rendere l'arco più tranquillo e regolare. L'efficienza è generalmente elevata, pur dipendendo molto dalla qualità dei carboni e dalla potenza della lampada, tanto da raggiungere e superare i 20-30 lumen per watt; malgrado questo, le lampade ad arco hanno avuto sempre un impiego circoscritto (generalmente per illuminazioni all'aperto) a causa della quasi impossibilità di costruirle per piccole potenze, della scarsa tranquillità della luce emessa, e delle soggezioni derivanti dal continuo ricambio dei carboni (la cui durata può variare da poche ore, nei tipi usuali con carboni a effetto, sino a qualche diecina di ore nei tipi detti ad arco chiuso, i quali, per altro, hanno un'efficienza minore), dalla presenza dei meccanismi, ecc. Oggi sono state sostituite, tranne che per casi speciali (proiettori, apparecchi per proiezioni, ecc.), dalle lampade a incandescenza in gas inerte.
d) Lampade elettriche a luminescenza. - Sono fondate sull'elettroluminescenza che acquistano gli aeriformi rarefatti allorché sono attraversati, in condizioni convenienti, dalla scarica elettrica; e le più antiche di questa categoria sono i noti tubi di Geissler. Talune lampade utilizzano la luminosità della cosiddetta colonna positiva, altre la luminosità catodica. Le possibilità di scelta dell'aeriforme sono meno vaste di quanto possa sembrare, a causa delle molteplici condizioni che debbono essere soddisfatte affinché la lampada sia di uso pratico; condizioni talune elettriche, altre relative allo spettro di emissione del corpo. Sino a pochissimi anni addietro erano usati quasi esclusivamente i vapori di mercurio (riconoscibili alla caratteristica luce blu-verdastra), il neo (luce rossastra) e l'anidride carbonica (luce biancastra); le lampade avevano la forma di tubi più o meno ripiegati o di ampolle (di vetro o di quarzo), nelle quali penetravano gli elettrodi fra i quali veniva prodotta la scarica; le efficienze ottenute erano piuttosto basse. Ricerche recenti hanno gettato molta luce sulle dispersioni di energia che avvengono in queste lampade e sulla condizione che occorre soddisfare per ottenere efficienze elevate; e hanno già condotto sia a considerevoli miglioramenti di efficienza nelle lampade di tipo noto, sia alla costruzione di lampade di nuovo tipo, più complesso, a vapori di sodio (luce gialla) con efficienze dell'ordine dei 50 lumen per watt. Sin qui, le lampade elettriche a luminescenza, a causa delle caratteristiche elettriche di alimentazione e dei colori delle luci emesse, sono state adoperate poco, e quasi esclusivamente per scopi speciali (pubblicitarî, ad esempio); ma è verosimile che possano subire perfezionamenti radicali atti a estenderne grandemente l'uso.
Proprietà, funzionamento e costruzione delle lampade.
Lampade a fiamma, a combtistibile solido. - Appartengono a questo tipo le fiaccole, le "padelle", le candele. Nei tempi più primitivi, e ancora all'epoca di Omero, il mezzo d'illuminazione della casa era il focolare; pure l'origine della fiaccola è antichissima. Essa fu in origine costituita di una scheggia o un ramo di legno resinoso, e presentava il vantaggio di essere trasportabile. Tracce di tali fiaccole si trovano in epoca preistorica (cultura hallstattiana); e tale sistema d'illuminazione si protrae a lungo: nell'Iliade è citato spesso e solo nell'Odissea si fa menzione della lampada a olio. La nave dei Vichinghi di Gokstad presenta dei piatti di legno di quercia, con un buco nel centro, per infilarvi la fiaccola. Le canne e la paglia accese in mucchi furono un più rozzo sistema, usato ancora nei villaggi dei Goti nel sec. V. Una fiaccola più perfezionata è quella formata di un fascio di giunchi, di cannucce, di funi e simili, rivestito di resina, di pece, di cera (torcia a vento). Le torce a vento furono usate in Babilonia, come indicano i piccoli torcieri ivi trovati.
Le fiaccole e le torce furono usate a lungo, durante tutto il Medioevo e oltre, accanto a sistemi più progrediti: esse erano fissate alle pareti per mezzo di apposite portafiaccole di ferro; e ancora nel Cinquecento e nel Seicento le portantine, le carrozze, le cavalcate erano accompagnate da staffieri con fiaccole; e nelle pareti degli atrî e dei cortili si vedono ancora delle cavità fatte apposta per spegnere le fiaccole, pressandovi la parte accesa. Durante il Medioevo poi, per illuminare ambienti molto spaziosi, si usarono anche cestini di ferro, che si riempivano con schegge di legno resinoso o con pezzi di pece, a cui si dava fuoco.
Dalla torcia a vento derivò la candela (v.), costituita di uno stoppino rivestito di uno spesso strato di cera o di sego. Gli Etruschi la portarono a Roma e in Italia ebbe larga diffusione.
Le fiaccole e le torce sono ora raramente in uso; al contrario delle candele, elemento importante della liturgia e del culto cristiano.
Le "padelle" e i "bicchierini" vasi poco profondi riempiti di grasso e con largo stoppino, si usano tuttora nelle illuminazioni.
Lampade a fiamma, a combustibile liquido. - Questo mezzo d'illuminazione è anche più antico della fiaccola; piatti di pietra incavati furono trovati in caverne del Magdaleniano; essi servivano in parte per levigare i colori, ma furono senza dubbio usati anche per ricevere uno stoppino e del grasso. Nella grotta di La Mouthe in Dordogna si è trovato uno di questi vasi con un accenno di beccuccio per lo stoppino.
Lampade di argilla (di pietra nelle tombe) erano usate in Egitto e i geroglifici ce ne attestano l'esistenza, naturalmente con forme assai semplici, sin dall'antico regno: erano recipienti bassi, di forma circolare che si riempivano d'olio e portavano un lucignolo di tela di lino appoggiato all'orlo o anche messo nel centro; solo durante il medio regno si hanno delle lampade con l'orlo specialmente incavato per mettervi lo stoppino.
La lampada nell'antichità classica. - Il nome della lucerna (λύχνος) si riscontra già in Omero (Odissea, XIX, 34); e certamente l'uso delle lucerne esisteva già durante la civiltà cretese-micenea, perché lucerne di pietra in forma di scodelle concave munite di due larghi becchi, e talora sostenute da colonnette, sono state rinvenute sia nei palazzi di Cnosso e di Haghia Triada in Creta, sia nelle tombe reali dell'acropoli di Micene.
È dubbio se in paese greco l'uso delle lucerne si sia mantenuto, pur in forma sporadica, dopo l'invasione dei Dori, o se la lucerna, utensile di lusso, sia tornata ai Greci per la via dell'Egitto, come la tradizione voleva. Lucerne in forma di scodelle o di conchiglie si sono trovate in gran numero in tutti i paesi del Mediterraneo che i Fenici abitarono o colonizzarono (Fenicia, Cipro, Cartagine, Sardegna); per ciò che riguarda la Grecia, in essa, a partire dal sec. V, la lucerna sostituì ogni giorno più la torcia, della quale l'uso rimase in talune cerimonie religiose tradizionali, come le Fleusinie e le lampadodromie, e durante i riti nuziali.
Dai Greci dell'Italia meridionale dovettero derivare - forse sulla fine del sec. IV a. C. - l'uso delle lucerne i Romani, i quali certo conobbero questo utensile dopo aver da gran tempo introdotto dall'uso etrusco candele e candelabri. Da Roma l'uso della lucerna si diffuse in ogni regione dell'impero, e passò al Cristianesimo.
Le lucerne sono essenzialmente di due tipi: a recipiente scoperto e a recipiente chiuso. Le prime appartengono al tipo più antico: avevano forma generalmente concava, e recavano un beccuccio, lungo l'orlo. Da tal forma si passò alla lucerna a recipiente coperto, che si generalizzò, perché permetteva di protegger da impurità l'olio. In queste lucerne si accentuò via via la prominenza del beccuccio (rostrum o myxus), si aggiunse l'ansa, si praticò nello scudetto qualche altro foro per l'aerazione e si apportarono altre modificazioni, a seconda che le lucerne erano destinate a essere appoggiate o appese, o a esser portatili, e secondo che si volle che facessero luce da un beccuccio, o da due (bilychnis), o da più (lucerne polilicni).
Le lucerne furono generalmente fabbricate d'argilla o di bronzo; eccezionalmente se ne fecero d'oro, d'argento, di pietra, di vetro, o di altro materiale. Celebre è la lampada d'oro, opera dello scultore Callimaco, accesa notte e giorno nel santuario di Atena Poliade nell'Eretteo d'Atene (Pausania, I, XXVI, 6). Essa conteneva olio per un anno, ed era provvista d'una specie di camino in forma di palma, destinato a render la fiamma più viva. Il lucignolo era di lino di Carpasia (Cipro).
Il liquido destinato ad alimentare la fiamma fu d'abitudine l'olio vegetale; in taluni paesi ricchi d'olî minerali (p. es. la Sicilia, Babilonia) si apprese a servirsi anche di questi. Pel lucignolo (ellychnium) i Greci si servirono di una pianta detta ϕλόμος (lat. verbascum) o di foglie di un'altra pianta che può considerarsi una varietà della prima (ϑρύαλλις, thryallis); i Romani si servivano per solito di stoppa, o adoperavano filamenti di papiro, di ricino ecc.
Il considerevole numero di lucerne da noi recuperato ci pone in grado di seguire l'evoluzione di questo utensile sia in Grecia, sia a Roma.
In Grecia alla lucerna senza ansa, a recipiente circolare, con orifizio al centro dello scudetto, e beccuccio ben pronunciato, segue la lucerna con ansa, di forma più piatta e allungata, con becco spesso slargantesi al suo estremo, e di aspetto cosiddetto delfiniforme.
Analoga è l'evoluzione delle lucerne romane, che, dapprima senza ansa, a recipiente circolare, foro nel mezzo dello scudetto, e beccuccio ben distaccato, acquistano poi l'ansa ad anello e il beccuccio corto e rotondo, finché in bassa epoca il recipiente diviene di forma ovale, e invece dell'ansa si ha un piccolo manico pieno e appuntito. Per solito, la grandezza non supera, nel senso dell'asse maggiore, i 7-15 cm.
La decorazione delle lucerne fu una delle più costanti cure sia dei figuli, sia dei modellatori in bronzo. Ma mentre prima dell'evo imperiale romano la decorazione si riduce, in paese greco, a poche forme monotone, e mentre anche nell'Africa settentrionale, nell'età anteriore all'avvento dell'impero romano, gli schemi decorativi sono in numero limitato (i più frequenti sono l'immagine detta di Tanit, un caduceo tra due palme, un cesto con frutta, ecc.), durante l'età imperiale la ricchezza dei motivi decorativi è infinita.
La decorazione si volse anzitutto all'aspetto generale della lucerna. Accanto alle lucerne di tipo comune, altre se ne hanno del tutto singolari: in forma di navicella, di pigna, di elmo di gladiatore, di corno d'abbondanza, di crescente lunare, ecc. Numerose sono le lucerne in forma di testa o di piede umano, o in forma di animale (cane, cavallo, cammello sdraiato, tartaruga, chiocciola, ecc.). Altre infine raffigurano personaggi o noti gruppi scultorei (Tritone col remo, Vittoria che uccide il toro, ecc.).
La decorazione varia secondo che la lucerna è di bronzo o d'argilla. Nelle prime i motivi ornamentali si sviluppano principalmente nel becco, nelle anse, nei fianchi, sul coperchio dell'infundibulum, o sul fondo, come, p. es., nella grande lucerna di Cortona, capolavoro della toreutica etrusca.
Nelle lucerne fittili la decorazione si sviluppa invece essenzialmente sullo scudetto, la cui parte centrale, entro corone o fili di perle, ecc., reca i motivi più varî, che s'ispirano fondamentalmente ai seguenti soggetti:
a) mitologia e mondo mitico: le divinità maggiori dell'Olimpo greco con i loro attributi e con gli esseri mitologici che ne costituiscono il corteggio (Sileni, Menadi, Nereidi), le divinità dell'Olimpo romano (p. es., la Triade capitolina), divinità allegoriche (la Vittoria, la Fortuna, la dea Roma), divinità dell'Oriente (Iside, Anubi, Serapide, Cibele, Attis, ecc.). Non mancano i personaggi del mondo eroico (Eracle, Perseo, Bellerofonte, ecc.), taluni eroi dei cicli iliaco o tebano o della leggenda romana (Curzio che si precipita nella voragine del Foro, ecc.);
b) figurazioni tratte dalla vita umana, con particolare preferenza per i motivi attinenti ai ludi: maschere, gladiatori, aurighi, combattimenti con belve o tra galli, ecc. Frequenti sono anche le scene di caccia e di pesca; non rare le figurazioni erotiche od oscene;
c) il mondo della natura, animali reali o fantastici, piante e motivi vegetali. Rarissime sono le figurazioni tratte da avvenimenti storici: ricordiamo tra queste quella di Diogene e del suo pithos, di Alessandro e Diogene, ecc.
Col trionfo del cristianesimo i soggetti in parte si rinnovano; ma l'uso ne diminuisce, con la decadenza economica incalzante. Troviamo scene del Vecchio e del Nuovo Testamento (Eva, il sacrifizio di Abramo, Daniele tra i leoni, i tre ebrei nella fornace, Giona, il Buon Pastore, Cristo crucigero tra due angeli, Cristo in atto di calpestare il drago, Lazzaro nel sudario, ecc.), figurazioni d'animali, simboli cristiani (la croce semplice o monogrammata, l'agnello, la colomba); né mancano figurazioni singolari, quali quella della barca condotta da San Pietro e da Gesù.
Insieme con i motivi decorativi, attirano in modo particolare l'interesse sulle lucerne, le iscrizioni. Tali iscrizioni - che appaiono in generale sulle lucerne romane d'età imperiale, quasi mai sulle greche, mai su quelle di tipo più antico - recano ora un augurio (annum novum, faustum, felicem mihi o tibi), ora il nome dei personaggi raffigurati (gladiatori, personaggi mitologici, e anche cavalli, ecc.), ora una dedica (Palladi Victrici, Genio populi romani feliciter, ecc.), ora una formula relativa alla proprietà dell'oggetto (pone fur, Genuci sum, ecc.), e nel maggior numero dei casi il nome del fabbricante. I bolli o marchi di fabbrica portano generalmente il nome del figulo al caso genitivo (con o senza l'indicazione ex officina), ora al caso nominativo (con o senza il verbo fecit).
Appare dal complesso di tali segnature e da altri elementi che i principali luoghi di produzione delle lucerne erano tre, e cioè Roma con le sue immediate vicinanze, la Cisalpina (forse la regione di Modena), e la Campania; appare altresì che le grandi fabbriche erano fornite di matrici proprie o di matrici offerte dal libero commercio, e che ogni fabbrica disponeva di gran numero di tali matrici, sicché di sole lucerne con la marca L. Caec(ilius) Sae(cularis o -vus) sono stati trovati a Roma 91 soggetti, e 84 col marchio C. Oppi(us) Res(titutus).
Sulle lucerne cristiane, mentre rarissimamente appare il marchio di fabbrica, non mancano talora formule di augurio (Bono qui eme[rit]; Omnia bona, ecc.) o acclamazioni (ϕῶς Χριστοῦ ϕένι [= ϕαίνει] πᾶσιν ὐμῖν o ϕῶς ἐκ ϕωτός, ecc.).
Le lucerne non servivano solo per l'uso domestico. Esse erano destinate altresì all'illuminazione pubblica, o venivano offerte con fini rituali nei luoghi di culto, o accompagnavano il defunto nella tomba.
È ben noto come le lampade fossero destinate, con le torce e con le candele di cera, alla illuminazione pubblica in circostanze solenni (feste, trionfi, ecc.) o durante le editiones notturne dell'anfiteatro, o nelle terme quando fu concesso di tenerle aperte durante la notte. Né mancò in talune città, come Antiochia, una vera illuminazione urbana, almeno nella tarda età imperiale.
Ed è noto altresì quanto si usasse accendere in onore degli dei lucerne votive. Ricordiamo, a titolo di esempio, oltre alla lucerna del santuario di Atena Poliade, il candelabro a sette braccia del tempio di Gerusalemme e la lucerna in forma di navicella adoperata nel culto isiaco, e che era certo in rapporto con la festa detta Navigium Isidis; e comprendiamo da ciò perché uno straordinario numero di lucerne sia stato rinvenuto nei luoghi consacrati al culto. Del resto il costume delle lucerne accese nei templi con fini rituali passò da Roma nel culto cristiano ed è vivo ancor oggi.
La lampada dal Medioevo in poi. - Nell'epoca cristiana, le lampade di bronzo, di argento e d'oro ebbero varia forma; di delfino, come quelle presentate da Costantino il Grande alla Basilica lateranese; di navicella, lampada trovata presso S. Stefano Rotondo a Roma (Firenze, Museo archeologico) rappresentante la Chiesa con S. Pietro e S. Paolo; di basilica, come quella trovata presso Orléansville in Algeria (Museo dell'Eremitaggio); di pegaso, lampada del Museo nazionale romano. ecc.
Forme assai semplici, quasi a calice o a coppa, ebbero le lampade a sospensione dell'epoca copta (lampada di bronzo nell'Ashmolean Museum, Oxford); di più ampie proporzioni e forma emisferica schiacciata furono le lampade di vetro con decorazione pittorica di tipo orientale in uso presso gli Arabi fino al sec. XV e da loro diffuse in tutte le regioni sottomesse (esempî nel British Museum, e nel museo del Louvre). Diversa forma - a vasetto con piccola base e labbro espanso - hanno le lampade nel secolo XI-XII (cfr. affresco nella Basilica inferiore di S. Clemente rappresentante il miracolo di S. Clemente) e questa si mantenne con poche varianti nel periodo romanico e gotico. La lampada portatile alla fine del sec. XIV è formata da un sottile fusto con base espansa e anello all'estremità superiore, che porta nel centro o a due terzi un piccolo recipiente per l'olio, a uno, due o tre becchi, e coperto. Questo tipo diffuso nel Rinascimento rimase fino al '600 e più oltre, variando di proporzioni e di ampiezza. Nel sec. XVI vennero in uso a Venezia lucerne a forma cilindrica, di bronzo dorato e smaltato con fregi di tipo lineare orientaleggiante, eseguiti a traforo, delle quali restano esempî nel Museo di Cluny, al Louvre, nella collezione Carrand al Bargello di Firenze.
Il periodo glorioso della lampada italiana furono i secoli XV e XVI, quando la fantasia degli artisti ebbe risorse innumerevoli per includere nella forma d'arte gli elementi di praticità, come il beccuccio e i fori d'aria, e fu abile a creare nuove forme, ispirandosi al magnifico repertorio di derivazione pagana, ma enormemente arricchito dalla fantasia di tutti gli artisti del Rinascimento. Alcune lampade sia per pregi di modellazione sia per varietà compositiva sono vere opere d'arte, come quelle di Andrea Briosco da Padova (molti esempî al Louvre, al Victoria and Albert Museum, all'Ashmolean Museum, al Bargello, ecc.). Nei secoli XVII e XVIII furono in grande uso le lampade a sospensione di vetro e moltissime d'argento con ornati a sbalzo, ispirati al comune repertorio decorativo dell'epoca e principalmente a teste di cherubini, ghirlande, cartigli. Esse costituirono una ricca decorazione per le cappelle chiesastiche e accolsero poi i motivi decorativi del neo-classicismo, assumendo forme più rigide, mentre si modellava su questi anche la lampada da tavolo, in cui s'introdussero perfezionamenti allo scopo pratico dell'illuminazione. Mutata questa per l'introduzione di nuovi sistemi, le lampade da sospendere e quelle da tavolo furono variamente modificate, finché l'odierno modo d'illuminazione diffusa non è venuto a trasformarne le forme tradizionali.
I perfezionamenti tecnici. - Verso il 1550, Gerolamo Cardano, riprendendo l'idea di Filone di Bisanzio, apportò la prima modificazione notevole alle lampade: egli vi aggiunse un piccolo serbatoio per il combustibile in forma di colonnetta, con un piccolo foro che restava un po' al disotto del livello dell'olio nella lampada; quando il foro restava scoperto, l'olio defluiva nella lampada stessa.
Un miglioramento decisivo si deve ad A. Argand, il quale verso il 1780 si propose di ottenere un miglior tiraggio e quindi una migliore combustione, meno fumo e più luce: egli inventò un becco consistente di due cilindri vuoti, concentrici, tra i quali si fa passare un lucignolo circolare: il tubo centrale, vuoto, porta una corrente d'aria alla parte interna della fiamma, mentre la parte esterna è aerata per mezzo di un tubo di vetro o di mica che circonda e protegge la fiamma, appoggiandosi a una galleria traforata, situata un po' al disotto del becco. È da notare che l'idea del tubo, che fungendo da caminetto, migliora la combustione e quindi aumenta la luminosità, risale a Leonardo da Vinci, come dimostrano tre suoi disegni. Il congegno Argand fu in seguito perfezionato, applicando al disopra dei cilindri un bottone, detto bottone di Liverpool, che divideva la fiamma e aumentava la luminosità. Un altro miglioramento fu apportato da Lange poco tempo dopo, fabbricando i tubi di vetro con una leggiera strozzatura all'altezza del bruciatore, il che obbligava l'aria a ossigenare la sommità della fiamma.
Il serbatoio dell'olio delle lampade Argand, imitate abusivamente dal farmacista Quinquet, che a esse legò il nome nell'uso corrente francese, era a fianco e un po' in alto rispetto al becco. Questo serbatoio fu perfezionato da J.-L. Proust, che così venne a creare le lampade da studio. La posizione laterale del serbatoio produceva però molta ombra; e per ovviare a questo inconveniente furono inventate la lampada sinombre da Philips e la lampada astrale da Bordier-Marcet (1809), nelle quali il serbatoio laterale fu sostituito da un serbatoio circolare che serviva anche di sostegno al paralume.
Intanto però si era venuta diffondendo sempre più la lampada meccanica, inventata dall'orologiaio Carcel nel 1800. Essa era una lampada con becco Argand, in cui però il serbatoio dell'olio era al disotto: l'olio veniva portato al lucignolo per mezzo di una piccola pompa, mossa da un movimento di orologeria.
Data la posizione del serbatoio, l'ombra che era proiettata dalle vecchie lampade veniva eliminata. Nel 1817 questa lampada fu perfezionata da Gagneau, che vi applicò due pompe e regolò meglio l'afflusso del combustibile. La lampada Carcel era però piuttosto complicata e inoltre soggetta a frequenti guasti; si cercò quindi di eliminare tanto la pompa quanto il complicato movimento di orologeria.
Il meccanico Ph. Girard propose nel 1803 la lampada idrostatica, basata sul principio della fontana di Erone; nel 1804 Lange, nel 1810 Verzi, e poi Thilorier proposero diversi sistemi di lampade idrostatiche, in cui l'olio saliva per la pressione di un altro liquido. La lampada di Thilorier, che entrò nell'uso, usava a tale scopo una soluzione di solfato di zinco. Però soltanto la lampada a moderatore, inventata da Franchot, batté la lampada Carcel. La lampada del Franchot ha nel serbatoio uno stantuffo che sotto l'azione di una robusta molla comprime l'olio e lo obbliga a salire in un piccolo tubo che lo porta allo stoppino; la regolarità dell'afflusso dell'olio si ottiene mediante un ago (moderatore) solidale con lo stantuffo che si muove dentro il tubo, modificandone la luce e regolando cosi la portata dell'olio.
Nel 1840, Neuburger presentò la lampada solare, che ha una luce viva e costante, senza che occorra alcun meccanismo speciale, e che permette di usare qualunque grasso, anche scadente.
Si era anche pensato di adoperare per l'illuminazione, oltre agli olî, altre sostanze, che però, per essere assai volatili e combustibili, non possono essere bruciate nelle lampade per olio. Così Robert costruì una lampada per canfino (miscela di alcool e di essenza di terebentina), Selligue ne propose una per utilizzare l'olio di scisto, ed ebbe un certo successo per l'illuminazione delle fabbriche. Però la scoperta del petrolio e la sua adozione come illuminante verso il 1850 fece scomparire gli altri combustibili. La scarsa viscosità del petrolio rende inutili i complicati meccanismi per portare il combustibile al lucignolo, bastando a ciò l'assorbimento capillare. Scomparvero quindi le lampade più o meno complicate, per lasciare il passo a lumi con becco Argand e serbatoi inferiori: in certi casi si adoperò lo stoppino piatto, detto americano, che bruciava in un becco con stretta fessura longitudinale. L'attività degl'inventori si limitò a creare lampade di sicurezza, che escludessero il pericolo di esplosione, come quelle di Marmet, di Boital, ecc.
Intanto, per aumentare l'intensità luminosa, si erano cominciati a studiare altri sistemi d'illuminazione, basati sul principio dell'incandescenza. Esponendo a un calore molto alto speciali corpi che non bruciano facilmente, questi diventano incandescenti ed emettono luce vivissima. Ma per ottenere tale risultato è necessario che la fiamma adoperata dia una temperatura altissima, mentre non importa che essa stessa sia visibile. Già nel 1826, Th. Drummond dirigendo la fiamma di un miscuglio di due volumi di idrogeno e uno di ossigeno - fatti arrivare però separatamente al becco - su un bastoncino di calce, rendeva questo incandescente e produceva così una luce assai intensa: è la luce Drummond o ossidrica. Però i bastoncini di calce spesso si spezzavano durante il raffreddamento e in ogni modo non duravano tanto da permettere una regolare illuminazione. Molti cercarono di rendere con svariati accorgimenti questa luce praticamente utilizzabile, ma senza notevoli risultati. Tra questi tentativi, merita menzione quello del torinese Carlevaris che propose di sostituire i bastoncini di calce prima con pallottole di cloruro di magnesio, poi con laminette di cloruro di magnesio o di magnesia. Luci dello stesso tipo sono quella di Gillard (1846) che adoperò l'idrogeno per rendere incandescente una reticella di platino; di Tessié du Motay (1860) che modificò il becco di efflusso della miscela ossidrica e adottò lo zirconio; di Clamond (1881) che adoperò una reticella di fili di magnesio, ecc.
Lampada a gas di fossile. - Una vera rivoluzione nei sistemi d'illuminazione è segnata dall'uso del gas illuminante, introdotto in pratica da William Murdoch sin dal 1779 e talmente perfezionato che già nel 1802 poteva servirsene per una pubblica illuminazione in occasione della firma del trattato di Amiens.
Nel 1808 egli illuminava a gas Pall Mall Street e nel 1812 fondava in Londra la Chartered Gaslight and Coke Co., primo esempio di società per l'illuminazione pubblica e privata per mezzo del gas. Murdoch aveva cominciato con l'accendere il sottile getto di gas uscente da un piccolo tubo di ferro, ma presto si accorse che ciò produceva sciupio di gas e poca luce; quindi saldò l'apertura del tubo e vi fece tre fori divergenti che davano tre fiammelle. In seguito la parte finale fu appiattita, vi furono praticati numerosi fori piccoli e vicini, sostituiti presto da una fessura: il becco in questo caso dava la fiamma "a ventaglio". Nel 1820 G. B. Neilson creò il cosiddetto becco di Manchester, che dà la fiamma "a coda di pesce": in esso si trovano due fori, con direzioni convergenti; i due zampilli di gas coincidendo dànno alla fiamma una forma schiacciata.
Nel 1853 sir E. Frankland e nel 1854 W. R. Bowditch adattarono per il gas il becco Argand con tubo di vetro: in esso l'efflusso del gas avviene attraverso un anello bucato di 12 a 30 piccoli fori; si ottiene così una fiamma circolare aerata tanto lungo la faccia interna quanto lungo quella esterna. Maccaud circondò questi becchi con una reticella metallica finissima, che rallenta l'efflusso dell'aria, diminuisce l'instabilità della fiamma e ne aumenta lo splendore, e Bengel sostituì alla corona metallica traforata del becco Argand un panierino di porcellana bucherellato.
Per rendere ancora più intensa la luce si ricorse al cosiddetto sistema a rigenerazione, in cui si riusciva a utilizzare una parte del calore disperso, facendolo ritornare sulla fiamma. La lampada a rigenerazione più perfezionata si ebbe con quella inventata da F. Siemens nel 1879. Grande diffusione ebbe anche la lampada a rigenerazione Wenham.
Ma tutti questi perfezionamenti furono messi in dimenticanza dall'invenzione di Auer von Welsbach della reticella, formata dalle ceneri di fili di cotone imbevuti di una soluzione di ossido di magnesio, dapprima, e successivamente dal più efficace ossido di torio con l'1%, di ossido di cerio. Le patenti dell'Auer sono del 1885 e del 1886. In pratica per la fabbricazione di queste reticelle o calzettine si procede immergendo un cilindro di reticella di cotone, alto circa cm. 20, in una soluzione di nitrati del metallo prescelto (zirconio, alluminio, ecc., preferibilmente torio) sino a che le fibre siano saturate; il cilindro è spremuto per eliminare l'eccesso di liquido e una delle due estremità è cucita con un filo di amianto, lasciando un cappio che permetta a una bacchettina centrale o esterna di sostenere la reticella; si procede quindi alla combustione, che elimina le materie organiche e trasforma i nitrati in ossidi. Per rendere possibile il trasporto delle reticelle bruciate, si rendevano più resistenti alle scosse, immergendole in un bagno di collodio. Julius Pintsch nel 1887 inventò un becco adatto all'uso di queste reticelle, e ben presto l'incandescenza a gas si diffuse dappertutto. Il successo delle reticelle Auer spinse molti a studiare il modo di eludere i brevetti Auer, usando altri materiali per la costruzione delle reticelle. Molto diffuse in Italia furono le reticelle di Plaissetty, che adoperava per la rete filamenti di collodio, sottoposti a un bagno di solfuro di calcio per renderli meno infiammabili: le reticelle così formate duravano in media più di 1500 ore contro 700 a 1000 quanto duravano le reticelle di cotone Auer; le reticelle Lehner, di una specie di seta artificiale, duravano anche 3000 ore.
L'invenzione delle reticelle richiamò in vita l'uso di altre sostanze illuminanti abbandonate in favore dell'uso del gas, come il petrolio, lo spirito, il benzolo, la benzina, vaporizzati.
L'intensità della luce del gas con reticella fu anche aumentata per mezzo di varî sistemi, come lo speciale tubo inventato da Lucas, che esercitando una forte aspirazione del gas e dell'aria, aumentava il potere luminoso della reticella, fornendo al becco o gas o una miscela di gas e aria a pressione aumentata, come nei sistemi Keith, Millennium, Selas e simili, che furono largamente adoperati nell'illuminazione pubblica, competendo vittoriosamente con la luce elettrica ad arco, che cominciava allora a diffondersi.
La luce delle ordinarie lampade a incandescenza a gas con fiamma diritta però tendeva verso l'alto; e quindi buona parte della luce andava praticamente perduta. Varî tentativi furono fatti per ovviare a questo inconveniente, ma soltanto verso il 1902 si ebbero le prime lampade a incandescenza a fiamma rovesciata per merito di J. Bernt ed E. Červenka. Essi adottarono il solito becco usato per la fiamma diritta, a cui aggiunsero un lungo tubo, detto isolatore, che aveva in fine un cono capovolto: il tubo aveva lo scopo di allontanare la fiamma dal becco, il cono quello d'impedire che i prodotti della combustione rendessero impura la corrente d'aria; con questi e simili accorgimenti fu possibile ottenere delle lampade a incandescenza con fiamma rovesciata, che in seguito furono alimentate sia con gas a pressione ridotta, sia con gas a pressione aumentata. Con simili lampade fu largamente usato il gas d'olio per l'illuminazione delle vetture ferroviarie. Una diffusione abbastanza vasta ebbe la luce ad acetilene, che tuttora è usata in certi casi. Essa è prodotta facendo cadere a goccia a goccia dell'acqua sul carburo di calcio; il gas che si sviluppa è acceso in un becco "a farfalla", gli apparecchi sono assai semplici, ma presentano pericolo di scoppio.
Lampade elettriche ad arco. - Il primo arco voltaico - cioè una potente scintilla elettrica tra due bacchette di carbone - sembra sia stato prodotto da sir H. Davy nel 1801, e presentato nel 1808 alla Royal Institution di Londra: egli aveva costruito una pila di 2000 elementi zinco-rame, di 2 dmq. ciascuno, immersi in una soluzione di allume acidulata con acido solforico. La corrente metteva capo a due bacchette di carbone di legno di mm. 2 di diametro, messe a contatto: allontanandole gradatamente sino a 11 cm. di distanza si ebbe una brillantissima striscia di luce. Subito si pensò di utilizzarla, ma tre gravi ostacoli si frapponevano a questa idea: le pile, del tipo di quella di Volta, si esaurivano rapidamente, i carboni usati da Davy si consumavano presto e davano una luce non costante; col consumo dei carboni, la distanza tra i loro estremi naturalmente aumentava e l'arco si spegneva.
Soltanto dopo il 1840, quando cioè con le pile a corrente costante Daniell (1838) e Bunsen (1840) fu risolto il primo e più importante problema, si poté pensare a risolvere gli altri due; e nel 1842 L.-J. Deleuil illuminò con l'arco voltaico una casa sul Pont-Neuf a Parigi, mentre nel 1844 Archereau illuminava Place de la Concorde con una lampada ad arco. Nello stesso anno Léon Foucault sostituiva al carbone di legno, usato sino allora, il carbone che si forma nelle storte per la produzione del gas illuminante. Sarebbe troppo lungo elencare tutti i perfezionamenti apportati nella fabbricazione dei carboni; i più usati furono quelli sistema Carré (1876), fatti con agglomerati di nero fumo, coke e sciroppo di zucchero: essi furono in seguito perfezionati da Reynier che li rivestì di una patina metallica, immergendoli in un bagno di nichelio, che, aumentando l'intensità della luce, diminuiva il consumo.
Nelle prime esperienze di Foucault la distanza dei carboni era regolata e mantenuta costante manovrando due viti a mano; ma già nel 1845 Thomas Wright e nel 1848 lo stesso Foucault da una parte, e Staite e Petrie dall'altra, idearono degli apparecchi, detti regolatori, che, mossi dalla stessa corrente che produceva l'arco voltaico, mantenevano automaticamente costante la distanza dei due carboni. Il regolatore Foucault fu poi perfezionato dallo stesso inventore e da Duboscq; si ebbe quindi (1857) il regolatore Serrin, che non soltanto avvicina i carboni, ma li allontana quando sono troppo vicini e permette quindi l'accensione automatica; la lampada Siemens-Halske; la lampada Houston e Thomson in cui l'arco voltaico si ottiene mediante ripetute scintille elettriche succedentisi rapidamente; la lampada Jaspar, basata sul l'azione di un solenoide, e moltissime altre.
Tutte queste lampade però avevano l'inconveniente che un circuito non poteva alimentarne che una sola, perché siccome i carboni sono tenuti a distanza costante dalla corrente, se un regolatore subisse un guasto tutte le lampade del circuito ne risentirebbero (lampade monofoti). Però si vide che l'arco voltaico si poteva regolare da sé, senza influenzare l'intensità della -corrente del circuito, sia inserendo l'elettromagnete che regolava i carboni delle lampade in un circuito derivato, sia col produrre il movimento necessario alla regolazione mediante due elettromagneti o solenoidi. Si ebbero così le lampade differenziali. Il primo esperimento di queste lampade fu quello del giugno 1855 di Lacassagne e Thiers che illuminarono il quai des Célestins a Lione; ma la scoperta era prematura, dato che per avere la corrente si ricorreva alle pile. Solo quando si ebbero dei generatori di corrente più potenti, le lampade differenziali dei più diversi tipi si moltiplicarono rapidamente: tra esse meritano menzione quelle Siemens, che ebbero larghissima diffusione; quelle Brush, usate per l'illuminazione pubblica a Londra, New York, ecc.; quelle di Pilsen, dovute a Křižik e Piette; le Bürgin; le Schuckert, che adottarono l'anello di Pacinotti, ecc.
Un altro tipo di lampada elettrica ad arco che ebbe grande diffusione fu la candela elettrica; il primo esempio di questa lampada elettrica si deve all'ufficiale del genio russo N. Jabločkov: in essa i due carboni sono paralleli e vicini, e separati da una lamina di solfato di calce e di solfato di barite: l'arco voltaico si produce tra le due punte del carbone, e fonde gradatamente la materia isolante, a mano a mano che i due carboni si consumano e si accorciano. Una candela di questo tipo durava soltanto un'ora e mezzo circa, e per avere un'illuminazione di maggior durata si usavano più candele disposte dentro un candelabro, le quali per mezzo di un commutatore venivano accese successivamente. Col sistema Jabločkov nel 1877 furono illuminati i grandi magazzini del Louvre e nel 1879 si contavano a Parigi più di trecento centri d'illuminazione con questo sistema.
Formano un passaggio tra i tipi ad arco voltaico e le lampade elettriche a incandescenza, le lampade elettriche a contatto imperfetto, come la lampada Reynier (1878), in cui un filamento di carbone veniva reso incandescente dalla corrente, mentre si formava un piccolo arco tra l'estremità del filamento e un disco di carbone sottoposto. Questa lampada fu variamente modificata da Trouvé, Ducretet, Tommasi, Werdermann, ecc. Nella lampada soleil di Clerc e Bureau, due carboni, disposti obliquamente, rendono incandescente un prisma di marmo. Nel 1899 Bremer migliorò notevolmente (da 3 a 4 volte) l'efficienza della lampada mediante l'uso di carboni imbevuti di sali leggieri (carboni ad effetto), e nel 1910 Carbone da un lato e Jandus dall'altro ne aumentarono la durata facendoli bruciare fuori del contatto con l'aria. Dal 1906 in poi si diffusero in America le lampade ad arco con elettrodi di magnetite; posteriormente furono fabbricate le cosiddette lampade pointolyte in cui l'arco voltaico si forma tra elettrodi di tungsteno in un'atmosfera di gas inerti: esse hanno un'efficienza di 15 a 25 lumen per watt e una potenza da 500 a 10.000 lumen e sono adatte per microproiezioni.
Lampade elettriche a incandescenza. - Tutti i sistemi precedenti sono stati da ultimo soppiantati completamente - tranne in casi specialissimi - dalle lampade elettriche a incandescenza. La prima di tali lampade fu fabbricata dall'inglese de Moleyns a Cheltenham nel 1841: essa era un globo di vetro, nel quale era stato fatto il vuoto, e che conteneva una spirale di platino, che la corrente rendeva incandescente; nel 1845, Starr adoperò invece un filamento di carbone; ma queste invenzioni caddero in dimenticanza e quando nel 1873 Lodygin presentò una lampada quasi uguale a quella, essa fu considerata come una nuova invenzione. Finalmente nel 1878 Edison rese pratiche le lampade elettriche a incandescenza a filamento di carbone che tennero da sole il campo dell'illuminazione elettrica per un trentennio. Per poter funzionare a tensione abbastanza elevata (100 volt e più), occorre un filamento lungo e per aver lampade di piccola intensità luminosa, piccoli diametri; Edison carbonizzò, fuori dal contatto dell'aria, fili di cotone, poi striscioline di corteccia di bambù del Giappone; Swan carbonizzò fili da cucito pergamenizzati; poi si generalizzò l'uso di fili di cellulosa che si avvolgono su forme di grafite con scanalature a una o più eliche e si carbonizzano ad alta temperatura, oltre 1000°, annegati in polvere di grafite, e sistemati in crogiuoli refrattarî.
Tra i filamenti di carbone meritano speciale menzione due tipi proposti da Italiani: il primo, ottenuto dal Cruto, che verso il 1880 produsse filamenti deponendo su un filo di platino sottilissimo della grafite per decomposizione d'idrocarburi; volatilizzando il platino restava un filamento costituito da un tubetto di grafite pura; Rocco invece preparava filamenti di ulmato di ulmina, macerando lo zucchero nell'acido solforico e trafilando la pasta carboniosa, che veniva poi calcinata.
I filamenti di carbone hanno coefficiente di resistenza negativo, che cioè diminuisce con la temperatura, eccettuati i filamenti Cruto per i quali è positiva. I filamenti di carbone vengono "nutriti", cioè rivestiti di uno strato di grafite ottenuto accendendoli in un idrocarburo.
Il filamento di carbone, naturale o nutrito, viene fissato ai reofori a mezzo di deposito elettrolitico di rame (Edison) e più generalmente con un mastice carbonioso. I reofori passano attraverso un supporto fatto con un tubo di cristallo schiacciato a un'estremità, costituente giunto impermeabile all'aria.
La tenuta era assicurata mediante fili di platino nell'attraversamento del vetro, sostituiti poi con varie leghe e, da ultimo, con fili di ferro-nichel placcato di rame elettrolittico, difeso da uno strato di borace durante la saldatura alla fiamma. Il supporto, preparato col filamento montato, viene introdotto in un palloncino di vetro e saldato al collo di esso. Il palloncino poi deve essere munito di un tubetto (quesot) che può essere interno al tubo del supporto (lampada senza punta) e che serve a estrarre l'aria.
Composta la lampada, si fa il vuoto, cioè si rarefà l'aria contenuta nel palloncino quanto più è possibile. Per questo si usavano le pompe a caduta di mercurio, poi verso il 1894 Arturo Malignani di Udine usò pompe pneumatiche usuali, perfezionando il vuoto col fosforo. Si ritornò in seguito alle pompe a mercurio rotative (tipo Gaede, Cacciari) che agiscono in serie con pompe meccaniche. Più recentemente si introdussero pompe a diffusione o condensazione di vapore di mercurio ad altissimo vuoto.
Vuotata la lampada, si chiude il tubetto alla fiamma formando la punta. Alla lampada viene adattato un attacco con mastice di gesso e destrina o cemento e gommalacca.
Gli attacchi più usati sono quelli a vite Edison (26,5 mm. di diametro nel tipo normale) e quelli a baionetta Swan (diametro 22 mm.). Altri attacchi (Cruto, Tecnomasio, differenziali, ecc.) sono caduti in disuso.
Si controlla il vuoto per luminescenza col rocchetto di Ruhmkorff, indi si fotometra la lampada. La lampada a filamento di carbone è tarata in watt per candela. Le prime consumavano 4 watt per candela, poi si scese fino a 2,5 watt per candela. La durata è sulle 800 ore con diminuzione di oltre il 20% dell'intensità luminosa.
Il filo di platino venne usato fino dal 1840, ma non resiste ad alte temperature. Verso il 1900 la Società Siemens costruì lampade a filo di tantalio di efficienza doppia di quelle a carbone. Auer nel 1904 propose l'osmio; nel 1906 Just e Hanaman proposero il tungsteno, divenuto poi di uso generale.
Questo metallo, ritenuto non duttile né malleabile, era ridotto in polvere finissima sia come colloide sia allo stato piroforico e impastato con un agglutinante, pressato in filamenti attraverso trafile, poi calcinato, ottenendo elementi a U di filo di tungsteno fragilissimi, che venivano montati su supporti a formare le lampade e chiusi nel palloncino nel quale era stato fatto il vuoto.
Il Coolidge, del laboratorio G. E. C. di Schenectady, trovò il moda di produrre fili trafilati di tungsteno. Per ottenere il tungsteno allo stato di filo duttile bisogna comprimere la polvere impalpabile di tungsteno fino a formare dei piccoli lingotti a sezione quadrata, generalmente di un centimetro di lato e 20 centimetri di lunghezza. Facendovi passare una corrente intensa (1500 e più ampère) sotto una campana refrigerata contenente idrogeno o miscele di gas inerti, la polvere di tungsteno subisce un inizio di fusione e si ottiene un lingotto metallico che, riscaldato al calore bianco, viene martellato in speciali macchine martellatrici. I martelletti, che portano incavature coniche, battono e insieme stirano il tungsteno e vengono cambiati a ogni passaggio per circa 50 volte. Quando il lingotto è ridotto a un filo di un millimetro di diametro o meno, è già un poco duttile e allora viene trafilato a caldo con trafile di diamante di diametri decrescenti (fino a 250 passaggi). Si ottengono così fili sottili fino a un centesimo di millimetro di diametro, di grande resistenza alla trazione (400 kg. per mmq.). Il filo trafilato va ricotto per poterlo piegare avvolgendolo ad arcolaio su supporti analoghi a quelli delle lampade a carbone, ma con un'asticina di vetro che regge i gancetti di sottile filo di molibdeno su cui appoggia il filamento incandescente.
Il supporto e il filamento sono spruzzati o coperti di un composto di fosforo detto getter. La chiusura e la vuotatura sono analoghe a quelle della lampada a carbone.
Lampade in atmosfera gasosa.- Siccome il rendimento luminoso di un filamento di tungsteno aumenta con l'aumentare della temperatura, conviene spingere questa più che sia possibile verso il limite di fusione (3400°); ma la vaporizzazione nel vuoto cresce rapidamente al disopra dei 2100° e il filamento si disgrega annerendo il palloncino. Per evitare questo inconveniente il Langmuir, del laboratorio della G.E.C., avvolse a spiralina il filamento e introdusse nel palloncino gas inerti (azoto, argon). La pressione del gas (3/4 atmosfera a freddo) impedisce la vaporizzazione, però sottrae calore per i moti convettivi, mentre la spiralizzazione riduce la superficie emittente: potendosi però aumentare molto la temperatura, si può arrivare fino al rendimento di circa 27 lumen per watt.
Per i filamenti di carbone la resistenza ohmica delle lampade a incandescenza è, a freddo, il doppio che all'incandescenza. Per le lampade a tungsteno è oltre 10 volte minore a freddo che alla temperatura di funzionamento.
Si dicono normali le lampade da 10 a 60 watt nel vuoto e da 25 a 1000 nel gas, per tensioni da 70 a 200 volt. Lampade speciali sono quelle per chirurgia, per batterie tascabili, per automobili, telefoni, candelabri, ecc., come pure quelle per proiezioni luminose, quelle da 10.000 a 50.000 watt per teatri di presa cinematografica e per campi d'aviazione. Altro tipo speciale è quello chiamato "Vitalux", o analoghi, a palloncino di quarzo, che lascia passare raggi ultravioletti.
Il filamento di carbone ha uno splendore di circa 55 candele per cmq.; quello di tungsteno nel vuoto: 200; nel gas: fino a 1300 candele per cmq. Per ridurre a circa due candele per cmq. lo splendore del palloncino, il che è necessario per evitare l'abbagliamento, si mostrò conveniente la smerigliatura interna dei palloncini.
Il consumo mondiale di lampade elettriche a incandescenza normali e speciali è di circa un miliardo (1930). Metà è consumato negli Stati Uniti e nel Canada; metà nel resto del mondo (esclusa la l'U. R. S. S. e parte del Giappone). Il consumo annuo italiano si aggira (1931) sui 35 milioni di lampade, di cui l'80-85%, fabbricato in paese.
lampade a luminescenza. - Le lampade a luminescenza, che sono un'applicazione pratica dei noti tubi di Geissler, furono ideate da Mac Farlan Moore. Facendo passare una corrente ad alta tensione tra due elettrodi non luminosi in un tubo, lungo sino a 75 cm., pieno di gas, si ha una scarica luminescente. Per ovviare alla rarefazione del gas queste lampade sono fornite di valvola automatica. Se il gas usato è l'azoto si ha una luce giallo-rossa assai intensa (7 lum./W); l'acido carbonico dà una luce bianca, assai simile alla luce del giorno (2,5 lum./W), il neo dà una luce rosso fuoco, e con l'aggiunta di una goccia di mercurio luce blu (10 ÷ 15 lum./W); l'argon dà luce azzurra, l'elio gialla. Queste lampade servono a scopi di pubblicità o decorativi.
Le lampade a vapore di sodio (luce gialla), di recente invenzione (1932), a grande efficienza (60 lumen per watt), hanno catodo incandescente (hot cathode), sono contenute in doppio palloncino per mantenere ad alta temperatura il vapore di sodio, l'intercapedine tra i due palloncini essendo vuota d'aria. Sperimentalmente furono illuminate autostrade in Olanda e in Inghilterra. Altro tipo a luminescenza sono le lampade veilleuses (lampade da notte) con scarica nel gas a luminescenza negativa tra due fili metallici spiralizzati o con varie forme. Consumano pochi watt e hanno il catodo formato qualche volta a lettere o a simboli.
Le lampade elettriche a vapore di mercurio sono lampade in cui qualche goccia di mercurio, vaporizzandosi, forma un arco tra due elettrodi di tungsteno; un trasformatore riduce la tensione, una volta stabilitosi l'arco di mercurio. Esse furono studiate da Arons nel 1896 e perfezionate in modo da essere usate in pratica da Cooper Hewitt nel 1900. La loro efficienza è di 12 ÷ 18 lumen per watt, il flusso luminoso di 2500 a 25.000 lumen. La luce è di colore verde e manca di radiazioni rosse, ma comprende anche raggi ultravioletti non oltre 2800 U. Å. nella stessa proporzione di quelli contenuti nel sole a mezzogiorno. Sono lampade poco adatte per l'illuminazione ma molto usate in cinematografia. Küch sostituì ai tubi di vetro dei tulli di quarzo di molto minor dimensione (6 ÷ 15 cm.): esse hanno un'efficienza di 20 ÷ 25 lumen per watt, e un flusso luminoso totale di 6000 ÷ 20.000 lumen, e sono molto usate a scopi terapeutici per la loro luce chiamata "di sole di alta montagna."
Queste lampade non sono da confondere con quelle comunemente chiamate "a luc- solare", comuni lampade a incandescenza con vetro azzurro, che, assorbendo le radiazioni rosse e gialle, dànno luce con spettro qualitativamente più vicino a quella del cielo sereno a nord.
Nelle lampade di Nernst il conduttore portato a incandescenza è un'asticella di ossidi metallici o terre rare che diventa conduttrice a caldo. Occorre innescarla riscaldandola e munirla di resistenza stabilizzatrice.
Le lampade in serie differiscono dalle usuali che funzionano in derivazione, perché generalmente a filamento corto e tarate per intensità di corrente anziché per tensione (generalmente 6,6 A; e 9,6 A) e vengono usate specialmente per illuminazione pubblica.
Come lampade di sicurezza per i minatori e pompieri si usano attualmente lampadine a incandescenza protette da un globo di grosso cristallo a chiusura ermetica e alimentate da accumulatori.
Vi sono inoltre lampade speciali per fotografia, che dànno parecchie migliaia di lumen di luce bianchissima, ma durano poche ore; lampade a lampo per fotografie istantanee, che contengono una lamina di alluminio nell'ossigeno: accendendo un piccolo filamento con una batteria tascabile, l'alluminio brucia con un intensissimo lampo di luce.
Da tempo sono stati emessi voti perchê le lampade a incandescenza siano marcate in volt, watt, e lumen, per evitare frodi commerciali. Finora però (1933) in pochi paesi è usata tale marcatura.
V. tavv. LIII-LVIII.
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