MACEDONIO, Lancillotto
Nacque presumibilmente all'inizio degli anni Trenta del XV secolo da nobile famiglia napoletana afferente al "sedile" di Porto, risalente ai Normanni e influente sotto gli Angioini, per i quali diversi suoi membri svolsero funzioni di rilievo. Forse fu figlio di Leone, che fu sindaco di Napoli.
All'inizio degli anni Cinquanta del Quattrocento il M. era "cameriere" di Alfonso V d'Aragona il Magnanimo, probabilmente presentato al re proprio da Leone, che allora era l'unico rappresentante della famiglia impegnato in incarichi ufficiali per la Corona.
In una lettera del 28 luglio 1456 Alfonso V d'Aragona pregava con accenti di sentito interesse il duca di Milano Francesco Sforza di accogliere il M. nella sua cerchia e si compiaceva con l'alleato per l'apprezzamento da lui mostrato in favore di Macedonio.
Il trasferimento a Milano, che il tono della lettera regia sembra ricondurre a una scelta dello stesso M., cadeva in un periodo di intensi contatti tra le due potenze, impegnate a gestire il delicato equilibrio raggiunto tra gli Stati italiani all'indomani della pace di Lodi (1454), e non è escluso che il M. fosse attratto dalle opportunità di carriera offerte dal settore diplomatico, proprio allora portato dallo Sforza a un alto grado di efficienza grazie alla razionalizzazione del ruolo dei suoi "famigli cavalcanti". La documentazione rivela però, per il periodo di servizio presso il duca, un ruolo non ben definito del M., forse a causa della necessità di compiere l'apprendistato prima di essere impiegato in autonomi incarichi di rilievo, ma forse anche, come si vedrà, per qualche velo di sospetto che andò addensandosi sul suo operato.
Il suo servizio fu comunque dedicato alle relazioni tra Milano e Napoli: nel giugno del 1457 il M. era nella città partenopea, dove si trattenne fino all'autunno, occupato in pratiche di cortesia con i baroni regnicoli al fine di sostenere l'alleanza Aragona-Sforza.
Ben più complesse furono le attività in cui il L. si trovò inserito nel 1459 dopo la morte del Magnanimo (1458), in una posizione che, pur marginale, lascia spazio a ipotesi di un suo duplice ruolo, o doppiogioco, tra la corte sforzesca e quella napoletana. Si tratta dei contatti tra i due potentati per il sostegno milanese alla guerra che Napoli, dalla primavera del 1458, conduceva in Liguria insieme con i fuoriusciti genovesi per scalzare Giovanni d'Angiò duca di Calabria, governatore in nome di Carlo VII di Francia, dal dominio della Repubblica. Ostentando rapporti di cordialità con la corte di Francia, ma preoccupato per la presenza di una stabile testa di ponte francese in Italia, lo Sforza finanziava nascostamente l'azione dei Napoletani e dei loro aderenti, e nell'aprile del 1459 il M. fu inviato a sovvenzionare Giovanni Del Carretto, marchese del Finale, impegnato contro il governo francese di Genova; fu inoltre chiamato più volte a porre la propria firma, come teste, sulle ricevute rilasciate dagli agenti del Regno, collettori dei sussidi sforzeschi (giugno e novembre 1459). In quei mesi, tuttavia, il M. si attirò la diffidenza della corte sforzesca perché in maggio di sua iniziativa chiese e ottenne dalla Cancelleria napoletana un cifrario segreto per aprire un canale informativo confidenziale con la Corona; nello spedire la cifra il funzionario regio addetto alla custodia delle scritture crittografiche, Marino da Verona, ne fornì copia ad Antonio da Trezzo, oratore sforzesco a Napoli, affinché la partecipasse al duca di Milano, precisandogli che il M. aveva scritto parole "de mala natura" sullo Sforza (Arch. di Stato di Milano, Fondo Sforzesco, Potenze estere, Napoli, cart. 1248, c. 82). La reazione fu improntata a temperanza: lo Sforza confortò Antonio da Trezzo a non dar peso all'accaduto, consigliandogli al contempo di serbare buoni rapporti con Marino da Verona, le cui informazioni sul M. avrebbero potuto mostrarsi preziose in seguito; egli avrebbe dissimulato. Sul conto del M. poco o nulla emerse, ma l'incidente non dovette restare privo di conseguenze, per quanto cagionato forse solo dall'intenzione del M. di proporsi all'attenzione della corte aragonese per un futuro più gratificante servizio a Napoli. Negli anni successivi, infatti, il suo ruolo a Milano appare sempre più marginale e lo si ritrova solo impegnato a suscitare il favore degli oratori regnicoli a Milano nei confronti del marchese di Mantova.
Senza difficoltà, dunque, il duca di Milano accolse la preghiera del M. di tornare in patria (novembre 1464) e senz'altro, e caldamente, lo raccomandò al re Ferdinando I d'Aragona. Il rientro a Napoli coincise con la morte di Leone Macedonio e non è escluso che tra le ragioni addotte dal M. per chiedere licenza allo Sforza, cui il duca fa riferimento nella sua lettera di raccomandazione senza però precisarle, vi fosse la necessità di subentrare nel possesso dei beni paterni, di cui non è nota l'entità.
Il momento scelto dal M. per il suo rientro era favorevole a una eventuale progressione di carriera: pacificato il Regno dopo il conflitto per la successione e consolidata la propria autorità, la Corona ricomponeva i quadri funzionariali del Regno, puntando su elementi di specchiata fedeltà. Né il M. ebbe difficoltà a manifestare la sua fedeltà a Ferdinando, poiché il rimpatrio determinò per lui l'avvio di una lunga stagione di incarichi di rilievo.
Nel 1466 fu inviato in qualità di oratore presso il re Giovanni II d'Aragona, impegnato a far fronte alla rivolta dei suoi sudditi catalani. La presenza di un articolato cifrario, composto da 132 segni e depositato per conoscenza in quell'anno a suo nome presso la Cancelleria sforzesca, dà il senso della complessità dell'ufficio, svolto in una delle aree più calde d'Europa. Al M. fu assegnato l'ingrato compito, in tale congiuntura, di motivare presso Giovanni II il continuo differimento degli anelati aiuti napoletani, promessi più volte da Ferdinando.
In effetti, nel biennio 1467-68 gli impegni finanziari connessi all'organizzazione della spedizione contro Bartolomeo Colleoni, maturata nel quadro della lega particolare stretta tra Napoli, Milano e Firenze, impedirono al re di sostenere adeguatamente Giovanni II. Tuttavia il M. riuscì a svolgere il suo incarico con zelo, guadagnandosi la stima di Giovanni II, per il quale sollecitò di frequente e ottenne, per quanto possibile, l'aiuto napoletano, sia in denaro sia in mezzi (soprattutto navi, per l'armamento delle quali nel settembre del 1468 spiccò lettere di cambio a Valenza). Da parte sua, Ferdinando lodò l'impegno del M., attento a seguire Giovanni II in tutti i suoi spostamenti, e ne ripagò la solerzia rimettendogli con regolarità pingui stipendi. Gratificò e sostenne, inoltre, anche la moglie, residente a Napoli, con doni in denaro e altre attenzioni (riscossione di pegni e forniture alimentari): unica traccia, questa, dell'esistenza di una consorte del M. nella documentazione edita da Trinchera.
Il M. tornò a Napoli nei primi anni Settanta, alla fine del conflitto aragonese. Nel 1474 una rimessa di 15 ducati al banco di Filippo Strozzi ne denuncia la presenza a Roma, forse la prima tappa di una sua ambasciata in Francia della quale si trova menzione nelle fonti, ma senza definiti riferimenti cronologici. Maturava intanto quello che sarebbe stato il più impegnativo cimento della sua carriera. Testata infatti la perizia del proprio oratore, e recentemente utilizzatolo in quello scenario, alla fine del 1477 Ferdinando inviò il M. alla corte del re di Francia Luigi XI, con un'ardua istruzione: trattare il matrimonio del secondogenito del sovrano, Federico, con Anna di Savoia, nipote di Luigi, proposto da quest'ultimo l'anno precedente per rendere Napoli invisa agli Aragonesi di Spagna e poi congelato per gli ovvi sospetti nutriti dalla corte napoletana; il M. avrebbe dovuto proporre inoltre al re francese una partecipazione attiva di Ferdinando alle trattative di pace in corso tra Francia e Castiglia.
Nulla vi poteva essere di più impegnativo. La reattività di Luigi verso l'ingerenza di Napoli negli affari con i Regni iberici e l'ambiguità della politica matrimoniale di Ferdinando - già impostata in chiave antifrancese con il fallito progetto di parentela con il duca di Borgogna Carlo il Temerario, e ora simultaneamente diretta alla Francia e all'Impero (nella primavera del 1478 il vescovo d'Atri fu inviato in Germania per proporre l'unione tra lo stesso Federico e la figlia dell'imperatore Federico III d'Asburgo, Cunegonda) - rendevano critico il compito del M. cui veniva associato il perito Antonio d'Alessandro, benché in posizione subalterna. A rendere ancora più intricato l'affare contribuì l'incandescente situazione interna italiana, con i contrasti nel Ducato di Milano tra i reggenti Bona di Savoia e il cancelliere Cicco Simonetta da una parte, benvoluti in Francia, e i figli del duca Francesco dall'altra, sostenuti dal re di Napoli, tensioni sulle quali si innestarono la congiura dei Pazzi a Firenze (1478) e la conseguente guerra portata da Ferdinando a Lorenzo de' Medici, alleato di Luigi.
Tuttavia, pur in tali condizioni, tra il livore dei messi milanesi e fiorentini presenti a Parigi, le spie fattegli porre dal re e le rappresaglie attuate ai danni degli aderenti dei Pazzi residenti in Francia, intimi degli inviati napoletani, il M. portò a termine la pratica, facendo leva soprattutto sui rapporti tra gli Aragonesi di Napoli e quelli di Spagna, rinsaldati dal recente matrimonio tra Ferdinando e la cugina Giovanna, infanta d'Aragona, che rischiavano di frustrare la politica mediterranea di Luigi.
Prendendo contatti segreti con il "nemico" Simonetta e prospettandogli la necessità di garantirsi, per mezzo di una pur debole aderenza con Napoli, da eventuali preponderanze francesi su Milano, il M. riuscì anche a intiepidire l'avversione del fronte milanese alla politica napoletana. Si trattò di un grande successo: il matrimonio fu concluso e Federico d'Aragona ottenne in dote il Rossiglione e la Cerdagna.
Rimpatriato, il M. fu creato, con privilegio di Luigi (1480) e con il consenso di Ferdinando, console dei Francesi nel Regno: ulteriore conferma del credito di cui ormai godeva presso la corte di Francia. In quel tempo ottenne anche il cingolo dei cavalieri di Rodi. Gli anni della maturità furono spesi dal M. nel ruolo di oratore residente alla corte dei re cattolici, presso la quale è attestato dal 1485 al 1488, dal 1490 al 1491, anno in cui tornò nel Regno, e ancora nel 1492 e nel 1495: unica variante, un'ambasciata in Francia nella seconda metà del 1486, con il parente Ferrante, per trattare il matrimonio tra il principe Federico, già vedovo di Anna di Savoia, e la figlia del duca di Bretagna. In Spagna affrontò i marosi che rischiarono di scalzare, e poi di fatto sommersero, la discendenza del Magnanimo, prima a seguito della grande congiura baronale del 1485-86 e poi con la conquista francese di Carlo VIII. Collocato in una posizione strategica, presso la corte cioè che in quello scorcio di secolo avrebbe dovuto più di ogni altra preservare il dominio di Ferdinando a Napoli, si adoperò con arte per tenere saldi i legami tra le congiunte monarchie, ottenendo pieno successo tra il 1487 e il 1488.
Le notizie sul M., già assai scarse sulle sue vicende private, si diradano con il definitivo declino della dinastia aragonese di Napoli. Plausibile ipotesi, supportata dalla perfetta omonimia, appare l'accostamento operato dal Volpicella tra il M. e frate Lancillotto Macedonio, residente a Teano, che nel 1500 veniva lodato dal re Federico III per aver rimesso i propri benefici ecclesiastici (la commendatura di S. Paride di Teano e di S. Matteo di Carinola) al nipote Macedonio, e che altra fonte dice geronimita e autore di una vita di s. Paride scritta su richiesta dello stesso re Federico. Tuttavia la conferma regia ricevuta dal M. nell'aprile del 1501 della carica di console dei Francesi nel Regno, ultimo e incontrovertibile bagliore che le fonti gettano sulla sua vita, se non appare incompatibile con la scelta monastica, pur instilla qualche dubbio sull'assimilazione tra il vecchio oratore e il pio religioso di Teano.
Della morte del M. non sono noti il luogo, né la data.
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