Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire dalla fine degli anni Sessanta gli artisti cercano nuovi spazi e modalità di intervento; escono dalle gallerie per porsi in relazione con il paesaggio e il territorio attraverso gesti di partecipazione e trasformazione. L’aspetto relazionale di queste esperienze artistiche si trasformerà in una riflessione sullo spazio urbano e naturale, e sulle strutture sociali e comportamentali che lo sostengono.
Fuori dalle gallerie
È l’ottobre 1968: siamo in piena guerra del Vietnam, il maggio francese è assai vicino e siamo a ridosso delle elezioni che avrebbero portato Nixon alla Casa Bianca. L’artista Robert Smithson organizza la mostra Earthworks presso la Dwen Gallery di New York, che riunisce 14 artisti che hanno in comune una chiara insofferenza sia verso modalità espositive convenzionali sia verso le dinamiche del mercato dell’arte. Molti lavori sono di dimensioni estremamente ampie, di altri si vede in mostra solo una documentazione fotografica dato che si tratta di opere effimere oppure realizzate in luoghi distanti.
La mostra Earthworks si colloca nel clima di contestazione degli anni Sessanta, in cui intellettuali e artisti cercano di costruire una forma di comunicazione ed espressione che possa tenere insieme momenti teorici e azioni performative, riflessione estetica e attivismo politico. In particolare, in questi anni il movimento ecologista muove le sue prime critiche allo sviluppo tecnologico e alle modalità di sfruttamento delle fonti energetiche e delle materie prime. Nella mostra di Smithson, questa visione antiromantica della condizione naturale/ambientale si esprime perfettamente nell’installazione presentata da Robert Morris, Earthworks: un cumulo di terra, fango, olio da macchina, strisce di feltro e pezzi metallici, perfetto esempio della ricerca postminimalista di questo artista, sensibile all’accumularsi informe e in progress di residui, brandelli, frammenti.
Nel 1968 non esiste ancora una definizione per questa nuova modalità artistica che, piuttosto che esaurire il confronto con il contesto naturale nella rappresentazione, lo considera oggetto di intervento e interazione. I lavori degli artisti presentano legami sia con le esperienze minimaliste che con aspetti delle ricerche postminimaliste (quali la process art e antiform) come la processualità aperta e l’attenzione alle caratteristiche intrinseche dei materiali, come farà Richard Serra, per esempio, che indaga i materiali e la loro reazione alla gravità.
Earth, Land sono termini ricorrenti nei titoli di opere ed esposizioni realizzate nella seconda metà degli anni Sessanta: accanto agli Earthworks presentati da Smithson, va ricordata la mostra The Land Show: Pure Dirt-Pure Earth-Pure Land che l’artista americano Walter De Maria presenta, sempre nel 1968, alla Galleria Friedrich di Monaco. Per l’occasione l’artista riempie di uno strato di terra l’intero spazio espositivo, eliminando qualsiasi cesura fra interno ed esterno, fra luogo deputato all’arte e ambiente naturale, fra cultura e natura. Il concetto dell’arte viene affidato alla materia pura, scabrosa, essenziale.
La definizione di land art arriva nel 1969 grazie al film omonimo di Gerry Schum, che documenta il lavoro di artisti come Smithson e De Maria, accanto ad altri americani come Michael Heizer e Dennis Oppenheim e ad artisti europei come Richard Long e Barry Flanagan.
Non si può parlare quindi di un vero e proprio movimento, quanto piuttosto di un approccio all’ambiente, variamente messo in atto a seconda della provenienza degli artisti, del contesto con cui interagiscono, dell’atteggiamento personale. Lo sviluppo più impressionante è indubbiamente quello che avviene in terra americana, dove gli artisti si confrontano con scenari spettacolari e primordiali, con la dimensione del sublime. I grandi deserti del Nevada e del New Mexico, le foreste secolari, i laghi, vengono scelti dagli artisti per il loro carattere antitetico e complementare rispetto alla dimensione urbana: metropoli e spazi incontaminati sono i due lati della medaglia dell’identità territoriale americana, entrambe segnate da tratti di monumentalità e bigness. Tra il 1967 e il 1971 Michael Heizer realizza i suoi lavori prevalentemente nel deserto del Nevada: si tratta di imponenti scavi, sbancamenti effettuati con macchine movimento terra, ruspe, bulldozer. Double Negative (1971) è il suo intervento più impressionante: l’incisione di due fosse a pianta rettangolare – 15 metri di profondità, 10 di larghezza, per una lunghezza complessiva di 560 m –, una di fronte all’altra, ai due lati di uno stretto canyon del Mohave Desert del Nevada. Per fare esperienza di quest’opera bisogna percorrerla, starvi dentro, come se si trattasse di un’architettura. Questo artista, più di altri, ha un atteggiamento impositivo e invasivo nei confronti della terra, della componente Earth/Land. I suoi lavori si collocano nel contesto ambientale come misteriosi residui di una civiltà perduta, imponenti e isolati, al pari di vestigia archeologiche: possono ricordare il progetto Sculpture to be seen from Mars (1947) in cui, 20 anni prima, l’artista Isamu Noguchi pensa di tracciare i tratti di un volto umano stilizzato nella sabbia del deserto in modo che possa essere visto da Marte. Le dimensioni di questo “volto” sono ovviamente imponenti, il solo naso doveva misurare oltre un miglio (1600 m). Noguchi, nippoamericano, aveva inizialmente pensato quest’opera come un Memorial to Man, ipotizzando la scomparsa dell’uomo in conseguenza dello sganciamento di una nuova bomba atomica, dopo quelle di Hiroshima e Nagasaki.
Walter De Maria interagisce con la terra in modo differente, partecipando ai suoi fenomeni, come con Lightening Field (1973-1979): dopo averne studiato le caratteristiche geologiche e metereologiche, l’artista sceglie una particolare area del deserto del New Mexico per impiantarvi 400 pali metallici, disposti a intervalli regolari. In occasione dei temporali i pali svolgono la funzione di scarico dell’energia elettrica, trasformandosi in parafulmini. La luce, richiamata dall’installazione di De Maria, crea quindi degli effetti spettacolari che sono insieme naturali e artificiali. Con i Site Non-Site, Robert Smithson sottolinea principi concettuali sottesi alla land art. Anch’essi realizzati a partire dal 1968, constano di contenitori in cui l’artista pone materiali raccolti – pietre, schegge di legno, minerali… – presentati insieme a mappe e fotografie riguardanti il Site all’interno del Non-Site della galleria. L’artista induce l’osservatore a provare l’esperienza del Site, spesso lontano o inaccessibile, nello spazio del Non-Site, presentando spiegazioni teoriche della natura geologica e naturalistica ma sottraendo la parte emozionale che l’esperienza diretta del luogo induce. Il progetto più spettacolare di Smithson è Spiral Jetty (1969-1970), un accumulo di blocchi di basalto, fango, cristalli di sale, a formare un molo largo quattro metri che si sviluppa a spirale nell’acqua rossa del Great Salt Lake nello Utah. L’osservatore in questo caso diviene un corpo che percorre l’opera, l’earthwork, vi esperisce la vibrazione di luce, il senso di spaesamento. L’idea della spirale nasce sia dalla conformazione dei cristalli di sale, sia dalla leggenda che vuole il lago creato da un vortice sotterraneo di una corrente oceanica. Con il passare del tempo la Spiral Jetty è stata in parte sommersa dall’acqua, per poi riaffiorare ai mutamenti della marea. Tutti questi interventi di land art si affidano, dopo la loro realizzazione, al tempo e al suo scorrere. Sono processi aperti, destinati a essere trasformati ed erosi dall’interazione con gli elementi naturali e gli agenti climatici: il lavoro dell’artista si traduce in una relazione fra l’operare umano e quello della natura. L’aspetto primordiale creativo viene coniugato con i linguaggi e i macchinari del moderno, per poi tornare ad affidarsi alla natura e ai suoi aspetti “sovraumani”.
Negli stessi anni gli artisti europei mostrano spesso un atteggiamento meno invasivo: il loro gesto artistico consiste in un’esperienza di partecipazione e immersione nella natura, che in alcuni casi si scioglie nella semplice forma del camminare. Ad esempio, Richard Long prende contatto con la terra, ne studia la vegetazione e la conformazione geologica, ne fa esperienza senza trasformarla, inciderla, invaderla: del suo passaggio restano solo tracce lineari sul terreno attraversato e segni temporanei come cumuli di pietre, legni o altri materiali incontrati nel cammino, secondo un procedimento conoscitivo primitivo, tribale, essenziale.
Agire con lo spazio naturale, agire con lo spazio urbano
Nel corso degli anni Settanta e Ottanta, l’intervento degli artisti nell’ambiente si sviluppa in forme estremamente differenti. Nel caso di Christo e Jeanne-Claude cade anche la distinzione città-natura: la coppia propone progetti di relazione con lo spazio sia naturale che urbano sotto forma di “impacchettamenti” e cortine, ovvero velamenti capaci di svelare nuove prospettive e potenzialità dell’oggetto dell’azione. Dalle isole Biscayne Bay in Florida (Sourrounded Islands, 1980-1983) agli alberi della Fondation Beyeler in Svizzera (Wrapped Trees, 1997-1998), dai canyon del Colorado (Valley Curtain, 1970-1972) al Reichstag di Berlino (Wrapped Reichstag, 1971-1995), dai 40 km di muraglia effimera sulle terre di California (Running Fence, 1972-1976) al recente percorso di porte dorate lungo i viali di Central Park a New York (The Gates, 1979-2005), tutti gli elementi avvolti dai tessuti traspiranti – sempre rispettosi delle caratteristiche di ciò che viene velato – ritrovano e rinnovano la propria presenza. Gli interventi di land art spesso si svolgono in un arco temporale lunghissimo: è il caso del progetto Roden Crater di James Turrell che, iniziato nel 1977, continua ancora oggi. L’artista ha trasformato un cratere vulcanico dell’Arizona in luogo di osservazione celeste. Grazie alla lontananza da ogni fonte di disturbo luminoso proprio del mondo antropizzato, dal suo interno, scavato e modellato, si possono vedere le mutazioni della luce nelle diverse ore del giorno e nelle diverse stagioni, indagando le percezioni umane e le modalità di diffusione, rifrazione, vibrazione della luce.
Una figura, solitamente non assimilata alla land art, ma strettamente legata all’approccio ecologista e relazionale è Joseph Beuys, artista tedesco capace di miscelare aspetti mistici e politici. Le sue azioni artistiche hanno valore di gesti sciamanici, volti a indurre trasformazioni, stimolare riflessioni, perché “pensare è plasticità” e generare pensieri è plasmare “scultura sociale”. Nel 1982, chiamato a partecipare a Documenta VII, l’importante manifestazione d’arte contemporanea che si svolge a cadenza quinquennale nella città di Kassel, Beuys installa un cumulo di 7000 pietre di basalto davanti al museo federiciano. Il progetto 7000 Oaks – 7000 querce – prevede che le pietre vengano “adottate”; la somma ricavata doveva servire per piantare un numero corrispondente di querce. Il cumulo di pietre va smaltendosi pian piano, mentre la città si riempie di nuovi alberi, piantati ognuno con alla base la propria pietra, in un processo che si è compiuto nel 1987, quando l’ultima pietra venne adottata e l’ultima quercia piantata alla presenza dei figli dell’artista, morto l’anno precedente. Ci vorranno centinaia di anni perché le querce si trasformino in un bosco rigoglioso, secondo il volere di Beuys, creatore di questo rituale ecologista affidato a una comunità. Questo aspetto relazionale e sociale dell’arte, che trova in Beuys uno dei suoi “profeti”, si è andato sempre più rafforzando nel corso degli ultimi decenni, e l’esperienza di dialogo, partecipazione, interazione che i protagonisti della land art avevano messo in atto con il contesto ambientale si è trasferita anche ad altre dimensioni territoriali, compresa quella urbana.
Con l’espressione public art si fa oggi riferimento a esperienze artistiche svolte nello spazio condiviso, pubblico, volte a coinvolgere comunità e gruppi di persone che non coincidono strettamente con il pubblico dell’arte. L’arte è uscita dalle gallerie, ma in questo caso scende proprio in strada, nei luoghi del quotidiano, addirittura nei cosiddetti non-luoghi (Marc Augé), come stazioni e centri commerciali, per partecipare a progetti di lettura della città e dei suoi molteplici e problematici aspetti. La public art non si traduce in monumenti fermi al centro delle piazze: anche i suoi gesti più scultorei chiedono comunque un’interazione ai passanti, desiderano generare riflessioni.
Un esempio della vicinanza fra le due modalità artistiche è nell’opera di Hans Haacke, autore, alla fine degli anni Sessanta, di interventi legati alla land art e a partire dagli anni Ottanta di installazioni di public art. Con Fog, Flooding, Erosion (1969) Haacke mostra la possibilità che una forza vitale come l’acqua possa tradursi in elemento distruttore: l’artista installa un sistema di irrigazione su un terreno di Seattle, ma il protrarsi eccessivo dell’irrorazione trasforma la fonte prima, simbolo di nutrimento, in una forza distruttrice e disgregante che trasforma il terreno in fango. Il terreno resta un luogo di forte attenzione di questo artista anche nelle sue realizzazioni assimilabili all’ambito della public art: nel 1993 l’artista trasforma la pavimentazione del padiglione tedesco alla Biennale di Venezia in un terreno di macerie che a ciascun passaggio del visitatore si frammentano ancora di più. Il riferimento è alla storia della Germania, ai deliri di onnipotenza che l’hanno ridotta alla disgregazione, fino allo stadio di macerie da riplasmare. Nel 2000 un’altra azione di Haacke provoca un acceso dibattito nel mondo tedesco: con Dem deutschen Volke - Der Bevölkerung l’artista invita ciascuno dei 669 deputati a portare una zolla di terra della propria circoscrizione, in modo da creare un giardino accanto al Reichstag di Berlino dedicato a der Bevölkerung, alla “popolazione” nel senso più esteso di comunità di abitanti di un Paese. Questa dedica si pone in dichiarato contrasto con la scritta che corre sul timpano dell’edificio: Dem deutschen Volke, al “popolo tedesco”. L’aspetto più relazionale e sociale della public art trova esempio nei lavori dell’artista svizzero Thomas Hirschhorn, che si confronta spesso con le aree di marginalità urbana. A Documenta XI, nel 2002, l’artista ha realizzato il Bataille Monument in un quartiere periferico di Kassel, la Friedrich-Wöhler-Siedlung, abitato prevalentemente da immigrati turchi. Il monumento di Hirschhorn era una struttura sorprendentemente precaria, in cartone e legno, con all’interno una biblioteca con testi del filosofo francese, uno studio televisivo aperto e un imbiss per mangiare e bere, creando un punto di incontro e di creazione, con la partecipazione degli abitanti dell’area. Il Bataille Monument è rimasto attivo per alcuni mesi, vi si sono svolti workshop e incontri, diffusi in rete attraverso un sito web. Scrive Hirschhorn nel progetto: “Io non sono un operatore sociale, non sono un animatore di quartiere, per me l’arte è uno strumento tramite cui conoscere il mondo; l’arte è uno strumento tramite cui mi confronto con la realtà; l’arte è uno strumento tramite cui posso fare esperienza del tempo in cui vivo”.