land grabbing
<länd ġräbiṅ> locuz. sost. ingl., usata in it. al masch. – Espressione riferita al fenomeno del furto o accaparramento di terra sviluppatosi in maniera esponenziale soprattutto nel corso del primo decennio del 21° secolo. Per consentirne una migliore comprensione in occasione della conferenza di Tirana dell’International land coalition, nel maggio 2011, è stata adottata una formale definizione, che restringe il campo d’applicazione a specifiche fattispecie. Sono state classificate come l. g. le concessioni o acquisizioni fondiarie che implicano: la violazione dei diritti umani, in particolar modo dei diritti delle donne; l’assenza di consenso preventivo, libero e consapevole da parte delle persone espropriate della terra, in particolare dei popoli indigeni; l’assenza di studi adeguati sull’impatto ambientale, sociale ed economico dell’investimento; la mancata stipulazione di accordi scritti che determinino preventivamente la distribuzione di utili e ulteriori oneri a carico dell’azienda; l’assenza di partecipazione democratica nella negoziazione del progetto da parte delle comunità interessate. Secondo le ricerche più accreditate, tra il 2000 e il 2012 sono stati acquistati (ceduti) o affittati a 40-50 e fino a 99 anni circa 203 milioni di ettari: una superficie pari alle dimensioni dell’Europa nord-occidentale. L’intensità del fenomeno è da riconnettersi innanzitutto alla crisi alimentare mondiale e alla più ampia crisi finanziaria che hanno prodotto, tra l’altro, un sensibile aumento dei costi delle derrate alimentari: i prezzi di mais e frumento, per esempio, sono raddoppiati tra il 2003 e il 2008. A favorire l’investimento in terreni agricoli contribuiscono anche le previsioni relative ai cambiamenti climatici: aumentando la frequenza degli eventi meteorologici estremi si produce un maggiore degrado del terreno e si riduce la disponibilità idrica. Un ruolo rilevante ha anche la produzione di biocarburanti, un importante impiego in competizione del territorio: si stima che l’aumento della domanda di biocarburanti nel periodo 2000-07 abbia contribuito per il 30% all’aumento della media ponderata dei prezzi dei cereali. Dal lato della domanda, la crescita della popolazione, l’aumento dei tassi di urbanizzazione (la quale fa espandere la quota della popolazione mondiale che dipende da acquisti di prodotti alimentari) e i cambiamenti delle diete (in particolare la crescita del consumo di carne da parte dei ceti medi nei paesi altamente industrializzati) appaiono tra i fattori che spingono in alto la richiesta alimentare globale. Considerando l’insieme di tutti questi elementi, alcuni stati che dipendono dalle importazioni alimentari hanno attivato una strategia di esternalizzazione della propria produzione alimentare, acquisendo il controllo di terreni agricoli in altri paesi. Si distinguono in questa attività la Cina, l’India, il Giappone, la Malesia e la Corea del Sud in Asia; l’Egitto e la Libia in Africa; il Bahrein, la Giordania, il Kuwait, il Qatar, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti nel Medio Oriente; stanno poi acquisendo un ruolo sempre maggiore anche alcuni paesi emergenti come Brasile e Russia. A fronte delle motivazioni, legate in via ufficiale alla sicurezza alimentare, alcune stime porterebbero a ritenere che il 37% delle negoziazioni avrebbe come finalità la produzione di biocarburanti, seguita da produzione agricola (11,3%) e produzione di legno ed estrazioni minerarie (8,2%). I maggiori danni connessi a questo fenomeno sono a carico dei contadini che si vedono sottrarre la propria terra. L’Africa risulta essere il continente più depredato con 134,5 milioni di ettari, quasi il 70% delle trattative (anche quelle in corso), poi l’Asia con poco più del 20% (43,5 milioni) e l’America Latina (18,3 milioni). Una piccola quota, 4,7 milioni di ettari, riguarda peraltro anche la campagna europea (soprattutto Romania, Bulgaria e Ungheria). Nel mirino del l. g. sono soprattutto paesi come Ghana, Mozambico, Senegal, Liberia, Sud Sudan, Tanzania. Particolare è la situazione dell’Etiopia: nella provincia di Gambella, vicina al Sudan, 300.000 ettari di terra sono stati ceduti per 60 anni a un gruppo industriale di proprietà del miliardario saudita Sheikh Mohammed al-Amoudi; il gruppo alimentare indiano Karuturi global Ltd. si è a sua volta aggiudicato per 50 anni, nella stessa area, 312.000 ettari di campi per produrre olio di palma, zucchero, riso e cotone. Le conseguenze per la popolazione locale sono state gravissime se si pensa che circa 200.000 persone sono state costrette ad abbandonare queste terre e le loro abitazioni per essere ricollocate in altre aree, risultate carenti di servizi e infrastrutture. Quest’operazione è stata resa possibile anche perché in Etiopia la proprietà privata dei terreni è di fatto ancora vietata; gli abitanti delle aree oggetto di l. g. sono dunque del tutto privi di diritti, prim’ancora che dei titoli di possesso delle case e dei campi da cui sono stati cacciati.