CASTIGLIONCHIO, Lapo da
Nacque nei primi decenni del sec. XIV, con ogni probabilità a Firenze, da Lapo di Albertuccio e da Bilia Ferrantini.
La sua famiglia, anche se non magnatizia, apparteneva a quella parte dell'aristocrazia fiorentina che in tempi non lontani si era trasferita dal contado in città. I Castiglionchio costituivano un ramo della stirpe dei signori di Quona, un castello della Valdisieve che avevano sottratto ormai da secoli alla concorrenza del ramo di Volognano. Dall'avito possesso la famiglia traeva al tempo del C. buona parte delle proprie entrate e l'orgoglio di appartenere ad una nobiltà terriera i cui ideali erano ben distinti dallo spirito mercantile della borghesia fiorentina del Trecento.
Poco sappiamo della formazione del C.; dovette comunque mostrare un notevole gusto per gli studi letterari se entrò, poco prima della metà del secolo, nel ristretto circolo di dotti cui appartennero, tra gli altri, il Boccaccio, Francesco Nelli e Zanobi da Strada. Attraverso questi amici ebbe modo di conoscere il Petrarca, con cui intrattenne rapporti molto cordiali, raffreddati soltanto dalla svolta impressa dal C. ai propri interessi culturali col passaggio agli studi giuridici. Probabilmente nel 1353 ("nunc apostatavit a musis" scrive di lui il Nelli al Petrarca il 2 ottobre di quell'anno) il C. decise infatti di recarsi a studiare legge a Bologna, dove fu allievo di Giovanni Calderini: con questa scelta, cui non dovette essere estranea la speranza di affermarsi in un campo più sicuro di quello letterario, si avviò ad una brillante carriera di canonista. Non molto tempo dopo aver concluso gli studi fu chiamato ad insegnare all'università di Firenze, dapprima senza stipendio e poi con compensi crescenti che lo ponevano, insieme con Cino da Pistoia, al vertice della gerarchia accademica.
Il terreno preferito della sua dottrina canonistica era costituito dal sesto libro delle Decretali e dalle Clementine. Imigliori frutti della sua attività scientifica sono raccolti nei trattati De hospitalitate, che tratta problemi di giurisprudenza relativi alla gestione dei luoghi di cura e di assistenza da parte di religiosi, e De canonica portione et de quarta, in cui vengono discusse questioni riguardanti le tassazioni ecclesiastiche. Grande fu anche il successo dell'attività professionale del C., che si lamentava di essere assediato dai clienti. Una nutrita serie di suoi pareri è raccolta nelle Allegationes.
La sua vita familiare fu relativamente tranquilla. Dopo aver preso gli ordini minori ed aver retto per qualche tempo, come pievano, la chiesa di Miransù nei possedimenti aviti, si persuase a sposare Margherita di Bernardo di Benincasa Folchi, donna di notevoli qualità ed adeguata posizione sociale. Da lei ebbe parecchi figli, il più noto dei quali è, senza suo particolare merito, quel Bernardo, nato nel 1363e giovanissimo canonicodellacattedrale di Firenze, cui nel 1377 o nei primi mesi del 1378 il C. indirizzò una lunga Epistola, particolarmente importante per la conoscenza delle vicende dei Castiglionchio e delle idee dell'autore.
L'attività politica del C. fu sempre tesa ad un'intransigente difesa dei diritti della classe sociale cui apparteneva. L'autorità dell'aristocrazia magnatizia, praticamente annullata dagli Ordinamenti di giustizia del 1293 e sostanzialmente ridotta per tutta la prima metà del sec. XIV, crebbe invece rapidamente, con la collaborazione della parte più abbiente del popolo grasso, dopo il 1350 e fino alla esplosione del tumulto dei Ciompi (1378). In questo quadro il C. cominciò, intorno al 1360, la sua carriera politica, che lo portò più volte a cariche di prestigio nella gerarchia comunale. Le sue doti oratorie spinsero spesso la Signoria ad affidargli delicate missioni diplomatiche.
Nell'autunno del 1366, ad esempio, egli pronunciò ad Avignone tre discorsi, di cui ci è rimasto il testo, per convincere Urbano V a venire in Italia ed a proteggere Firenze nei confronti dell'esoso imperatore Carlo IV. In questa occasione il C. formulò una singolare etimologia, poi ripetuta nell'Epistola a Bernardo, secondo cui i termini "guelfo" e "ghibellino" deriverebbero rispettivamente da "fidem gerens" e "bellum gerens". Delle sue ambasciate, che lo portarono anche a Viterbo (ancora presso Urbano V), Siena, Lucca e Genova, la più importante fu senz'altro quella compiuta alla corte di Gregorio XI (1377). La guerra degli Otto Santi allora in corso richiedeva una rapida soluzione per una Firenze stanca e divisa all'interno; il C., i cui sentimenti clericali mal tolleravano una guerra contro il Papato, era certamente la persona più adatta a tentare un accomodamento. Ma, al termine di cinque mesi di negoziati condotti ad Anagni con la collaborazione di Pazzino di Francesco Strozzi, Alessandro dell'Antella, Simone di Rinieri Peruzzi e Benedetto Alberti, il C. ed i colleghi dovettero riferite a Firenze, nell'ottobre 1377,il fallimento della loro missione. L'insuccesso non lo scoraggiò tuttavia dal proseguire l'azione in favore della pace, la cui opportunità sostenne frequentemente con espressioni di estrema chiarezza.
L'attività diplomatica costitui per il C. solo l'appendice di un'azione ben altrimenti efficace in politica interna. Basandosi su presupposti ideologici di estremo conservatorismo e sulla volontà di difendere sostanziali interessi materiali, egli si schierò fin dall'inizio della sua milizia politica tra i più accaniti sostenitori della parte guelfa.
In una Firenze in cui la fede guelfa era requisito essenziale per poter aspirare alla minima carica municipale e continuare a godere dei propri beni egli si distinse sempre più come il capo di una consorteria nobiliare interessata, sotto il pretesto del mantenimento della purezza ideologica dei cittadini, a condizionare pesantemente e infine ad asservire totalmente alla propria volontà le strutture del governo comunale. Il C. ricoprì più volte la carica di capitano di Parte e fu membro della Balia dei cinquantasei eletta nell'aprile 1372 per proteggere il Comune dalle manovre egemoniche dei Ricci e degli Albizzi. A lui la Parte dovette il decisivo progresso delle proprie fortune politiche che si registrò con la legge del 1372, preparata appunto dal C., che impediva qualsiasi deliberazione riguardante la Parte senza il preventivo parere favorevole della stessa. In seguito gli fu conferito dalla Parte il titolo di savio a vita, che gli assicurava un indiscusso predominio sull'organizzazione politica degli aristocratici fiorentini.
Oltre che con le iniziative legislative il C. si batté per aumentare il potere della Parte mediante la continua ed indiscriminata applicazione dell'"ammonizione",l'istituto che privava dei diritti politici i cittadini che, ad insindacabile giudizio della Parte, non dessero sufficienti garanzie di guelfismo. Nei primi mesi del 1378 le ammonizioni si intensificarono fino a configurarsi come un'autentica campagna di epurazione degli elementi non pienamente disposti ad accondiscendere ai disegni dell'oligarchia. Nella tarda primavera di quell'anno l'opposizione degli strati più moderati del popplo grasso riuscì a trovare il proprio campione nel gonfaloniere Salvestro de' Medici. Il C. cercò allora invano di convincere i capitani di Parte a tentare subito, con l'occupazione del palazzo dei Priori, un colpo di Stato che avrebbe istituito di fatto la dittatura della Parte su Firenze. I capitani accolsero la proposta di Piero Albizzi, che sosteneva l'opportunità di rimandare la presa del potere al giorno di s. Giovanni, in cui la confusione della tradizionale festività avrebbe favorito l'attuazione del colpo. Il 19 giugno però Salvestro de' Medici riuscì a far passare nei Consigli una sua petizione che ristabiliva virtualmente le norme antimagnatizie degli Ordinamenti di giustizia. La parte guelfa non seppe opporsi decisamente alla mossa del gonfaloniere, che la coglieva impreparata; gli oligarchi impedirono per qualche giorno l'applicazione della legge, ma nulla poterono il 22 giugno, quando la situazione, con l'ingresso in scena del popolo minuto, mutò radicalmente. La folla, radunatasi in armi dietro i gonfaloni delle arti, percorse inferocita le vie di Firenze alla caccia dei più noti esponenti di parte guelfa. La prima casa ad essere bruciata, sulla piazza del ponte Rubaconte, fu proprio quella del C., che era riuscito poco prima a sgombrarla ed a mettersi in salvo, travestito da frate, nel Casentino. Il 24 giugno il C. fu dichiarato ribelle, mentre ai suoi parenti veniva applicato lo status di magnati. I suoi beni furono messi all'asta il 27 agosto. Il 25 ottobre la sua sede d'esilio fu stabilita a Barcellona, con piena libertà di ucciderlo per chiunque l'avesse trovato fuori di quella città. Un nuovo bando del 4 nov. 1379 vietò al C. di avvicinarsi a meno di 200 miglia da Firenze.
L'esule non si arrese mai all'evidenza del fallimento politico. La sua città, in preda al sommovimento dei Ciompi, offriva a lui e agli altri oligarchi banditi la possibilità di approfittare delle discordie interne per affrettare il ritorno: il C. si stabilì a Padova, nel cui Studio ottenne una cattedra nonostante le proteste del Comune di Firenze che, tramite il cancelliere Coluccio Salutati, chiese invano a Francesco da Carrara di espellerlo dal suo territorio (febbr. 1379). Sicuro dell'impunità, continuò a tenere le fila del movimento degli esuli, che aveva trovato un punto di riferimento nell'appoggio, tacito ma evidente, di Carlo di Durazzo. Coinvolto nella fallita congiura che costò la vita a Piero Albizzi, il C. fu ancora una volta condannato "negli averi e nella personanel gennaio del 1380. Quando Carlo decise di scendere al sud per tentare la conquista del Regno (estate dell'anno 1380), il C. e numerosi altri esuli lo seguirono, convinti di poter rientrare a Firenze protetti dalle sue armi; ma Carlo si tenne a distanza dalla città, concludendo anzi col Comune fiorentino un accordo in base al quale s'impegnava a non far risiedere i banditi ad Arezzo, Gubbio o comunque presso di sé (9 ott. 1380). Il C., che pur espresse a nome di tutti il disappunto dei fuorusciti per questo accordo, non abbandonò tuttavia Carlo, che rappresentava ormai l'ultima speranza per le sue fortune politiche. La sua esperienza giuridica risultò decisiva nella battaglia diplomatica che si era accesa intorno al trono di Napoli, le cui sorti erano strettamente legate alle vicende, appena iniziate, dello scisma d'Occidente. Il 2 giugno 1381 Urbano VI incoronò Carlo re di Napoli, Sicilia e Gerusalemme; pochi giorni dopo il nuovo sovrano partì per il Regno lasciando il C. come suo rappresentante personale presso il pontefice.
Il papa, oltre a concedergli vari favorì per i suoi parenti, nominò il C. avvocato concistoriale e senatore di Roma. Da quest'ultima carica, secondo l'isolato racconto dell'Anonimo fiorentino, egli sarebbe stato cacciato dai Romani, ribellatisi dopo la partenza di Carlo. Che il suo soggiorno romano non fosse tranquillo è comunque confermato dall'attentato cui riuscì a sfuggire nel dicembre 1380: il servitore che avrebbe dovuto avvelenarlo accusò come mandante Tommaso Strozzi, in difesa del quale il Comune di Firenze fece appello, tramite Coluccio Salutati, ai buoni uffici di Francesco Bruni presso la Curia romana.
Il C. morì a Roma, dopo breve malattia, il 27 giugno 1381 e fu sepolto nella chiesa dei frati minori di S. Francesco.
A Firenze, in Santa Croce, venne celebrato l'8 luglio un ufficio funebre in sua memoria. Nel corso del 1382 vennero annullati bandi e condanne contro di lui.
L'importanza del ruolo del C. nella storia della cultura italiana del Trecento è chiaramente indicata nella lettera (Epist., II, pp. 217-220) indirizzata da Coluccio Salutati ad Ubaldino Buonamici ed interamente dedicata alla sua memoria. Prima ancora che come decretalista ed avvocato il C. è ricordato dal Salutati, anche nell'epitaffio in versi che conclude la lettera, come finissimo letterato, eloquente dicitore e conoscitore profondo di Cicerone. Quest'ultima è forse la lode più meritata, se si pensa che a lui il Petrarca dovette la conoscenza delle orazioni Pro Milone, Pro Plancio, Pro Sulla, De imperio Cn. Pompei, che trascrisse di sua mano (Fam. XVIII, 12) inviandogli in cambio la Pro Archia (Var. 45). Anche Quintiliano venne per la prima volta in mano al Petrarca, in viaggio per Roma, a casa del C. nel 1350 (Fam. XXIV, 7). Il soggiorno a Padova gli consentì inoltre di partecipare all'attività di diffusione delle opere e dell'eredità culturale petrarchesca che si andava allora compiendo in quel centro; una diretta testimonianza dell'interesse del C. per il suo grande corrispondente si ricava dalle note da lui apposte ai codici Laur. S. Croce 26 sin. 10, e Vat. lat. 4518-4519, contenenti testi petrarcheschi. Un giudizio complessivo sulla personalità del C. nell'ambito del mondo preumanistico italiano è reso particolarmente difficile dalla scarsezza di documentazione diretta. A parte gli elogi altrui e le opere giuridiche, soltanto le tre Orazioni latine pronunciate ad Avignone e l'Epistola in volgare al figlio ci permettono un esame della sua produzione letteraria. E se nelle prime una costruzione sforzata e sovrabbondante nasconde una sostanziale povertà d'idee, la seconda conferma l'impressione di uno stile prolisso e involuto, che il C. non riesce a semplificare nemmeno nell'enunciazione dei principî basilari della sua ideologia. In entrambi i casi la fantasiosa etimologia dei termini "guelfo" e "ghibellino" sembra essere la prova, più che di una scarsa preparazione storico-filologica, dell'estrema disponibilità del C. a mettere la propria cultura al servizio del suo credo politico. Lo stesso passaggio dagli studi letterari a quelli giuridici dimostra, insieme con tutte le vicende della sua esistenza, che a una buona formazione di base non corrispose nel C. un'autentica sensibilità umanistica. Il Salutati, che lo loda come grande ciceronianista, sembra aver appreso molto più a fondo di lui la lezione dell'oratoria classica. Potremmo essere meglio informati sulla profondità dei suoi interessi culturali se potessimo ritrovare altri membra disiecta della sua biblioteca, che dovette certo soffrire degli avvenimenti del 1378. Dagli autografi rimastici emerge un dato che, anche se marginale, costituisce un'ulteriore conferma del brillante ma superficiale eclettismo del C., e cioè la sua capacità di servirsi con estrema facilità di forme grafiche notevolmente diverse. Così, ad esempio, egli scrive gli appunti delle Ricordanze in mercantesca, annota il testo petrarchesco del Laurenz. S. Croce 26 sin. 10 in comune gotica e postilla talvolta il Vat. lat. 4518 in un'elegante preumanistica molto vicina alla scrittura del testo da lui stesso fatto copiare.
Delle opere giuridiche attribuite con sicurezza al C. sono edite le Allegationes, stampate più volte fin dal sec. XV (cfr. Indice generale degli incunaboli delle Biblioteche d'Italia, II, I, nn. 5685-5689), i trattati De hospitalitate e De canonica portione et de quarta, compresi rispettivamente nei tomi XIV (cc. 162r-167v) e XV, 2 (cc. 193r-198v) dei Tractatus universi iuris, Venetiis 1584. Di lui si conoscono anche Repetitiones inedite (Tours, Bibl. municip., ms. 601). I discorsi pronunciati ad Avignone sono stati pubblicati da R. Davidsohn, Tre orazioni di L. da C. ambasciatore fiorentino a papa Urbano V e alla Curia in Avignone, in Arch. stor. ital., s. 5, XX (1897), pp. 225-246. La Epistola al figlio Bernardo è stata edita da L. Mehus. Scarso interesse biografico hanno le Ricordanze, consistenti soprattutto in registrazioni commerciali (con aggiunte di altri membri della famiglia posteriori alla morte del C.) e conservate all'Archivio di Stato di Firenze, Carte Strozziane, II, s., 3.
Fonti e Bibl.: Notizie su di lui siricavano dalle memorie dei figli Paolo, Averardo e Bernardo (Archivio di Stato di Firenze, Manoscritti 79, 80, 81), solo in parte pubblicate da F. Novati, Il libro memoriale de' figliuoli di M. L. da C. (1382), Bergamo 1893. Una parte rilevante del materiale documentario sul C. conservato all'Archivio di Stato di Firenze è costituito dai suoi interventi pubblici, registrati soprattutto nei volumi delle Consulte e Pratiche degli anni che lo videro protagonista della vita politica fiorentina. La lettera al figlio Bernardo è stata pubblicata, con altri documenti, nell'opera - che rimane ancora la più importante sul C. - di L. Mehus, Epistola o sia ragionamento di messer L. da C. celebre giureconsulto del sec. XIV colla vita delmedesimo...,Bologna 1753. Cfr. inoltre sul C.: Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, in Rer. Italic. Script., 2 ed., XXX, 1, a cura di N. Rodolico, pp. 280 s., 308, 310, 317 ss., 321, 347, 352, 365, 387; Il tumulto dei Ciompi. Cronache e memorie, ibid., XVIII, 3, a cura di G. Scaramella, pp. 15 ss., 55, 79, 107 s., 143 s.; Cronichette antiche di vari scrittori delbuon secolo della lingua toscana, a cura di D. M. Manni, Firenze 1733, pp. 212, 221, 223 ss.; Diario d'anon. fiorentino dall'anno 1358al 1389, a cura di A. Gherardi, Firenze 1876, pp. 209 s., 230 s., 249, 251, 328, 332, 339, 347, 359 s., 363, 376, 387 s., 405, 416, 422, 425 s., 491, 495; Monumenta Hungariae Historica, Acta Externa, III, a C. di G. Wenzal, Budapest 1876, p. 365; Mon. della Univers. di Padova (1318-1405), a cura di A. Gloria, Padova 1888, 1, nn. 184, 629 s.; II, n. 1473; C. Salutati, Epistolario, a cura di F. Novati, I, Roma 1891, pp. 100-103, 246 n. 1, 331 n. 3, 332 n. 1; II, ibid. 1893, pp. 29 nn. 1, 3, 4, 57 n. 1, 217-20; III, ibid. 1896, pp. 84 n. 2, 127 n. 1; IV, ibid. 1905, p. 33 n. 1; F. Petrarca. Epistolae familiares, a cura di V. Rossi, II, Firenze 1934, pp. 131-33; III, ibid. 1937, pp. 2931, 294-97; IV, a cura di U. Bosco, ibid. 1942, pp. 240-43 (per le annotazioni al Laur. S. Croce 26 sin. 10 non sembra fondata la tesi del Rossi, I, Firenze 1933, pp. XXII s.); Id., Epistolae sine nomine (Petrarcas "Buch ohne Namen" und die papstliche Kurie), a cura di P. Piur, Halle-Saale 1925, pp. 184-87 (cfr. anche pp. 145, 155 n. 4, 156 n. 3, 246 s., 249 s., 267, 273 ss., 281 s., 303 s., 331-37, 353 ss., 382); Id., Variae, a cura di G. Fracassetti, III, Florentiae 1863, pp. 420 S. (cfr. anche I, Florentiae 1859, p. XIV, e le Adnotationes, Firmi 1890, pp. 131 s.); N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere, III, Milano 1968, pp. 179-85; L. Mehus, Vita Ambrosii Traversarii generalis Camaldulensium, Florentiae 1759, pp. 241 s., 253; Elogj degli uomini illustri toscani, I, Lucca 1771, pp. 129-134; F. A. Vitale, Storia diplomatica de' senatori di Roma, II, Roma 1791, pp. 339-343; A. Levati, Viaggidi F. Petrarca in Francia in Germania ed in Italia, Milano 1820, III, pp. 126-128; IV, pp. 151 s.; S. Ammirato, Istorie fiorentine, Firenze 1824, IV, p. 418; V, pp. 61, 66, 69, 80, 136, 140, 148, 152, 155, 157, 198 s., 208-09, 213, 427; F. M. Colle, Storia scientifico-letteraria dello Studio diPadova, III, Padova 1825, pp. 52-62; G. Tiraboschi, Storia della letter. italiana, II, Milano 1833, pp. 264, 374-376, G. B. Baldelli Boni, DelPetrarca e delle sue opere libri quattro, Firenze 1837, pp. 140 s., 225, 271 s., 312 n. 3; Rime di Dante Alighieri e di Giannozzo Sacchetti...., a cura di F. Palermo, Firenze 1857, p. CXXII; J. F. von Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des Canonischen Rechts von Gratian bis auf die Gegenwart, II, Stuttgart 1877, pp. 270-272; A. Hortis, M. T. Cicerone nelle opere del Petrarca e del Boccaccio. Ricerche intorno alla storia della erudiz. classica nel Medio Evo, Trieste 1878, pp. 7, 38-42, 43 n. 2;A. Gherardi, Statuti della Università e Studio fiorentino..., Firenze 1881, pp. 152, 307, 311-313, 315-317, 319 s., 324 s., 328 s., 333 s.; C. Falletti-Fossati, Iltumulto dei Ciompi, Roma-Torino-Firenze 1882, pp. 56, 66, 87, 93, 116 s., 134, 146, 149, 161, 250, 292, 312, 336, 387; C. Voigt, Il risorgimento dell'antichità classica ovvero il primo secolo dell'Umanesimo, I, Firenze 1888, pp. 46, 164, 210, 239, 340;H. Cochin, Un amico di F. Petrarca. Le lettere del Nelli al Petrarca pubblicate di su un manoscritto della Nazionale di Parigi, Firenze 1801, pp. XVII, XLI, LIV, 6, 39, 59, 64, 121, 123, 127; N. Rodolico, La democrazia fiorentina nel suo tramonto (1378-1382), Bologna 1805, pp. 175, 336 s., 346 s.; R. Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secc. XIV e XV, I, Firenze 1905, pp. 26, 27 n. 22; II, ibid. 1914, pp. 124, 168-173(sull'attribuzione al C. delle note del Vat. Pal. lat. 1820 cfr. però G. 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