latinismi
Non c'è bisogno di ricordare quale importanza abbia avuto durante i secoli l'arricchimento del lessico italiano (come del resto quello delle altre lingue europee occidentali) per mezzo dei latinismi, cioè di quelle voci e di quei costrutti che nella trasmissione ereditaria erano andati perduti, e man mano si sono attinti di nuovo o nei libri in latino (ecclesiastici, letterari, giuridici, scientifici) o talvolta nella tradizione liturgica.
Tramite di quest'assunzione sono quasi sempre gli scrittori, nei quali mette conto vedere il come e il perché di tale assunzione, e l'atteggiamento rispetto al latino che ne sta alla base. E non c'è bisogno di sottolineare l'importanza di questa indagine per Dante.
Prescindiamo in questo esame dalle intercalazioni di citazioni latine sentite e presentate come tali: canti di anime penitenti o di beati (Te Deum laudamus, cioè l'inno di s. Ambrogio [Pg IX 140]; Beati quorum tecta sunt peccata!, un salmo [29, 3]); parole o frasi di personaggi (scias quod ego fui successor Petri, di Adriano V [Pg XIX 99]; O sanguis meus, ecc., di Cacciaguida [Pd XV 28-30]). E anche brevi frammenti di timbro scolastico: nacqui sub Iulio (If I 70); che discese di Fiesole ab antico (XV 62); tacito coram me ciascun s'affisse (Pd XXV 26); ma ciò non e converso (Cv IV Le dolci rime 104).
Certo, per renderci conto con esattezza del numero e dell'importanza dei latinismi di D., dovremmo conoscere meglio quelli che egli già trovava stabilmente installati nella lingua, in modo da distinguerli da quelli che egli stesso adoperò come novità lessicali.
Già molti ne erano entrati, per opera specialmente dei volgarizzatori duecenteschi: ed erano stati attinti alle fonti più varie: non solo a quegli scrittori classici che già allora si conoscevano, ma alla lingua della Chiesa, del diritto, della filosofia, delle scienze: Cicerone e il Corpus iuris, il Vangelo e s. Tommaso, la latinità classica e quella contemporanea avevano contribuito fortemente ad allargare il lessico ereditario. Parole dantesche come abitacolo, abitante, abito, abituato, accetto, accidente, accrescitivo, accumulare, acume, adamante, adolescente, adolescenza, adorare, adornare, adulterare, affezione, aforismi, agente, agno, alabastro, alienare, allegoria, ecc. appartenevano già (con certezza o alta probabilità) al lessico italiano (abbiamo incluso in questo elenco, e considereremo nel resto dell'articolo, insieme con i latinismi, anche quei grecismi che, penetrati nel lessico latino già da secoli, gli appartengono indissolubilmente).
Le possibilità di osmosi fra latino e italiano erano in questa età, ed erano particolarmente per D., grandissime: non si dimentichi che ogni specie di studio, ogni scienza, ogni atto giuridico, si esercitavano in latino, e quindi era ovvio che chi apriva nuovi territori al volgare ricorresse più o meno largamente al latino: come D. fa nel Convivio, che è il primo trattato filosofico in italiano, e nella Commedia, il poema della terra e del cielo. Di questa comunicabilità basti dar prova con un'asserzione che D. stesso fa di passaggio: nel De vulg. Eloq. (Il VII 6) egli parla delle parole più lunghe che esistano, e riferendosi a quel vocabolo artificioso ‛ honorificabilitudinitatibus ', che nelle scuole medievali serviva come scioglilingua e come prova di penna, considera ovvio che si adoperi ugualmente anche in volgare, sicut est illud honorificabilitudinitate, quod duodena perficitur sillaba in vulgari, et in gramatica tredena perficitur in duobus obliquis. Non sempre tuttavia il fatto che D. italianizzi una parola latina implica che egli l'accetti: almeno così sembra si debba intendere questo passo del Convivio (III II 18): e però quelli cotali sono chiamati ne la gramatica ‛ amenti ' e ‛ dementi ', cioè sanza mente: dunque ‛ in gramatica ' sì, in volgare no.
Se l'indagine sui latinismi si conduce sulla lingua collettiva di un più o meno ampio periodo storico, ha un interesse solo linguistico; se si riferisce a un singolo autore essa ha invece rilevanza stilistica: e da questo punto di vista è stata compiuta, o almeno abbozzata, per Brunetto, Guittone, i traduttori duecenteschi, sia per ciò che concerne l'irrobustirsi delle strutture sintattiche sulla traccia dei modelli latini, sia per i latinismi lessicali. Urgono in D. da un lato moventi di ordine intellettuale, che lo spingono a trasfondere nella prosa del Convivio, ed entro certi limiti nella Commedia, l'abito mentale del sillogismo scolastico, dall'altro moventi affettivi, per cui egli si serve di latinismi quando vuol conferire al suo dettato un'aura di nobiltà, di gravità, di solennità.
In complesso, nella Vita Nuova i latinismi sintattici e lessicali sono relativamente scarsi; e così pure nelle Rime, salvo qualcuno nelle canzoni dottrinali (a conseguire un tono alto, saranno piuttosto i provenzalismi e i francesismi della tradizione precedente). Invece, i latinismi sono molto copiosi nel Convivio. Citiamo solo qualche passo, mettendo in evidenza i latinismi: La terza setta contra nostro volgare si fa per cupiditate di vanagloria (I XI 15); Come le corpora simplici hanno amore naturato in sé a lo luogo proprio (III III 2); è da sapere, a perfetta intelligenza avere, come (III V 3), ecc.
Nella Commedia i latinismi spesseggiano nei canti dottrinali: Ogne forma sustanzïal, che setta / è da matera ed è con lei unita, / specifica vertute ha in sé colletta (Pg XVIII 49-51); Anima fatta la virtute attiva (XXV 52); Sangue perfetto... / prende... / virtute informativa (v. 41); fé disgiunto / da l'anima il possibile intelletto (v. 65); sì nescïa è la sùbita vigilia / fin che la stimativa non soccorre (Pd XXVI 74-75); Concreato fu ordine e costrutto / a le sustanze; e quelle furon cima / nel mondo in che puro atto fu produtto; / pura potenza tenne la parte ima; / nel mezzo strinse potenza con atto / tal vime, che già mai non si divima (XXIX 31-36); sustanze e accidenti e lor costume / quasi conflati insieme (XXXIII 88-89). Ma più che questi termini filosofici importano quei latinismi che valgono, specialmente in alcuni canti del Paradiso, a dare solennità allo stile, a renderlo ‛ illustre '. Si pensi al canto di Giustiniano: Poscia che Costantin l'aquila volse; sacrosanto segno; li egregi / Romani; Quinzio, che dal cirro / negletto fu nomato; l'alpestre rocce, Po, di che tu labi; Cesare... il tolle; là dov'Ettore si cuba; la pompeana tuba; col baiulo seguente; Cleopatra / ... dal colubro / la morte prese subitana e atra (Pd VI). E quando già il parlare di Cacciaguida, dopo le prime parole così profonde che sfuggono alla comprensione, è diventato intelligibile, i molti latinismi ne mantengono alto il livello: del magno volume; solvuto hai, figlio; Tu credi che a me tuo pensier mei; perch'io paia / più gaudïoso; il pensier pandi; la mia risposta è già decreta (Pd XV). E più oltre, la preghiera di Beatrice ai beati esprime con latinismi, specialmente in rima, l'alto simbolismo della sacra cena: O sodalizio eletto a la gran cena / del benedetto Agnello, il qual vi ciba / sì, che la vostra voglia è sempre piena, / se per grazia di Dio questi preliba / di quel che cade de la vostra mensa, / prima che morte tempo li prescriba, / ponete mente a l'affezione immensa, / e roratelo alquanto (XXIV 1-8).
Caronte, è stato osservato, nell'Inferno è semplicemente un vecchio, Catone nel Purgatorio è denominato con un provenzalismo, veglio; s. Bernardo nell'alto del Paradiso con il latinismo sene, che viene per di più sottolineato dalla rima gene.
Parecchie volte i latinismi danteschi poggiano direttamente sul ricordo di un passo classico, o biblico, o medievale. Numerosi sono i passi virgiliani: il falcone che move la testa e con l'ali si plaude (Pd XIX 35) richiama la colomba " alis plaudentem " dell'Eneide (V 515); il secreto calle (If X 1) risale ai " secreti calles " dell'Eneide (VI 443); la gente argolica (If XXVIII 84) dipende dall' " Argolica de gente " dell'Eneide (II 76). In alcuni casi, ferma rimanendo la corrispondenza letterale, vi è stato o un fraintendimento o una transvalutazione semantica: così il superbo Ilïón (If I 75; " superbum / Ilion ", Aen. III 2-3); umile Italia (If I 106; " humilem Italiam ", Aen. III 522); sacra fame / de l'oro (Pg XXII 40-41; " auri sacra fames ", Aen. III 56), ecc. La noverca di Pd XVII 47 (per la spietata e perfida noverca) viene da Ovidio (Met. XV 498); e da una variante erronea di Ovidio (Met. VII 760 " Naiades " anziché " Laiades ") dipendono le Naiade di Pg XXXIII 49. I serpenti della Libia (ché se chelidri, iaculi e faree / produce, e cencri con anfisibena, If XXIV 86-87) vengono tutti e cinque da un passo di Lucano (Phars. IX 708-721).
Dall'Antico Testamento viene la locuzione ‛ dare intelletto ': i lor sermoni, / ch'a poetar mi davano intelletto (Pg XXII 129; " Declaratio sermonum tuorum illuminat et intellectum dat parvulis ", Ps. 118, 130); il verso di Pd XXVII 3 sì che m'inebrïava il dolce canto - e gli altri passi in cui l'ebbrezza è ebbrezza mistica - risalgono al salmo 35, 9 " Inebriabuntur ab ubertate domus tuae ". Il verbo ‛ vallare ', che già figura in una citazione dei Proverbi (8, 27) tradotta da D. stesso in Cv III XV 16 Quando Iddio... con certa legge e con certo giro vallava li abissi (" quando certa lege et gyro vallabat abyssos ") torna in If VIII 77, a proposito delle alte fosse / che vallan quella terra sconsolata. Il verso che chiude il XXIV del Purgatorio (esurïendo sempre quanto è giusto) ricorda la quarta delle beatitudini evangeliche (" Beati qui esuriunt... iustitiam ", Matt. 5, 6), mentre nell'elogio di s. Domenico la parola ‛ agricola '(io ne parlo / sì come de l'agricola che Cristo / elesse a l'orto suo per aiutarlo, Pd XII 70-72) dipende dalla parabola del vignaiolo (" vineam suam locabit aliis agricolis, qui reddant fructum temporibus suis ", Matt. 21, 41). Ma, nell'accogliere questo latinismo, D. non era stato senza predecessori. Il conservo... ad una podestate di Pg XIX 134 echeggia il conservus dell'Apocalisse (19, 10).
Il contrasto fra libito e licito che D. fa nei versi su Semiramide (A vizio di lussuria fu sì rotta, / che libito fé licito in sua legge, If V 55-56) era già in Paolo Orosio: " quod cuique libitum esset liberum [var. licitum] fieret " (Hist. I IV 8). E dallo stesso Orosio (I VII 6 " Satia te, inquit, sanguine quem sitisti ") viene il latinismo di Pg XII 57 Sangue sitisti, e io di sangue t'empio. Il ‛ previso ' delle parole di D. a Cacciaguida (ché saetta previsa vien più lenta, Pd XVII 27) risale alla massima quale il poeta la trovava formulata nell'Esopo di Gualtero Anglico: " Nam provisa [var. previsa] minus laedere tela solent " (Hervieux, Les fabulistes lat., II, 325). ‛ Tetragono ' presenta già in s. Tommaso, nel commento all'Etica aristotelica, quella connotazione di " incrollabile " che è caratteristica della parola dantesca (ben tetragono ai colpi di ventura, Pd XVII 24): " tetragonum nominat perfectum in virtute ad similitudinem corporis cubici, habentis sex superficies quadratas, propter quod bene stat in qualibet superficie. Et similiter virtuosus in qualibet fortuna bene se habet ". E così probabilmente il contrasto fra ‛ passo ' e ‛ passuro ' di Pd XX 105 risale a s. Tommaso Exp. ad Rom. V 5 " Sicut enim nos credimus eum natum et passum, ita ipsi crediderunt nasciturum et passurum ".
Non è da meravigliarsi che qualche volta D. si lasci indurre dalla rima a preferire un latinismo alla voce dell'uso. Lo vediamo in esempi come rami nigri (Pg XXXIII 110), resurgeranno del sepulcro (If VII 56), al summo (VII 119), Vostra natura... peccò tota (Pd VII 85: probabilmente, come vuole H. Gmelin, per ricordo di un passo di s. Anselmo; cfr. anche Pd XX 132 che la prima cagion non veggion tota); questa vice (XXX 18); al vostro vulgo (IX 36).
Anche la preferenza accordata alla forma del nominativo in parecchi latinismi sarà stata qualche volta suggerita dalla rima: draco, gurge, imago, muno, scorpio, sermo, temo, e poi Dido, Giuno, Plato, Scipio: qualche volta, diciamo, perché altrove troviamo simili latinismi al nominativo fuori della rima, come alo, beatitudo, decurio, grando, turbo; e del resto anche nella prosa del Convivio abbiamo Dido. Cioè non si tratta di una supina soggezione alla rima, ma della ricchezza di varianti lessicali che D. considera accettabili e in cui suole esercitare la sua scelta.
Proprio questa coesistenza di doppioni, accertata in molteplici casi (laco-lago, lito-lido, volgo-vulgo, lasciare-lassare, ecc.) apre agli editori di testi danteschi in volgare una quantità di problemi di difficile soluzione. I codici sono ora più ora meno latineggianti, e non sempre i criteri interni (come la rima) o quelli esterni (raggruppamento dei codici in famiglie) permettono di accertare l'uso dantesco. D. avrà preferito veleno oppure veneno? ovvero qualche volta avrà scritto in un modo e qualche altra nell'altro? Questa terza ipotesi è, si può dire, certa per la scelta tra boce e voce: la prima più frequente in alcuni passi dell'Inferno, l'altra in luoghi di tono più elevato. Il criterio della lectio difficilior, applicato alla scelta delle varianti, ha permesso qualche volta di ricuperare qualche latinismo trascurato da precedenti editori: il Petrocchi in luogo del vulgato sì che parea che l'aere ne temesse (If I 48) ha accolto tremesse, da trèmesse; e in luogo di nel caldo suo calor (Pd XXXI 140), nel caldo suo caler: lezioni ambedue molto probabili.
Già il Machiavelli aveva osservato l'abbondanza dei latinismi nel Paradiso, e l'adattamento di essi alla morfologia italiana: " Nelle prime due cantiche ve ne sono pochi [vocaboli], ma nell'ultima assai, massime dedotti da' Latini, perché le dottrine varie di che io ragiono, mi costringono a pigliare vocaboli atti a poterle esprimere; e non si potendo se non con termini latini, io gli usavo, ma gli deducevo in modo, con le desinenze, ch'io gli facevo diventare simili alla lingua del resto dell'opera " (Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua..., ediz. G. Mazzoni e M. Casella, p. 774).
Grossi problemi offrirebbe la discussione sulla grafia e la fonetica delle singole varianti: accenniamo a uno soltanto. I testi critici moderni danno atto, attivo, dittare, fatto, fattura con tt e non con ct; catto, cattivo, recetto, scritto, scrittore, scrittura con tt e non con pt, secondo l'uso moderno. E, per la leggibilità del testo, fanno benissimo. Ma è quasi certo che D. preferiva la scrizione etimologica.
Ci si potrebbe anche domandare fino a che punto l'accoglimento di un latinismo nel lessico dantesco implichi inserimento nel sistema morfologico italiano, né la risposta sarebbe sempre univoca: per es. l'accettazione di lurco (se, come par certo, è dal lat. lurco, -onis) implica inserimento completo nel paradigma italiano (plur. lurchi), mentre quando D. accoglie bobolca le dà un plurale bobolce, alla latina, e non bobolche (come si aspetterebbe dal riscontro con arca - arche: vero è che si ha anche, due volte, il plurale femm. biece).
Per lo più l'adattamento dei latinismi è pieno anche nel paradigma verbale, benché non siamo ben sicuri che adoperando si cuba, cupe, indige, iube, labi, lude, pandi e simili D. pensasse di accogliere nella sua lingua cubarsi, cùpere (o cupire), indìgere (o indigére), iubére, làbere, lùdere, pàndere; certo non sembra probabile che si possa ricostruire un *concipire da Pd XXVII 63 (soccorrà tosto, sì com'io concipio), né un *sidére da Pd XXXIII 124 (O luce etterna che sola in te sidi): si tratta di forme latine singole, come anche l'eràmo di Pg XXXII 35, come i gerundi balbuziendo ed esuriendo, come parecchi participi passati (e tempi composti formati con essi): è adulto, affetto, è àuso, ebber commota, sarà detruso, moto, oblito, preciso, repleto, setto, ecc.
Ci colpisce (perché di solito le congiunzioni non sono soggette a prestito) l'adozione di ne come finale negativa in Pd XXXII 145 ne forse tu t'arretri, tant'è vero che non tutti l'intendono in questo modo.
Per giudicare rettamente dobbiamo sempre riferirci a quello che era l'uso di D. e del toscano del suo tempo (mentre nei secoli successivi l'italiano ha subito un forte processo di rilatinizzazione): si usava allora scrivere arismetica o arismetrica, dificio, stremo, buccolica, etterno, oppinione, palido, ecc.; Diascoride, ecc. E anche, quanto alla semantica, non dobbiamo dimenticare, nel leggere D., che spesso quella che era una parola pienamente significativa si è durante i secoli scolorita nell'uso: egregio, illustre, preclaro, magnificare, profano avevano nell'uso dantesco un tono molto più alto, secondo l'etimologia, che non sia quello odierno.
D., in una delle occasioni in cui confronta latino e volgare, dichiara che lo latino molte cose manifesta concepute ne la mente che lo volgare far non può, sì come sanno quelli che hanno l'uno e l'altro sermone (Cv I V 12); ma egli ha illimitata fiducia nell'avvenire del volgare e nella propria capacità di magnificare lui (X 7).
Il proposito di conferire al volgare nuova sublimità, nuova magnanimità, D. l'ottiene riconducendolo ogni volta che occorre al latino, cioè alla lingua che possedeva quella sublimità, quella magnanimità. Nel suo poemetto giovanile Urania il Manzoni dice: " tu le insegnasti ad onorar la madre, / tu dell'ira maestro e del sorriso, / divo Alighier, le fosti ", e (anche se il concetto di ‛ figliolanza ' non corrisponde all'idea che D. si faceva della lingua antica in confronto con la moderna) troviamo che più incisivamente non si poteva esprimere l'atteggiamento del poeta rispetto al latino. V. RIMA 12.1, 2, 3.
Bibl. - Oltre alle consuete fonti (concordanze, rimari, vocabolari danteschi): E. G. Parodi, Lingua 203-284; N. Zingarelli, Parole e forme della D.C. aliene dal dialetto fiorentino, in " Studi di Filol. Romanza " I (1884) 1-202; A. Schiaffini Tradizione e poesia nella prosa d'arte italiana dalla latinità medievale a G. Boccaccio, Roma 1943², passim; A. Ronconi, Parole di D.: Per una semantica dei virgilianismi, in " Lingua Nostra " XI (1950) 81-85; B. Terracini, Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957, 283-285 (sul Convivio); H. Gmelin, Die dichterische Bedeutung der Latinismen in Dantes Paradiso, in " Germ.-Rom. Monatsschrift " VIII (1958) 35-46 (in gran parte tradotto in M. Fubinie- E.Bonora, Antologia della critica dantesca, Torino 1966); C. Segre, Lingua, stile e società, Milano 1963, passim (spec. importante per i latinismi sintattici); E. Paratore, D. e il mondo classico, in Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 25-54.