latinismi
I latinismi sono elementi linguistici attinti dal latino (parole e significati di parole, elementi grafici o fonetici, costrutti sintattici) e giunti in italiano in momenti diversi della sua storia. Occorre però distinguere tra latinismi e parole derivate dal latino, cioè parole completamente italiane che risalgono a un etimo latino. Nei confronti del latino, l’italiano come le altre lingue romanze (o neolatine) ha un rapporto duplice, così sintetizzabile:
(a) il latino è la lingua da cui l’italiano si è sviluppato in epoca altomedievale;
(b) è però anche la lingua che – al pari di una lingua straniera – ha fornito all’italiano in momenti diversi particolari elementi lessicali, grafico-fonetici, sintattici, ecc. (Migliorini 1973: 215-226; De Mauro 2005: 128).
Per effetto di tale doppio binario, alcune parole italiane derivate da una stessa base etimologica latina possono presentarsi sotto due forme diverse. Si parla per tali parole di doppioni lessicali o, con un termine attinto dalla chimica, di ➔ allotropi, cioè «stati o esiti fonetici» diversi di una medesima base etimologica. Così dal lat. solĭdu(m) abbiamo l’italiano soldo e il latinismo solido; dal lat. mědiu(m) l’italiano mezzo e i latinismi medio e medium; dal lat. arěa(m) l’italiano aia e il latinismo area, e così via.
Come si vede, i latinismi si presentano spesso in una forma assai più vicina alla base latina che le parole italiane discendenti dallo stesso etimo, chiamate anche parole ereditarie o patrimoniali. Così accade in numerosi latinismi nei quali risulta ben conservata la vocale tonica latina o il dittongo: per es. vitreo dal lat. vĭtreu(m), ma vetro dal lat. vĭtru(m); aureo dal lat. aurĕu(m), ma oro dal lat. auru(m); assurdo dal lat. absŭrdu(m), ma sordo dal lat. sŭrdu(m), ecc. (Maiden 1998: 101).
Il criterio fonetico non basta però a distinguere le parole ereditarie dai latinismi: alcune parole ereditarie non presentano un’alterazione fonetica della base etimologica – per es. diavolo < diabŏlu(m); tegola < tegŭla(m) –, e potrebbero così apparire dei latinismi se applicassimo rigorosamente tale criterio. D’altra parte – anche a prescindere dagli adattamenti fonomorfologici cui furono sottoposti i latinismi ancora per vari secoli – alcuni latinismi giunti in italiano in epoca medievale hanno subito alterazioni fonetiche simili a quelle delle parole ereditarie (queste forme sono chiamate tradizionalmente parole semidotte: cfr. Migliorini 1973: 227-237): per es. dĭvītĭa(m) > dovizia (e una forma più antica divizia) dove l’esito -o- per ĭ latina testimonia una trafila non solo libresca, ma anche parlata, coincidente con l’esito fonetico di altre parole ereditarie (per es. dovere < dēbere; domandare < dēmandare).
Un criterio più sicuro che può distinguere una parola ereditaria da un latinismo è il suo ambito d’uso e, nei casi in cui è possibile, la ricostruzione della sua storia linguistica: in tal senso, secondo una prospettiva rigorosamente storico-linguistica, l’etimologia viene a coincidere con la storia stessa della parola, vale a dire con lo studio delle sue vicende linguistiche documentabili o ricostruibili sulla base di fattori non solo fonetici, ma anche storici, sociali, culturali, ecc. Applicando subito tale criterio, si vede che diavolo o tegola sono parole attestate già nei primi documenti in volgare di qualsiasi livello sociolinguistico, mentre area, solido, medio o medium sono documentate in epoche diverse (l’ultimo latinismo risale a tempi molto recenti) e in ambiti particolari o specialistici della lingua (per es. in quello del linguaggio scientifico, tecnico, giuridico, filosofico, ecc.).
Si è detto che i latinismi si comportano in italiano come se fossero delle parole straniere, cioè come ➔ prestiti. Come le parole straniere attinte da altre lingue vive, infatti, i latinismi possono incidere nel modificare le strutture interne della lingua ricevente per effetto del contatto linguistico o ➔ interferenza. Gli effetti più importanti di tale interferenza si ebbero nei momenti in cui l’afflusso di latinismi fu massiccio sotto la spinta di fattori culturali specifici: si pensi al forte impatto culturale del latino in epoca umanistico-rinascimentale e al fenomeno correlato del cosiddetto bilinguismo latino-volgare. Si aggiunga che l’ingresso dei latinismi nella lingua comune non è solo veicolato dalle lingue specialistiche o da lingue speciali come la lingua della Chiesa (➔ cristianesimo e lingua); in alcuni casi infatti i latinismi penetrano in italiano mediante l’intermediazione delle principali lingue europee di cultura (specie attraverso il francese, l’inglese e il tedesco, e ora attraverso l’inglese d’America), nelle quali queste parole circolano, a causa del comune patrimonio culturale classico.
I dati quantitativi offerti dal GRADIT (Grande dizionario italiano dell’uso) confermano che nella stratificazione storica del lessico italiano i latinismi costituiscono un elemento numericamente più importante delle parole ereditarie attinte dal latino (➔ lessico). Sui 250.000 lemmi del GRADIT, infatti, la percentuale delle parole derivate o attinte dal latino è del 14% circa del totale, un dato non elevato, condizionato dalla grande quantità di parole formate con elementi endogeni mediante prefissi, suffissi, meccanismi di composizione; la componente latina, comunque, costituisce il 52% circa del vocabolario di base dell’italiano e rappresenta il suo nucleo originario più conservativo e antico. Delle circa 35.000 parole di etimo latino, quelle ereditarie sono appena 4574 (pari al 14%), quelle attinte dal latino in epoche diverse oltre 30.000 (pari all’86%) (De Mauro 2005: 131). Questa consistenza numerica dei latinismi (e non delle parole ereditarie) contribuisce notevolmente a fare dell’italiano, anche nella percezione dei parlanti stranieri, la più vicina al latino delle lingue neolatine.
L’afflusso di latinismi in ➔ italiano antico presenta dei picchi significativi all’altezza del XIII e del XIV secolo (De Mauro 2005: 130, tav. 3). Fonti principali di questo travaso sono i settori della lingua della Chiesa (misericordia, absorto, ratto «rapimento mistico», edificare, ecc.; ➔ Chiesa e lingua), del diritto (legista, statuto, codicillo, ecc.), della filosofia (coscienza, ragione, dottrina, sostanza, causa, razionale, formale, ecc.).
Molti latinismi giungono attraverso il linguaggio delle scienze, spesso attraverso la mediazione di compendi o di opere enciclopediche. In La composizione del mondo di Restoro d’Arezzo (1282) compaiono numerosi latinismi dell’astronomia (declinazione, deferente, eccentrico, retrogrado, ecc.) spesso attinti direttamente dalle versioni latine di opere arabe. I volgarizzamenti di opere latine (➔ volgarizzamenti, lingua dei) contribuiscono in maniera decisiva a trasferire in volgare latinismi lessicali, ma anche moduli sintattici (una sintesi, in Giovanardi 1994): per es. l’abitudine di iniziare il periodo con un nesso relativo (coniunctio relativa).
I moduli argomentativi della latinità scolastica incidono sulla prima prosa filosofica in volgare: nel Convivio di ➔ Dante per es. «Dico adunque che» corrisponde al lat. dico igitur quod, «Onde è da sapere che» al lat. propter sciendum quod, ecc. (Tesi 2007: 74). Nella prosa letteraria più sostenuta, per es. nelle parti introduttive del Decameron di ➔ Giovanni Boccaccio, il modello stilistico-sintattico degli storiografi latini si ripercuote sulla struttura della frase (complemento oggetto anticipato a sinistra del verbo, verbo in clausola, ecc.) e in generale sull’organizzazione della frase complessa (uso di costrutti latineggianti come l’➔accusativo con l’infinito, proposizioni subordinate collocate a sinistra rispetto alla principale, stile ipotattico di tipo polifrastico, ecc.), creando un primo modello di prosa colta destinato a rimanere esemplare fino al XVI secolo e oltre (Tesi 2007: 90-94).
Le conseguenze di tale impatto non riguardano solo la sintassi o l’ampliamento del vocabolario, ma hanno anche ripercussioni sulla struttura fonologica del volgare. Tra Duecento e Trecento i latinismi infatti cominciano a penetrare in italiano con un aspetto diverso, più vicino alla base etimologica e con esiti diversi dalle parole affluite in epoca altomedievale (Devoto 19644: 53).
Si hanno adesso:
(a) parole come giustizia, vizio, pensare e simili, dove l’esito fonetico contrasta con quello delle parole ereditarie (giustezza, vezzo, pesare);
(b) un numero consistente di parole sdrucciole con accento sulla terzultima (attimo, immagine, accidia, legittimo, rettorica, cattedra, ecc.) che vanno ad affiancare le parole piane (con accento sulla penultima);
(c) un gruppo nutrito di parole col nesso iniziale o interno consonante + l del tipo flagello, florido, flettere, gloria, globo, obliquo, obbligo, ampliare, implorare, complice e simili, che si affiancano a quelle ereditarie col gruppo consonante + i (esemplare accanto a esempio, flebile accanto a fievole, plebe accanto a pieve, ecc.), o che le sostituiscono (pubblico che sostituisce il precedente piuvico); una debole reazione a questo nuovo nesso si ha negli esiti consonante + r di alcune forme delle scritture medievali (esempro, fragellare, fragellazione, obbrigato, ecc.) che non avrebbero avuto un seguito (ma in un antico francesismo come sembrare, dal fr. sembler, tale esito si è mantenuto fino ad oggi).
Un discorso a parte riguarda l’ambito d’uso e il livello stilistico dei latinismi, spesso avvertiti come veri e propri ➔ cultismi che conferiscono prestigio alla scrittura. Esemplare il caso di Dante (Migliorini 1973: 239-249), nelle cui opere compaiono frequenti latinismi con connotazione culta o prestigiosa, in particolare nel Convivio e nelle parti dottrinali della Commedia. Per es. nel Paradiso san Bernardo viene chiamato sene «vecchio», mentre nell’Inferno Caronte è definito con la parola comune vecchio. Ma anche la semantica dei latinismi danteschi è spesso più aderente al modello latino (per es., egregio «valoroso», illustre «insigne» ma anche «splendente», profano «peccatore», magnanimo «di animo nobile» ma anche «che ha un comportamento esteriore adeguato alle sue qualità morali», ecc.) che al significato più scolorito assunto da queste parole nella lingua di oggi.
L’influsso del latino è nell’epoca umanistico-rinascimentale ancora più accentuato che nel periodo medievale (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’). Concorrono fattori culturali specifici quali l’Umanesimo, la riscoperta di numerosi testi classici non conosciuti nel medioevo, le prime opere a stampa e la circolazione libraria dei classici greci e latini, ecc. Al XV e XVI secolo risalgono infatti più di un quarto dei latinismi (circa 8000) penetrati in italiano fino ad oggi (De Mauro 2005: 130, tav. 3).
È questo il periodo di massimo impatto esercitato dal latino sulle strutture del volgare, e non limitato al lessico. Il bilinguismo degli umanisti favorisce il travaso di forme e costrutti direttamente attinti dalla classicità. Si precisa meglio in questa epoca il concetto di latino classico, limitandone la cronologia a un segmento ristretto dell’antichità (dal I sec. a.C. al I d.C.). Questo fatto contribuisce alla ricerca di una maggiore aderenza ai modelli linguistici di Roma antica. Nel campo della sintassi il modello classico agisce indirettamente ad arginare alcuni costrutti che dalla lingua latina d’uso erano passati nelle lingue romanze. I rapporti logico-grammaticali ben scolpiti tra piano della principale e piano della subordinata portano a rifiutare (o a limitare alle scritture correnti più vicine al parlato) costrutti molto diffusi nella prosa medievale (cfr. Tesi 2004):
(a) la cosiddetta ➔ paraipotassi: quando accostata vi si sarà, e voi allora […] scendete giù;
(b) le completive (➔ completive, frasi) con che + infinito: veggiamo che […] quegli esser dal giogo alleviati;
(c) la coordinazione di proposizioni implicite (al gerundio o al participio) con proposizioni esplicite: dicendogli alcuna cosa che non gli piacque […] e quelli essere (= «e pensando che fosse») costui con molti fratelli […] disse …
Un numero cospicuo di latinismi (e di ➔ grecismi) penetra in volgare in età umanistico-rinascimentale e post-rinascimentale attraverso le terminologie specialistiche, ma in generale è il vocabolario intellettuale a subire un incremento notevole. Sono di questo periodo parole sconosciute (o poco note) ai volgari medievali, come amatorio, ameno, anelante, cèrulo, connubio, esangue, facezia, fanatico, ìlare, lepido, madido, missiva, opulento, ottemperare, pagina, prodigioso, sodalità, trofeo, veemente, vitreo, ecc. Un caso ben studiato di famiglia lessicale che ha una comune matrice umanistica è quello di tradurre, traduzione, traduttore e dei termini corrispondenti nelle lingue romanze (fr. traduire, spagn. traducir, catal. traduir, port. traduzir) (Folena 1991): tradurre «tradurre da una lingua a un’altra», attestato in volgare fin dal 1420 (sul modello del latino umanistico traducere), sostituisce nel corso del Quattrocento il sinonimo trecentesco traslatare, e si affianca al significato tradizionale di «condurre, trasportare da un luogo a un altro», recuperando un significato particolare che il verbo aveva in latino classico.
In certi casi il recupero quattrocentesco di un termine classico segna la prima tappa di uno sviluppo semantico portato a compimento nel secolo successivo: per es., il latinismo repubblica abbina al significato generico di «stato» un’accezione più ristretta (già documentata in ➔ Leon Battista Alberti) di forma di governo contrapposta a principato, dando vita a una distinzione terminologica che si sarebbe consolidata nel lessico politico di ➔ Niccolò Machiavelli (Tesi 2007: 120).
Il latino costituisce a partire dal periodo umanistico-rinascimentale l’elemento culto ricorrente della lingua del classicismo letterario. I sostenitori della cosiddetta teoria cortigiana (➔ cortigiana, lingua), per es., ne fanno un ingrediente linguistico basilare delle loro scelte di lessico e grammatica da contrapporre o affiancare al toscano letterario, mentre un numero cospicuo di latinismi, spesso effimeri, è alla base del vocabolario di alcuni generi letterari particolari (➔ latino macaronico; ➔ pedantesca, lingua; polifilesco, ecc.). Prosatori e poeti (➔ Baldassarre Castiglione, Casa, ➔ Torquato Tasso, ecc.) si rifanno consapevolmente al modello del latino classico sia per costruire il periodo, di tipo armonioso e ipotattico, sia per attingere lessemi nuovi e significati particolari di parole della lingua comune (i cosiddetti latinismi semantici).
Questo atteggiamento elitario che contraddistingue la cultura classicistica italiana è tenuto in vita dall’educazione delle classi nobiliari, affidata agli ecclesiastici, di cui lo studio della lingua latina (e la pratica della versione e della retroversione dall’italiano al latino) rappresenta il cardine. Non stupisce per questo che il recupero costante di latinismi sia un fatto endemico nell’italiano letterario tradizionale (per il linguaggio poetico, una panoramica in Serianni 2009). Si pensi, in sintesi, alla presenza del modello linguistico del latino classico in poeti come Giuseppe Parini, Ippolito Pindemonte, ➔ Vincenzo Monti, ➔ Ugo Foscolo, ecc., o alla difesa di latinismi particolari (erompere, equo, improbo, incombe, fratricida, ecc.) nelle Annotazioni alle dieci Canzoni (1824) di ➔ Giacomo Leopardi, in aperto contrasto con la tradizione toscanista rappresentata dal Vocabolario della Crusca: un modello linguistico che si sarebbe protratto fino alle soglie del Novecento nel linguaggio poetico di ➔ Giosuè Carducci, ➔ Giovanni Pascoli, ➔ Gabriele D’Annunzio, per poi allentarsi molto o dissolversi nei poeti delle generazioni successive.
A partire dall’epoca rinascimentale le terminologie specialistiche dei linguaggi scientifici si rinnovano con l’assunzione di numerosi termini di origine latina o greca (Dardano 1994; in sintesi, Tesi 2005: 67-79).
Nella lingua della medicina (➔ medicina, lingua della), per es., è particolarmente significativa l’opera di rifondazione del linguaggio anatomico compiuta da Andrea Vesalio, che nel De humani corporis fabrica (1543) ripristina numerosi termini attinti dal latino classico (cartilago, femur, palatum, alveolus, ecc.) destinati ad avere diffusione internazionale (it. cartilagine, fr. cartilage, ingl. cartilage; it. femore, fr. fémur, ingl. femur; it. palato, fr. palais, ingl. palate; it. alveolo, fr. alvéole, ingl. alveolus, ecc.).
I termini specialistici delle varie scienze ebbero una circolazione assai ampia e in molti casi arrivarono a interessare la lingua comune. Il loro status di parole formate con elementi classici greco-latini (➔ elementi formativi) consente una assunzione quasi inavvertita nei vocabolari delle lingue di cultura. Tra Seicento e Settecento il latino comincia a perdere il suo ruolo incontrastato di lingua internazionale della cultura: prima il francese (dalla metà Seicento alla fine dell’Ottocento), e poi l’inglese (in particolare, nel corso del Novecento, l’inglese d’America) lo sostituiscono progressivamente in qualità di lingue veicolari dei saperi internazionali. Se ancora lo svedese Carlo Linneo (Carl Linné) scrive il suo Systema naturae (1735) in latino (e per questo il latino è tuttora usato internazionalmente per i nomi scientifici di animali e piante), Lavoisier rifonda la nomenclatura chimica moderna scrivendo il suo trattato in francese (1787) e Isaac Newton passa dal latino dei Principia mathematica (1687) all’inglese dell’Opticks (1704).
Nel periodo postrinascimentale i latinismi (e i grecismi) tecnico-scientifici iniziano ad affluire in italiano da altre lingue straniere, soprattutto dal francese e dall’inglese: si parla in questi casi di franco-latinismi (e franco-grecismi), anglo-latinismi (e anglo-grecismi). Da questo momento molti latinismi e grecismi si stabilizzano in italiano con la forma che avevano nelle lingue di partenza, senza adattarsi al sistema fonologico della lingua ricevente (Migliorini 1990: 63-80). Ciò provoca la presenza di:
(a) parole con gruppi consonantici iniziali o interni solitamente adattati in italiano (psicologia, pneumatico, ctonio, adepto, captare, capsula, abdicare, optare, opzione, ecc.);
(b) parole con finale consonantica (raptus, lapsus, pus, virus, humus, memorandum, ultimatum, referendum; i grecismi gas, neon, termos, ecc.).
Una debole reazione a questi nuovi ingressi lessicali si ha nel caso di alcune parole che subiscono un adattamento stabile, per es. sanatorio, acquario, alluminio, il grecismo batterio, ecc., mentre adattamenti dei nessi consonantici come cattare, ottare, cassula e simili, o della consonante finale (per es. gasse, pusse) vengono progressivamente emarginati dalla lingua comune, o retrocedono a variante secondaria (per es. auditorio, rispetto al più frequente auditorium). La quantità consistente di tali parole tecnico-scientifiche non adattate nell’italiano contemporaneo, insieme alla presenza ben consolidata di francesismi (camion) e soprattutto di anglicismi (tram, sport, film, golf, bar, ecc.) con terminazione consonantica ha fatto ipotizzare ad alcuni studiosi (Devoto 19644: 149; Muljačić 1972: 101) un nuovo assetto del sistema fonologico italiano.
Fin dall’antichità il latino della tradizione cristiana (➔ cristianesimo e lingua) ha avuto riflessi sul vocabolario non limitati alla lingua colta (una sintesi in Tesi 2007: 13-14).
Il passaggio dalla latinità pagana a quella cristiana favorì l’assunzione stabile di nuovi lessemi e significati specifici, che sarebbero stati trasmessi senza interruzione dal mondo antico ai vocabolari delle lingue moderne. Spesso si tratta di vocaboli di origine greca o semitica passati nelle versioni latine dei testi sacri o della liturgia, e da qui in volgare: eucaristia, martire, apostolo, profeta, (e)vangelo, vescovo, chiesa, pasqua, ecc.; da uno stesso termine latino (o greco-latino) si ebbe in certi casi un doppio esito, per es. colto in epifania, popolare in befana. A volte sono intere espressioni bibliche a veicolare costrutti ignoti all’italiano, come per es. il tipo elativo (di origine semitica) il re dei re (rex regum), il cantico dei cantici (canticum canticorum), nei secoli dei secoli (per omnia saecula saeculorum), ecc., giunto nella lingua comune e anche nei dialetti (si pensi, per il napoletano letterario, a Lo cunto de li cunti, titolo della raccolta seicentesca di fiabe di Giambattista Basile).
Numerose le parole o le espressioni latine bibliche o liturgiche (a volte di origine ebraica, come le prime due dell’elenco seguente) arrivate in italiano nella loro forma originaria, e spesso ricorrenti in tono ironico: alleluia, amen, crucifige, cupio dissolvi, vox clamantis in deserto, sic transit gloria mundi, Deo gratias, requiem aeternam, requiescat in pace, ite missa est, ecc. (Scavuzzo 1994: 480). Alla tradizione liturgica appartiene anche un latinismo corrente e inavvertito come lavabo, prima persona del futuro indicativo del lat. lavare («laverò»), che trae origine dalla parola iniziale del salmo lavabo inter innocentes manus meas, che il sacerdote recita nel lavarsi le dita durante la messa; la parola latina passò poi a indicare gli acquai delle sacrestie, dove era inciso il versetto del salmo, e in un secondo momento (a fine Ottocento e con l’intermediazione del francese) il comune «lavandino».
Il latino è da sempre stato una lingua interna della Chiesa, così come il volgare ha rappresentato fin dal medioevo la sua lingua esterna (per es. nella predicazione; ➔ predicazione e lingua). In latino erano infatti, fino a tempi recenti, la liturgia (fino al Concilio Vaticano II) e tutti i suoi atti ufficiali (tuttora le encicliche dei papi sono redatte in latino). Un nuovo stile comunicativo si impose tuttavia nella Chiesa postconciliare, che cercò di stabilire un contatto più ampio con i fedeli sfruttando al meglio le capacità dei nuovi media, specie del mezzo televisivo. Attraverso questo canale molto potente alcuni latinismi si trasferirono dall’uso preferenziale dei pontefici e degli alti prelati nei loro discorsi pubblici all’uso colto generale. È il caso per es. del verbo auspicare nel significato di «augurarsi (che una cosa accada)» in senso sempre positivo, un verbo di bassissimo rendimento funzionale fino a tutto l’Ottocento (il Tommaseo-Bellini lo registra nel significato di «augurare cose liete o disgrazie», sul modello del lat. auspicari «trarre conclusioni nell’osservare il volo degli uccelli»), ma che nella lingua di oggi si presta bene a esprimere l’atteggiamento politico di personaggi con alte cariche istituzionali su alcuni punti controversi della contemporaneità (situazioni conflittuali tra stati, crisi economiche, minaccia del terrorismo, ecc.).
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