latino e italiano
I primi testi volgari d’area italiana sono tradizionalmente considerati i Placiti capuani (marzo 960 - ottobre 963): un debutto tardo rispetto a quello francese (i Giuramenti di Strasburgo, primo documento noto in un volgare neolatino, sono del febbraio 842); dopo inizi stentati, però, le attestazioni crescono rapidamente. I Placiti sono comunque preceduti da testi liminari che mostrano l’articolazione di varietà volgari già mature (l’indovinello veronese, il graffito della catacomba di Commodilla, il glossario di Monza; ➔ origini, lingua delle).
È noto che l’italiano, come le altre lingue romanze (francese, spagnolo, portoghese, romeno ecc.; ➔ lingue romanze e italiano), discende dal latino. Tra prime attestazioni volgari e testi ancora latini c’è però un irriducibile salto qualitativo: nessun documento, per sua stessa natura, può testimoniare il processo di transizione in quanto tale.
Secondo un’opinione condivisa, la scrittura del volgare è preceduta e poi accompagnata da una situazione di diglossia (➔ bilinguismo e diglossia), in cui le parlate romanze si vanno formando sullo sfondo di un persistente uso del latino come lingua scritta. Il primo riconoscimento ufficiale dell’esistenza di un volgare, della rustica Romana lingua, è una delibera del Concilio di Tours (813) che ne raccomanda l’uso nelle omelie; già la riforma carolina, del resto, con la sua volontà di restaurazione in senso classico del latino (tramite la correzione ortografica e grammaticale e la restituzione di una pronuncia coerente con la grafia), testimonia una coscienza della divaricazione (si intende da parte delle persone istruite più consapevoli) tra una lingua che si impara a scuola e una che si apprende naturalmente. Al di là delle testimonianze, su quale sia l’epoca cruciale di transizione le opinioni divergono: le datazioni alte arrivano all’VIII-IX secolo, quelle basse al IV-V. Altrettanto variabile è la collocazione temporale della frammentazione romanza. È ragionevole che una tipologia preromanza si configuri non oltre il V-VI secolo, nei decenni immediatamente successivi alla dissoluzione dell’Impero Romano d’Occidente e delle sue capacità coesive, con l’immediato seguire, tra il VI e il VII secolo, di differenziazioni dialettali che preludono a quelle romanze, cresciute sul terreno di un neostandard latino diffusosi nei territori provinciali romani.
Dal I al V secolo si infittisce in effetti la documentazione di fenomeni che, guardati dal punto di vista romanzo, sono più o meno sistematiche deviazioni dal latino canonico: fondamentali sono le iscrizioni latine, prime tra tutte quelle pompeiane (il cui terminus ante quem è il 79 d.C., anno dell’eruzione del Vesuvio che seppellendole le conservò); nella letteratura, il Satyricon di Petronio (la cena Trimalchionis, in particolare), i trattati tecnici (da Columella a Palladio ad Antimo fino alla Mulomedicina Chironis), le traduzioni della Bibbia anteriori alla Vulgata (Vetus Latina o Itala), la Peregrinatio Aetheriae. Sono poi da considerare, fuori dall’ambito letterario, documenti privati, come le lettere su papiro di Claudio Terenziano e quelle su ostraka di Rustio Barbaro (II sec. d.C.); e, tipo testuale ancora diverso, gli atti come le Tablettes Albertini.
La riflessione metalinguistica, adeguatamente filtrata, è a sua volta imprescindibile. Preziosa, in proposito, è la cosiddetta Appendix Probi, di discussa datazione ma ragionevolmente da collocarsi tra IV e V secolo: si tratta di una lista di 227 parole che non corrispondono alla norma canonica e vengono dunque corrette, per es.: vetulus non veclus, columna non colomna, frigida non fricda, auris non oricla. Procedendo ancora nel tempo, l’Historia Francorum di Gregorio di Tours (VI sec.) e il cosiddetto «Fredegario» (VII sec.) mostrano una lingua ormai assai evoluta in direzione neolatina; varie scriptae non letterarie presentano del resto con sistematicità fenomeni non più riconducibili a una semplice facies errata del latino.
L’asse cronologico, tuttavia, non è il solo rilevante: in testi della piena latinità che richiamano volutamente l’oralità, o che sono meno controllati, è dato trovare indizi precoci (benché, certamente, molto preliminari) di fenomeni romanzi. Così avviene, per fare solo alcuni esempi, nelle commedie di Plauto, nel Bellum Hispaniense, nell’epistolario di Cicerone.
L’etichetta, di illustre tradizione, di latino volgare si presta a fare riferimento, senza necessaria implicazione cronologica, all’insieme di varietà che a qualche titolo – perché parlate, perché informali, perché popolari – non si identificano con il latino classico e lasciano quindi intravedere la mutevolezza della lingua: in questo senso, ricostruire il latino volgare equivale a ricostruire il latino tout court. La comprensione del costituirsi dei sistemi romanzi si fonda, d’altra parte, proprio sul riconoscimento nel diasistema latino della compresenza di possibilità di ulteriori sistemi: si tratta dunque di individuare le condizioni, più che i tempi, del processo di transizione.
Il mutamento morfosintattico latino-romanzo è spesso descritto come il passaggio da un tipo sintetico a uno analitico, cioè come una trasmigrazione di funzioni dalla morfologia flessiva (interna alla parola) alla morfosintassi (cioè alla combinazione di due o più elementi tradizionalmente considerati come parole distinte). Ne è classico esempio la formazione analitica del comparativo italiano del tipo più bello, tramite un continuatore di plus, rispetto alla sintesi delle forme latine in -ior come pulchrior.
In proposito, il più vistoso dei mutamenti coinvolti (peraltro la più vistosa differenza tra la morfosintassi latina e quella romanza) è la perdita della flessione di ➔ caso, strategia privilegiata in latino per indicare le relazioni grammaticali e in questa funzione parzialmente sostituita, in italiano, dall’estendersi di perifrasi preposizionali e dal fissarsi dell’ordine lineare degli elementi nella frase. Le perifrasi preposizionali, peraltro esistenti in latino per una svariata gamma di complementi, si estendono infatti oltre il loro ambito originario fino a coprire del tutto relazioni come l’oggetto indiretto e relazioni di dipendenza nominale, quali il genitivo: per molto tempo, per es., ad + accusativo e de + genitivo contendono rispettivamente il campo al dativo e al genitivo semplice (peraltro con zone di sovrapposizione). Una fase ormai avanzata del processo è testimoniata in casi come i seguenti:
(1) ad cuius imperium caelum, terra, maria serviebant «al cui comando obbedivano il cielo, la terra e i mari» (Girolamo, Ep. 82, 3)
(2) parietes de cellola in qua Ioseph tenebatur «le pareti della cella in cui era tenuto Giuseppe» (Gregorio di Tours, Hist. Franc. 21)
Per quanto riguarda l’ordine lineare, in italiano, a parità di contorno intonativo, Bruno guarda Vera e Vera guarda Bruno segnalano il diverso soggetto e il diverso oggetto in base alla posizione, mentre il latino poteva variare l’ordine degli elementi, dato che le relazioni grammaticali erano segnalate appunto tramite le marche di caso:
(3) saltatorem appellat Murenam Cato «Catone definisce Murena un ballerino» (Cicerone, Mur. 13)
È opportuno però ricordare che descrivendo la deriva latino-romanza come semplice e meccanico passaggio dall’analisi alla sintesi non si rende adeguatamente conto dei fenomeni e il subentrare di procedimenti analitici (che peraltro già esistevano in latino) non è indiscriminato. Non si perde, per es., la flessione sintetica di genere e numero.
Una svolta decisiva verso il collasso della declinazione è l’estensione, già in latino (per quanto in un latino non più considerato canonico), del caso accusativo come marca delle funzioni fondamentali della frase (➔ frasi nucleari). Caso morfologico specifico dell’➔ oggetto, l’accusativo si estende infatti alla codifica dei soggetti, dunque in contesti sintattici tradizionalmente propri del nominativo. Ciò avviene a partire da strutture sintatticamente passive o inaccusative:
(4) sic fit orationem pro omnibus «così si fa una preghiera per tutti» (Peregrinatio Aetheriae 25, 39)
(5) nascitur ei genuorum contractionem et claudicationem «gli si manifestano contrazione [accus.] delle ginocchia e zoppicamento [accus.]» (Mulomedicina Chironis 516)
(6) totam curationem haec est «l’intera cura [accus.] è questa» (Mulomedicina Chironis 526)
(7) et illum servum ignibus concremetur «e quel servo [accus.] venga bruciato» (Lex Curiensis 9, 6)
La frattura che così si crea nella codifica dei soggetti (nominativi in certe strutture, accusativi in altre) converge con una frattura almeno in parte già manifestata nella morfosintassi verbale latina, abituata a distinguere tra strutture di forma attiva, da una parte, e strutture passive e deponenti, dall’altra (➔ diatesi): nelle strutture deponenti sono infatti da riconoscere strutture inaccusative (anche se, ragionevolmente, non tutte le strutture inaccusative del latino si manifestano come deponenti). Molti dei mutamenti in corso dal latino al romanzo rivelano del resto una spinta propulsiva della morfosintassi del verbo, mentre la morfosintassi del nome (almeno nel senso del latino classico) vacilla. Nei casi come quelli citati, insomma, se l’accusativo mantiene ancora la sua forma, la funzione non è più quella classica: in particolare, questi soggetti ‘all’accusativo’ si trovano a confluire, per la loro manifestazione formale, con gli oggetti, secondo un modulo che era estraneo alla morfosintassi nominale latina. Si tratta del resto di un fenomeno di lunghissima durata: nell’ambito del pronome, dove le distinzioni di caso sono più importanti, la sostituzione dell’accusativo al nominativo può ancora essere osservata in italiano (la forma lui soggetto, al posto di egli; ➔ caso).
L’estensione dell’accusativo in luogo del nominativo non è il solo fenomeno in gioco: l’accusativo si avvia infatti anche a fungere da caso obliquo universale e invade il campo dell’ablativo, col quale era per certi versi in concorrenza fin da epoca antica. Così avviene anche dopo preposizione: per es., nelle iscrizioni cristiane è frequente l’oscillazione tra sub hoc titulo positum e sub hunc titulum positum «posto sotto questa lapide». La perdita completa del paradigma di caso non è del resto fatto improvviso: prima di essa si hanno fasi in cui i casi sono tre (nominativo, genitivo-dativo o obliquo e accusativo) o due (nominativo e accusativo-obliquo o, meglio, un caso soggetto e un caso retto). Paradigmi a due casi sono presenti nel romeno e sono attestati nelle fasi antiche del francese e del provenzale, ma tracce di sistemi casuali ridotti si trovano anche nel resto del dominio neolatino, italoromanzo compreso. A testimoniare, al di là di ogni dubbio, del valore sintattico non-marcato che a un certo punto prende l’accusativo (in particolare, rispetto al nominativo) è il fatto che esso sia, nella schiacciante maggioranza dei casi, la base della forma nominale romanza: in italiano, nipote, monte, dente, fiore discendono appunto dalla forma dell’accusativo latino o, per meglio dire, da quella che era divenuta la forma sincretica del caso retto (più dibattuta l’origine della forma plurale, che, con diversa argomentazione a seconda delle declinazioni, viene ricondotta in alternativa alla forma del caso retto o a quella del caso soggetto). Le forme che proseguono dei nominativi possono essere considerate eccezioni e si caratterizzano, tra l’altro, come un gruppo per buona parte uniforme, costituito da nomi umani e animati: uomo, ladro, moglie, sarto, prete. Questo dato favorisce l’ipotesi di una fase in cui – coerentemente con l’estensione funzionale dell’accusativo – anche il nominativo, pur conservando la forma, non ha più la funzione classica in quanto è marca specifica solo di un sottoinsieme dei soggetti.
Se la perdita delle distinzioni casuali, nella transizione dal latino al romanzo, fa apparire la morfosintassi nominale in via di semplificazione, la morfosintassi verbale va nella direzione opposta. Nascono innanzitutto nuove forme verbali (➔ coniugazione verbale): tra queste, il ➔ passato prossimo, che permette ad alcune varietà romanze, tra cui l’italiano, di manifestare, attraverso l’opposizione temporale con il passato remoto, l’opposizione aspettuale tra perfetto e aoristo che in latino era latente (e, in un certo senso, neutralizzata).
Il percorso che condusse allo sviluppo delle perifrasi perfettive con habeo (che, a differenza di sum, non era un verbo ausiliare in latino classico) e che è alla base del tipo italiano ha amato, ha parlato, è tradizionalmente colto nel confronto tra una proposizione latina – come in ea provincia pecunias magnas collocatas habent «hanno grandi ricchezze investite in quella provincia» (Cicerone, Manil. 18) – e una ormai neolatina, anche se sotto forme latine, come episcopum [...] invitatum habes «hai invitato il vescovo» (Gregorio di Tours, Vit. patr. III, 1). Dietro la proposizione latina presa ad esempio, di valore risultativo dal punto di vista aspettuale, sta una complessa serie di relazioni predicative, che la tradizione riassume nell’idea di un habeo con valore lessicale pieno (dunque assimilabile a «tenere, possedere»), in dipendenza dal quale sono un oggetto (pecunias) e un participio predicativo dell’oggetto (collocatas). La predicazione transitiva implicata nel participio perfetto e passivo (collocare) legittima, con l’oggetto (qui appunto pecunias, intorno al quale l’intero costrutto si configura), anche un soggetto, che può essere non specificato (e infatti non lo è, nella proposizione cui ci si riferisce) e che comunque non è necessariamente uguale al soggetto del verbo «avere» (la terza persona plurale habent): insomma, chi detiene le ricchezze può non coincidere con chi le ha investite.
Tale complessità predicativa fu a un certo punto compressa: la struttura neolatina impone infatti alla perifrasi un soggetto identico al soggetto legittimato dal participio. Questo cessa dunque di avere funzione passiva, pur restando perfetto, e la costruzione si apre di conseguenza anche a predicati non transitivi, che infatti non tardano ad essere attestati:
(8) parabolatum habuistis «aveste parlato» (Formule salicae merkeliane [Monumenta Germaniae Historica, Legum sectio V, Formulae 260, 7])
A gettare uno sguardo dalla prospettiva italiana, è possibile vedere come la nascita delle perifrasi perfettive attive (➔ perifrastiche, strutture) apra una possibilità che alla morfosintassi latina mancava. Tramite il participio, la morfosintassi verbale si trova infatti a poter marcare esplicitamente l’accordo con gli oggetti diretti. L’➔accordo del participio, pur recessivo, non si perde infatti al cristallizzarsi della perifrasi e se, nell’italiano odierno, esso resta efficiente in ambiti limitati e conservativi come i costrutti con clitico (Bruno e Vera, li ho baciati), senz’altro più estesa era la sua portata in fasi precedenti dell’italiano:
(9) Le pietre avevano perduta loro vertude (Novellino, 2)
Quanto all’accordo del participio, si crea insomma una coincidenza di manifestazione tra oggetti (il participio vi si accorda nelle perifrasi perfettive di strutture come avevano perduta loro virtute e ancora nel tipo li ho baciati) e alcuni soggetti (più specificamente, i soggetti delle strutture passive e inaccusative: il tipo Vera è amata, Vera è partita), coerentemente con una convergenza che si è individuata anche nello sviluppo della morfosintassi nominale.
Vari comportamenti romanzi (e italoromanzi) sono inscrivibili nel cerchio di un più generale conflitto tipologico latino-romanzo, peraltro mai risolto. Alcuni tratti si combinano infatti coerentemente in opposizione ad altri: per es., la perdita dell’accordo del participio con l’oggetto, di pari passo all’estensione dell’ausiliare habeo, si correla, nelle lingue che ne sono testimoni, allo sviluppo di una marca preposizionale per l’oggetto (➔ accusativo preposizionale), mentre accordo del participio con l’oggetto e alternanza degli ausiliari sum e habeo (➔ ausiliari, verbi) tendono a correlarsi alla marcatura del soggetto, con sviluppo di clitici soggetto obbligatori e del ➔ partitivo.
Geograficamente, se la prima combinazione è tipica delle lingue romanze meridionali, la seconda lo è delle settentrionali: il dominio italiano ne risulta diviso in due (italoromanzo meridionale e settentrionale). La divisione della Romània su base morfosintattica non coincide così che parzialmente con quella tradizionalmente individuata su base fonetico-fonologica tra romanzo orientale e occidentale, di cui si dirà.
Tornando alle ridefinizioni formali tra latino e romanzo, la media ➔ diatesi, viene sottoposta a nuove caratterizzazioni. Pur nella generale recessione della voce deponente, appare per es. una nuova classe di deponenti intransitivi, in particolare nei tempi del perfectum:
(10) sorores una die obitae sunt «le sorelle sono morte nello stesso giorno» (Corpus Inscriptionum Latinarum VI, 17633)
così come appaiono forme medie con marca riflessiva:
(11) Haec ergo dum aguntur, facit se hora quinta «mentre dunque vengono fatte queste cose, si fa l’ora quinta» (Peregrinatio Aetheriae 27, 3)
Soprattutto, poi, si struttura una forma di manifestazione specifica per la diatesi passiva. Parzialmente analitiche già in latino (limitatamente ai tempi del perfectum), le forme del passivo (➔ passiva, costruzione) si fanno coerentemente analitiche in italiano: nella ristrutturazione il tipo del perfectum (amatus sum, in latino perfetto) si sposta sull’asse dell’infectum (sono amato, in italiano presente), con uno slittamento che è d’uso correlare all’acquisizione, da parte del perfetto passivo latino, di un valore aspettuale stativo-risultativo. L’apparire di strutture come Cyrene condita fuit ab Aristaeo «Cirene fu fondata da Aristeo» (Giustino, XIII, 17, 1), che preludono a quelle romanze, mostra, nel perfectum dell’ausiliare, che l’informazione temporale e aspettuale non è evidentemente più soddisfatta dal participio (che era, al punto di partenza, perfetto, oltre che passivo).
L’innovazione formale ha conseguenze generali. Per es., la doppia ausiliazione con stato nelle forme passive supercomposte dell’italiano evita l’ambiguità formale con le strutture inaccusative: la nave è stata affondata si qualifica non ambiguamente come passivo rispetto a la nave è affondata, in cui, fatte salve ovviamente conoscenze di altra natura, la morfologia di per sé non permette di discernere la diatesi.
Alla segnalazione specifica della diatesi passiva si contrappone, in italiano, l’uniformità formale delle strutture intransitive nelle forme semplici, cioè nei tempi dell’infectum: una differenziazione formale tra strutture intransitive è invece recuperata, nelle forme composte, per il ricorrere di un diverso ausiliare, ancora una volta dunque tramite procedura analitica (ho parlato rispetto a sono svenuto, ma parlo, svengo; ho camminato rispetto a sono partito, ma cammino, parto). Una correlazione tra perfetto e manifestazione della diatesi si è già osservata nel caso della nascita delle nuove forme deponenti del tipo obitae sunt e, del resto, fin dal latino classico, è possibile trovare forme diverse nell’infectum e nel perfectum di un medesimo paradigma verbale: a forme dalla morfologia attiva nel presente possono infatti corrispondere forme deponenti nel perfetto. È il caso dei cosiddetti verbi semideponenti del tipo soleo «sono solito», solitus sum «fui solito», non dissimili da questo punto di vista dai casi del tipo svengo, sono svenuto.
Merita anche ricordare che all’opposizione tra ausiliare essere e ausiliare avere si correlano in italiano in maniera non casuale altri fenomeni morfosintattici, in particolare la possibilità o meno di participi assoluti (partiti gli amici ma non * camminati gli amici; ➔ assolute, strutture), possibilità che peraltro continua le condizioni dell’ablativo assoluto latino:
(12) ceteris praetoribus iam in provincias profectis «già partiti gli altri pretori per le province» (Livio, Ab urbe condita XLII, 18, 6).
Se la costituzione delle perifrasi perfettive e la rideterminazione delle forme passive si muovono in direzione dell’analiticità, di segno diverso sono, al punto di arrivo, le vicende del ➔ futuro e del ➔ condizionale italiano: il secondo del tutto nuovo, a coprire parte della funzionalità del congiuntivo latino. In questo caso, l’evoluzione di nuove forme analitiche, poi però divenute sintetiche (il tipo cantare habeo, cantare habui, divenuti canterò, canterei), è orientata dalla natura dell’infinito latino, categorialmente un nome (tramite il gerundio infatti dotato di una flessione completa) e in quanto tale inadatto a manifestare non solo i tratti di persona (come il participio), ma anche l’accordo (diversamente dal participio). Originariamente non indifferente alla diatesi, con la perdita della versatilità attivo-passiva l’infinito diviene una pura base verbale supportata dall’ausiliare habeo (con le correlate interpretazioni modali, connaturate alla funzione di futuro): è questa la situazione delle strutture latine che preludono agli esiti romanzi:
(13) veritatem dicere habeo «ho da dire la verità» (Breve de inquisitione, Siena 715 [Codice diplomatico longobardo, a cura di L. Schiapparelli, I, Roma, Tipografia del Senato, 1929, p. 74])
In quanto forma non flessiva, l’infinito si trova così naturalmente disponibile a indicare la persona per via di fusione suffissale, dunque con procedura sintetica. Un passo dialogico della cronaca di Fredegario attesta la forma già romanza daras «darai». Se la semplice opposizione di procedimenti sintetici a procedimenti analitici non coglie nella sua generalità la deriva latino-romanza (lo si è già visto per la morfosintassi nominale), la fortuna di formule perifrastiche resta innegabile: alcuni tipi latini cadono (le cosiddette perifrastiche attiva e passiva del tipo profecturus sum «sto per partire», amandum sum «sono da amare»), ma molti tipi romanzi si creano, innanzitutto con valori aspettuali (stare per + infinito, che corrisponde almeno per alcuni valori alla perifrastica attiva; stare + gerundio, andare + gerundio, ecc.).
Un cenno merita infine la presunta riarticolazione morfologica delle classi flessive del verbo (➔ flessione), che contrappone per tradizione una tripartizione italiana (temi in a, e, i) alla quadripartizione latina (temi in ā, ē, ĕ, ī). La classe italiana in -e-, residuale nel suo complesso, è di fatto divisa ulteriormente in due classi, una con ➔ accento sulla desinenza (il tipo tenere), e una rizotonica (il tipo prendere), dunque in continuità con la partizione latina: la differenza accentuale consegue infatti alla diversa quantità della vocale tematica latina (fermi restando i numerosi scambi, già latini, tra II e III coniugazione, in particolare dalla II verso la III). Le differenze formali tra le due classi (stabilizzatesi anche per via di uniformazione analogica all’interno di ciascuna classe) sono significative, in particolare nel passato remoto e nel participio (tenni, tenuto rispetto a presi, preso).
Le classi in -e- e in -i- mostrano d’altro canto affinità (per es., nelle terze persone dell’indicativo presente: crede, parte; credono, partono) che per certi versi le associano. Nella classe in -i- si distinguono in ogni caso verbi col suffisso -sc- (finisco) e verbi che ne sono privi (parto): -sc-, che in latino era morfema derivazionale (rubesco «arrossisco» è diverso da rubeo «rosseggio»), assume in italiano (come in altre aree romanze, da questo punto di vista innovative; non ovunque, però) carattere di puro formativo flessivo.
Si è già visto come la maggiore rigidità dell’ordine lineare italiano (e romanzo) rispetto a quello latino (per es., nelle strutture transitive, l’anteposizione del soggetto al verbo e la posposizione dell’oggetto, almeno in assenza di contorni intonativi marcati) sia da correlare al fatto che l’ordine degli elementi si trova a essere, in quanto strategia di codifica delle relazioni grammaticali, un parziale succedaneo del caso (senza che questo implichi un rapporto di causa-effetto, nell’una o nell’altra direzione, tra perdita di caso e stabilizzazione dell’ordine) (➔ ordine degli elementi).
Per fare ancora un esempio, la non contiguità tra elementi di un sintagma è senz’altro favorita in latino dalla presenza di marche di caso, che manifestano l’accordo tra tali elementi: in un passo come compluris eiusdem amentiae socios «molti partecipi della medesima follia» (Cicerone, Cat. I, 8, 11), le marche di accordo segnalano non ambiguamente le relazioni sintagmatiche. Segni dell’irrigidimento nell’ordine lineare si possono già riconoscere in alcuni testi volgari e tardi.
È inoltre consueto contrapporre l’ordine lineare italiano tipico (soggetto)-verbo-oggetto – o (S)VO, connesso con l’ordinamento preferenziale di alcuni sintagmi: nome-aggettivo, nome-genitivo, comparativo-termine di comparazione, ecc. (➔ sintassi) – a uno considerato tipico per il latino (S)OV (connesso con l’ordinamento preferenziale aggettivo-nome, genitivo-nome, ecc.): in proposito, si è proposto di ricostruire una fase intermedia tra i due, in cui il verbo era in seconda posizione, mentre la prima era occupata dal tema (➔ tematica, struttura) o dal focus (➔ focalizzazioni).
La connessione tra ordine lineare tipico della frase e ordinamento preferenziale all’interno dei sintagmi nominali è a sua volta talora spiegato con la nozione di testa: in considerazione del fatto che verbo e nome sono le teste rispettivamente del sintagma verbale e nominale, la transizione latino-romanza testimonierebbe un passaggio da un tipo fondamentalmente a testa finale (OV, aggettivo-nome, genitivo-nome) a un tipo fondamentalmente a testa iniziale (VO, nome-aggettivo, nome-genitivo). Appare però difficile condurre i dati a una vera coerenza in proposito e, soprattutto, la classificazione stessa del latino come lingua SOV è dibattuta. Il latino è anzitutto, come si è detto, una lingua con notevole libertà nell’ordine lineare; è possibile eventualmente individuare nell’ordine SOV l’opzione latina non marcata, ma comunque con eccezioni importanti: una di queste riguarda i costituenti ‘pesanti’ (come le frasi completive), che hanno la tendenza, appunto già in latino, a collocarsi dopo il verbo.
Al pari dell’ordine lineare, l’➔articolo determinativo, in quanto marca del nome, si trova a svolgere alcune funzioni del caso. L’articolo determinativo deriva, dal punto di vista etimologico, dal dimostrativo ille, a sua volta non unica fonte della categoria romanza: ipse gli contese il campo e i suoi esiti restano oggi in sardo (➔ sardi, dialetti). La ricostruzione delle tappe di questa evoluzione si fonda sull’ipotesi di un progressivo indebolimento della forza deittica, che si vorrebbe correlato a un aumento della frequenza d’uso del dimostrativo in alcuni testi tardi, come per es. nell’Itinerarium Burdigalense e nella Peregrinatio Aetheriae: qui ille, per quanto in verità sia ancora lontano dall’apparire come un articolo determinativo, si generalizza però a spese di altri elementi di ripresa intratestuale (in particolare is), specialmente come determinante del nome che fa da antecedente a una frase relativa in casi come interrogavimus illos sanctos monachos, qui ibi manebant «interrogammo i santi monaci che abitavano lì» (Peregrinatio Aetheriae 11, 2). Resta, in ogni caso, incolmabile il divario qualitativo che corre tra la documentazione latina e i primi testi romanzi, che comunque mostrano ancora alcune particolarità in rapporto con lo stato presente: per es., l’articolo non si trova generalmente con referenti unici, generici e astratti.
A cogliere le condizioni latine compatibili con lo sviluppo dell’articolo aiuta l’osservazione che i dimostrativi stessi sono elementi atti a marcare d’elezione la categoria nominale, come emerge dal fatto che, in combinazione con forme verbali o aggettivali, le rendono funzionalmente equivalenti a nomi:
(14) illum bellantem «il combattente» (Petronio, 115)
(15) illam alteram «[quel]l’altra [parte]» (Sallustio, Iug. XVI, 5)
In questo senso, è possibile osservare una continuità funzionale che soggiace al mutamento categoriale.
Quanto al dimostrativo cosiddetto di distanza (➔ dimostrativi, aggettivi e pronomi), esso si rinnova in italiano, sempre a partire da ille, con la rideterminazione del presentativo ecce. La sua funzione non è perfettamente sovrapponibile a quella di ille latino: diverso è il sistema dimostrativo di riferimento, in italiano bipartito poiché esplicita con diversi esponenti lessicali (questo e quello) solo l’opposizione ego ~ non-ego e non rileva formalmente l’ego che si correla dialogicamente al tu, come invece faceva la tripartizione latina (hic, iste, ille), mantenuta peraltro in toscano (questo, codesto, quello) e in alcune aree dialettali.
Come esplicitazione di caratteri funzionali in latino latenti è da vedere anche la nascita dei ➔ clitici. Correlati anch’essi al dimostrativo ille, i clitici italiani si configurano come manifestazioni, a livello di morfosintassi verbale, di funzioni argomentali che in latino potevano non essere manifestate. Prosodicamente, essi non sono completamente equiparabili ad affissi verbali, ma anch’essi sono parte di un più generale mutamento che traduce, dalla morfosintassi nominale alla verbale, la manifestazione di relazioni funzionali: e di fatto annidati nella morfosintassi verbale, i clitici sono innovativi dal punto di vista categoriale, ma conservano opposizioni di ➔ caso (per es., me, lo ~ mi, gli mostrano un’opposizione formale in dipendenza dalla funzione grammaticale che non si dà altrimenti nella morfologia nominale italiana).
Tra i principali cambiamenti della macrosintassi è la recessione dell’accusativus cum infinitivo, modulo tipicamente latino (e peraltro mai completamente assente dall’italiano; ➔ accusativo con l’infinito), ma che già in latino subiva la concorrenza di costrutti alternativi orientati verso la soluzione romanza:
(16) legati Carteienses renuntiarunt quod Pompeium in potestate haberent «gli ambasciatori da Carteia riportarono che avevano Pompeo in mano loro» (Bellum Hispaniense 36, 1)
Si perde parimenti la possibilità del riflessivo detto a lunga distanza (che rimanda cioè a un antecedente esterno all’ambito predicativo in cui ricorre: tipicamente, un riflessivo in proposizione completiva secondaria con antecedente nella proposizione principale) e, insieme con esso, decadono le possibilità che anche funzioni diverse dal soggetto grammaticale valgano come antecedenti del riflessivo: in un passo come
(17) multa a Caesare in eam sententiam dicta sunt [...] neque se iudicare Galliam potius esse Ariovisti quam populi Romani «molte cose furono dette da Cesare a quel proposito [...] e tra l’altro che non riteneva che la Gallia fosse di Ariovisto invece che del popolo romano» (Cesare, De bello gall. I, 45, 1)
il pronome riflessivo, soggetto accusativo della proposizione infinitiva, è co-referente con il complemento d’agente della principale, secondo un modulo sintattico respinto dall’italiano, che mantiene il controllo del riflessivo nell’ambito predicativo minimo di pertinenza.
Del resto, le infinitive dell’italiano (➔ completive, frasi; ➔ infinitive, frasi), che non hanno un soggetto esplicito, affidano il recupero della referenza del soggetto a procedure diverse: nelle completive, il soggetto è messo in relazione con un argomento della reggente, con una partizione di classi di costrutti diversi (penso di partire, in cui il soggetto dell’infinito è in relazione con il soggetto della principale; ti ordino di partire, in cui il soggetto dell’infinito è in relazione con l’oggetto indiretto della principale). Nel caso delle infinitive consecutive introdotte da da e nelle infinitive introdotte da prima di, invece, la funzione soggetto dell’infinitiva può essere in relazione con il soggetto della principale o, limitatamente a una classe di strutture dette a inversione, con l’oggetto indiretto:
(18) Vera era così agitata da non riuscire a dormire
(19) ho parlato con Bruno, prima di partire
(20) a Vera è così piaciuto il film da volerlo rivedere tre volte
(21) mi ha fatto piacere parlare con Bruno, prima di partire
Gli esempi (20) e (21) sono appunto casi di strutture a inversione, precisamente in ragione del fatto che l’oggetto indiretto ha comportamenti che lo affiancano ai soggetti grammaticali. Anche il ➔ gerundio e il ➔ participio congiunto italiani mettono in atto un meccanismo simile a quest’ultimo per il recupero della referenza: il loro soggetto implicito è infatti coreferente o con il soggetto della proposizione principale o, nelle sole strutture a inversione, con l’oggetto indiretto (➔ assolute, strutture):
(22) partendo, dimenticai di salutarlo
(23) partito per Parigi, non ho più telefonato
(24) a Bruno spiacque salutarla, partendo
(25) partito per Parigi, mi è spiaciuto non averlo salutato
Forma verbale assai vitale in italiano, il gerundio ha perso d’altra parte la declinazione casuale che lo caratterizzava, come un nome, in latino (dove faceva le veci dei casi obliqui dell’infinito, come si dice tradizionalmente: per es., genit. tacendi «di, del tacere») ed è in questo senso funzionalmente sostituito dall’infinito stesso; strutture come quella, con valore finale, costituita da ad + gerundio accusativo sono sostituite da ad + infinito già nell’Itala, con il favore del modello greco: dare ad manducare «dare da mangiare» (Giov. 6, 53), anche grazie alla produttività della combinazione di articolo e infinito (➔ sostantivato, infinito).
Altri fenomeni di rilievo sono la stabilizzazione del si per introdurre interrogative indirette, di cui pure ci sono presagi latini – cfr. hanc si nostri transirent hostes exspectabant «i nemici aspettavano [di vedere] se i nostri avrebbero attraversato questa palude» (Cesare, De bello gall. II, 9, 1) – e la sparizione del cum con il congiuntivo (con la conseguente riduzione della portata funzionale della consecutio temporum). Quest’ultima, in particolare, è talora inquadrata in una più generale tendenza (già del latino volgare e più decisamente romanza) alla preferenza per un’architettura sintattica discendente (che va dalla principale alla subordinata) piuttosto che ascendente (dalla subordinata alla principale), che concorderebbe, nella struttura del periodo, con l’architettura proposizionale romanza con testa a sinistra, o addirittura la presagirebbe.
Vistosa è la ristrutturazione del sistema vocalico, con la perdita di pertinenza di opposizioni quantitative quali quelle attestate nelle seguenti coppie (➔ fonetica; ➔ fonologia):
(26) mălum «il male» ~ mālum «la mela»
rosă «rosa (nomin.)» ~ rosā «rosa (abl.)»
lĕgo «raccolgo» ~ lēgo «mando (qualcuno) come ambasciatore»
vĕni «vieni!» ~ vēni «venni»
Più nello specifico, il latino d’Africa può essere individuato, già nei primi secoli dell’Impero, come focolaio iniziale della perdita di valore distintivo della quantità vocalica in sede tonica: così almeno orienta la documentazione epigrafica, valutata anche alla luce di considerazioni quali quelle di Agostino:
(27) Afrae aures de correptione vocalium vel productione non iudicant? «le orecchie africane non sanno valutare brevità o lunghezza delle vocali?» (De doctr. christ. IV, 10, 24)
e Consenzio:
(28) quidam dicunt piper producta priore syllaba, cum sit brevis, quod vitium Afrorum familiare est «alcuni dicono piper con la prima sillaba lunga, mentre è breve, difetto che è tipico degli Africani» (Ars de barbarismis et metaplasmis [Keil V, 392])
Le testimonianze epigrafiche coeve di provenienza romana rivelano invece solo la tendenza alla perdita dell’opposizione in sede atona: la defonologizzazione in sede tonica è successiva.
Sul versante italiano, si assiste, da una parte, a una riarticolazione dei timbri vocalici (➔ vocali); dall’altra, allo stabilirsi di una tendenziale regolarità allofonica che pone la quantità vocalica in dipendenza di accento e struttura sillabica (vocale breve in sillaba chiusa, vocale lunga in sillaba aperta, con il caso particolare della vocale tonica degli ossitoni, che è breve). Lo schema oppositivo del toscano e dunque dell’italiano (non il solo del dominio italoromanzo) ha, in sede tonica, un sistema eptavocalico (in sede atona vi sono ulteriori neutralizzazioni e riduzioni), che risulta dall’intersecarsi della perdita della quantità con le confluenze timbriche di ĭ, ē e di ŭ, ō latine. All’esito [e] si uniscono ulteriormente gli esiti del dittongo latino œ, mentre gli esiti del dittongo latino æ confluiscono in [ɛ]:
All’opposizione quantitativa si associavano del resto già in latino, come tratti ridondanti, quelli di tensione (per le lunghe) ~ lassità (per le brevi): nella transizione, tali tratti divennero pertinenti, aprendo la strada alla ridefinizione qualitativa.
Dal punto di vista storico, le confluenze timbriche trovano attestazione nelle iscrizioni pompeiane: advaentu per adventu, veces per vices, filix per felix, flus per flos. Si è discusso se esse abbiano portato al collasso della quantità o se questo ne abbia favorito la stabilizzazione sotto forma di opposizioni distintive: al proposito, sembra ragionevole supporre che non esista una meccanica relazione causa-effetto nell’una o nell’altra direzione. Ciò però non vuol dire che i due orientamenti (quello quantitativo e quello qualitativo) non siano in qualche misura concorrenti. Anche il rapporto tra defonologizzazione della quantità vocalica (➔ quantità fonologica), e instaurarsi della regola allofonica basata sull’isocronia sillabica (vocale breve in sillaba tonica chiusa, lunga in sillaba tonica aperta; ➔ sillaba) resta dibattuta, non da ultimo in ragione della varietà dei comportamenti romanzi. Come quadro complessivo di riferimento è possibile osservare, già in latino, la coesistenza di orientamenti tipologici di diverso segno: da un lato il valore di pertinenza della quantità vocalica inerente (che oppone vocali brevi e lunghe); dall’altro, il valore di pertinenza del peso sillabico (che oppone sillabe aperte e chiuse in ragione del peso complessivo, maggiore in caso di sillaba chiusa). L’interazione di questi due valori crea un’opposizione complessa tra sillabe brevi (le sillabe aperte con vocale breve), lunghe (le sillabe aperte con vocale lunga e le sillabe chiuse con vocale breve) ed extra-lunghe (le sillabe chiuse con vocale lunga). In proposito, mette anche conto di ricordare che, visto dalla prospettiva della tendenza all’isocronia sillabica, quantità vocalica e quantità consonantica (la seconda in italiano si mantiene) possono essere considerate concorrenti.
Peraltro, una tendenza, sia pure marginale, alla definizione di tipi sillabici centrali e isocroni (vocale lunga in sillaba aperta, vocale breve in sillaba chiusa) è già testimoniata da fenomeni di ristrutturazione addirittura del latino protostorico (cāssus > cāsus) ed è poi ribadita dall’esistenza di allotropi come bāca ~ băcca, cūpa ~ cŭppa.
Correlato alla perdita della quantità (e alla ristrutturazione sillabica) è considerato anche il cambiamento di natura dell’➔ accento, eletto anzi talvolta a motore del mutamento fonologico latino-romanzo. Un accento musicale che pertinentizza l’altezza tonale è postulato tradizionalmente per il latino e fa sistema con il valore di pertinenza della quantità vocalica. All’opposto sta un accento romanzo che ha reso pertinente l’intensità, correlandola all’altezza solo in maniera ridondante.
Per il latino, tuttavia, si deve ammettere almeno una fase accentuale di tipo intensivo (protosillabico) già in epoca preletteraria, a cui andrebbe imputato il processo di indebolimento delle vocali brevi in sillabe interne noto come apofonia latina (responsabile, per es., delle variazioni vocaliche nei processi di composizione: ăgo ma exĭgo, dămno ma condĕmno). Echi storici ne sarebbero poi i fenomeni di sincope attestati da caldus (rispetto a calĭdus) o valde (rispetto a valĭde). Tenuto conto di questi fatti, all’idea del mutamento di natura dell’accento tra latino e romanzo si affianca e si oppone l’ipotesi di una permanenza di accento intensivo, che tale sarebbe stato anche per l’intero arco della latinità, almeno in certi registri. Sotto questa prospettiva, la presunta natura musicale dell’accento latino, come ci viene attestato dal latino classico, sarebbe solo testimonianza della profonda penetrazione nella società latina del modello linguistico e metalinguistico del mondo greco, processo riassunto nel motto Graecia capta ferum victorem cepit «la Grecia, conquistata [dai Romani], conquistò il feroce vincitore» (Orazio, Ep. II, 1, 156).
Per concludere, si elencheranno brevemente altri cambiamenti fonetico-fonologici, che creano condizioni sistematiche per l’imporsi di nuove pertinenze oppositive.
Tra quelli da collocarsi prima della fine del V secolo, vanno menzionati:
(a) il passaggio, relativamente precoce e panromanzo, di [-b-] a [-v-], già testimoniato nelle iscrizioni pompeiane;
(b) i fenomeni di palatalizzazione e affricazione, in particolare nei nessi [tj], [dj], [kj], [gj] e di [j] stesso: lat. platea > it. piazza; lat. diurnum > it. giorno; lat. facies > it. faccia; lat. (casa) regia > it. reggia; lat. iam > it. già;
(c) la palatalizzazione di [k] e [g] davanti a vocale anteriore (per es., lat. gentem > it. gente [ˈʤɛnte]);
(d) gli esiti palatali dei nessi [lj] e [nj]: lat. folia > it. foglia [ˈfɔʎːa]; lat. castanea > it. castagna [kasˈtaɲːa], per via di [kasˈtanja];
(e) l’evoluzione di [w] in [v] (intorno al IV secolo).
Tra il V e il IX secolo (è la lunga fase in cui si generalizzano, quanto alla morfosintassi, anche le perifrasi romanze; ➔ perifrastiche, strutture) si stabilizza poi una serie di mutamenti intorno ai quali si concretizzano partizioni romanze tenute oggi per fondamentali: tra queste, la caduta di -s e di -t coinvolge il toscano e quindi l’italiano (lat. venis, venit > it. vieni, viene), mentre l’indebolimento delle consonanti intervocaliche, per es. la sonorizzazione delle sorde, generalmente non coinvolge l’italiano standard se non in casi di estensione dall’Italia settentrionale (lat. piper > fr. poivre, it. pepe; ma lat. lacus > it. lago). Altro fenomeno da collocare in questa fase è il dittongamento spontaneo di ĕ e ŏ in sillaba aperta tonica (lat. rŏta > it. ruota).
La distribuzione areale di alcuni tra tali mutamenti (quali la caduta di -s e l’indebolimento delle consonanti intervocaliche) e la loro proiezione geolinguistica hanno ispirato la tradizionale divisione della Romània su base fonetico-fonologica secondo l’asse est-ovest (dove, come sopra si osservava, il dato morfosintattico militerebbe a favore di una partizione orientata diversamente in rapporto ai punti cardinali). La faglia di tale partizione romanza si trova nell’area linguistica italoromanza, lungo la linea ideale che congiunge La Spezia a Rimini (➔ confine linguistico).
La maggior parte del ➔ lessico italiano è di origine latina: l’indagine etimologica permette di asserire che l’eredità latina ne costituisce più dei due terzi e, se ci si limita al lessico fondamentale (dunque, di maggiore frequenza), ci si approssima al 100%.
Ciò non significa ovviamente che esso sia un blocco uniforme. Innanzitutto, ci sono le parole di diretta eredità latina. Tra queste, non poche (spesso in accordo con altre varietà romanze) continuano forme che non sono quelle del latino canonico, ma altre, per varie ragioni, alternative: è il caso di bellus rispetto a pulcher, di caballus rispetto a equus, di bucca rispetto a os. Mutamenti semantici anche importanti soggiacciono alle continuazioni formali, spesso per via metaforica o metonimica: bucca è originariamente la guancia, caballus il cavallo da tiro. Ancora, è il caso di auricula rispetto ad auris, di agnellum rispetto ad agnum: la maggiore consistenza delle forme più fortunate (per es., polisillabi a scapito dei bisillabi) è correlata alla ricerca di espressività, con il corollario di una preferenza per le forme derivate sulle semplici: in ambito verbale, per es., i frequentativi cantare e iactare (> it. gettare) hanno soppiantato canĕre e iacĕre.
Per via latina e per tradizione diretta può anche giungere in italiano l’apporto della tradizione greca (solo marginalmente, di altre tradizioni linguistiche): è il caso di angelo, nel significato cristiano.
C’è però un’altra via attraverso la quale elementi latini arrivano in italiano: una storia millenaria vede infatti la lingua madre fungere anche da prezioso serbatoio cui la lingua figlia attinge senza soluzione di continuità. Il modello latino è naturalmente presente fin dalle origini delle tradizioni scritte romanze e favorito, poi, dalla pratica dei volgarizzamenti (➔ volgarizzamenti, lingua dei) nel XIII e nel XIV secolo; a tratti, anzi, ritenuto ingombrante. L’ingresso di ➔ latinismi diventa imponente a partire dal Trecento e prosegue con Umanesimo e Rinascimento (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’) e, senza soluzione di continuità, anche se con fasi alterne e talora solo in maniera effimera, per l’intera storia dell’italiano. Da sempre, il latino ha influenzato il volgare in ambito religioso e giuridico (ambiti in cui la funzione del latino come lingua in uso, se non come lingua d’uso, continua fino ad oggi); gli ambiti tecnici e scientifici hanno a loro volta attinto costantemente al latino (e al greco). Quanto al lessico, di fatto, la quantità dei latinismi è da valutarsi anche maggiore di quella delle parole di diretta trafila ereditaria, anche se queste ultime si concentrano nel lessico di maggiore frequenza d’uso.
Si è soliti identificare l’eredità diretta con gli esiti formali di una trafila popolare e la mutuazione dal superstrato, cioè l’eredità indiretta, con gli eventuali adattamenti della via dotta. Da un lato, starebbe la regolarità del mutamento fonetico; dall’altro, un latino scolasticamente pronunciato. Spie per il riconoscimento delle voci dotte possono essere:
(a) la conservazione di [-b-] intervocalica (abitare);
(b) la conservazione del nesso [-ns-] non derivante da composizione (pensare);
(c) la conservazione dei nessi di consonante più laterale (floreale, glaciale rispetto a fiore, ghiaccio: gli aggettivi relazionali prediligono la coniazione dotta);
(d) la conservazione dei nessi [dj], [lj], [nj], [rj], [sj] davanti a vocale (odierno, filiale);
(e) i ed u in luogo di e [e] ed o [o] (disco, curvo).
Le conseguenze dell’entrata di parole dotte, da questo punto di vista, non sono secondarie sulla fonologia dell’italiano, che recupera sequenze per altra via modificate.
Non sempre, però, il dato formale è decisivo. Esistono infatti, da un lato, forme di tradizione diretta controllata, sfuggite cioè all’evoluzione che ha interessato la maggioranza delle forme parallele (miracolo, secolo, estranei alla trafila di lat. speculum > it. specchio); esistono, dall’altro, forme che, per quanto di tradizione non diretta, non sono sfuggite (in italiano meno ancora che in altre lingue) a processi di adattamento. Per es., anche nelle voci di tradizione indiretta, l’italiano assimila con regolarità i nessi consonantici (assurdo, ditta, frammento). Né va dimenticato che, entrati che siano nel circolo dell’uso, i latinismi sono stati oggetto dei mutamenti cui tale uso è andato incontro: è il caso, toscano, di dovizia per divizia.
Una stessa parola, d’altra parte, può prendere le due strade: si parla allora di ➔ allotropi. Vezzo e vizio, pieve e plebe, angoscia e angustia sono allotropi, specializzatisi in varia maniera, a partire da una stessa base. Questi allotropi possono a loro volta, nel tempo, mutare di registro, dal punto di vista diafasico: menomo, con l’evoluzione fonetica regolare della tradizione diretta, è oggi cultismo (➔ cultismi) rispetto a minimo. In ogni caso, gli allotropi non si lasciano ricondurre automaticamente all’opposizione popolare ~ dotto: ci sono coppie i cui membri sono entrambi popolari, come comperare, comprare; e ci sono coppie i cui membri sono entrambi dotti, come edificio, edifizio. Ambiguo quanto a tratti formali popolari e dotti è esempio: si oppone da una parte a scempio, con gli esiti fonetici previsti e importante cambiamento di significato, e dall’altra alla base di esemplare, che conserva dottamente il nesso -pl-. Ambigua anche la distribuzione dei tratti nella triade favola, fola, fiaba: la terza forma conserva -b- in un insieme che è per altri versi popolareggiante. L’ipotesi tassonomica di una terza categoria, quella delle parole dette semidotte, è una soluzione solo apparente: la moltiplicazione per gradazione delle eventuali classi non coglie il fatto che trafila popolare e colta non sono canali separati.
È un fatto che la stessa latinità, data per morta, non è un ente storico fisso e immobile e, nella sua relazione con l’italiano (come con altre lingue) continua a mutare forma, negli ambiti e negli usi in cui via via si è identificata e ritirata: ideale e reale sono termini della filosofia scolastica; processo è termine dei giuristi medievali; molte scienze si servono, tecnicizzandoli, di termini altrimenti generici, come il kepleriano convergere. Voci ed espressioni latine possono anche entrare in quanto tali: per es., ab antiquo, sine causa, e converso, grosso modo dal latino scolastico; Deo gratias, te Deum dal latino ecclesiastico; ipso facto, sponte dal latino cancelleresco. In alcuni casi, l’integrazione è tale che l’origine è obliterata (per es., grosso modo).
Una menzione merita la classe dei latinismi che sono doppiamente indiretti perché venuti all’italiano per il tramite di altre lingue, soprattutto europee. Frequenti dal XVIII secolo in poi, franco-latinismi, anglo-latinismi e altri latinismi mediati coinvolgono in maniera importante la terminologia della vita pubblica (dall’amministrazione all’economia al diritto) e quella scientifica e tecnica, e si caratterizzano per l’aderenza alla forma originale (talora recuperata per questa via), dovuta anche al canale scritto di trasmissione. Esempio ne è il trattamento dei gruppi consonantici (capsula, optare, opzione; ancor più in derivazione e composizione: adstrato, substrato, abnorme, circumnavigazione).
L’eredità indiretta non si limita ovviamente al lessico: il ➔ superlativo assoluto -issimo, per es., è rivelato come latinismo dalla sillaba tonica (e proviene verosimilmente dalla sfera degli appellativi di prestigio dell’alto medioevo). Parole latine e latinismi possono inoltre costituire, a volte solo temporaneamente, il modello per un modulo morfologico: è il caso di -fero, che in periodo neoclassico dette luogo, con diversa fortuna, a celerifero, calorifero, fiammifero. Di tipo neoclassico è anche la composizione esemplificata da biografo, glottologia: nata in età settecentesca dalle esigenze definitorie delle scienze sperimentali, e dunque nel quadro dell’europeizzazione del lessico di cui già si diceva, essa ricorre a materiale classico di origine greca o latina (in particolare, semiparole, cioè elementi che non ricorrono autonomamente come parole). Si tratta di un tipo produttivo e, in relazione a esso, si assiste alla fortuna della posizione prefissale dell’elemento che funge da determinante. Un modulo per certi versi simile, per es. nell’ordinamento degli elementi, si trova anche in parole composte con elementi lessicali veri e propri, del tipo calciomercato: ancora una volta l’europeizzazione del lessico sembra giocare un ruolo, ma stavolta su spinta anglofona.
Anche a livello morfologico, via popolare e via dotta non risultano parallele: i ➔ suffissi -abile e -ibile, senz’altro in soluzione di continuità rispetto al latino (essendo -evole l’esito che si ha senza soluzione di continuità nella trafila fonetica), sono però produttivi, e una forma come bevibile non è certo latinismo.
Dal punto di vista sintattico, è ancora la latinità a consegnare alle lingue europee una possibile patina di uniformità, quanto meno stilistica. Limitandosi all’italiano, il riflesso, pur dotto, di una costruzione come l’➔accusativo con l’infinito è pervasivo. Pur con differenze tra un tipo testuale e l’altro e tra un autore e l’altro, la struttura latineggiante appare nel Novellino come nel Boccaccio e resta una costante nei secoli:
(29) affermava infatti esser la famiglia, e in particolare la sua propria, la maledizione dell’uomo (Elsa Morante, Menzogna e sortilegio)
Latinismi sintattici che si trovano nella lingua poetica e nella prosa sostenuta sono ancora l’anticipazione dell’aggettivo di relazione o dell’aggettivo etnico al nome, nel tipo «latin sangue gentile» (Francesco Petrarca, Canz. CXXVIII, 74); la discontinuità tra dimostrativo e proposizione relativa in passi come «quelli avere più merito che hanno più periculo e più obligo» (Niccolò Machiavelli, Il Principe XX, 4); i gerundi assoluti del tipo «e se per isciagura, essendoci tu, ce ne venisse alcuna [delle male brigate]» (Giovanni Boccaccio, Dec. V, 3, 27). Si citano ancora i participi assoluti del tipo Dio concedente, le anticipazioni degli oggetti, le posizioni finali dei verbi, le strutture correlative.
L’elenco è ovviamente aperto. Anche le partizioni non sono rigide: il confine tra latino, latinismo e italiano non sempre è determinabile, e sul filo tra i due sistemi si possono costruire contesti giocosi. Lo scambio e il gioco sono infatti sempre vivi perché si proiettano sullo sfondo di una lingua che, pur trasformatasi, non ha perso i propri connotati. Proprio la trasformazione, del resto, mette in luce i tratti latini, realizzandoli secondo una diversa coerenza: insomma, senza il latino, l’italiano non sarebbe intellegibile come in effetti è, ma l’italiano per molti versi rivela retrospettivamente il latino.
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